L’analisi del caso italiano dimostra chiaramente che una tirannia vuole cercare nelle tradizioni del nostro paese le radici della sua esistenza e della sua legittimazione “al fine di giustificare l’obbrobrio suo”.
Il nostro universalismo, sostiene la D’Andrea, non si risolve nell’ingiusta contraddizione di odiare il paese dove siamo nati: “noi siamo ben lieti di mettere al servizio della verità e dalla libertà, quel tanto d’italiano che si fonde in noi, nell’Umano e nell’universale”.
Gridiamo con forza la nostra smentita alle affermazioni del despota e del tiranno che insanguina l’Italia. Dietro alla parola Fascismo si cela un’ecatombe spaventosa; dietro il bel sipario sono nascoste informi rovine. Questa conferenza, sottolinea la D’Andrea, vuole essere un inno in memoria di quanti in Italia sono caduti sulle strade agitando un appassionato sogno di libertà.
Essa è un canto solenne per coloro che sono morti sulle barricate, per quanti sono stati destati nella notte da un pugnale piantato nel petto e per quelli che lungo la strada ravvolta dalle ombre notturne, sono stati fermati e assaliti da bande di uomini turpi.
A questo punto Virgilia entra nel vivo della esposizione e dice: “Oggi si dice, si scrive e si ciancia che il fascismo ha rigenerato l’Italia, riportandola alle sue tradizioni. A quali tradizioni? Ma Roma non era Italia”. La Roma imperiale, puntualizza l’oratrice, non era che un insieme di popoli diversi e di diversa lingua, “soggiogati alla plutocrazia e al militarismo della città ‘capo del mondo’, come la credettero allora”. La tradizione italiana è ben altro! Essa affonda le sue radici nei tempi in cui “si incominciavano ad avere gli elementi di una lingua nostra; dal tempo in cui si incominciavano ad avere i segni generali che contraddistinguono i caratteri più o meno definibili d’un popolo italiano che, […], cercherà di crearsi un’unità”.
Una voce si percepisce dal passato e sorge divina e possente, su dieci secoli di oscuro e profondo silenzio: “Libertà va cercando, ch’è sì cara,/ Come sa chi per lei vita rifiuta”. Sono le parole con cui Dante Alighieri risponde ai magistrati fiorentini, che gli fanno sapere che può rientrare a Firenze a condizione che ritratti le sue idee. Esilio, sofferenza e povertà caratterizzarono la sua esistenza.
Per Virgilia, la storia e le tradizioni coincidono, in certi aspetti fondamentali, con le storie dei liberi pensatori, dei rivoluzionari, degli umanisti, degli internazionalisti e dei riformatori del passato, che avevano sofferto lo stesso tormento dell’esilio a causa del loro credo e dei loro sforzi. La storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia è alla base dello sforzo contro la tirannia, l’ignoranza e la fede mistica religiosa che dava alla Chiesa anche il potere temporale.
A questo proposito, la D’Andrea definisce il fascismo come particolarmente rovinoso. Sotto le mentite spoglie di un’Italia riportata all’antica grandezza, esso si sforza di sostituire la ragione con la superstizione, la verità con il dogma, la civiltà con il feticismo. Proprio in questo modo, il fascismo insudicia il grande universalismo e le libere tradizioni italiane.
Una domanda ricorre martellante nel testo: Fascismo tradizione italiana?
Il punto non è cercare la grandezza italiana nelle conquiste dell’Impero Romano, come propina il fascismo, osserva l’oratrice, ma nelle sue tradizioni umanistiche e civiche. Queste ultime emersero, infatti, intorno al dodicesimo secolo e dominarono la variegata vita politica delle città- stato e delle monarchie della penisola italiana fino al Risorgimento. È questa l’Italia reale, non quella incensata dal vile traditore. L’Italia vera è quella di coloro che scelgono la libertà.
È quella del poeta Dante Alighieri che trascorse vent’anni in esilio per aver condannato la faziosità dell’Italia del tredicesimo secolo ed è quella del frate Girolamo Savonarola, il riformatore religioso che alla fine del quindicesimo secolo fu bruciato sul rogo per il suo esperimento repubblicano.
