FEDERICO II E IL PAPATO 
A cura di: Vito Sibilio
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I parte

Il dibattito storiografico classico, trattando il complesso tema delle lotte tra papato e impero nel Medioevo, compresa quella tra Federico II e i pontefici suoi contemporanei, ha spesso interpretato la loro contrapposizione come essenzialmente politica, attribuendo in particolare alla Chiesa l’intento di realizzare una teocrazia, e credendo di poter scorgere in tale desiderio la chiave ermeneutica di tutta la politica papale da Gregorio VII (1073-1085) a Giovanni XXII (1316-1334). In realtà questa analisi oggi non può più essere credibile, in quanto una maggiore sensibilità alle componenti culturali proprie di ciascuna epoca spinge a calarsi nella mentalità dei vari tempi, e nel nostro caso obbliga a fare piazza pulita di concetti ambigui come potere temporale e spirituale, politica, cesaropapismo, teocrazia, ed imposta la questione in modo assolutamente nuovo.

Per esempio, appare ormai un dato acquisito che la molla più profonda della politica della Casa Sveva, e dell’imperatore Federico II, nei confronti della Chiesa è la volontà di restaurare la teocrazia ottoniano-salica, in cui gli Imperatori romano – germanici, eredi del dominato sacrale di matrice bizantina, presiedevano l’orbe cristiano esercitando un altissimo patronato anche nei confronti della Santa Sede – che essi avevano sottratto alla decadenza del saeculum obscurum – e rivendicando la prerogativa di investitura dei prelati (che alcuni pontefici, fino a Giovanni X [914-928], avevano confermato come consuetudinaria), nel quadro di una concezione che faceva della Chiesa imperiale quasi un’unica Ecclesia Propria del monarca. In effetti, se le diocesi e le abbazie maggiori erano sotto il patronato imperiale dai tempi di Ludovico I il Pio (814-840), spesso tale prerogativa faceva di quelle giurisdizioni ecclesiastiche quasi delle Chiese private. Si aggiunga poi il diritto di conferma dei prelati eletti, che dal IX-X secc. si era involuto in un vero e proprio diritto di designazione, e si veda a quale predominio sulla Chiesa era arrivato l’Impero nell’Alto Medio Evo. La feudalità ecclesiastica aveva ulteriormente legato le elezioni e le investiture ecclesiastiche al potere civile. Per alcuni periodi (963-1003; 1045-1058) gli stessi Papi erano stati designati dall’Imperatore, e dai tempi della Constitutio Romana di Eugenio II (824-827), essi avevano bisogno della conferma imperiale dell’elezione, secondo il diritto bizantino. Inoltre, proprio perché romano, l’Imperatore, in quanto Re d’Italia, aveva la sovranità su Roma, su cui il Papa esercitava un dominio temporale autonomo, ma non indipendente.

Federico II, lungi dall’ignorare che tali prerogative avevano per secoli costituito il puntello più forte del potere imperiale, e che esse erano la manifestazione più tangibile dell’origine divina di quest’ultimo, esercitato per volontà di Cristo stesso, avrebbe voluto riacquistare le posizioni perdute dalla Casa di Franconia nel mortale duello che l’aveva contrapposta al Papato gregoriano. Questo aveva ottenuto per l’autorità ecclesiastica l’investitura spirituale, separandola da quella temporale, e addirittura anteponendola ad essa in Italia e Borgogna, col Concordato di Worms. Inoltre, il diritto di patronato, quello di presentazione e quello di conferma era stato drasticamente ridimensionato. Inoltre, la Santa Sede si era data leggi proprie per l’elezione del Papa, in cui il ruolo dell’Imperatore era caduto in disuso. Infine, identificando tutto il popolo cristiano con una comunità temporale, la Cristianità, che viveva seguendo i principi della Chiesa e che comprendeva al suo interno tutti gli Stati cristiani, incluso l’Impero, il Papato aveva facilmente potuto rivendicarne a sé la guida, sottraendola all’Imperatore, che l’aveva esercitata per secoli. Questa era stata la politica seguita da Innocenzo III, papa dell’infanzia di Federico, che gli doveva anche la corona imperiale, e questa la politica che Gregorio IX e Innocenzo IV gli avrebbero contrapposto.

