Tra USA e URSS
Appunti per una cronologia ragionata
Il Secondo Dopoguerra (1945-1989) è caratterizzato dalla formazione e dalla durata del sistema politico scaturito dalla II Guerra Mondiale. In esso, l’Europa perde la sua antica centralità, e l’egemonia viene esercitata dagli USA e dall’URSS
[1]. Attorno agli USA si radunarono le nazioni democratiche d’Europa, America e Oceania (Primo Mondo); gli Stati socialisti europei, asiatici e africani si strinsero attorno all’URSS (Secondo Mondo
[2]); i Paesi ex-coloniali, che ottennero l’indipendenza tra gli anni ‘50 e ‘60 in Africa e Asia, tentarono un velleitario terzo schieramento, dei non allineati, costituendo un Terzo Mondo che si differenziò più per le drammatiche condizioni di sottosviluppo che per una reale autonomia politica[3]. USA e URSS si combatterono nella guerra fredda, ossia in una competizione totale o in conflitti indiretti, non potendo confrontarsi direttamente a causa della pericolosità dei loro armamenti termonucleari.
Nonostante la tensione tra Washington e Mosca sia durata per tutto il dopoguerra, esso è divisibile in fasi, in cui più o meno il contrasto si accentuò. Abbiamo:
La guerra fredda vera e propria (1945-1953)
La coesistenza pacifica (1953-1963), che pure ebbe gravi momenti di tensione
La distensione (1963-1979), che pure coincide con le fasi più drammatiche della Guerra del Vietnam
La cosiddetta seconda guerra fredda (1979-1985)
La nuova distensione (1985-1989)
La crisi e la dissoluzione del sistema sovietico (1989-1991), che segna il trapasso dal Dopoguerra all’Età presente.
Nella prima fase, la guerra fredda vera e propria (1945-1953) protagonisti principali sono H. Truman e Stalin, e gli eventi salienti l’enunciazione della “Dottrina Truman”, il varo del “Piano Marshall” (1947-1948), il cosiddetto “Colpo di Praga” (1948), la Rivoluzione Cinese (1949), e la Guerra di Corea (1950-1953).
Il presidente americano Henry Truman (1945-1953), energico rappresentante del Partito Democratico, dovette rendersi conto dell’errore di Roosevelt, che aveva concesso troppo ai sovietici. Essi andavano imponendo con la forza il loro regime nei vari paesi dell’Est, processando e condannando gli oppositori politici interni ed esterni al partito in spettacolari processi pubblici, che erano la prosecuzione naturale delle istruttorie politiche del Terrore staliniano degli Anni ’30, e in cui agli imputati venivano estorte le confessioni di crimini mai commessi con raffinate torture psicologiche e con brutali violenze fisiche. L’acme si toccò nel 1948, quando gli stalinisti compirono il colpo di stato in Cecoslovacchia (Colpo di Praga). Già l’anno precedente Truman aveva enunciato la sua dottrina in politica estera, per cui bisognava assolutamente evitare che il bolscevismo russo si espandesse ulteriormente (Dottrina Truman), e aveva varato il Piano Marshall per legare a sé le sorti economico-sociali del mondo libero. Una falla sembrò aprirsi nel sistema comunista con lo strappo tra Stalin e la Iugoslavia di Tito (1948), che, pur essendo comunista, non voleva piegarsi alle direttive economiche di Stalin. Belgrado si avvicinò moderatamente all’Occidente. Ma già l’anno dopo il comunismo otteneva una nuova, importantissima affermazione: Mao Tse-Tung prendeva il potere in Cina, dopo una lunga guerriglia contro il regime nazionalista di Ciang Kai-Shek.
Nasceva così la Repubblica Popolare Cinese (1949)[4]. Quando perciò i comunisti passarono all’offensiva anche in Corea, Truman s’impegnò nella guerra aperta. La Corea, ex-dominio giapponese, era stato occupato a nord dai sovietici, che avevano imposto il regime terribile di Kim Il-Sung (1912-1994), e a sud dagli USA, che avevano insediato il regime conservatore di Syngman Rhee (1875-1965). Il confine correva lungo il 38° parallelo. Nel 1950 Kim Il-Sung, sostenuto da Mao, sferrò l’attacco contro il Sud, e subito gli USA, con mandato ONU, intervennero per respingerlo. L’URSS, temporaneamente ritiratasi dalle Nazioni Unite, stette a guardare. Se gli USA avessero condotto a fondo l’attacco, avrebbero dovuto attaccare anche la Cina con le armi nucleari, in quanto le basi dei “volontari” cinesi che combattevano in Corea si trovavano in Manciuria. Ma questo avrebbe portato all’olocausto atomico e alla guerra mondiale. Truman si accontentò di mantenere la divisione al 38° parallelo, con un armistizio che dura ancor oggi. La morte di Stalin (1953), avvenuta alla vigilia di un’ennesima, feroce purga nei confronti di ebrei e stretti collaboratori del dittatore, aprì lo spiraglio della distensione politica.
