MARIA SOCIA DEL REDENTORE

A cura di: Vito Sibilio
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Su alcuni elementi a sostegno della definibilità del dogma.

Mediante l'attribuzione alla B.V.Maria del titolo patristico di Nuova Eva, e mediante lo sviluppo in tutti i suoi aspetti dell'equiparazione tra la prima donna e la Madre di Dio, la Chiesa ha ormai acquisito, sia nel suo sensus fidei che nella sua lex orandi, la consapevolezza che la stessa Vergine ha cooperato in modo particolare alla Redenzione operata dal suo Figlio mediante il sacrificio della Croce. La sua ormai massiccia presenza nei testi liturgici, nel magistero pontificio ed episcopale, nella letteratura teologica giustifica la richiesta di una definizione dogmatica che, alla pari di quanto è successo per il movimento immacolista e per quello assunzionista, chiuda e coroni il dibattito con un suggello più che autorevole, così da mostrare tra l'altro l'intima armonia tra l'infallibile sentire del popolo di Dio e l'altrettanto infallibile insegnamento del Romano Pontefice. Tale intervento potrebbe anche, nella trattazione teologica che accompagna di solito nelle bolle le definizioni dogmatiche, sciogliere il nodo della modalità della partecipazione della Vergine alla Redenzione.

In effetti, delle tre ipotesi teologiche - la cooperazione immediata, quella immediata passiva e la mediata - la prima, sia per l'ampiezza dei consensi che per l'intima coerenza delle sue asserzioni tra loro e col depositum Fidei, è sicuramente la più appropriata, anche se non mancano aspetti positivi anche nelle altre. L'idea che nel progetto di Dio la Redenzione di Cristo - principale, indipendente, autosufficiente e necessaria - sia unita per suo stesso volere alla corredenzione (1) subordinata di Maria - secondaria, insufficiente e solo ipoteticamente necessaria - corrisponde perfettamente alle basi bibliche della soteriologia. Anzitutto, permette di sviluppare in relazione al parallelismo Eva-Maria la trattazione di Paolo nella Lettera ai Romani sull'opposizione Adamo - Cristo, dando peraltro un ruolo attivo alla Vergine nella giustificazione come lo ebbe, specularmente, Eva nella dannazione. (2) Inoltre, non si oppone alla dottrina paolina dell'unicità del Redentore, ma si accorda alla sua concezione del completamento nel proprio corpo di ciò che manca alle sofferenze di Cristo a vantaggio del corpo di lui, cioè della Chiesa. (3) Infatti, Maria, prima redenta e tipo perfetto del credente, nell'occasione più adatta al compimento di questo dovere di unione alle sofferenze del Redentore, e cioè ai piedi della sua Croce e in genere nel corso di tutta la sua esistenza terrena, fu la prima a completare ciò che ovviamente mancava in lei e in tutti, e a vantaggio non di se stessa - in quanto da sola non si poteva redimere - ma di tutta la Chiesa, alla quale, più di qualsiasi altro suo membro, lei era ed è legata. Ciò è attestato non solo dalla generazione verginale del Verbo, del quale la stessa Chiesa è mistico corpo, ma anche dalla presenza di Maria nel Cenacolo al momento della effusione dello Spirito e della costituzione della missione attiva della Chiesa, di cui la sofferenza redentiva, vissuta, offerta e applicata secondo la volontà divina, è parte integrante e fondamentale.

Del resto, che l'intima unione del Redentore alla madre sua nel compimento della sua missione implicasse una sua partecipazione alle sue sofferenze è implicito nella dottrina paolina per cui il Cristo poteva redimere solo perché era nato da donna e sotto la legge, le due condizioni che trasmettono il peccato all'uomo.(4) Cristo infatti nacque sotto la Legge per riscattare quanti erano nati sotto di essa e fu riscattato lui stesso (5), non perché ne avesse bisogno, ma per dare efficacia al riscatto di chi era vissuto prima di lui e che in tale rito mosaico aveva avuto la prefigurazione simbolica della propria liberazione dal peccato, mediante il sangue di una vittima sacrificale, un capo di bestiame minuto. (6)

