ALCUNE RIFLESSIONI SULLA POLITICA MOROTEA

A cura di: Vito Sibilio
Entra nella sezione STORIA

Se vuoi comunicare con Vito Sibilio: gianvitosibilio@tiscalinet.it

A differenza  di quanto accade per gli altri corsi, questo vuol essere un intervento unico, di storia contemporanea, in ordine ad un fatto politico, il compromesso storico, di cui oggi ancora si parla e che ancora influenza l'immaginario collettivo, attraverso scritti e lungometraggi, a causa della drammatica scomparsa del suo massimo fautore.

In effetti, in Italia la morte di Moro, con il conseguente fallimento della sua linea politica, sembra quasi essere una sorta di caduta originale: la perdita definitiva dell'innocenza politica, la sconfitta delle più care aspirazioni morali del paese, la drammatica prima volta di una corruzione ormai endemica, su cui versare sempre lacrime in memoria di una verginità ideologica perduta. E questo attesta che la figura dello statista democristiano è divenuta un mito, ossia un fatto che, indipendentemente dalla sua veridicità, comunica una verità prelogica, in questo caso una valutazione politica, resa ancora più dogmatica dal fatto che tira in ballo un'altra figura carismatica della nostra storia repubblicana, Enrico Berlinguer. Questa valutazione è la seguente: l'incontro tra DC e PCI era l'approdo naturale della nostra politica parlamentare, era la soluzione della nostra guerra civile, era la panacea della nostra mai compiuta politica riformatrice e il compimento della nostra democratizzazione istituzionale, su cui gravava il passato fascista e l'influenza atlantica. La mancata realizzazione del progetto è stato l'inizio della fine: la spinta riformatrice - iniziata col Congresso democristiano di Napoli e l'apertura al Centrosinistra - si è impantanata in una stantia riedizione dell'asse DC-PSi, la moralizzazione della vita pubblica si è interrotta per l'ascesa del craxismo, la dinamica parlamentare si è ingessata nel Pentapartito, la classe politica si è mummificata attorno ad eterni outsider come Andreotti, Gava, Forlani, Craxi. Ma questa valutazione è giusta ?

A mio parere, erroneamente si valuta il progetto moroteo come riformatore; esso in realtà era sagacemente concepito per conservare l'ordine vigente, rendendolo più saldo. Altrettanto impropriamente si ritiene il progetto come funzionale ad una visione dello stato, perchè esso fu concepito per il partito e per la Chiesa.