Nella fase della coesistenza pacifica (1953-1963), protagonisti principali sono J.F.Kennedy e N.Kruscev, e gli eventi più importanti la Rivoluzione Ungherese (1956), la Crisi di Berlino (1958-1961) e la Crisi di Cuba (1962).
Il motore degli eventi fu in URSS. La morte di Stalin aprì una fase di direzione politica collegiale, mancando una forte personalità che s’imponesse tra i successori del despota. Tra essi scoppiò una lotta sorda ma sommersa per il potere, in cui il potentissimo e crudele ministro degli Interni Lavrentij Berija fu ucciso (1953), e da cui emerse l’astro di Nikita Kruscev (1953), già stalinista di ferro, ma ora convinto della necessità di una coesistenza pacifica tra i due blocchi, per evitare la distruzione del mondo. Egli enunciò questa convinzione nel 1956 al XX Congresso del PCUS (partito comunista dell’URSS), in cui peraltro, in un celebre “Rapporto segreto” – che invece fu subito conosciuto – denunciò gli eccessi del culto della personalità di Stalin e le sue violenze contro i comunisti stessi. Questo avviò una parziale liberalizzazione del sistema sovietico, ma non modificò la natura illiberale del regime comunista, pretendendo di scaricarne le colpe sulla sola personalità deviata di Stalin. Infatti, quando in Ungheria, nello stesso anno, il primo ministro Imre Nàgy tentò di introdurre riforme democratiche, perché anche lui nauseato dallo stalinismo, Kruscev, chiamato in aiuto dal segretario del Pc Yanosh Kadar, inviò le truppe del Patto di Varsavia – nato l’anno prima – a restaurare il comunismo, nonostante la popolazione magiara sostenesse Nàgy, che fu giustiziato. Questo intervento suscitò aspre reazioni nel mondo libero. E nonostante questi limiti, le modeste aperture di Kruscev suscitarono l’indignazione di Mao. Questi, dopo aver tentato una modesta forma di rinnovamento politico che però si era ritorto contro il Pc – linea dei “Cento Fiori”, 1956- era ritornato al sistema stalinista, entrando in polemica con Mosca (1957).
Tuttavia, il presidente americano Dwight D. Eisenhower (1953-1961), repubblicano, cercò di assecondare il riformismo krusceviano, e il movimento di riavvicinamento politico tra USA e URSS raggiunse l’apice con la presidenza Kennedy (1961-1963). La collaborazione – più ideale che reale – tra lui e Kruscev, coincisa con il pontificato di Giovanni XXIII (1958-1963) segnò le speranze di rinnovamento e pace di un’intera generazione, poi crudelmente frustrate.