Lo Svevo mirava proprio a riprendere il primato in questa comunità, agendo come ministro di Dio e protettore della Chiesa. Per fare questo, egli identificava la Cristianità con l’Impero stesso, e faceva di esso non solo il territorio che governava quale Re di Germania, Italia e Borgogna, ma tutto l’insieme degli Stati cristiani, i cui capi, ai suoi occhi, erano solo dei reguli, piccoli re. Ottone di Frisinga (1111/1115-1158), il cistercense che fu biografo di Federico Barbarossa (1152-1190), nonno di Federico II, bene ha espresso queste convinzioni della Curia imperiale sveva: nel De Duabus Civitatibus, egli riprende la divisione tra Civitas Dei e Civitas terrena di Agostino, ma corregge l’Ipponense, affermando che, dalla cristianizzazione dell’Impero, la Civitas terrena, che si identifica con quest’ultimo, diviene un’immagine della Civitas Dei, che già Agostino chiamava, in alcuni punti, respublica fidelium. Se dunque le due città si confondono, perché l’una è manifestazione dell’altra, allora anche l’Imperatore, che presiede alla respublica, diviene il capo dei cristiani, e il protettore della Chiesa, che sta in essa come in un involucro, in attesa di essere liberata alla fine dei tempi, quando le due città saranno definitivamente separate, sulla base dell’appartenenza spirituale. In effetti, per il nostro la storia del mondo è una decadenza progressiva, che sarà superata solo dalla fine dei tempi. Ottone chiama quest’unica città Ecclesia, mostrando di non avere a cuore la chiarezza terminologica. Inoltre, riprende la dottrina carolingia della traslatio Imperii, per cui la sovranità sul mondo è stata da Dio spostata dai Babilonesi ai Persiani, da questi ai Greci, da costoro ai Romani, e da loro ai Franchi e poi ai Tedeschi; ragion per cui l’Imperatore germanico è il capo del mondo intero. Quando poi l’Impero cadrà, allora anche il mondo finirà e sarà il Giudizio. Le lotte dei suoi tempi sono poi per Ottone la prova dell’imminenza della Fine. Questa successione dei Regna è la manifestazione visibile dell’ordine provvidenziale della Storia. Come si vede, era una teologia politica coerente e chiara, in cui chi minava le basi dell’Impero preparava la fine del mondo, e quindi precorreva l’anticristo. (1) Non a caso Federico II bollò Gregorio IX con questo ingiurioso epiteto.

La concezione papale, invece, aveva trovava in Ugo da San Vittore (1096-1141) un teorico intelligente e moderato. Egli, nella sezione De Unitate Ecclesiae del suo De Sacramentis, affermava che la Chiesa è la moltitudo fidelium, l’universitas Christianorum, e che al suo interno ci sono due ordini: quello laicale, che presiede al temporale, tramite l’autorità civile, a cui sovrintende l’Imperatore, e quello clericale, che si occupa dello spirituale, mediante l’autorità religiosa, guidata dal Papa. Essi sono come i due lati di uno stesso corpo, l’uno a sinistra e l’altro a destra. Ma la sinistra cura – per dirla con l’Alighieri – è gerarchicamente inferiore, anche se distinta, da quella destra; questa subordinazione salva l’unità della Chiesa, in quanto il Sacerdotium consacra il potere regio, ut sit, e lo giudica se sbaglia. Non dunque confusione, ma subordinazione di una delle due parti all’altra, sia in Ottone che in Ugo. Era un vero e proprio primato ontologico che ognuna delle due parti rivendicava per sé. Ma sempre in seno all’unica Chiesa, intesa come popolo di Dio (2). Questa concezione era la stessa di papa Innocenzo III (1198-1216) e di Gregorio IX (1227-1241). Essi affermavano che, nel firmamento della Chiesa universale, il Papato è il Sole, e l’Impero la luna: l’uno presiede alle anime, l’altra ai corpi; l’uno illumina l’altra. Il papa, che ha una auctoritas sacrata, può guidare il potere temporale, in ordine ai principi morali, e può intervenire nei singoli casi per il bene delle anime o per correggere un peccato. Questa concezione si sorreggeva sul diritto canonico, di cui i papi grandi rivali di Federico furono eccezionali compilatori e commentatori. Non a caso Gregorio realizzò il Corpus Iuris Canonici, che la pittura cristiana eguagliò al Corpus Iuris nella sua iconografia, e non a caso Innocenzo IV fu, da chierico, uno dei più grandi canonisti dell’epoca.