Ma Cristo nacque anche da donna per far nascere nuovamente quanti, generati nella carne da altre donne, hanno per traducianesimo ereditato la colpa e ne hanno commesse di proprie. Non a caso, parallelamente al riscatto dei primogeniti, la Legge imponeva la purificazione della puerpera (7), simbolo della liberazione dalla condanna delle donne a trasmettere il peccato tramite la generazione, cosa che sarebbe avvenuta mediante il battesimo. E la B.V.Maria si assoggettò a tale purificazione, peraltro simultaneamente al riscatto del Figlio, con una coincidenza illuminante, non perché essa gli avesse trasmesso il peccato originale, essendo entrambi concezioni immacolate, ma per dare valore alle purificazioni di coloro che erano vissute prima di lei e che venivano così ad essere liberate in vista di Cristo stesso da lei generato, ma - conseguenzialmente ed in subordine - anche tramite lei. La purificazione della puerpera avveniva anch'essa mediante spargimento di sangue, a dimostrazione profetica della dipendenza dal sacrificio di Cristo, simboleggiato dall'agnello, dalle tortore e dai colombi (8), e quindi del loro legame inscindibile nel progetto di Dio. Questa connessione tra i due riti dell'AT è la figura dell'interdipendenza tra il sacrificio del Redentore e la sua associazione ad esso dei dolori materni. Questi dolori poi sono l'unico modo in cui, appunto in modo speculare ad Eva, la B.V.Maria può aver partorito nel dolore i figli avuti in quell'ordine della grazia nella quale è universalmente e sicuramente riconosciuta nostra madre.

In merito poi alle altre due ipotesi sulla cooperazione di Maria, va detto che l'idea di quella immediata passiva, pur non essendo pienamente conforme alla dottrina della Corredenzione così come la si evince dalla Scrittura e dalla Tradizione, contiene un aspetto degno di esser messo in evidenza: la Vergine anticipa in se stessa la Chiesa tutta ai piedi della croce, e riceve i meriti del Redentore per trasmetterli ai fedeli. Quest'ipotesi appare suggestiva, in quanto suppone - giustamente - che solo Maria rappresentasse veramente la Chiesa ai piedi della Croce, essendo gli apostoli dispersi, ad eccezione di Giovanni. Sviluppando un'esegesi allegorica e antifrastica del peccato originale, la Nuova Eva, ai piedi del vero albero della vita, mangiò del frutto portole dal Nuovo Adamo, di cui - a differenza di quello dell'Eden, lei era non solo libera di mangiare, ma anche tenuta a farlo. Adamo ricevette da Eva, sua moglie, creata dopo di lui e da lui, il frutto per istigazione diabolica; Maria ricevette da Cristo, suo figlio, creato nell'umanità dopo di lei e da lei, il frutto per la volontà del Padre, alla quale il Redentore si era sottomesso. Ma, come in Adamo e in Eva vi era tutta l'umanità secondo la natura, per cui il peccato originale si tramanda in essa carnalmente, così in Cristo e Maria vi era tutta l'umanità rinnovata secondo la grazia, per cui essa si comunica agli uomini attraverso quella generazione spirituale che è il battesimo. In questo senso, Maria conteneva e contiene in sé tutta la Chiesa, sia coloro che sono eletti in quanto hanno aderito e aderiranno al Cristo, sia coloro che hanno rifiutato e rifiuteranno l'invito. Infatti Dio vuole tutti gli uomini salvi, e ha racchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia: la prima tramite la disobbedienza di Eva, la seconda tramite l'obbedienza di Maria. E siccome in Cristo già vi è tutta l'umanità redenta, per cui lui già in sé ricapitola tutta la stirpe nella grazia, in attesa che essa si svolga attraverso tutte le epoche, anche in Maria dev'esserci questa prolessi della specie umana rinnovata. In tal senso l'ipotesi teologica che ebbe nello Scheeben il suo corifeo non è esclusivamente mariologica, ma ricalca una prerogativa che già appartiene a Cristo. Ma tanto più allora essa suppone una cooperazione attiva, in quanto solo essa giustifica - nell'esegesi allegorica che è in ultima analisi fondamento di questa teoria - la prerogativa passiva rivendicata. Essa altro non è che l'estensione alla coppia Cristo-Maria di un traducianesimo battesimale della grazia opposto a quello della coppia Adamo-Eva che nella carne perpetua la colpa. Più rettamente va quindi rivendicata a Maria sia la cooperazione passiva che quella attiva.

