L'Italia nel secondo dopoguerra
Appunti per una cronologia ragionata
L’Italia, dopo l’instaurazione della Repubblica (1946) e dopo le prime elezioni politiche
[1] (1948), entra in una fase storica nuova, convenzionalmente denominata “Prima Repubblica”, e resa omogenea dalla costante presenza al potere della Democrazia Cristiana, trasformatasi in Partito Popolare Italiano nel 1994 e poi sconfitta alle elezioni dello stesso anno. La DC divenne un partito di massa per due ragioni: anzitutto perché la Chiesa, spaventata dalle persecuzioni religiose dei comunisti e dal rischio dell’isolamento del Vaticano dal resto del mondo, vietò ai fedeli sia di votare per il PCI che di dividersi su più partiti (dottrina dell’”Unità politica dei cattolici”); poi perché la DC, a differenza del PCI o del PSI, che volevano rappresentare solo i ceti più bassi, cercava i voti di tutti i ceti sociali, per un programma riformatore ma non rivoluzionario, così da creare un partito interclassista. Molti gruppi sociali – come le Forze Armate o la Confindustria – si legarono alla DC più per convenienza che per convinzione, ma non l’abbandonarono lo stesso. Il programma della DC era quello della Dottrina Sociale della Chiesa, ma non mancarono divisioni che la resero assai litigiosa al suo interno, anche se non produssero nuovi partiti per gli interessi, legittimi e illegittimi, che tutti i democristiani avevano di rimanere insieme.
A causa dei forti contrasti ideologici esistenti tra i vari partiti italiani, prevalse subito l’idea che ognuno di essi rappresentasse un pezzo di società a sé, e che tutti questi pezzi andassero tutelati insieme, in nome dell’equilibrio politico: la degenerazione di quest’idea produsse la partitocrazia o governo dei partiti, che ebbero più importanza delle istituzioni stesse, specie a partire dagli anni ’60, e produsse il fenomeno del clientelismo (distribuzione di favori in cambio del voto) e della lottizzazione (la spartizione delle cariche pubbliche in base all’appartenenza ai vari schieramenti politici), con grande corruzione.
Possiamo dividere il periodo 1949-1994 in alcune fasi:
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Il Centrismo (1948-1962), in cui la DC governa con i suoi alleati di centro (ossia né di sinistra né di destra): il PLI, il PRI, il PSDI;
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Il Centrosinistra (1962-1976), in cui la DC si allea anche al PSI;
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Il Compromesso Storico (1976-1979), in cui la DC collabora col PCI;
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Il Pentapartito (1979-1994), in cui DC, PSI, PLI, PRI, PSDI ripropongono un’alleanza nuova e stabile, fino allo scandalo di Tangentopoli.
La prima fase, del Centrismo (1948-1962), ha come protagonista indiscusso Alcide De Gasperi (1881-1954) fino al 1953; poi inizia la direzione collegiale della DC e un lento trapasso verso il Centrosinistra. De Gasperi era presidente del Consiglio dei Ministri dal 1945. Fino al 1953 presiedette otto Governi. Fu uomo onesto e capace, e collaborò lealmente col presidente della Repubblica Luigi Einaudi (1948-1955), ispiratore della politica economica che segnò la ripresa dell’Italia dopo la guerra. De Gasperi, nonostante la fortissima opposizione del PCI stalinista di Palmiro Togliatti (1893-1964), portò l’Italia nella NATO (1949) e iniziò una politica europeista nel 1951, che nessuno dei suoi successori abbandonò
[2]. Aderì al Piano Marshall, e rilanciò l’economia combattendo l’inflazione e incentivando la produzione agricola e industriale. L’Italia entrò nel suo Miracolo economico, che tra gli anni ’50 e ’60, non senza sacrifici per molti, la fece diventare la quinta potenza industriale del mondo. I governi De Gasperi promossero una riforma agraria – solo parzialmente riuscita ma importante – per creare una media proprietà agricola a danno dei latifondi, una riforma tributaria, per rendere più giuste le tasse, e inaugurarono la Cassa del Mezzogiorno, per finanziare lo sviluppo della parte più debole d’Italia. De Gasperi combattè l’insurrezionalismo comunista tramite il severo ministro degli Interni Scelba, ma resistette a chi voleva che la DC si alleasse al MSI, ossia al partito neofascista nato dopo la guerra. Rispettò le libertà sindacali e vide i sindacalisti cattolici separarsi dalla CGIL per fondare la CISL; poco dopo anche socialdemocratici e repubblicani fondarono la UIL. Resosi conto che la legge elettorale proporzionale non dava stabilità ai governi, De Gasperi, alle elezioni del 1953, si presentò con una legge che dava un premio di maggioranza ai partiti che raggiungessero il 51% dei voti (ossia un numero in più di parlamentari). Ma la DC con i suoi alleati rimasero di poco sotto questa percentuale. De Gasperi, risultato così sconfitto, fu messo da parte dal suo stesso partito, in cui ormai convivevano più anime (le correnti), alcune delle quali miravano ad allargare la maggioranza alleandosi col PSI. De Gasperi morì nel 1954. Segretario del partito divenne Amintore Fanfani, che mirava al Centrosinistra. Il PSI di Pietro Nenni nel 1957 ruppe l’alleanza con il PCI, in grave difficoltà per il “Rapporto Kruscev” sui crimini di Stalin. Ma finchè fu vivo papa Pio XII (1939-1958), nemico irriducibile dei rossi, nessuno osò proporre l’alleanza Dc-PSI. Solo quando fu eletto papa Giovanni XXIII
(1958-1963) [3], meno dominato dal terrore del comunismo e assertore della coesistenza pacifica internazionale, Fanfani e Aldo Moro (1916-1978), altro esponente della sinistra della DC, dichiararono la loro intenzione di allearsi col PSI, i cui voti, alle elezioni del 1958, erano aumentati. Il successore di Giovanni XXIII, Paolo VI (1963-1978) sarebbe stato altrettanto comprensivo. Favorevole al progetto era anche il nuovo presidente della Repubblica Giovanni Gronchi (1955-1962). Nel 1960 tuttavia Ferdinando Tambroni guidò un governo sostenuto in parte dal MSI, che fu duramente contestato nelle piazze dalle sinistre e dovette dimettersi.