Dal punto di vista imperiale, la riscoperta del diritto romano, se forniva allo Stato i mezzi giuridici per promuovere ed esercitare certe rivendicazioni, non ne annullava l’ispirazione religiosa, anzi la coonestava con la sua autorevolezza, favorendo la riscoperta congiunta delle due anime dell’Impero, quella cristiano-sacrale e quella romana, che già da Costantino (306-337) in poi si erano inestricabilmente unite, e che da Carlo Magno (768-814) ad Enrico III (1039-1056) erano state la linfa stessa del rinnovamento spirituale – nel senso più ampio del termine – dell’Occidente latino. In una società che per secoli non aveva conosciuto la distinzione ontologica tra Stato e Chiesa, la Casa Sveva innestava la rinascita giuridico-politica, dovuta agli studi dell’umanesimo monastico, e quindi anch’essa in ultima analisi riconducibile ad un’ispirazione cristiana, sul troncone dell’antica teologia imperiale, in cui il sovrano universale regnava in nome di Dio, in una compiuta teocrazia che faceva di lui il suo vero Vicario, e il cui modello antropologico risaliva addirittura all’Antico Egitto. Il monarca, unto del Signore, governa in suo nome, e presiede, novello David, al popolo di Dio. La consacrazione è un vero è proprio sacramentale, per alcuni addirittura un sacramento. Il globo, simbolo del potere, è sormontato dalla Croce, e così la corona. Spesso gli edifici pubblici sono geometricamente disposti in modo da mostrare l’identità tra Cristo e il suo vicario, l’imperatore: è il caso di Castel del Monte, a forma ottagonale, perché l’Otto è, nell’Apocalisse, il numero di Gesù. In quest’ottica, la politica di Federico II è religiosa anch’essa, e fortemente conservatrice: di un conservatorismo illuminato, che coglie gli spunti più vivaci dei tempi nuovi, ma non per questo meno determinato e, come dimostrarono gli esiti dei suoi sforzi contro il Papato, i Comuni e le monarchie nazionali, meno anacronistico.

Il dibattito culturale dell’epoca offre al ghibellinismo militante ancora autori che facciano rivivere il mito della teocrazia ottoniano – salica, rivendicando, nell’unica Chiesa, il primato dei Re sui Sacerdoti. E’ quello che fa, sin dall’inizio dell’XII sec., e quindi in tempi non sospetti per la controversia federiciano-pontificia, l’anonimo autore del De consacratione Pontificum et Regum. In esso, i Re sovrintendono agli uomini, intesi sia come anime che come corpi. Non potendo la forma e la materia essere scissi nel composto, anche l’autorità regia si estende allo spirituale, e il Re è Unto del Signore allo stesso titolo del Sacerdote. Ma questi gli sta sottomesso, così com’era nell’Antica Alleanza. Inoltre, nella Nuova, Cristo, re eterno perché Dio, diviene uomo e quindi sacerdote del Patto, come attesta la Lettera agli Ebrei. Non dunque il Sacerdozio, ma l’Impero è l’immagine dell’autorità divina. Spetta dunque a questo il primato. C’erano dunque ancora autori disposti a sostenere simili cose. E quel che era peggio per la Chiesa era che autori come questo – nell’Apologia Archiepiscopi Rotomagensi – mettevano anche in discussione il primato papale, facendo uguali tutti i vescovi. In effetti, tale tesi aiutava non poco la causa regia ed imperiale soprattutto.(3)

Federico seppe ben tesaurizzare questi fermenti teologici, e anche nel perseguire la loro politica, non a caso ricorse a strumenti di politica genuinamente ecclesiastica: cercando lo scisma o strumentalizzando l’Inquisizione – al cui rafforzamento diede un contributo essenziale – e addirittura fece concorrenza al Papa negli scacchieri religioso-diplomatici dove più forti erano i suoi interessi: l’Italia, il Mezzogiorno, l’Outremer cristiano, da Gerusalemme a Costantinopoli.