La cooperazione mediata invece è a mio parere più pertinente alla dottrina della Mediazione Universale. Anch'essa spetta a mio avviso alla Vergine, ma va esclusa come chiave di lettura del concetto di corredenzione. Non a caso sono diverse le sfere semantiche a cui le locuzioni fanno riferimento: sono due nomina di res mariologiche ben diverse, anche se connesse intimamente. Ogni redentore è mediatore: Mosè ha redento il suo popolo e ha mediato più volte tra esso e Dio; la Casa di Aronne redimeva il popolo attraverso i sacrifici e quindi mediava con Dio essendo unica abilitata a officiare il culto. Cristo è Redentore e quindi Mediatore. Dunque anche Maria è mediatrice se corredentrice. Ma le sfere teologiche che delimitano queste due funzioni soteriologiche sono diverse. Aggiungerei che Maria può essere pienamente abilitata ad una mediazione efficace solo se anche corredentrice.

Certamente rimane chiaro il principio che Dio redime solo attraverso il Cristo. L'associazione della Vergine scaturisce solo dal principio per cui l'Altissimo invia le sue grazie suscitando mediazioni subordinate a quella del suo Figlio, peraltro da lui stesso voluta. L'uomo Cristo è mediatore voluto da Dio, che anche attraverso di lui è sostanzialmente il vero Redentore, con una distinzione che trova proprio nell'Unione ipostatica il suo nesso sussistente ed operante. Come già ben metteva in evidenza Dionigi l'Areopagita, sotto Cristo si dipana una gerarchia di mediatori, di cui sicuramente il più eccelso grado è occupato da Maria, la cui corredenzione è appunto la prima forma di associazione a sé che il Redentore vuole, delegando una parte delle sue operazioni e delle funzioni che ne conseguono. In tal senso le azioni di Maria corredentrice e mediatrice rimangono essenzialmente azioni di Cristo, perché da esse e per esse sono ordinate e ricevono efficacia. Semiticamente, possiamo ben ricondurre a Cristo ogni azione redentiva in modo particolarmente appropriato se parliamo di sua madre, perché lei più di ognuno gli è stabilmente e indissolubilmente congiunta in ogni ordine di azione.

Del resto, questo è quanto - con efficace sintesi - insegna la Lumen Gentium al capitolo VIII, ai nn. 58, 60 e 62, echeggiando Pio XII nella Mystici Corporis (9), Pio XI nella Miserentissimus Redemptor (10), Pio X nella Ad diem illum (11), Leone XIII nella Adiutricem Populi (12), Andrea di Creta nel Sermo in Nativitatem Mariae (13), Germano di Costantinopoli nella In Annuntiationem Deiparae e nella In Dormitionem Deiparae (14), Giovanni Damasceno nella Homilia in Dormitionem B.V.Mariae (15).

La Sacra Scrittura, però, ci permette di leggere in modo più preciso i contenuti della corredenzione, andando oltre la riservatezza che la stessa LG si impone sulle questioni dottrinali non definite, al n. 54. Numerosi passi biblici si prestano ad una lettura profetica e simbolica che, coerentemente col sentire della Chiesa, confermano la fisionomia della Vergine quale socia del Redentore. (16)

Anzitutto, in Lv 3, 1-17, il sacrificio di comunione può essere un capo di bestiame grosso sia maschio che femmina, purchè senza difetto. Sono cioè profetizzati Cristo e Maria, immacolati. Ciò significa che nel NT quella comunità di vita, quella relazione di alleanza e di amicizia tra Dio e il suo popoli che scaturiva dall'antico rito sarebbe venuto dal duplice sacrificio del Redentore e sua madre, fermo restante che l'olocausto, in cui la vittima è totalmente per il Signore, è sempre e solo un maschio senza difetto, ossia Cristo (17). Egli infatti non è redento da nessuno, ed è immacolato per virtù propria, e non per redenzione preservativa come la madre. L'olocausto è infatti un rito espiatorio, in cui il kipper, il sacrificio, vale come un kofer, ossia come riscatto (18). Invece laddove la vittima è divisa tra Dio e l'offerente, ossia quando la pace tra i due è data per restaurata, allora è possibile offrire un sacrificio di comunione in cui il capo di bestiame femmina simboleggi la Vergine corredentrice che, già redenta essa stessa, si offre, sempre col Figlio, per Dio e per coloro che rappresenta, ossia i fedeli della Chiesa, secondo l'interpretazione dello Scheeben, del Köster, di Semmelroth e Müller (19). Realmente si fa carico dei meriti e dei demeriti dell'offerente, che gli pone la mano sul capo e l'offre davanti a Dio (20), e viene offerta all'ingresso della tenda, quasi che la piena relazione con Dio non sia ancora restaurata - e infatti solo dopo la Redenzione si squarcia il velo del tempio (21). Sono i sacerdoti che spargono il sangue attorno all'altare, perché sarà il Sinedrio a causare il dolore di Maria presso la Croce (22). E di tale sacrificio si parla in termini di profumo soave, bruciato sull'olocausto - ossia compiuto col presupposto del sacrificio di Cristo, che lo abilita (23).