Aldo Moro, fucino, assieme a Amintore Fanfani leader della Sinistra democristiana, aveva cercato di far recepire al suo partito un'istanza di democratizzazione sociale volta a svuotare la propaganda delle Sinistre delle sue rivendicazioni più efficaci, perchè condivisibili al di là dell'ideologia. Questa particolare sensibilità, da lui condivisa con personaggi come La Pira, Dossetti e lo stesso Montini, poi Paolo VI, aveva una base morale nelle istanze che via via la Chiesa era andata accogliendo con la sua dottrina sociale, a partire dal pontificato di Pio XII - che nei suoi Radiomessaggi sulle questioni sociali ci ha lasciato un corpus dottrinale notevolissimo, anche se meno noto di quello di altri papi - e lungo quello di Giovanni XXIII. Molti fermenti culturali del cattolicesimo mondiale - come ad esempio la riflessione personalistica di Mounier - avevano accompagnato questa attività di magistero. Pertanto l'idea di battere il socialismo, sia riformista che massimalista, nell'ambito della sensibilità sociale, era permeata ampiamente tra i cattolici italiani. Ma l'attenzione morotea alle Sinistre aveva una precisa caratura politica, che andava ben oltre l'anelito morale. Tale caratura scaturiva dall'intima convinzione che Moro e altri democristiani avevano di una ineluttabilità dell'affermazione della Rivoluzione comunista in Italia. Lo stesso Montini, quando ancora era sostituto della Segreteria di Stato di Pio XII, ne era convinto, e un'ampia frangia di quella generazione di cattolici condivise questa idea, a posteriori dimostratasi erronea, e duramente avversata da un'altra fazione, che s'incarnava in ecclesiastici come Siri o Ottaviani, e in politici come Andreotti, Gonella o Scalfaro. A monte c'era una diversa valutazione del comunismo: visto essenzialmente come un compendio di tutti i mali - ossia considerato teologicamente - lungo tutta una serie di autorevolissimi interventi magisteriali che andavano dalla Qui Pluribus di Pio IX al decreto di scomunica del Sant'Uffizio nel 1948 - oppure come una variante impazzita del Cattolicesimo, portatore di istanze in ogni caso legittime - negli anni '70, con una dichiarazione a mio parere sia inesatta che inopportuna, il cardinale Lékai, primate d'Ungheria, sostenne che il comunismo realizzava le aspirazioni della dottrina sociale cattolica. Moro rientrava sostanzialmente in questa seconda corrente, che forse aveva dei complessi d'inferiorità inconsci nei confronti di quella che sembrava l'ideologia dei tempi moderni, come sembrava a Sartre. Con Montini condivideva il timor panico dell'imminenza rivoluzionaria, e con lui era pronto a tutto per evitarla. In tale ottica, un accordo col PCI era inevitabile. Serviva a svuotarne la carica eversiva, ed era un punto d'arrivo per una trasformazione radicale del cattolicesimo politico italiano: dall'antemurale eretta contro il Comunismo in nome della civiltà cristiana, la DC era diventata dapprima l'approdo delle forze laiche di centrosinistra volte a conservare la democrazia parlamentare in Italia - il Centrismo di De Gasperi - poi la propugnatrice di un isolamento della sinistra comunista mediante l'alleanza col PSI - decisa in linea di principio al Congesso di Napoli, senza nemmeno precisare il programma - e infine la forza politica che avviava un connubio col PCI per allargare al massimo la base del sistema che s'incentrava su di essa. In questo modo, il consociativismo avrebbe digerito nello stomaco del partito - stato il principale partito d'opposizione. Non dunque trasformazione, ma puntello di un sistema già esistente. Moro era disposto a qualsiasi riforma, purchè il modello di società non fosse messo in forse. Ben videro la potenza restauratrice di questo disegno le BR, in un momento in cui tutto il sistema vacillava sotto i colpi dell'eversione, e nella loro lucida follia credettero di poter fermare il meccanismo uccidendo lo statista, e a conti fatti ci riuscirono. Ma questo non fu la fine dell'Italia, ma l'inizio di una nuova fase che arriva fino ad oggi.

Tale progetto aveva il contraltare proprio nella crisi del PCI, che aveva già messo radici profonde, nonostante gli ampi successi elettorali di quegli anni, che lo portarono al 35% dei consensi elettorali. Il terrorismo mostrava chiaramente che le Botteghe Oscure non controllavano tutta la galassia del comunismo italico, e che la lezione teorica di Gramsci e Togliatti non era la sola che gli allievi di Marx potevano apprendere: le esperienze della guerriglia di Che Guevara o dei Vietcong, certo non rinnegate dall'ortodossia sovietica, o anche gli influssi del maoismo della Rivoluzione Culturale, con le sue decimazioni sommarie, confluendo tutte nella variopinta famiglia comunista, esercitavano un influsso decisivo su chi cercava ancora la strada della rivolta. L'URSS era ben lontana dal rompere ogni rapporto con questo comunismo ai margini o addirittura fuori del parlamentarismo: la DDR, la Bulgaria o la Corea del Nord intrattenevano stabili rapporti col terrorismo internazionale, proprio nell'interesse del Cremlino. Ma il peso della crisi ricadeva tutto sul PCI, condannato da Yalta al limbo eterno dell'opposizione politica. Negli anni in cui, all'altro capo del mondo, Pol Pot sognava di spingere al massimo sull'acceleratore della storia per realizzare subito il comunismo, per rispondere alle sempre più pressanti attese dei diseredati di tutto il mondo, in Europa Marchais, Carillo e Berlinguer, per allargare al massimo la base politica dei PC, premevano il più possibile sul freno, per non spaventare i moderati, promettendo un Eurocomunismo in cui non sarebbero scomparsi del tutto multipartitismo e multisindacalismo, e in cui la lotta militante alle sovrastrutture religiose e culturali sarebbe stata abbandonata. Erano due punti estremi di approdo di una crisi legata alla mummificazione del modello sovietico. In Europa, il '68 dilatava fino all'inverosimile la voglia di trasformazione, ma portava acqua al mulino dell'eversione, e danneggiava una forza burocratica e conservatrice come il PCI, allo stesso modo in cui poteva spaventare la DC. L'approdo di Berlinguer al dialogo con Moro era inevitabile.