In quest’ottica, la lotta del Papato contro Federico II è una dura controffensiva, dopo la difesa dagli assalti del Barbarossa e di Enrico VI; è una risposta inevitabile di chi voleva conservare le faticose conquiste della lotta per le investiture, e che voleva salvaguardare un nuovo concetto di Chiesa: non più la comunità religiosa protetta dall’Impero, i confini della cui supremazia si identificano con quelli del mondo stesso, ma la casa di tutti i fedeli, nella quale – come dicevo - anche gli Stati cristiani, Impero compreso, sono inclusi. In questa concezione la Cristianità era guidata dal Papa, in quanto trovava in lui il custode e l’interprete di quei principi religiosi a cui essa s’ispirava negli affari profani. In questa concezione, il rapporto di soggezione Stato-Chiesa si ribaltava, né poteva essere diversamente, se quest’ultima si voleva emancipare dalle interferenze dei sovrani. Solo sostituendo alla loro teocrazia un modello ierocratico che dava al clero il completo controllo del governo ecclesiastico, inclusi gli iura temporalia strettamente connessi, la Chiesa poteva sperare di liberarsi dall’abbraccio soffocante dei poteri laici. Con questa riforma, Gregorio VII e i suoi successori si erano garantiti la libertas e, in una concezione politico-culturale in cui sacro e profano sono inscindibilmente uniti, avevano raggiunto la preponderanza e l’egemonia, marcando giustamente la differenza tra l’universalità della fede e quella dell’Impero, i confini della cui egemonia erano ben minori di quelli della religione. Non a torto Gregorio VII, nel Dictatus Papae, aveva detto che solo il Pontefice Romano è universale. Non a torto, in quest’ottica, i Papi avevano rivendicato, in quanto rappresentanti di Dio e dispensatori della grazia sacramentale, il diritto di istituire, tramite la consacrazione, e giudicare, per il ruolo magisteriale, i sovrani terreni, non per assorbire il potere temporale in un sistema monistico, ma per creare una gerarchia tra le due autorità. Non poteva infatti regnare sui cristiani un nemico di Cristo, ma solo chi rappresentava Cristo e ne custodiva la fede poteva giudicare la condotta dei sovrani. Non più dunque l’ordine di David, ma quello di Melchisedek, superiore ad Abramo e figura di Cristo. Non più la monarchia davidica, ma il sacerdozio regale dei Maccabei. Non più il dominio dei Cesari, ma quello, eterno, del Cristo risorto, che regna in terra tramite una gerarchia di poteri di cui quello papale è il più alto, anche se non il solo. Non a caso, dunque, tutte le lotte sostenute dalla Santa Sede contro gli Svevi possono essere ricondotte a dei principi religiosi, che –anche se perseguiti con tutti i mezzi della potestas coactiva materialis, che la Chiesa rivendicava per sé già da un secolo – avevano peraltro il pregio, rispetto a quelli della controparte, di essere più genuini, in quanto sanzionati dalla maggiore autorità religiosa, riconosciuti dalla maggioranza dei fedeli e più conformi al nuovo ordinamento socio-politico mondiale, in cui forze fresche e vitali, come gli Stati nazione e i Comuni, trovavano pericolose le rivendicazioni universalistiche dell’Impero.

Ma veniamo ora a qualche accenno alle lotte politiche vere e proprie tra Federico II e i papi. Il nostro punto di partenza non può che essere la politica di suo padre, le cui scelte crearono il contesto in cui l’iniziativa federiciana dovette attuarsi.