La seconda fase, quella del Centrosinistra (1962-1976), ha come protagonista Amintore Fanfani (1908-1999). Egli presiedette in questo periodo tre governi (in tutta la sua vita sei), ma la Dc non era più unita come ai tempi di De Gasperi, e Fanfani ebbe molti nemici interni, legati all’idea del centrismo. Il Miracolo economico aveva avuto parecchie conseguenze: era cresciuto il processo migratorio interno, perché i contadini meridionali si spostarono in massa a nord per lavorare nelle fabbriche; si erano di conseguenza ingrandite le città; si erano diffusi nuovi consumi (come TV e automobile); era cresciuto il fenomeno della speculazione edilizia, mediante la costruzione ovunque di nuovi edifici; si era ulteriormente acuito lo squilibrio tra Nord e Sud, anche per la crisi dell’agricoltura. Mancavano servizi efficienti (scuola, sanità, previdenza sociale), e l’evasione fiscale era assai diffusa, mentre i salari rimanevano bassi. Il Centrosinistra nasce quindi come uno sforzo riformatore, che vuol fare incontrare il riformismo cattolico e quello socialista, nel rispetto della democrazia parlamentare: ossia voleva far si che i socialisti non fossero più una potenziale minaccia sovversiva, e si sganciassero dal PCI, e all’occorrenza ne prendessero i voti. Il Centrosinistra intervenne inoltre in modo energico nella vita economica, fondando numerose imprese di Stato, e creando il cosiddetto sistema economico misto, composto in parte da aziende private, in parte da aziende pubbliche. Nel 1962 nacque, su queste premesse ideologiche, un Governo Fanfani che si reggeva sull’astensione del PSI (cioè esso, non votando, permetteva al governo di avere una maggioranza di voti a favore): esso nazionalizzò l’energia elettrica, fondando l’ENEL, e istituì la Scuola media, ma non riuscì a fare di più. Quando si andò a votare, nel 1963, si vide che né Dc né PSI avevano avuto più voti: segno che il Centrosinistra non era piaciuto. Tuttavia la Dc continuò a governare col PSI. Aldo Moro presiedette tre governi (1963-1968) nella cui maggioranza c’era il PSI, ma la politica di riforma (programmazione economica, riforma sanitaria, istituzione delle regioni) fu largamente insufficiente. Cominciarono inoltre polemiche velenose, in cui le parti in lotta all’interno dei partiti si accusavano reciprocamente di essere pericolose per la democrazia. Lo stesso presidente della Repubblica Antonio Segni (1962-1964) fu accusato, quasi certamente a torto, di aver favorito un presunto progetto di colpo di Stato dei Servizi segreti militari, guidati dal generale De Lorenzo (Piano Solo, 1964) e, in seguito ad un ictus, sostituito da Giuseppe Saragat (1964-1971). E tuttavia, alle elezioni del 1968, aumentarono i voti della Dc e del PCI, ma non del PSI. Mariano Rumor (1915-1990), dal 1968 al 1970, presiedette degli stanchi governi Dc-PSI, ma in realtà, la situazione si era deteriorata irreversibilmente: era iniziata la crisi economica a causa della diminuzione della produzione; i lavoratori chiedevano garanzie contro la disoccupazione e la povertà; la politica riformatrice era fallita; arrivavano in Italia i movimenti di protesta studenteschi del ’68
europeo [4]; i molti gruppi operai e studenteschi di sinistra, delusi dal PCI sempre meno rivoluzionario, si erano avvicinati al comunismo di Mao Tse-Tung, Fidel Castro e Che Guevara (sinistra extraparlamentare) e cominciavano a preparare la Rivoluzione armata. Stava cioè per iniziare il ’68 italiano, con l’occupazione delle università, con scioperi a catena e svariate violenze e tumulti di piazza (autunno caldo del 1968). Questa situazione di grande confusione durò alcuni anni, e degenerò ben presto nel Terrorismo degli Anni di Piombo. Nel corso di essi, gruppi di destra e di sinistra si fronteggiarono nel folle sogno di impadronirsi del paese, creando in esso, con la violenza, condizioni di malumore, sfiducia e paura che sfociassero in rivolte, rivoluzioni e colpi di stato. I gruppi di destra compirono azioni più eclatanti, ma circoscritte, volte a seminare il
panico [5], generalmente con ordigni esplosivi. I gruppi di sinistra, più numerosi, più radicati, miravano alla guerriglia urbana e alla rivoluzione, e volevano eliminare tutti coloro che garantivano quello che loro chiamavano l’ordine borghese, ossia il funzionamento dello Stato, identificando in modo pretestuoso la legalità con la sopraffazione di classe e la democrazia occidentale col fascismo. Furono perciò rapiti, uccisi o feriti magistrati, giornalisti, poliziotti, professori universitari, politici. Tra i numerosi gruppi del cosiddetto “partito armato” il più importante fu quello delle Brigate Rosse. Queste formazioni paramilitari ebbero pochissimi contatti col PCI, ma agganci solidi col terrorismo internazionale, compreso quello rosso finanziato dai Paesi comunisti.
