Il movimento anarchico italiano tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del ventennio fascista si presenta come un qualcosa di difficilmente definibile; un insieme di correnti e di forti personalità sparse in modo difforme su una ideale mappa politica italiana.
Accesi dibattiti oppongono tre eterogenee correnti: quella dell’organizzazione, quella dell’antiorganizzazione e quella dell’individualismo.
Uno degli aspetti più importanti del movimento anarchico, perché più aperto verso l’esterno, è quello del sindacalismo.
Errico Malatesta, Luigi Fabbri e Armando Borghi, tre militanti di primissimo piano, possono essere considerati come coloro “che hanno dato il la all’esperienza del sindacalismo anarchico italiano”. Virgilia D’Andrea, come compagna di Borghi, amica di Malatesta e militante dell’Unione Sindacale Italiana, aderisce, dunque, a quest’ultima corrente. Partecipa attivamente alla propaganda rivoluzionaria, appoggia nel 1920 l’occupazione delle fabbriche, si batte per il dialogo fra le varie anime dell’anarchismo e si adopera a favore dei più deboli. I suoi scritti non propongono teorie complesse, né si aggirano nei meandri della strategia politica: sono dettati dalla passione e dall’abnegazione per un intenso ideale di giustizia sociale che accomuna le varie correnti del movimento.
L’impegno e la grande forza di volontà, sono senza dubbio le caratteristiche più brillanti del suo attivismo politico.
La D’Andrea sostiene la necessità di una rivoluzione sociale a cui le masse diseredate e i popoli sfruttati ed oppressi prendano parte attivamente e consapevolmente. Nei suoi scritti leggiamo le descrizioni commosse di eroiche battaglie del suo tempo; quando si manifestava nel dopoguerra per il pane e dopo la marcia su Roma per la libertà. Partecipa, lei stessa, alle manifestazioni e alle azioni terroristiche.
D’altra parte, l’anarchica è consapevole del fatto che l’azione sovversiva delle masse deve essere preparata, preceduta e propiziata dall’azione individuale delle minoranze consapevoli. Proprio per questo motivo rivendica incondizionatamente il sacrificio e l’abnegazione di solitari iconoclasti di ogni tempo a partire da Socrate e Girolamo Savonarola fino all’appassionata difesa dei condannati per l’attentato del Diana, per Pollastro e Peotta, per Di Giovanni e Scarfò e ancora per Gino Lucetti, Anteo Zamboni, Michele Schirru, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Sostiene, infatti: “E quando qualche ribelle sorge di improvviso fra noi, e un suo qualsivoglia gesto vendicatore schianta qualcosa di questo vecchio edificio nel quale siamo incatenati, io gli prendo le mani e gli dico: Coraggio; viva l’Anarchia!”.
La rivoluzione sociale, precisa la D’Andrea, è concepibile nei termini di una formidabile esplosione di tutte le energie compresse, contro le catene che la opprimono e la deformano.
Anche il gesto più piccolo può dare il suo contributo alla causa e alla vittoria della rivoluzione.
Ogni rivolta contro la tirannia dell’autorità, ogni strappo alla catena assurda della morale, ogni ribellione contro il privilegio e la proprietà privata, appartiene alla rivoluzione e, quindi, all’anarchia. La chiesa, la scuola e i tribunali sono le colonne portanti di una società ingiusta. Nota, in proposito un editoriale pubblicato su “L’Adunata dei refrattari”: “Virgilia D’Andrea comprendeva. Comprendeva che se la nascita d’un piccolo essere umano non si scompagna mai di doglie e di strazi e d’angosce soventi volte mortali, la nascita di un mondo nuovo, di un mondo che corregga i vizi e gli errori e i terrori del vecchio, cadente sotto il peso dei suoi mostruosi delitti, non può neanche concepirsi come accompagnato da sorrisi e da canti giocondi, da massime morali e da favole esopiane”.
La D’Andrea si esprime a favore delle ragioni, della volontà e del diritto che un ribelle ha di impugnare le armi contro l’ingiustizia sociale; perché la vita dell’uomo è lotta contro la natura e contro se stesso.