In quest'ottica, il Compromesso storico non è tanto una soluzione della crisi dell'Italia, ma a quella della DC e del PCI. Il nostro paese era, prima che uno stato, uno spazio di convivenza, un luogo di frontiera tra civiltà diverse, bisognose di trovare sempre nuovi equilibri. In quel contesto, l'esecrata partitocrazia, di cui il Compromesso fu l'apoteosi, era una necessità. La DC difendeva, peraltro, l'indipendenza della Chiesa, che in Italia aveva la sua testa, la Santa Sede.

Quali potevano essere le conseguenze di questa politica, ad un tempo affascinante e perversa ? Le strade potevano essere due: la paralisi dello Stato democratico o la crisi delle parti contraenti il Patto. La storia ha seguito la seconda, che a conti fatti ha portato meno danni. Le fortissime resistenze nel mondo cattolico e laico mettevano ostacoli al progetto moroteo. Tuttavia la crisi del Centrosinistra e le sue stanche riedizioni agli inizi degli anni '70 con Andreotti, Rumor e Colombo, l'asfissia elettorale del PSI, l'autunno caldo, il terrorismo rosso, l'eversione nera e la crisi petrolifera con tanto di inflazione a due cifre non permettevano di lasciare intentata alcuna prova politica, e il Compromesso partì. Con esso iniziò la crisi delle parti che lo facevano. Nella DC fu immediatamente evidente: per dare garanzie al suo elettorato, Moro chiamava l'uomo simbolo della destra democristiana, Andreotti, a presiedere il Governo della Non- Sfiducia, per traghettare il paese alla Solidarietà nazionale compiuta, col PCI in maggioranza parlamentare e dopo nell'esecutivo. Questa trovata bizantina la dice lunga sulle resistenze democristiane e medio-borghesi in genere. Nel PCI la crisi fu coperta dalla tradizionale gestione autoritaria della politica, ma emerse ben presto nella base, incapace di comprendere questa svolta. Il drammatico sequestro di Moro e la sua crudele fine prolungarono l'esperimento, ma esso nasceva col fiato corto, e non gli sopravvisse di molto. Ma non per ragioni pretestuose: nella coalizione DC - PCI esistevano contraddizioni tali che nessuna mediazione avrebbe potuto risolvere. Se Berlinguer si sentiva al sicuro sotto l'ombrello NATO, forse memore della Primavera di Praga, tuttavia non aveva ragioni per condividere altre posizioni occidentali: e sull'adesione allo SME la coalizione si ruppe per sempre.

Se la coalizione non fosse andata in crisi, se Moro fosse vissuto, l'Italia avrebbe avuto una fase politica in cui il governo avrebbe potuto contare su una maggioranza parlamentare dell'80% circa. Non avremmo avuto più opposizione parlamentare. La democrazia rappresentativa sarebbe morta. Molto probabilmente i contrasti sarebbero esplosi nelle piazze. Peraltro, difficilmente il PCI avrebbe avuto un'evoluzione democratica, rinnegando del tutto il marxismo-leninismo. Sarebbe stata la prima strada, ben diversa dai sogni degli idealisti dell'epoca.