La terza fase, del Compromesso Storico (1976-1979) è la più breve ma anche la più intensa della nostra storia repubblicana, punto di snodo della politica, fitto di misteri e intrighi. In essa, Aldo Moro, segretario della Dc, dominato dal terrore della rivoluzione comunista e constatato il fallimento del Centrosinistra, tenta di portare il PCI al governo, per ridurne al minimo la forza eversiva e per isolare i gruppi dei contestatori e dei terroristi. I grandi problemi dell’Italia in effetti esigevano l’accordo di tutte le forze politiche, e il fatto che il PCI ricevesse sempre più voti (34, 4 % nel 1976), quasi raggiungendo la Dc (38,7%), mentre il PSI scendeva sempre più, faceva capire che gli scontenti votavano sempre più per i comunisti. Sembrava indispensabile un accordo con loro. La Dc e la Chiesa sembravano aver perso il primato sulla società italiana (come dimostrava il referendum che aveva confermato il divorzio nel 1970), e appariva opportuno un accordo col principale nemico. Moro si fece interprete di questa strategia, ma fu duramente avversato. Trovò favorevole il segretario del PCI Enrico Berlinguer (1922-1984), favorevole ad un’evoluzione più democratica del sistema marxista (il cosiddetto Eurocomunismo, comune anche a Francia e Spagna). Tuttavia Moro e Berlinguer avevano molti nemici nei loro partiti, sembrando strano che i rivali di sempre dovessero mettersi d’accordo. Moro propose a Berlinguer un percorso a tappe: prima l’astensione per far nascere un governo monocolore (formula della “non sfiducia”), poi la partecipazione alla maggioranza e al governo (formula della “solidarietà nazionale”). Per garantire poi a tutti che l’operazione sarebbe stata condotta in modo prudente, chiamò a presiedere i governi Dc-PCI l’uomo politico più rappresentativo della destra del partito, assai legato al Vaticano, Giulio Andreotti (1919-vivente), che divenne presidente del Consiglio dal 1976 al 1979. Paolo VI, amico personale di Moro, aveva per i suoi progetti una sofferta e inquieta comprensione. A questo esperimento azzardato, che avrebbe creato in parlamento e nel paese una maggioranza quasi dell’80%, riducendo al minimo le opposizioni, guardavano con grande sospetto USA e URSS, entrambe preoccupate per gli equilibri internazionali. Il giorno in cui il PCI avrebbe dovuto entrare nella maggioranza di governo, Aldo Moro fu rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse, con un gesto che segnò l’apogeo del terrorismo in Italia. Le Br miravano a bloccare il processo d’integrazione del PCI nella maggioranza, mirando alla rivoluzione armata, e perciò colpirono la mente di tutto il progetto politico, appunto Moro. Volevano inoltre che lo Stato intavolasse trattative con loro, riconoscendole ufficialmente. Ma né Andreotti, né Berlinguer vollero accettare. Dopo 55 giorni di estenuanti trattative, le Br, quando forse qualche spiraglio stava per aprirsi, uccisero Moro (9 maggio), che invano aveva tentato, con drammatiche lettere, di negoziare la propria salvezza. Molti misteri sono legati al sequestro Moro, perché molti trovarono provvidenziale la sua scomparsa dalla scena politica, ma non si può dubitare della natura terroristica del gesto, come fanno alcuni. Morto Moro, l’accordo tra Dc e PCI saltò presto. L’ultimo atto importante del Compromesso Storico fu la discussa e discutibile legalizzazione dell’aborto (1978), confermata da un referendum popolare (1981). Berlinguer capì nel frattempo che i suoi elettori non condividevano la sua politica e, votando contro l’adesione dell’Italia allo SME (sistema monetario europeo), provocò la crisi di governo. Andreotti dovette tornare a una coalizione di Centrosinistra (1979).