John Fitzgerald Kennedy, democratico, si presentò alle elezioni col programma di una “nuova frontiera”, da raggiungersi mediante la piena integrazione delle minoranze etnico-culturali – era lui stesso cattolico e di origini irlandesi – in particolare dei neri, il cui movimento di emancipazione, iniziato sotto Eisenhower, sarebbe stato guidato da Martin Luther King (1929-1968) pastore battista, nobel per la pace nel ’64, e assassinato nel ‘68. Kennedy mirava a riassorbire la disoccupazione, e a rendere più attento lo Stato ai problemi sociali, ampliando la linea già seguita dai predecessori. In politica estera, mirava a sostenere i paesi del Terzo Mondo, in particolare latinoamericani, specie per sottrarli all’influenza sovietica, e a raggiungere una pacifica convivenza con l’URSS. Questo non significa però che fosse arrendevole con l’espansionismo rosso, ma solo che intendeva adattarsi con duttilità alle varie situazioni politiche in cui si fosse trovato (dottrina della “risposta flessibile”). Infatti fu solidale con la Germania Occidentale quando Kruscev fece alzare il Muro di Berlino (1961) che divideva in due la città, per evitare la fuga verso i quartieri della parte Ovest. La tensione si stemperò quando gli USA assicurarono l’URSS che non avrebbero acconsentito all’armamento atomico della Repubblica Federale Tedesca, progettato da Eisenhower. Nel 1962 inoltre Kennedy reagì con decisione al progetto di Kruscev di installare a Cuba, di fronte alla Florida, dei missili nucleari. A Cuba infatti nel 1959 Fidel Castro aveva guidato un’insurrezione contro il governo militare e aveva instaurato il comunismo. Kennedy, che aveva inutilmente tentato di rovesciare l’unico regime bolscevico americano già nell’anno precedente (Sbarco della Baia dei Porci), minacciò la guerra se i russi non avessero smobilitato. Questa volta fu Kruscev a cedere. Oramai sia USA che URSS erano convinti della necessità della convivenza, ma i grandi fautori della distensione uscirono di scena improvvisamente. Kennedy fu assassinato a Dallas nel 1963, in circostanze misteriose, probabilmente in seguito ad una congiura, annodata tra tutti i settori della società americana ostili alle riforme del presidente, che si avviava a riformare la CIA e l’FBI, e a diminuire il suo appoggio agli anticastristi. Kruscev, incapace di far progredire economicamente l’URSS in una pacifica competizione con gli USA, minacciato dal dissenso degli intellettuali, screditato per la rottura con la Cina, ondivago e superficiale nella realizzazione delle riforme, fu destituito nel 1964, e sostituito da Leonid Brežnev (1964-1982). Ma la politica della distensione, nonostante tutto, continuò.
Nella Terza Fase del Dopoguerra (quella della Distensione, 1963-1979), protagonisti furono Brežnev, Johnson, Nixon e Carter. Eventi principali furono la Guerra del Vietnam (1964-1975), l’invasione sovietica della Cecoslovacchia (1968) e dell’Afghanistan (1979-1989).
Se il presidente americano Johnson (1963-1968), già vice di Kennedy, proseguì la politica di Kennedy ma con minor carisma (dottrina della “Grande Società”), Leonid Brežnev attutì la portata delle riforme vagheggiate da Kruscev e fu artefice di un ricongelamento politico internazionale che intirizzì tutto l’Est europeo. Terreno di frizione fu stavolta il Vietnam. Colonia francese occupata dai giapponesi e dai loro alleati, alla fine della guerra mondiale era stato teatro di un conflitto tra francesi e guerriglieri locali (1945-1954), al termine del quale era stato diviso in un Nord comunista, guidato da Ho Chi Min e un Sud nazionalista, sotto Ngo Dinh Diem, con la frontiera lungo il 17° parallelo. I tentativi di riunificazione pacifica fallirono per l’aggressività del Vietnam del Nord e la diffidenza USA, e nel 1955 iniziò una guerriglia comunista nel Sud del paese, combattuta dai cosiddetti vietcong. Gli USA sostennero il Vietnam del Sud e nel 1964 attaccarono il Nord per snidare i guerriglieri dalle loro basi, sostenuti dalla Cina e dall’URSS. Fino al 1973 gli Americani si estenuarono in un lungo conflitto, in cui le loro risorse militari erano depauperate dalla guerriglia, a cui non erano preparate, in cui non poterono impegnarsi a fondo per tener circoscritto il conflitto, e in cui commisero obiettive atrocità, che la stampa occidentale diffuse molto di più di quelle, più nascoste, dei vietcong. Duramente contestato per tutto questo, alla fine il presidente repubblicano Richard Nixon (1969-1974)
[5] fu costretto a ritirarsi dal Vietnam, che cadde tutto sotto il dominio comunista (1975), sotto il quale ancora si trova[6].
Nel frattempo, Brežnev, nel 1968, aveva invaso la Cecoslovacchia, dove il leader riformista Alexander Dubcek aveva avviato un corso riformatore (“Primavera di Praga”). Timoroso di perdere via via il controllo degli Stati comunisti in seguito al diffondersi del dissenso, Brežnev aveva elaborato la dottrina della “sovranità limitata”, per cui le scelte di un paese socialista erano libere fino a quando non danneggiassero gli interessi di tutto il blocco sovietico. Inoltre, nel 1979 l’URSS invase l’Afghanistan per sostenere i comunisti al potere di Najibhullah.