I forti contrasti internazionali che accompagnarono il dibattito italiano dell'epoca - si pensi alla preoccupazione espressa dal Dipartimento di Stato sulla collaborazione DC-PCI, o alla condanna che Breznev espresse dell'Eurocomunismo - lungi dall'essere solo la prova delle indubbie ingerenze straniere nelle nostre cose e sicuramente nel sequestro Moro, attestano quanta difficoltà c'era nel trovare una collocazione per l'Italia del Compromesso nel mondo reale di allora. Sembra presumibile che terroristi internazionali come Carlos, legati alla Stasi - i servizi della DDR - abbiano avuto un ruolo decisivo nel sequestro dello statista, mentre le probabili insabbiature delle indagini rimanderebbero, tramite la P2, all'oltranzismo atlantico. In effetti, il "disordine stabilito" non permetteva una soluzione come quella, ed era nella forza delle cose che essa si fermasse. Il grande errore di Moro e Berlinguer fu quello di non capire questo limite, immanente alle loro culture politiche e ai loro tempi.

Cosa rimane oggi di questa lezione utopica? Praticamente nulla, ed è un bene. Oggettivamente Moro non può essere considerato un precursore dell'Ulivo, perchè questo è un'alleanza politica stabile, tra una forza socialista, i DS, e una forza centrista, minoritaria, con una fortissima ma non esclusiva venatura democratico-cristiana, la Margherita. Il Compromesso storico invece supponeva anzitutto una fortissima DC che facesse da traino, un potente partito comunista, e una prospettiva di alternanza. Inoltre, fuori dell'arco costituzionale moroteo non c'era nulla, mentre fuori l'Ulivo c'è quasi la metà dell'elettorato, di cui una frangia estrema è proprio comunista in polemica con questa coalizione. Inoltre, mentre Moro cercava nelle convergenze parallele un incontro programmatico con i nemici eterni, oggi gli schieramenti politici sono ben lontani da questa attitudine dialogante. Inoltre, con buona pace di tutti, oggi non ci sono pericoli per la democrazia, chiunque governi, mentre negli Anni '70 il progetto moroteo era finalizzato proprio a garantire la salvaguardia della forma di governo scelta. Anche la Chiesa oggi non ha interessi ad inseguire certe mitologie ormai arcaiche: con Giovanni Paolo II è tornata allo scontro frontale con i Comunisti, ha vinto e oggi non li ha più innanzi a sè. E' dunque indifferente a certe soluzioni politiche.

Il programma moroteo ha suggestionato molto l'Area Zac, o Sinistra Dc, e ancora nei ruggenti anni '80 De Mita, col laicismo tecnocratico, cercava la base di una nuova formula d'intesa tra PCI e DC, in chiave anti - PSI, e con l'intento di depurare la politica italiana il più possibile dalle ideologie. Ma la morsa del CAF si chiuse su di lui e sul suo progetto.

Oggi la teoria politica morotea rimane come un reperto importante della storia repubblicana, la testimonianza quasi prometeica di uno sforzo di conciliare l'inconciliabile, e di saldare in una sintesi stabile la dicotomia profonda di tutta la nostra storia recente. Applicazione non nuova di una tecnica parlamentare tutta italiana (dal Connubio cavouriano, alle aperture ai Socialisti, ai Cattolici di Gentiloni, ai Popolari e persino ai Fascisti di Giolitti, fino al Centrosinistra fanfaniano-moroteo), fallita come molti dei suoi precedenti, applicata di nuovo in contesti anche contemporanei (le alleanze della CdL con la Lega e dell'Ulivo con RC si muovono su questa scia), l'idea dello statista di Maglie ha tuttavia un fascino tutto suo, come l'ultimo giorno di una giovinezza perduta, che ha cercato ogni espediente per sopravvivere a se stessa, ma è scomparsa lo stesso. Era giusto che, contrariamente a quanto Moro ormai destinato alla morte aveva profetizzato, la politica italiana gli sopravvivesse, fino alla deflagrazione di Tangentopoli che ha spinto il paese su strade completamente nuove.


Theorèin - Gennaio 2004