Nella quarta fase, del Pentapartito (1979-1993), l’Italia vive il culmine e la decadenza del sistema dei partiti. Pur tra mille difficoltà, il terrorismo fu sgominato. La crisi economica fu superata, e gli spettri della disoccupazione e della fame si allontanarono. Le suggestioni del ’68 si stemperarono in una rivoluzione essenzialmente legata ai costumi sessuali e alla vita quotidiana. La crescita economica, la crisi sempre più evidente del comunismo mondiale e la diffusione della cultura consumistica legata alla televisione, specie quella privata, fecero sì che i giovani si allontanassero dai miti della rivoluzione. Il PCI, con l’improvvisa morte di Berlinguer (1984), entrò in una crisi profonda, che lo portò poi alla distruzione. Il nuovo spirito politico-sociale s’incarnò nella rinascita del PSI che, sotto la segreteria di Bettino Craxi (1934-2000), rinnegò il marxismo e divenne fautore di un riformismo laico e interclassista. La Dc entrò invece in una crisi profonda: i nostalgici della linea politica di Moro si scontrarono duramente con coloro che volevano tornare al Centrosinistra. Numerosi scandali finanziari, con risvolti di politica internazionale, e altri legati al sistema delle tangenti macchiarono illustri politici, soprattutto – ma non solo –
democristiani [6]. Il presidente della Repubblica Giovanni Leone (1971-1978), ingiustamente coinvolto nello Scandalo
Lockheed [7], fu costretto a dimettersi e sostituito dall’ex-partigiano socialista Sandro Pertini (1978-1985), che guadagnò, con il suo comportamento umano e socievole, grande popolarità, ma che prese importanti iniziative politiche. Infatti, dopo che si riuscì a riorganizzare una maggioranza a cinque o Pentapartito nel governo Forlani (DC.PSI.PLI.PRI.PSDI), dinanzi alla profonda crisi della Dc, Pertini incaricò di presiedere il governo il segretario del PRI, lo storico Giovanni Spadolini (1925-1994), che rimase in carica dal 1981 al 1982, e avviò una politica di contenimento dell’inflazione e di più stretta collaborazione con la NATO e con l’ONU (missione di pace in Libano, 1982). Alle elezioni del 1983, la Dc perse voti e crebbero PRI e PSI, per cui, dopo un breve governo di transizione presieduto da Fanfani, Pertini nominò Craxi capo del governo (1983-1987). Questi favorì la ripresa economica, grazie anche alla fine della Crisi petrolifera e produttiva mondiale; combattè l’inflazione bloccando gli aumenti di stipendio; inaugurò – col ministro degli Esteri Andreotti – una politica estera favorevole ai Palestinesi, anche in contrasto con gli USA; firmò un nuovo Concordato con papa Giovanni Paolo II (1984), adattando i rapporti Stato-Chiesa alle mutate condizioni socio-culturali dell’Italia. L’energia di Craxi, che aveva un controllo assoluto del suo partito, fece parlare di decisionismo craxiano. Egli sperava di egemonizzare la sinistra e, un giorno, di governare col PCI senza la Dc. Ciò suscitò contrasti con il segretario della Dc Ciriaco de Mita, che sarebbe volentieri tornato alla collaborazione col PCI, ma era condizionato dai suoi compagni di partito. Nelle elezioni del 1987 il PSI crebbe moltissimo, la Dc un poco e il PCI ebbe forti perdite: segno che i voti comunisti andavano verso Craxi. Dopo un intermezzo di pochi mesi (governo Goria), De Mita rivendicò per la Dc la guida del nuovo governo, ossia per se stesso (1988-1989). Egli sperava di avere così un controllo più forte del suo partito e di impegnarsi a fondo per le riforme di cui il paese aveva bisogno. Ma un ampio sommovimento si andava preparando: De Mita aveva troppo potere e questo indispettiva i suoi alleati di partito e d governo. Dapprima fu sostituito alla segreteria da Arnaldo Forlani (1989-1992), eletto con i voti determinanti della corrente di Giulio Andreotti. Poi fu costretto a dimettersi e a lasciare il posto allo stesso Andreotti, sostenuto da Craxi e Forlani. Andreotti governò dal 1989 al 1992. Era iniziata la fase del CAF (Craxi-Andreotti-Forlani), che era nello stesso tempo una maggioranza nella Dc – che allontanava la sinistra interna dalla segreteria – e nel Parlamento. Craxi sarebbe tornato a presiedere il governo quando Andreotti fosse diventato presidente della Repubblica. Andreotti varò un nuovo codice penale, dettò regole per l’accoglienza degli immigrati e avviò una intensa lotta alla criminalità organizzata, dopo anni di inerzia.
La crisi internazionale del comunismo sembrava dare ragione alla nuova linea politica. Dopo il crollo dei regimi dell’Est, con una scelta sofferta, il segretario del PCI Achille Occhetto sciolse il partito e lo trasformò in PDS (Partito Democratico della Sinistra), non più comunista ma socialista (1989). Una parte del partito non accettò la svolta, e creò il Partito della Rifondazione Comunista.