Nonostante tutto USA e URSS trovarono il modo di concludere accordi sul rispetto dei diritti umani (Helsinki, 1975; assai poco rispettati dai russi) e per la riduzione degli armamenti (Salt I e II, 1972 e 1979). Fu merito del presidente Jimmy Carter (1977-1981), democratico, il raggiungimento di questi accordi, ma egli dovette rassegnarsi alla Rivoluzione islamica in Iran, dove l’ajatollah (capo religioso) Ruhollah Khomeini depose lo scià Rehza Palevi, filostatunitense, e instaurò una repubblica teocratica, che nazionalizzò il petrolio, e umiliò gli USA facendo prigionieri i funzionari d’ambasciata americani a Teheran, senza che la CIA riuscisse a liberarli con la forza (1979). Carter ci rimise il posto. Gli subentrò il repubblicano Ronald Reagan (1981- 1989).
Nella Quarta Fase (Nuova Guerra Fredda, 1979-1985), protagonista è Reagan, che riprende l’offensiva antisovietica. Il presidente sostenne che solo un’accentuata competizione con l’URSS – chiamata significativamente “Impero del Male nel mondo” – poteva portare al tracollo il sistema sovietico, come in effetti avvenne. Fautore di un corso liberista in economia (la Reaganomics), Reagan rilanciò la corsa agli armamenti, specie quelli di difesa spaziale (lo Scudo stellare), per cui i Russi erano impreparati, e s’impegnò contro l’espansionismo sovietico in America Latina. I successori di Brežnev (Yurij Andropov, 1982-1984, e Konstantin Cernenko, 1984-1985) non furono all’altezza della situazione. Inoltre la guerra in Afghanistan mangiava uomini e risorse ai russi, senza riuscire ad imporre il comunismo ai ribelli nazionalisti e islamici, i mujaeddin – tra cui militavano i futuri talebani. C’era bisogno di un corso politico radicalmente nuovo, e di una personalità spiccata. Fu trovata in Mikhail Gorbacev.
Protagonista assoluto dell’ultima fase (1985-1989/1991), Gorbacev concepì la sua riforma in termini di trasparenza (glasnost) e rinnovamento (perestrojka). Egli sperava di riformare, salvandolo, il sistema sovietico, reso sclerotico dal dirigismo economico, dalla militarizzazione estrema e dalla burocrazia corrotta. Ma la crisi del modello bolscevico, che covava ormai da trent’anni, era irreversibile. Gorbacev dovette rassegnarsi prima a perdere gli Stati satelliti, per ottenere gli aiuti dell’Occidente, e poi a veder implodere anche l’URSS. Tuttavia, il fatto che non seppe prevedere l’inutilità della sua riforma non lo sminuisce storicamente. In realtà, il sistema sovietico era inadatto a sostenere le sfide dell’Occidente perché privilegiava ancora l’industria pesante rispetto a quella dei beni di consumo, non comprendeva la portata rinnovatrice in economia della cibernetica e della robotica, non capiva che il totalitarismo non poteva sopravvivere in un mondo globalizzato, in cui tutti possono e vogliono confrontarsi tramite i media, non era riuscito a soffocare le identità nazionali e culturali. Non a caso l’elezione del papa polacco Giovanni Paolo II (1978) aveva avviato ampi movimenti popolari anticomunisti in Polonia, e rafforzato il sindacato libero di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, impensierendo non poco Brežnev. I viaggi del papa nella sua patria avevano attirato l’attenzione del mondo sulle sofferenze dei polacchi e degli slavi in genere sotto il comunismo. L’autorità morale del papa servì ovunque, nel mondo, a rivendicare più libertà e a deprecare il materialismo marxista, persecutore di ogni religione. Segno che l’ateismo militante non aveva sradicato il senso religioso dalle coscienze. Gorbacev, dopo aver consolidato il suo potere interno, avviò le riforme. Avendo bisogno di sbloccare risorse economiche per usi civili, avviò il disarmo bilaterale (accordi di Ginevra, 1985, Reykjavik, 1986; trattati Inf, 1987, Start I, 1991), e si disimpegnò