Nei tempi moderni sono, invece, Alfieri, Parini e Manzoni “a volgere le spalle agli intrighi del mondo” e a scegliere la libertà. Su Manzoni, la D’Andrea, scrive: egli “accosta lo spirito suo ad una pura fonte di sana indipendenza; si avvolge precocemente nell’atmosfera di un sogno repubblicano [..]”. Il pensiero corre, poi, a Jacopo Ortis che manifesta un disperato disagio con un ultimo grido di delusione e di disperazione per un morto ideale di libertà e al suo pallido e malinconico autore Ugo Foscolo.
La D’Andrea pone, informa chiaramente retorica, un’ultima domanda: “E nel campo delle innovazioni filosofiche è la tradizione del pensiero italiano, espressione di oscurantismo e di servaggio, di violenza, di soprusi, d’oppressione, così come lo è il pensiero e lo spirito del fascismo?”. Il pensiero filosofico italiano manifesta, secondo l’autrice, due caratteri fondamentali. Il primo lo accomuna a tutto ciò che è sforzo culturale nel mondo; il secondo che lo vede ribelle e rivoltoso, “non solo per gli impulsi interiori che animarono i nostri grandi; ma anche per le manifestazioni esteriori, per le posizioni da esso assunte di contro ai dominatori del tempo”.
Propone, dunque, alcuni esempi. Arnaldo da Brescia combatte tenacemente la scolastica e afferma che la fede deve fondarsi sulla ragione. È condannato a morte e le fitte tenebre medievali sono d’un emana il suo cadavere tratto illuminate dalla luce che pende dalla forca. Nel quindicesimo secolo Savonarola condanna la tirannia, i vizi e gli imbrogli del clero. È arso vivo. Un secolo dopo, Giordano Bruno, “indagatore dei più profondi misteri, gigante solitario del dubbio rispetto al già pensato”, è bruciato a Roma in piazza Campo dei Fiori. E ancora Tommaso Campanella e più tardi Filangeri, Romagnosi, Beccaria, fino a Carlo Pisacane e Giuseppe Garibaldi. Quest’ultimo, nota Virgilia, rappresenta “la spada più eroica e generosa dell’unità italiana”; eppure la sua memoria è sfruttata da “svergognati eredi che non ne hanno per nulla ereditato lo spirito”.
Ininterrottamente, nel corso dei secoli, un’unica parola ha unito le genti: Libertà!
In norme della libertà si è combattuto attraverso secoli di coercizione ed imperio; in nome della libertà si è costituta l’essenza della penisola italiana. “Con quale diritto,”, conclude Virgilia, “con quale sicurezza, con quale ardire, con quale voce, si può oggi, dunque affermare che il fascismo ha rigenerato l’Italia riportandola alle sue tradizioni?”. Il fascismo vanta di aver fatto del popolo italiano una macchina unica e un unico corpo; ma il suo motore non è che una volontà posta al centro. Esso nega il libero pensiero e punisce la critica, l’indagine e la libera ricerca. Ha fatto della cattedra un inginocchiatoio, della tribuna una gogna e del parlamento un circo. Ha trasformato l’oratoria in un’afflizione e il giornalismo in un confessionale. Il regime ha ottenuto dal libro un messale e dalla libera scuola un’ignobile sacrestia.
Mussolini propaganda un credo cieco, caporalesco, bestiale e cerca l’appoggio del papa. Egli annulla in questo modo la storia d’Italia e ne avvelena tutto il pensiero. Risuscita tutte le superstizioni e riesuma le falsità medievali. Egli sta tentando di assassinare le sole rivoluzioni che contano in Italia: “quella del Rinascimento nel pensiero e quella del Rinascimento nella politica”; in una parola le conquiste del Rinascimento e quelle del Risorgimento.