Ma la fine del pericolo comunista fece sì che moltissima gente non si sentisse più legata esclusivamente alla Dc e ai suoi alleati. Lo stesso presidente della Repubblica Francesco Cossiga (1985-1992) iniziò ad esprimere pareri assai critici verso il sistema politico, auspicando delle profonde riforme. A nord crebbe incredibilmente la Lega, guidata da Umberto Bossi, che in modo rozzo esprimeva il malumore contro gli sprechi del denaro pubblico, specie per la politica degli aiuti al Mezzogiorno. Il leghismo divenne così un movimento antimeridionalista e razzista, che cominciò addirittura a parlare di secessione del Nord dall’Italia. La voglia di nuovo si espresse col referendum del 1991, in cui fu introdotta la preferenza unica nelle elezioni (ossia si poteva votare per un solo candidato, e non per quattro, come prima). Alle elezioni del 1992 la Dc subì una dura batosta, il PSI rimase fermo e il PDS perse molti voti rispetto al vecchio PCI. Si affermarono i partiti di protesta, come la Lega. Il CAF era morto. Andreotti non potè andare al Quirinale, e fu eletto presidente Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999), uomo politico di grande moralità, come risposta al dilagare della violenza della mafia, bramosa di vendetta contro le misure repressive decise dallo Stato, e che era riuscita ad assassinare due importanti magistrati, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992). Scalfaro designò capo del governo il socialista Giuliano Amato (1992-1993), che prese seri provvedimenti per risanare la disastrosa situazione del debito pubblico – cresciuto continuamente da decenni – e ratificò l’ingresso dell’Italia nel trattato di Maastricht (1992). Ma lo scoppio di Tangentopoli (1992 e seguenti) provocò il collasso della politica. Non più condizionati dalle conseguenze degli scandali, che in passato avrebbero potuto favorire forze non democratiche come il PCI, i magistrati poterono indagare più liberamente sugli intrecci tra politica e affari. Non vi era nessun affare pubblico importante in cui gli imprenditori non dessero una “mazzetta” ai partiti, che ne avevano bisogno per mantenersi, anche se la legge lo vietava, lasciando allo Stato il compito di finanziare i partiti presenti in Parlamento. Spesso queste tangenti servivano ad arricchimenti personali. Le indagini iniziarono a Milano, col famoso Pool, il cui maggiore esponente fu Antonio Di Pietro. Da inchieste locali si salì subito in alto, e l’iniziativa fu ripresa dalle procure di tutta Italia. La gente, da anni distaccata dalla classe politica, seguì come in un circo la caduta dei potenti, considerati colpevoli per il semplice fatto che si indagasse su di loro. Tutto il pentapartito fu travolto: Forlani abbandonò la politica, Craxi fuggì all’estero per non andare in carcere. Molte volte i politici risultarono innocenti in sede di processo. Ma il malcostume era esistito veramente, e attraverso i magistrati avvenne una specie di rivoluzione. Il PSI, il PLI, il PSDI scomparvero. Il PRI si ridusse ai minimi termini. La Dc ricevette un colpo mortale dall’inchiesta per mafia su Andreotti in persona (1993), l’uomo simbolo del potere del partito, già delfino di De Gasperi, protagonista di tutte le stagioni della politica. Andreotti sarebbe stato assolto dieci anni dopo, ma l’immagine del partito fu colpita irrimediabilmente. Molti videro in questo processo un atto politico. In genere, ancora si discute se il PDS sia uscito quasi indenne da Tangentopoli perché meno corrotto o perché molti magistrati erano politicizzati. La Dc si sciolse e si trasformò in Partito Popolare Italiano. Amato si dimise e Scalfaro, vero padrone della politica perché protetto dall’importanza della sua carica e perché i partiti non contavano più nulla, lo sostituì col governatore della Banca d’Italia Carlo Azelio Ciampi, dal 1992 al 1993, perché continuasse il risanamento e portasse il paese alle elezioni, resesi indispensabili, dopo soli due anni, per le profonde trasformazioni del sistema. Si sarebbe andati a votare con la legge maggioritaria a turno unico e non più con la proporzionale; solo il 25% dei seggi parlamentari sarebbe stata assegnata col vecchio sistema: in pratica avrebbe vinto il partito o la coalizione di partiti che avesse preso più voti.
APPENDICE L’ ITALIA DELLA SECONDA REPUBBLICA
La dizione “Seconda Repubblica” è impropria, perché sono cambiati i partiti ma non le istituzioni. Comunque la si può usare in modo convenzionale. Le inchieste avevano decimato e distrutto i vecchi partiti, ed era sopravvissuto solo il PDS, attorno al quale i miseri resti degli altri movimenti politici si erano radunati per una grossa coalizione che era destinata a vincere anche perché non aveva concorrenti. I rivali (il PPI, la Lega, il MSI ) andavano in ordine sparso, e non potevano vincere perché la nuova legge premiava chi prendeva più voti e basta. Ma un evento nuovo creò una novità: l’imprenditore milanese Silvio Berlusconi (1936-vivente), preoccupato dalla ostilità manifestata dal PDS verso il suo gruppo economico (Mediaset), anche per la sopravvivenza di vecchi rancori contro Craxi, di cui lui era stato amico, decise di costituire un partito moderato che occupasse lo spazio elettorale lasciato vuoto dal Pentapartito, chiamato Forza Italia (1994). Contribuì alla scelta anche una sincera passione politica e una personalità avventurosa e
bonapartista. La sua discesa in campo è sicuramente l’evento cruciale degli ultimi dieci anni. Le sinistre hanno visto in lui il simbolo del capitalismo borghese che vuole impadronirsi dello Stato, anche per via del suo programma liberista in economia, e lo hanno odiato con passione. I vecchi nemici di Craxi hanno rovesciato su di lui il loro rancore, ragion per cui mezza DC si è alleata con le sinistre. A rovescio, tutti i nemici delle sinistre e i fautori di una riforma liberale si sono riuniti sotto le sue bandiere, per cui la politica è tornata ad un tasso di litigiosità che non si vedeva da anni. La grande concentrazione di potere economico e informativo nelle sue mani è ancora oggetto di dibattito, e costituisce un argomento scottante (conflitto d’interessi), che nessuno ha voluto e saputo risolvere, anche perché Berlusconi ha concesso importanti posizioni di potere a uomini di sinistra nelle sue aziende, e perché un referendum ha confermato la legge per cui un privato può avere tre reti (su sei). I suoi procedimenti giudiziari sono contraddittori, in quanto sia le opposizioni se ne servono contro di lui, sia lui se ne serve per presentarsi come perseguitato, per cui essi hanno ormai una valenza politica, indipendentemente dalla sua colpevolezza o innocenza. Ma la sua presenza non ha risolto i problemi politici: la legge elettorale, costringendo i partiti ad allearsi, non li obbliga a darsi un programma comune né a rimanere alleati nel corso della legislatura, per cui essi si sono moltiplicati, si ricattano gli uni con gli altri e hanno fatto rientrare in uso il trasformismo.