dall’Afghanistan (1989), dove alla fine prevalsero i talebani del mullah Omar. Tuttavia, il tentativo di esportare la perestrojka nei Paesi satelliti fallì. La Russia infatti aveva tratto dal comunismo l’indubbio vantaggio di essere la nazione guida, mentre gli altri stati erano divenuti solo vassalli. Inoltre, nessuno di loro aveva scelto liberamente il comunismo. Perciò, non appena poterono, le opposizioni, mute da quarant’anni, rovesciarono i bolscevichi, sostenuti da imponenti manifestazioni di piazza. Il disimpegno delle truppe sovietiche facilitò il tutto, e non si versò una goccia di sangue. La Russia non si oppose per non perdere gli aiuti economici occidentali. Tra l’89 e il ’91 Polonia, Ungheria, RDT, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Iugoslavia e Albania si liberarono. Spesso i comunisti si riciclarono sotto forma di socialisti, e mantennero temporaneamente il potere. L’evento simbolo fu l’abbattimento del Muro di Berlino, in diretta TV, da parte dei berlinesi, in una grande manifestazione pacifica, nella notte tra l’8 e il 9 novembre 1989, l’anno in cui caddero più regimi comunisti. Solo in Romania la liberazione comportò la fucilazione di Nicolae Ceausescu, dittatore locale, rovesciato da una congiura di riformisti e da un moto di piazza. Gorbacev tentò di salvare almeno l’URSS, contando sulla benevolenza del presidente George Bush senior (1989-1993), impegnato a costruire un Nuovo Ordine Mondiale e a cacciare l’Iraq dal Kuwait (1990, Seconda Guerra del Golf
[7]). Ma un colpo di stato vetero-comunista escluse Gorbacev dal potere (1991), facendo insorgere i moscoviti in sua difesa, guidati dal presidente russo[8]
Boris Eltsin. Liberato, Gorbacev vide abolire il PCUS da Eltsin, e molte nazioni lasciare l’URSS. Riconoscendo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, si dimise il 25 dicembre del 1991. Eltsin divenne presidente, e creò la CSI (Comunità di Stati Indipendenti), che riunì 10 delle 15 repubbliche sovietiche in una blanda unione internazionale.
APPENDICE
IL MONDO E GLI USA NEL TEMPO PRESENTE
Gli USA sono l’unica superpotenza sopravvissuta, e hanno cercato di unificare la leadership del mondo in senso liberaldemocratico o almeno filooccidentale. Ma la molteplicità dei compiti che incombono su di loro rende sempre più difficile tale compito, tanto più che esso esige uno sforzo militare costante e diversificato, assai costoso, e che l’economia americana attraversa fasi alterne di crescita e regresso. Non mancano tendenze isolazioniste, mentre è sempre più forte la concorrenza economica europea, giapponese e persino cinese.
Caratteri fondamentali dei nostri giorni sono: la globalizzazione, come tendenza all’ipercomunicazione e all’interdipendenza e omogeneizzazione delle culture (specie tramite internet), e come formazione di un mercato unico mondiale. Risvolto della medaglia è la globalizzazione e l’interdipendenza dei problemi ecologico e del sottosviluppo. Continuano inoltre le disuguaglianze tra popoli ricchi e poveri – tra i quali vanno ora annoverati anche quelli reduci del comunismo – mentre le sacche di emarginazione nei paesi progrediti sono sempre più ampie – anziani, malati, handicappati, disoccupati, immigrati – anche a causa della proporzione planetaria dei flussi migratori, causati dal sottosviluppo e dalla sovrappopolazione del Terzo Mondo. In opposizione inoltre alla globalizzazione, abbiamo la tendenza a un nazionalismo e a un integralismo nuovi, magari in risposta alla laicizzazione imposta tramite la società dei consumi, che sovverte istituzioni e valori millenari. La sfida di questi ultimi è spesso armata, e ha implicato la mondializzazione delle guerre, sia attraverso le sofisticate tecnologie e strategie USA, che attraverso il terrorismo internazionale.