In Lv 4, 27 ss., ancora il sacrificio per il peccato si può fare con una capra o una pecora femmina, purchè senza difetto. Non si compiono con essa i sacrifici per i sommi sacerdoti o per l'assemblea o per un capo, che simboleggiano la pienezza della Redenzione e che perciò esigono un capo di bestiame maschio, simbolo di Cristo, né quelle che implicano sette aspersioni di sangue sul velo, perché esse profetizzano le sette effusioni dalla circoncisione alla lanciata al costato, ma un sacrificio subordinato, immolato nel luogo degli olocausti - ossia subordinato alla redenzione di Gesù - il cui sangue contribuisce a rendere legittimo il culto - bagnando i corni e la base dell'altare degli olocausti - e pur sempre relegato in un ordine profano, per cui il suo sangue non entra nella tenda santa (24). E tuttavia è anch'esso un profumo soave, che fa perdonare i peccati, come rito espiatorio. E ai vv. 5, 5-6, ancora sono capi di bestiame che redimono dalla colpa, anzi, da qualsiasi cosa per cui gli uomini diventano immondi … (25) C'è troppa stretta connessione tra il tema dell'immondezza legale, che prefigura quella morale del peccato, e il sacrificio di una femmina, perché ciò non abbia il suo peso in una esegesi allegorica di questi testi in chiave mariologico-soteriologica.

Ci si potrebbe però chiedere come mai, visto che nell'AT le vittime - anche femmine - sono sgozzate e versano sangue, Maria non è stata uccisa. Non sarà forse questa una smentita della nostra lettura profetica? Non sarà una prova che lei non è corredentrice, in quanto senza effusione di sangue non vi è perdono? In realtà, appare fin troppo evidente che il sacrificio di un capo di bestiame di sesso femminile è valutato molto meno e va fatto in casi minori - cosa in cui appunto ravvisiamo la sussidiarietà del sacrificio mariano. Ora, realmente tutta la Legge preparava l'unico sacrificio di Cristo, sostituendo il suo a tutti quelli inutili di montoni e capri, come ben argomenta l'Autore della Lettera agli Ebrei. Dunque tutto il sangue dell'AT si raduna profeticamente in quello di Cristo. E il sangue a cui fa riferimento la Legge nelle norme sul sacrificio di comunione è proprio quello, che è del capo di bestiame femmina, ossia della Vergine in profezia, in quanto Cristo è realmente figlio di lei, e il suo sangue è sangue di Maria.