Nonostante le lotte e i dissensi fra i due poteri siano frequenti e cruente, nota Virgilia riproponendo un concetto ampiamente sviluppato: “tutte le volte che occorrerà strozzare col capestro o coi moschetti la voce della libertà, papa e fascismo si ritroveranno intimi amici, davanti al cadavere d’un novatore del pensiero, della fede e della scienza”. Si rivolge a Mussolini e scrive che egli stesso è consapevole dell’abisso profondo che esiste fra lo spirito fascista e le tradizioni del popolo italiano. Anni di squadrismo e di potere illimitato nel campo politico, sindacale, militare, economico, accademico, sportivo e artistico allontano naturalmente il regime dallo spirito libertario proprio degli italiani. E mentre il Duce cerca di incutere timore con la legge sulla pena di morte mette in scena una tragica beffa, in un paese dove da anni si può uccidere impunemente, “ad ogni ora” e “per fine nazionale”. Gli italiani tramano odio e disprezzo per il traditore che avvilisce la loro patria. Dallo strazio della libertà sgozzata e dal sangue che bulica e fermenta nelle tombe “può ancora uscire d’improvviso un più fortunato Anteo Zamboni, o la bomba gloriosa d’un altro eroico Gino Lucetti, o il braccio vendicatore d’un altro impavido e fiero Michele Schirru”.
Oggi, conclude Virgilia, il fascismo, oltre ad essere un regime di crudeltà e barbarie, è anche una dittatura del ridicolo. Esso ha risvegliato le forme più grottesche del sortilegio, del feticismo, della superstizione, del dogmatismo e della mitomania. Colui che in passato ha combattuto contro le assurdità delle religioni, dei miti e del dogma; oggi, “superando ogni limite del pudore, e della decenza si è autoproclamato ‘il genio tutelare inviato da Dio a governare le sorti del popolo italiano’”. La superstizione ha sostituito la ragione, la magia ha rimpiazzato il pensiero, il dogma ha preso il posto della verità e il feticismo è subentrato alla civiltà.
Questa è la terribile tragedia che il fascismo ha imposto al popolo italiano.
Virgilia propone ancora una volta la celebrazione degli scrittori, degli artisti, dei pensatori politici e dei radicali italiani. Questi uomini, ripete, rappresentano un modello di coraggio e sono una spinta alla ricerca della libertà. Essi incarnano lo spirito dell’internazionalismo, dell’antimperialismo, e dell’indipendenza intellettuale e offrono alla D’Andrea un modo per riconciliare l’internazionalismo, peculiarità dell’idea anarchica, con una sua particolarissima tendenza nazionalista.
Generazioni di antistatali e antinazionalisti italiani, anche anarchici, si servono della letteratura come via per venire a patti col nazionalismo.
Il nazionalismo emerge nella cultura italiana in seguito alla riscoperta, alla fine del diciannovesimo secolo, di una forte e secolare civiltà italiana che si era estesa da un capo all’altro del mondo occidentale, civilizzando l’Europa ed elevandola dai secoli bui del Medioevo. L’idea nazionalista, propria dei movimenti radicali di questi anni, sostiene la necessità di un movimento per uno stato nazionale. Essa differisce dal nazionalismo, che potremmo definire stato-centrista, che emerge in seguito all’indipendenza e all’unificazione italiana e si distingue, infine, dal razzismo e dal nazionalismo imperialista di Mussolini.
Con molta probabilità Virgilia avrebbe sostenuto Mazzini e Garibaldi.
Il primo perché rappresenta la personificazione di un patriottismo rivoluzionario; il secondo perché è pronto ad imbracciare le armi per la causa dell’unificazione italiana. Mazzini eguaglia la rivoluzione sociale alla democratizzazione e parla del patriottismo come di un prisma, attraverso il quale i gruppi nazionali oppressi avrebbero la naturale propensione al raggiungimento di una fratellanza spirituale. Garibaldi, del quale gli antifascisti italiani lodano l’internazionalismo e l’antimperialismo, è l’espressione di un socialismo umanitario.
Centrale appare, dunque, nel radicalismo della D’Andrea, e più in generale nel suo antifascismo, una definizione del nazionalismo inteso come disdegno per il carattere competitivo e oppressivo dello stato- nazione borghese e attaccamento per il paese di nascita.