George Bush, troppo impegnato in politica estera, e dotato di scarsa sensibilità sociale, venne rimpiazzato dal democratico William Clinton (1993-2001), che avviò un programma di riforme sociali in realtà poco riuscito. Di fatto continuò a fare degli USA il poliziotto del mondo, con una scelta a volte davvero inevitabile. Continuò a tener sotto controllo l’Iraq, consolidando la presenza strategica americana in Medio Oriente, non potendo più gli Arabi scegliere di volta in volta tra USA e URSS. Intervenne, assai controvoglia, con la NATO nell’ex-Iugoslavia. Qui, caduto il comunismo, Slovenia e Croazia – nazioni cattoliche e occidentali per cultura - si erano rese indipendenti, suscitando la reazione del governo centrale (1990-1991). Fallito il tentativo di tenere le due repubbliche secessioniste, il governo iugoslavo del presidente Slobodan Milosevic– controllato dai Serbi – si impegnò a sostenere la guerriglia serba in Bosnia – Erzegovina. Resasi indipendente anche questa repubblica, popolata da bosniaci propriamente detti – di religione musulmana – croati e serbi, questi ultimi avevano deciso di separarsi a loro volta tornando alla Iugoslavia. Iniziò una guerra civile in cui ogni etnia cercò di eliminare le altre due nel proprio territorio (pulizia etnica), con un ritorno ad una barbarie razzista che non si vedeva più da 50 anni (1992-1995). Significativa fu la trasformazione dei comunisti in nazionalisti. Particolarmente efferati furono i leader serbo-bosniaci Karadzic e Mladic. Clinton, a suon di minacce e non solo, impose la Pace di Dayton (1995), con cui la Bosnia divenne una confederazione sotto la protezione dell’ONU. Nel 1998 la NATO impose al presidente iugoslavo Milosevic di porre fine alla pulizia etnica in Kosovo, regione della Serbia, a danno degli Albanesi musulmani, che subito dopo si presero le loro vendette, che durano fino ad oggi, mentre il Kosovo è ancora sotto il controllo di fatto dell’ONU. Lo sforzo compiuto da USA e ONU per pacificare la Somalia (1992-1995), precipitata nella lotta tribale dopo la fine della dittatura di Siad Barre, risultò inutile, e ancora oggi il paese è nell’anarchia. Uno sforzo notevole fu profuso da Clinton per la pace in Medio Oriente[9]. Nel 1994 Israele e l’OLP si riconobbero a vicenda. Ma il rifiuto di Arafat di accettare il Piano di pace proposto da Israele nel ’99-2000 e la vittoria della Destra, guidata da Ariel Sharon, alle elezioni in quel paese, riportarono la situazione nel caos.
Eletto nel 2001 proprio per aver sostenuto la necessità del disimpegno americano dalle varie crisi mondiali, il repubblicano George W.Bush jr. si è invece trovato in condizioni da presidente di guerra permanente. Colpita infatti l’America dall’attentato dell’11 settembre 2001 a New York alle Torri Gemelle e a Washington contro il Pentagono, mediante il dirottamento e l’abbattimento di alcuni aerei di linea, sono venuti prepotentemente alla ribalta i terroristi islamici di Al- Qaeda, guidati da Osama Bin Laden, desiderosi di punire gli USA, considerati profanatori del sacro suolo arabo e protettori degli ebrei, nonché corruttori del costume islamico tramite il consumismo. Bush abbattè il regime dei Talebani in Afghanistan (2001), sostenuto da tutto il mondo, perché davano copertura ai terroristi, ma poi, attaccando l’Iraq per abbattere Saddam Husssein, considerato – senza prove – vicino ad Osama Bin Laden, entrò in contrasto con buona parte del mondo, compresi alleati tradizionali come Germania e Francia (Terza Guerra del Golfo, 2003). Bush, con la dottrina della guerra preventiva contro tutti i possibili nemici (Iran, Siria, Corea del Nord), ha posto le basi per una americanizzazione del mondo o almeno per l’indebolimento di tutti i suoi nemici, ma anche di uno stato di lotta permanente, di una recrudescenza del terrorismo e di un contrasto profondo con le altre potenze.
[1] Le sigle significano: United States of America (Stati Uniti d’America), Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. L’URSS era detta anche Unione Sovietica. Gli USA comprendono 50 Stati, l’URSS ne aveva 15.
[2] Come vedremo, anche il blocco comunista aveva le sue divisioni, giocate sul contrasto URSS – Cina. Ma la Cina non ha mai svolto una funzione egemonica sugli altri Stati comunisti. In ogni caso, le caratteristiche socio-economico-politiche erano le stesse in tutti i paesi socialisti. Oggi sopravvivono solo la Cina, il Vietnam, il Laos, la Corea del Nord e Cuba.