Ciò è ampiamente dimostrato dall'esegesi che si può fare di Nm 19, 1-9, quando si descrive il rito di immolazione della giovenca rossa. Rituale premosaico di origine non ebrea, è la più chiara asserzione del concetto che anche una femmina può espiare, sia pure nel quadro di una liturgia sacrificale imperniata sull'agnello della pasqua. Ebbene, Maria è la giovenca come il Cristo, in tanti altri luoghi, è il giovenco sacrificale. E' rossa per il sangue (26). E' senza macchia, senza difetti e non ha mai portato il giogo del peccato (27). Eleazaro, attraverso i sacerdoti suoi successori, la porta fuori dell'accampamento, ossia di Gerusalemme, presso il Calvario, e la martirizza tramite il Figlio (28). Essa versa il sangue attraverso il Figlio, che appunto fa sette aspersioni, dalla circoncisione alla lanciata al costato, in quanto il sacrificio di Cristo e quindi anche quello di Maria iniziano dalla nascita del Redentore (29). Inoltre è consumata dal fuoco, ossia dal martirio della carità (30). Al rogo in cui viene consumata nello spirito si aggiungono, per dargli valore, il cedro - legno incorruttibile che simboleggia l'Immacolata Concezione e la perfetta santità di Maria, senza le quali non avrebbe valore il suo sacrificio - l'issopo - che indica la divina maternità, con cui lei è benedetta fra le donne e con cui benedice il mondo - e il colore scarlatto - segno delle sue sofferenze precedenti alla Passione di Cristo, ma che pure concorrono a salvare il mondo (31). Le acque che mondano con le ceneri della giovenca sono quelle del battesimo, rese efficaci appunto dal sacrificio di Cristo, su cui si innesta e che coonesta quello di Maria, che pure ci è comunicato nel battesimo (32). L'immondezza dei sacerdoti è lo stato di peccato che contrarranno in quanto crocifissori di Gesù e seviziatori di Maria; il battesimo che li potrà rigenerare è figurato nel lavaggio rituale; l'uomo mondo che porta le ceneri fuori dal campo è Giuseppe d'Arimatea, che porta il corpo di Cristo al sepolcro e rimane immondo simbolicamente per il contatto col cadavere, carico dei peccati dell'umanità (33).

La stretta connessione tra la ritualità sacrificale mosaica e l'orientamento soteriologico della missione mariana è stata intuita, almeno implicitamente, dai Padri della Chiesa. Non a caso Melitone di Sardi scriveva: "E' lui l'agnello muto / è lui l'agnello sgozzato / è lui che è nato da Maria l'agnella pura / è lui che dal gregge fu preso / all'immolazione fu trascinato / sul far della sera fu ucciso / di notte fu sepolto / sul legno non fu spezzato / in terra non fu corrotto / dai morti risorse / e risuscitò l'uomo dal fondo della tomba (34).

Ancora, nel libro dei Giudici, il ruolo redentivo di Giaele è da sempre letto come figura della vittoria di Maria sul male (35), ma può diventare preannunzio della corredenzione se lo leggiamo in senso lato, in quanto la partecipazione della Vergine alla Redenzione sarebbe un aspetto, anzi il più efficace perché a vantaggio di tutto il popolo di Dio - proprio come il gesto di Giaele - della sua battaglia vittoriosa. Non a caso l'eulogia di Giaele nel cantico di Debora fa il paio con quella di Giuditta (36), alla quale si addice, quale figura mariologica, la stessa riflessione. Entrambe le eulogie infatti preparano quella di Elisabetta (37), che però fa un'equiparazione tra la Madre e il Figlio: entrambi benedetti, perché la prima è la copia più fedele dell'altro, in tutto, e quindi anche nell'essere operatrice di redenzione. Così si dà compimento al Protovangelo (38) , il cui senso profetico mariano implicito è soteriologico alla stessa maniera in cui lo è il senso esplicito cristologico. E' questa l'obbedienza che i Padri, fautori della dottrina della Nuova Eva, avevano individuato, partendo proprio dal Protovangelo, come apporto soteriologico di Maria (39).

Fino all'Esilio dunque Dio comunica i simboli che, nella pienezza della Rivelazione, mostreranno il ruolo della corredentrice e la opportunità della sua funzione.

A ridosso dell'Esilio, grande figura della schiavitù del peccato, lo Spirito Santo invece comincia a descrivere le sofferenze della corredentrice, sempre assieme a quelle del Figlio. Come infatti non vedere una profetica asserzione della cooperazione attiva nelle Lamentazioni I e II ? Se ormai sia nel magistero conciliare che nella teologia mariana e biblica possiamo accettare come valida l'equiparazione Maria - Figlia di Sion, come non leggere in senso mariologico-soteriologico quei passi biblici, che già la pietà popolare ha applicato da sempre all'Addolorata ?

Al v. 1,1 si descrive proprio l'abbandono della Vergine da parte dei seguaci di suo Figlio. Già grande e signora, perché partecipe della magnificenza del Cristo, entrato pochi giorni prima in Gerusalemme, ora è tornata ciò che era prima, una vedova, ed è sottoposta al tributo imposto da Dio in espiazione delle colpe.