Berlusconi riuscì ad allearsi con una parte della vecchia DC, il Centro Cristiano Democratico di PierFerdinando Casini (CCD); a Nord concluse un accordo con la Lega (Polo della Libertà), e al Centro-Sud con Alleanza Nazionale (Polo del Buongoverno), il nuovo partito formato dal MSI e dal suo segretario Gianfranco Fini, per dare una casa a tutti coloro che, pur essendo di destra, non erano fascisti. Infatti la Lega e AN non volevano allearsi tra
loro Sulla scia della novità assoluta e del suo indiscutibile carisma di self-made man, oltre che grazie all’ottusa ostilità denigratrice dei suoi nemici, Berlusconi vinse le elezioni del 1994, ma di poco. Infatti al Senato non aveva la maggioranza. Inoltre la Lega e AN erano in fortissimo contrasto. Il timore della Lega di essere assorbita da un governo che andasse bene e che quindi facesse crescere a Nord Forza Italia spinse Bossi a provocare la crisi, in un contesto politico assai difficile. Il governo era durato pochi mesi. Il presidente Scalfaro respinse la richiesta di Berlusconi di tornare al voto, sia perché erano trascorsi solo pochi mesi dalle elezioni, sia perché la maggioranza del Parlamento (sinistre più Lega e PPI) erano contrarie e disponibili ad un nuovo governo. Scalfaro nutriva in verità una certa diffidenza verso l’uomo nuovo della politica, poco diplomatico e con qualche macchia, ma il suo comportamento fu istituzionalmente corretto. Nel vuoto di potere che si era creato, con le opposizioni che non volevano il voto per non far trionfare il Cavaliere e con questi privo di maggioranza, Scalfaro potè imporre un governo di tregua, tecnico – ossia formato di esperti ma non di politici – e designò a guidarlo l’ex-ministro del Tesoro di Berlusconi, già direttore della Banca d’Italia Lamberto Dini, che governò dal 1994 al 1996. Forza Italia e AN decisero tuttavia di votare contro il governo, che invece fu sostenuto dal PPI di Rocco Buttiglione, dal PDS di Massimo D’Alema e dalla Lega. Tutti miravano a guadagnare tempo in vista delle future elezioni. Dini aveva il compito di varare una riforma pensionistica – già iniziata da Berlusconi, contestata dai Sindacati ma indispensabile per i conti pubblici – di regolamentare per tutti l’uso dei mezzi di comunicazione di massa per la campagna elettorale (legge sulla
par condicio, volta ad arginare la superiorità, vera o presunta, di Berlusconi e di Mediaset) e di fare la legge finanziaria (ossia raccogliere i fondi per le attività dello Stato per l’anno successivo, cosa che si fa alla fine di ogni anno). Con questo programma restò in carica fino al 1996, quando i partiti furono concordi nel chiedere le elezioni. Nel frattempo il PPI si era spaccato in due: i nostalgici della linea del Centrosinistra e del Compromesso Storico (i Popolari) si erano schierati con il PDS nella coalizione di sinistra denominata “Ulivo” e guidata dall’ex-democristiano Romano Prodi (figura necessaria per prendere i voti dei centristi, già esperto imprenditore di Stato), mentre i nemici delle sinistre si erano uniti a Berlusconi e a AN (Cristiani Democratici Uniti di Bottiglione, CDU). La Lega correva da sola, per non perdere la sua identità, sempre più sovversiva, favorendo la sconfitta di Berlusconi e del suo Polo delle Libertà. L’Ulivo concludeva un patto con la Rifondazione Comunista, per aiutarsi contro le destre, senza però allearsi. Prodi vinse le elezioni (1996), ma al Senato aveva bisogno dei voti di Rifondazione. Le ali estreme dello schieramento politico (Lega e Rifondazione) condizionavano gli altri partiti con le loro scelte. Prodi presiedette un governo fino al 1998, ottenendo il grande risultato dell’ingresso dell’Italia nella moneta unica europea, ma venendo alla fine a cadere per l’abbandono di RC, ostile a questa politica monetaria “capitalista”. Si formò una nuova maggioranza: l’Ulivo più una frazione ribelle di Rifondazione, i Comunisti Italiani, e un partito centrista, l’Unione Democratica per la Repubblica (UDR), formata da Francesco Cossiga con parlamentari del Polo per fare concorrenza a Forza Italia. Essa sostenne il governo di Massimo D’Alema (1998-1999). Egli mirava a creare un grande partito socialdemocratico al posto dell’Ulivo, e trasformò il PDS in Democratici di Sinistra, ma con scarsi risultati. Provò anche ad accordarsi con Berlusconi per le riforme istituzionali, ma senza successo. Sostenne l’intervento italiano nel Kosovo con la NATO, nonostante l’opposizione delle stesse sinistre. Ma l’opposizione interna ai DS, guidata da Walter Veltroni, divenuto segretario del partito e favorevole all’Ulivo e a un partito di sinistra non socialista, all’americana, costrinse D’Alema a rompere con Cossiga e a formare un nuovo governo (1999-2000), che cadde poi per le lotte interne alla maggioranza. Fu sostituito da Giuliano Amato (2000-2001). Nel frattempo si costituì la Margherita, una federazione di partiti di centro attorno ai Popolari alleata dei DS nell’Ulivo, per ottenere i voti moderati alle elezioni ormai imminenti. Ma alle elezioni del 2001, secondo le previsioni, la Casa delle Libertà, ossia il vecchio Polo più la Lega, stravinsero. Il nuovo presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006) incaricò Silvio Berlusconi di formare il suo secondo governo, attualmente in carica, che sta conducendo una politica liberista, mirante alla riduzione delle tasse, e che ha schierato l’Italia con gli USA nelle guerre d’Afghanistan e Iraq. Il governo è spesso contestato per alcune leggi che, a torto o a ragione, sono considerate su misura per Berlusconi. Inoltre AN e l’Unione di Centro (UDC, nato dalla somma del CCD e del CDU), sono sempre più insofferenti nei confronti della Lega e del potente e discusso ministro dell’Economia Giulio Tremonti. E’ di queste settimane l’approvazione di una discussa riforma federale dello Stato, voluta fortemente dalla Lega. Nel frattempo, alla guida dell’Ulivo è tornato Romano Prodi, sostenuto dal nuovo segretario dei DS Piero
Fassino.
[1] Si chiamano politiche le elezioni che rinnovano il Parlamento (Camera dei Deputati e Senato) ogni quattro anni; sono amministrative quelle per il rinnovo delle assemblee degli Enti locali (regioni, province, comuni, circoscrizioni); sono europee quelle per il Parlamento dell’Unione europea.
[2] L’integrazione europea, ossia quel movimento che spinse gli Stati europei, dopo secoli di guerre, ad avviare un processo di unificazione, prima economica e poi politica, è iniziato nel 1951 e prosegue tutt’ora. Nel 1957, a Roma, nasce il Mercato Comune Europeo (MEC), o Comunità Economica Europea (CEE), formata da Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo, Olanda e Belgio. Nel 1975 entrò l’Inghilterra. Nel 1979 si gettarono le basi della moneta unica con il Sistema Monetario Europeo (SME), e si è votato per il primo Parlamento europeo, con sede a Strasburgo. Entrarono poi Grecia, Irlanda, Danimarca, Spagna e Portogallo. Nel 1992 fu firmato il Trattato di Maastricht, per la moneta unica e non solo, e cominciarono a mostrarsi i cosiddetti
euroscettici, ossia ostili alla perdita di sovranità per gli Stati a vantaggio della Cee, denominata adesso Unione Europea (UE), in vista di una unione federale.Nel 1993 si creò il mercato unico, per la libera circolazione delle merci (Atto unico europeo). Con la caduta del comunismo, si sono aperte possibilità nuove di espansione dell’UE: vi sono entrati paesi già neutrali (Austria, Svezia, Finlandia), e il 1 maggio 2004 entreranno Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Estonia, Lettonia,
Lituania, Malta, Cipro. In lista di attesa sono Bulgaria, Romania, Turchia. Dal 2002 in quasi tutti gli Stati dell’Unione è in vigore la moneta comune, l’euro. Tuttavia manca una vera cooperazione, sia a livello militare (c’è bisogno sempre di ricorrere alla NATO, anche per i conflitti
balcanici) che per le scelte estere (Italia, Spagna e Inghilterra sono filoamericane; Francia e Germania di meno). C’è inoltre la tendenza franco-tedesca all’egemonia. Entro maggio 2004 dovrebbe essere promulgata la Costituzione europea, per dare valori comuni ai vari Stati, preparata dalla Convenzione riunita dal 2002. Attuale presidente della Commissione europea, ossia del governo dell’UE, è Romano Prodi.