[3] Il Terzo Mondo nasce in seguito al processo di decolonizzazione, in seguito alla diffusione dei valori democratici anche in Asia e Africa, per cui le colonie europee richiesero l’indipendenza. In Asia le colonie erano spesso antichi Stati che recuperavano così la loro libertà, ma in Africa prevaleva ancora l’ordinamento etnico-tribale, per cui l’autonomia dei nuovi Stati comportò spesso l’accendersi di guerre, anche civili, per la definizione dei confini o l’egemonia interna. La povertà delle risorse, o il loro sfruttamento da parte delle multinazionali occidentali, unite all’arretratezza delle forme di vita e alla corruzione delle classi dirigenti hanno causato, soprattutto in Africa, le drammatiche condizioni di sottosviluppo che conosciamo e che ancora perdurano, facendo decine di milioni di morti all’anno per fame, sete, malattie e violenze. Hanno inoltre fornito pretesto per la formazione di regimi autoritari, spesso ancora al potere. L’Inghilterra concesse facilmente l’indipendenza alle sue colonie, unendone parecchie in una comunità internazionale socio-politica, il Commonwealth. Solo in India fece resistenza, ma il movimento non-violento di Gandhi ebbe la meglio e l’indipendenza arrivò nel 1947 per l’Unione Indiana (stato a maggioranza indù, la religione tradizionale) e il Pakistan (a maggioranza musulmana). La Francia invece tentò inutilmente di opporsi con le armi all’indipendenza delle colonie. La guerra più importante che sostenne fu quella d’Algeria (1954-1962), senza risultato. Nel T.M. USA e URSS si contesero l’influenza sui vari stati, mentre l’America Latina, anch’essa arretrata, è stata quasi sempre sotto l’influenza americana. In Africa, lo Stato più importante è la Repubblica Sudafricana, in cui rimase in vigore il regime della segregazione razziale dei neri (apartheid) fino al 1992, a vantaggio dei bianchi anglo-olandesi. Alcuni Paesi, guidati dall’India, hanno tentato di fondare un Terzo Blocco dei Non-Allineati, indipendente da USA e URSS, ma con scarsi risultati (Conferenza di Bandung, 1955).
[4] Mao Tse –Tung, capo del Pc cinese, entrò in contrasto armato con Chiang già dal 1930, mirando entrambi ad impadronirsi della Repubblica, proclamata nel 1911. Nel 1934-35 Mao e i suoi fuggirono nella Cina occidentale con la “Lunga Marcia”, estendendo in quella direzione il loro dominio. Alleatisi contro i Giapponesi invasori nel 1937, Mao e Chiang ripresero a combattersi nel 1946. Nel ’49 Chiang fuggì nell’isola di Taiwan, dove fondò la Repubblica della Cina nazionalista, ancora esistente, sotto la protezione americana. Mao, che sarebbe restato al potere fino alla morte, nel ’76, adattò il comunismo alla situazione cinese, dominata da un’agricoltura arretrata. Può essere considerato, con Hitler e Stalin, il terzo grande dittatore del ‘900. Accanto ai lager e ai gulag i laogai, i campi di concentramento cinesi, furono il più grande sistema detentivo del XX secolo, dove perirono fino a 20 milioni di persone. Nel 1950 Mao invase il pacifico Tibet, governato dai sacerdoti lamaisti, avviando un genocidio etnico e culturale che dura tutt’ora. Le scelte di Mao furono pressoché tutte fallimentari: la sua riforma agraria e il tentativo di industrializzare a fondo la Cina (“Grande Balzo”) provocarono dal 1956 al 1961 dai 20 ai 40 milioni di vittime. Inaugurata una linea di maggiore libertà (“I Cento Fiori”, 1956), Mao la liquidò quando vide che metteva in discussione il suo potere, e ruppe con Mosca che aveva rinnegato Stalin – come vedremo. Messo in disparte dai comunisti riformatori, Mao avviò, con l’appoggio dell’esercito guidato da Lin Piao, la Rivoluzione Culturale (1966-1971), in cui le giovani guardie rosse, indottrinate dal Libretto Rosso del fondatore, devastarono ogni struttura tradizionale della Cina, e facendo un milione circa di morti, e altre decine di milioni di vittime psicologiche. Tuttavia i riformatori ripresero ben presto l’iniziativa, e Lin Piao fu ucciso (1971). Alla morte del dittatore (1976) prese il potere Deng Hsiao-Ping, che aprì la Cina all’inziativa privata in campo economico, accettando anche investimenti stranieri. Il comunismo cinese è divenuto così un guscio ideologico vuoto e dispotico, che ha di fatto abbracciato la logica del capitalismo (“Economia socialista di mercato”), ma ha schiacciato le forze democratiche (Strage di Tien An-Men, 1989, di cui diremo dopo). Deng è morto nel 1997.