Alla passione interiore del Figlio, profeticamente il v. 2 oppone la sofferenza notturna della madre, e riafferma che tutti i discepoli di lui, gli amanti e gli amici qui nominati, hanno tradito, arrivando alla fuga o al rinnegamento, e diventando nemici. Costoro sono raffigurati in Giuda, emigrato per la miseria umana e la schiavitù della colpa fuori della grazia di Cristo, senza però che la persecuzione romana ed ebraica dia garanzie di risparmiarli (40). Lo stato miserevole del loro animo, ormai privo del nutrimento spirituale dispensato dalla parola di Cristo, ben si evince dal testo (41). Sono descrizioni allegoriche che tornano poi sotto l'immagine della Sion in lutto, sotto il potere dei nemici (42), applicabili poi alla corredentrice, che è afflitta per i misfatti senza numero, che sono suoi non perché da lei commessi, ma perché a lei imputati perché li espii (43). In questo senso vanno intese le espressioni che attribuiscono a Gerusalemme - Maria di aver peccato gravemente e di essere, lei immacolata, come un panno immondo, e di avere la veste sozza ai lembi. E la nudità che coloro che la disprezzano, considerandola ingiustamente colpevole - come gli astanti del supplizio del Servo del Signore nel Deutero-Isaia - hanno contemplato, è quella del Figlio, appeso nudo alla croce: egli è carne di Maria, quindi sua nudità (44).

Lam 1, 6-7 ben descrive lo stato fisico e morale della Vergine ai piedi della Croce: lo stato vissuto al momento della caduta del suo popolo, ossia la fuga dei discepoli e l'arresto di Cristo, è profeticamente ricordato dal veggente in persona Matris. Di lei giustamente si dice che l'avversario ha steso la mano sulle sue cose più preziose: la vita e l'onore del Figlio, e altrettanto rettamente diciamo che i pagani sono penetrati nel suo santuario: essi hanno fisicamente violato il vero tempio, il corpo del Cristo (45).

Il trènos dei vv. 11 d - 16 ancora suggerisce la valenza soteriologica: il disprezzo e la sofferenza vengono presentati a Dio e agli uomini, perché lo considerino; il dolore non ha eguali ed è punizione dell'ira divina, che notoriamente si accende per il peccato; esso viene dall'alto, cioè da lui, giustiziere. Inoltre è descritto come un'angoscia profonda, simile a quella di una madre che perda il figlio, che rimanga desolata. La figlia di Sion vede aumentare le pene che espiano le colpe, e da esse non può liberarsi. Il Signore ha radunato le forze che hanno disperso i giovani - ossia i discepoli - e ha pigiato la Vergine figlia di Giuda, ossia Maria, come uva nel tino. Da lei è lontana colui che consola - e potrebbe dire come Cristo: Eloì, Eloì, lemà sabactàni ?- e le sue lacrime si moltiplicano.

Nella seconda parte del lamento (18-22), alla Vergine che si fa carico delle colpe applichiamo la confessione del v. 18 a b. La sofferenza di Maria è data dall'apostasia dei fedeli, dalla morte del Figlio all'esterno e dal senso interno di prostrazione, ma anche dalla sua assoluta solitudine: e Geremia lo profetizza a chiare lettere. Inoltre, come avverrà per gli artefici della Passione del Redentore, anche i persecutori della Vergine saranno puniti. Essa stessa, per bocca del profeta, non per vendetta, ma per giustizia, lo richiede.