[3] Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, di Sotto il Monte [Bergamo]), con la sua comunicativa, diede al Papato una grande popolarità. Fu lui a concepire un aggiornamento pastorale e operativo della Chiesa, in relazione al mondo che andava cambiando, e favorendo la cooperazione tra i popoli, la pace e lo sviluppo sociale dei paesi poveri. Egli fu incoraggiato dalla distensione tra Kennedy e
Kruscev. Per realizzare il suo programma convocò il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965), ma morì poco dopo. Il suo successore, Paolo VI (Giovanni Battista Montini, di Concesio [Brescia], 1963-1978), proseguì l’assemblea, avviò un profondo processo di riforma della Chiesa, applicò le decisioni conciliari. Difese i diritti umani, si battè per la pace e la giustizia sociale nelle nazioni e nel mondo, avviò una politica di convivenza con i regimi comunisti per rendere meno pesanti le condizioni di vita dei cristiani in quei paesi, iniziò a viaggiare all’estero per evangelizzare, tradusse la liturgia nelle lingue parlate abbandonando il latino, condannò l’uso della contraccezione artificiale, promosse il processo di riunificazione delle Chiese (ecumenismo) e il dialogo delle religioni e delle culture. Dopo il Concilio dovette sopportare una crisi di contestazione interna alla Chiesa senza precedenti, che lo amareggiò molto, ma che si esaurì nei primi anni ’80. Dopo il breve papato di Giovanni Paolo I (1978), il 16 ottobre 1978 fu eletto Giovanni Paolo II
(Karol Jozef Wojtyla, di Wadowice presso Cracovia, in Polonia, nato il 18 maggio 1920), primo straniero dopo 455 anni, e primo slavo in assoluto. Egli ampliò le linee di governo del predecessore, continuando l’opera di riforma (nuovo Codice di Diritto Canonico, Catechismo universale), la prassi dei viaggi nazionali e internazionali (ha visitato quasi tutto il mondo, radunando di volta in volta anche milioni di fedeli, specie nelle Giornate Mondiali della Gioventù), la difesa dei diritti umani, della pace e della giustizia sociale. Ha fronteggiato e risolto molti problemi della contestazione, ha insistito molto per la difesa della vita e della famiglia e contro la contraccezione e la fecondazione artificiale, ha promosso il movimento ecumenico e il dialogo inter-religioso. Ha ripreso con forza la lotta al comunismo, contribuendo alla sua crisi, ma oggi è critico con la politica militarista degli USA. Pochi papi hanno avuto una preparazione così vasta come quella di Giovanni Paolo II, e nessuno un ascendente così universale. Né l’attentato misterioso del 1981 né le moltissime malattie hanno ridotto la sua attività, ma ormai gli anni (84) si fanno sentire.
[4] Il Movimento Internazionale del ’68, preparato dallo sviluppo socio-economico dei decenni precedenti, si sviluppa da quell’anno fino a tutti gli anni ’70. In Occidente assume i connotati di una rivolta
antiautoritaria, spesso anticonsumistica, come contradditorio prodotto del benessere diffuso e della cultura di massa. Dagli USA la protesta, all’inizio degli studenti universitari (dal 1964) si sposta in Europa e in Giappone. In Germania, Italia e Francia la contestazione si dà un rivestimento ideologico marxista e rivoluzionario (rifacendosi alla propaganda cinese della Rivoluzione Culturale, che era una delle tante fasi della lotta per il potere tra Mao e i suoi rivali), e si salda alle agitazioni degli operai. I sessantottini più sensibili si avvicinano alla filosofia raffinata del marxismo della Scuola di Francoforte e di Marcuse. Sul ’68 in genere s’innestano i movimenti femministi più
estremisti, volti a inaugurare la lotta tra i sessi. Molti di questi gruppi si diedero poi alla lotta armata. Ma l’esito più duraturo fu il mutamento di mentalità, specie nella rivoluzione sessuale, che tuttavia ha assunto caratteri consumistici, come del resto lo sforzo di produrre un nuovo stile di vita, specie per i giovani, cristallizzatosi nelle mode della cultura di massa (stessi abiti, stessi cibi, stesse abitudini). Paradossalmente, il ’68 si è realizzato nel suo opposto. In Oriente il ’68, non marxista perché ispirato alla democrazia, è stato schiacciato dai carri armati sovietici a Praga.
[5] Strage di Piazza Fontana a Milano, 12.12.69; strage di piazza della Loggia a Brescia, maggio 1974; strage del treno
Italicus, agosto 1974; strage della stazione di Bologna, agosto 1980.
[6] Si pensi al fallimento della Banca Privata di Michele
Sindona, considerato vicino ad Andreotti, o a quello del Banco Ambrosiano. In entrambi i casi erano coinvolti capitali della mafia, che punì con la morte gli errori del presidente dell’Ambrosiano, Roberto Calvi. Altri scandali (Italcasse, Petroli) riguardavano tangenti per vari politici. Ma il maggior scandalo fu la scoperta che la potentissima loggia massonica P2, guidata da Licio
Gelli, e di cui facevano parte personalità importanti di tutti i settori, compiva attività affaristiche e forse anche politiche, volte a condizionare la vita pubblica italiana (1981). Crebbe anche la connessione tra mafia e politica per la spartizione delle tangenti e per ottenere voti. La conseguenza fu che la mafia siciliana aumentò il controllo sulla sua regione, arrivando ad assassinare il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, eroe della lotta al terrorismo, inviato nell’isola per guidare la lotta al crimine (1982). Spesso questi scandali furono usati in modo strumentale dalle opposizioni per danneggiare i partiti al potere, e la Dc in particolare.
[7]Un gruppo industriale che, per far comprare all’Esercito italiano i suoi elicotteri da guerra, aveva corrotto numerosi politici, uno dei quali – in codice Antilope Kobbler – non è mai stato individuato. Leone fu accusato a torto di essere l’Antilope.
Theorèin - Giugno 2004