Il breve regno di Enrico VI (4) era stato per la Chiesa gravido di minacce: questi si impadronì del Regno di Sicilia, feudo papale, detronizzando Tancredi di Lecce, incoronato col consenso di Clemente III, e impose il suo candidato alla diocesi di Liegi contro quello della Santa Sede. Incoronato imperatore da Celestino III (1191-1198), Enrico VI tuttavia s’impossessò definitivamente dei Beni matildini, rivendicati dal Laterano, e occupò Marche e Romagna, parte dello Stato pontificio. Sebbene Celestino III fosse stato eletto per le sue doti diplomatiche, la rottura era stata inevitabile, specie per il riconoscimento dato dal papa a Tancredi di Lecce. Ora che però era Imperatore e Re di Sicilia, Enrico VI mirava all’organizzazione di una Crociata, per dare un respiro mediterraneo alla sua politica. Ma per organizzarla aveva bisogno dell’aiuto del Papa, cui spettava di bandirla. Certo, questi non poteva opporsi alla spedizione, ma ne coglieva la natura insidiosa. La fece predicare ovunque, per controbilanciare in essa il peso dell’esercito imperiale. Inoltre, ricevette da Enrico la proposta di riconoscere l’ereditarietà della corona imperiale. In cambio, proponeva di voler ricevere tutto l’Impero dalla Chiesa come feudo. L’ambiguità della proposta era notevole, e solo la morte di Enrico salvò il nonagenario Celestino dal dover prendere una decisione. Dopo un po’, morì anche lui. Protagonisti erano ora un bambino, Federico II (5), e Innocenzo III (6), che avrebbe messo la Chiesa in condizione di tener testa agli Svevi e a cui l’Imperatrice moribonda aveva affidato il tutorato del figlio. Ella, come Enrico VI morente, aveva riconosciuto i diritti feudali della Chiesa sulla Sicilia, e regolato le questioni ecclesiastiche secondo i desideri del Papa.

Questi, sebbene non ebbe scontri con gli Svevi nel suo papato – anzi propendeva persino per incoronare Filippo di Svevia, fratello di Enrico VI, imperatore - e sebbene a lui debba le sue fortune Federico II (che gli promise di tener separate le corone tedesca e siciliana), esercitando una leadership indiscussa su tutta la Chiesa, e imponendo due volte il suo candidato al trono imperiale (Ottone IV [1198-1215] e lo stesso Federico II), ma anche ricostituendo lo Stato Pontificio, gettò le basi materiali per la prosecuzione dello scontro. Ora il Papato era in grado, all’occorrenza, di prendere l’iniziativa, nel quadro di una contrapposizione ideologica più netta. La dottrina, più allegorica che politica e più morale che ontologica, per cui la potestà religiosa somigliava al sole e quella temporale alla luna, per cui l’una presiedeva alle anime e l’altra ai corpi, nonché il diritto all’interferenza nelle questioni politiche ratione peccati o pro bono animarum, elaborati da Innocenzo, e già ricordata, giustificarono le rivendicazioni papali di gran lunga meglio di qualsiasi propaganda imperiale e diedero una veste sistematica a tutte le precedenti teorie curialistiche. Del resto, l’esercizio fattivo della potestà di deporre i sovrani, compiuto da Innocenzo III più volte e con successo, e lo speculare sforzo di costituire poteri monarchici nelle varie regioni del mondo, oltre che l’allargamento del numero dei Paesi vassalli della Chiesa, diedero al Papato il prestigio necessario per riprendere poi la lotta con Federico II. Probabilmente, Federico, allevato dai precettori inviatigli da Innocenzo, vide in lui un modello e un rivale, che da adulto cercò sempre di emulare ed eguagliare. Infatti, la sua flessibilità tattica e la sua costanza strategica, la sua straordinaria inventiva e la sua prudente fermezza ricordano più il carattere di Innocenzo III che quello di Enrico VI o di Federico Barbarossa.


[1] Su Ottone di Frisinga, cfr. E.GILSON, La philosophie au Moyen Âge, Parigi 1952 (ed. it.: La filosofia nel Medio Evo, Firenze 1973), pp. 395-398. 

[2] Cfr. GILSON, La philosophie, pp. 398-401. 

[3] Cfr. GILSON, La philosophie, pp. 402-406. 

[4] Cfr. sull’arg. J.HALLER, Heinrich VI und die römische Kirche, MIÖG 35 (1914), pp. 384-454, 545-669. 

[5] Cfr. su di lui H.M.SCHALLER, Kaiser Friedrich II, in “Persönlichkeit und Geschichte“ 34, Gottinga 1964. Ovviamente la bibliografia è molto ampia, perciò indico solo un’opera di riferimento. 

[6] Cfr. J.SAYERS, Innocenzo III, Roma 2001.


Theorèin - Marzo 2004