Ancora la Lam II descrive le sofferenze redentive di Maria: è lei che è oscurata, come il Figlio sulla Croce che non avverte più la consolazione paterna; è lei la gloria di Israele, scagliata dal cielo alla terra; è lei lo sgabello dei suoi piedi, su cui comparve come uomo, di cui lui non ha avuto memoria nel giorno del furore (46). E' lei, assieme al Figlio, la Dimora che Dio aveva in Giacobbe, e che ha moralmente distrutto; è lei la Figlia di Giuda le cui fortezze sono state abbattute; è lei, col Figlio, ad essere Regno di Dio e capo del Regno, ora profanati e prostrati (47). E' lei la potenza d'Israele, vincitrice del peccato perché Panaghìa e Immacolata, che Dio ha infranto. Sempre Maria è, col Figlio, il vero Giacobbe che Dio ha acceso all'intorno (48). Dio non solo ha ucciso la delizia dell'occhio, ossia Cristo, ma ha rovesciato su Maria la sua ira, senza però farla morire (49). L'Israele distrutto sono loro due: loro i veri palazzi e le vere fortezze, dimore sontuose perché adorne di virtù, inespugnabili perché senza peccato (50). Ancora Cristo e Maria sono la Dimora devastata dal ladro, sono il luogo della Riunione. Cristo infatti è l'Uomo Dio, colui che abbattè l'inimiciza tra Giudei e Pagani nel suo corpo, colui che riappacifica cielo e terra; Maria è colei in cui Umanità e Divinità si sono riuniti. Tali sofferenze sono accadute in prossimità della festa di Pasqua, così che i due martiri non la potessero vivere: il Re Sacerdote, Cristo, è stato rigettato in quei giorni (51). Maria e Cristo sono ad un tempo altare e santuario, ora abbandonati. Le loro mura, ossia la protezione sempre accordata loro, sono cadute, in quanto sono in potere dei Giudei. E infatti il Sinedrio, che si radunava sotto il Tempio, festeggiò la cattura e il supplizio di Cristo (52). Ogni fortezza della Figlia di Sion è demolita, perché nessun dolore le è risparmiato; lei è il bastione, e Cristo il baluardo, entrambi desolati, in rovina (53). Il re, ossia Cristo, è tra le genti, perché alla mercè dei Romani; i capi, ossia gli apostoli, sono anch'essi nascosti tra la folla, per paura del procuratore Pilato. La legge non c'è più, perché arriva fino a Giovanni Battista, e finita con lui è anche la profezia (54). Ancora sono descritte le miserrime condizioni morali dei discepoli dispersi (55). Il profeta contempla straziato la sofferenza di Maria, ma anche lo stato delle anime, simbolicamente adombrate nei lattanti morenti, dominate da satana, e per la cui liberazione Cristo e la Vergine soffrono (56). La rovina della Vergine, figlia di Sion - si rifletta sull'uso di quell'aggettivo in questo contesto ! - è grande come il mare, ossia come il male del mondo, di cui le acque sono simbolo e che ricadono su di lei (57). Non a caso si dice che i profeti - prima di Geremia e ai tempi di Gesù- non hanno previsto la sorte della Vergine: se avessero ammonito gli uomini dei loro peccati - ossia le iniquità addossate a Maria - si sarebbero redenti, e la sua sorte sarebbe stata cambiata. Invece hanno vaticinato un messianismo indolore, che ha spinto a credere che nessuno avrebbe sofferto (58). Poi i vv. 15-16 descrivono gli scherni della folla e dei sacerdoti rivolti, nella Passione, almeno implicitamente a Maria. Ma non loro sono gli artefici di tutto questo, bensì il Signore, che ha adempiuto la sua parola di redenzione, decretata dall'eternità, consegnando lei e suo Figlio al nemico (59). E il tema della sofferenza appare profeticamente impetrativa (60), se interpretiamo il v. 19 e come un vantaggio da ottenere per i bambini, figura delle anime, figlie della Vergine Maria. E infatti l'ultimo lamento è d'intercessione per le vittime, evidentemente del peccato (61), mentre si dice che nel giorno dell'ira, il venerdì santo, coloro che lei portò in braccio, plurale generico che indica Cristo, sono stati sterminati (62).

Nel solco di questa tradizione possiamo leggere l'oracolo di Is 51, 17 ss., in cui si ridescrivono le sofferenze di Gerusalemme, di cui però si dice che non si ripeteranno mai più. Questo oracolo non si realizza in Sion, che fu devastata ancora dai Seleucidi e dai Romani addirittura due volte; dunque la città è necessariamente una figura, e la sua identificazione migliore, anche perché tradizionale, è Maria. Se ne descrive l'abbandono da parte dei discepoli, chiamati figli perché generati da lei alla grazia tramite Cristo (63). La Vergine ha bevuto il calice, come lo berrà Cristo (64). E' la misera per eccellenza, l'ebbra di dolore (65). I mali che la colpiscono sono due, ossia sovrabbondanti, come si addice a una corredentrice: sono i suoi e quelli del Figlio, ossia le sue desolazione e fame, e la distruzione e morte di Cristo (66). A lei è inflitta una umiliazione suprema, espressa in modo figurato dal fatto che il dorso è usato come un suolo - letteralmente come la terra - quasi in parallelo con la kenòsis di Cristo descritta da Paolo (67). Questo versetto potrebbe essere l'equivalente mariologico del brano paolino. Ma solo una volta berrà quel calice, così come Cristo si immolerà una volta sola, poi esso sarà ritorto contro i peccatori che ne sono stati causa (68).