[5] Nixon è ricordato per aver organizzato un sistema di spionaggio degli oppositori politici, la cui scoperta lo costrinse a dimettersi (Scandalo Watergate). Il suo vice, Gerald Ford, assunse la presidenza fino alla fine del mandato (1977).
[6] Nell’Indocina si erano formati regimi comunisti anche in Laos (1976), oggi in fase di decadenza, e soprattutto in Cambogia (1975-1979), dove si toccò l’apice della degenerazione del marxismo. Pol Pot, leader cambogiano, volle realizzare direttamente la società comunista senza classi, saltando le fasi intermedie previste da Marx, e ruralizzando tutta la popolazione cambogiana, ma anche unificando agricoltura e industria, e abolendo le specializzazioni professionali. Massacrò circa il 30% della popolazione (2-3 milioni di vittime) e si abbandonò ad azioni talmente sconsiderati con i suoi Khmer rossi (Khmer è il nome dell’antico popolo cambogiano), che il Vietnam, comunista anch’esso, invase la Cambogia (1978-1989) e lo scacciò. Oggi la Cambogia si è riavviata lentamente alla democrazia, sotto il regime di Sianhouk, mentre Pol Pot è stato processato e ucciso nella giungla dai suoi ultimi seguaci.
[7] La Prima fu combattuta tra l’Iraq e l’Iran di Khomeini (1980-1988).
[8] Ossia della Repubblica Federativa Sovietica Russa, primo stato dell’URSS, oggi Federazione Russa.
[9] La nascita dello Stato d’Israele nel 1948 per volontà dell’ONU in Palestina, come risarcimento agli Ebrei perseguitati da Hitler, aprì un conflitto che dura ancor oggi. Gli arabi palestinesi, che vivevano nella regione dall’VIII sec., rifiutarono la divisione della loro terra con gli ebrei che, con le armi, li espulsero del tutto (Guerra del 1948-1949), costringendoli a rifugiarsi nei paesi arabi vicini, dove rimasero in enormi campi profughi. Essendo Israele sostenuto dagli USA per l’influenza degli ebrei americani, i paesi arabi, sostenitori dei Palestinesi (Egitto, Giordania, Siria) furono di solito aiutati dall’URSS. Ci furono guerre nel 1956, nel 1967 (Guerra dei Sei Giorni), nel 1973 (Guerra del Kippur). I Palestinesi reagirono con la guerriglia (detta in determinati periodi intifada), coordinata dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina di Yasser Arafat (OLP). Israele raggiunse la pace con l’Egitto nel 1979, ma invase il Libano, dove c’erano le basi palestinesi, avviando un conflitto che poi divenne interno a quel paese e che si concluse con l’instaurazione dell’egemonia siriana su di esso (1982-1991). I primi ministri israeliani Itzak Rabin (1992- 1995) e Ehud Barak (1999-2000) arrivarono ad un passo dagli accordi di pace, ma per un soffio sfumarono ancora. Il problema d’Israele si intreccia con quello del nazionalismo arabo. Gli arabi sono divisi in moltissimi stati (Marocco, Algeria, Tunisia, Libia, Egitto, Giordania, Siria, Libano Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, Oman, Yemen), spesso in lotta tra loro, ma animati dalla speranza dell’unione. Recuperata l’indipendenza politica negli anni ’60 dopo secoli di dominio straniero (turchi, inglesi, francesi), gli Arabi hanno cercato il progresso e il riscatto attraverso il partito Baath, presente in molti Stati, che ha avviato una modernizzazione forzata e una parziale laicizzazione, ma a prezzo dell’instaurazione di regimi autoritari (Gheddafi in Libia, Nasser, Sadat e Mubarak in Egitto, Assad senior e jr. in Siria, Hussein in Iraq). Hanno cercato l’aiuto sovietico, dandosi un programma socialisteggiante, ma ora sono spesso in contrasto con gli USA, interessati alle forniture petrolifere ma anche al fatto che esse non arricchiscano troppo dei potenziali nemici. Tutto questo spesso si riveste di rivendicazioni religiose, com’è normale per la cultura araba, e si mescola ad altre tensioni, come il terrorismo integralista, che mira a creare una società religiosa nei paesi arabi – e quindi combatte il Baath – e ad abbattere Israele o anche l’America.
Theorèin - Maggio 2004