Ancora, il libro di Ester fornisce a mio avviso uno spunto soteriologico in chiave mariana. Questo libro di sicuro presenta più elementi funzionali alla dottrina della Mediazione Universale della Vergine, ma c'è un passo che, comparato ad un altro della Genesi di sicuro significato soteriologico, può suffragare la teologia della Corredenzione. E' il passo in cui Ester si presenta ad Assuero per salvare gli Ebrei a rischio della vita, perché non convocata (69). Il passo parallelo è il Sacrificio di Isacco (70). Isacco è figura di Cristo, che dà la vita per volontà di Dio, anche se poi è salvato dall'Angelo del Signore. Il sacrificio di Gesù, simboleggiato nell'ariete immolato da Abramo, darà compimento a ciò che non si compì in Isacco. Ester è figura di Maria, che espone la sua vita per volontà di Dio, ma ne è salvata perché il cuore di Assuero è convertito. Ester salva il suo popolo rischiando la sua vita, ma non la perde e compie, sopravvivendo la sua missione. Maria espone la sua vita, attraverso quella del Figlio. Non la perde, e per questo è corredentrice, in quanto solo il sangue di Gesù era necessario. Di lei, era necessaria solo l'adesione al progetto di Dio, anche a rischio della vita stessa.

Nel NT, la dottrina della corredenzione è suffragata anzitutto dalla partecipazione di Maria a tutte le sofferenze del Figlio, sin dall'inizio. In Mt, dove Maria appare come il trono della gloria di Cristo Dio, e quale ghebirah nel racconto dei Magi, subito dopo ella viene associata alla sua sofferenza nell'esilio (71). Cristo è re, ma la sua regalità troverà compimento nella Croce, e le sue piaghe e il suo sangue saranno glorificate. A Tommaso appare con le piaghe, e il suo sangue risorge con lui, per cui in terra non ve ne sono reliquie, come già insegnava la scolastica. Ma allora anche le sofferenze di Maria, regina anche lei, debbono essere glorificate, e sono per lei fonte di sovranità. La Redenzione è regalita. Ma Maria è regina, quindi è associata alla redenzione (72).

In Lc, l'intima associazione tra Maria e Cristo è pienamente affermata nell'eulogia di Elisabetta, come già ho detto (73): l'assoluta equiparazione tra le benedizioni dell'uno e dell'altra giustifica una duplicazione mariana di ogni caratteristica e funzione cristologica, anche se ovviamente in chiave subordinata. Del resto, il Benedictus profetizza chiaramente la funzione salvifica di Cristo, per cui il contesto giustifica l'asserzione che l'equiparazione Cristo-Maria sia valida anche in senso soteriologico. E tutto il Vangelo dell'Infanzia di Lc, insistendo molto sulla regalità della Vergine, si presta alla riflessione che abbiamo appena fatto sul rapporto tra essa e la sofferenza espiativa. La stessa Elisabetta, dopo l'eulogia, saluta Maria quale "Madre del mio Signore", ossia regina-madre (74). Tale nesso si coglie più chiaramente quando, terminata la rivelazione del Bambino quale redentore e re, a Maria si profetizza la spada nell'anima (75), il cui senso soteriologico, legato com'è al culto dell'Addolorata, è ormai fuori discussione.

Inoltre, se l'eulogia di Elisabetta, come del resto la salutazione angelica (76) sono interpretabili come attestazioni scritturistiche anche dell'Immacolata Concezione e dell'Assunzione al cielo di Maria - dottrine di fede e quindi indiscutibili - per esse possiamo porci un quesito che scaturisce proprio dalla parallelismo Cristo - Maria. Se Cristo è immacolato in vista della Redenzione, e se risorge dopo la passione salvatrice, perché anche Maria non può essere stata concepita immacolata anche in vista della partecipazione alla sofferenza giustificatrice? Perché, conformata al Cristo glorioso nell'Assunzione, non lo può essere al Christus passus nella Corredenzione ? Insegna Pio XII, commentando il protovangelo della Genesi quale sostegno biblico - inter alia - dell'Assunzione: "Come la gloriosa risurrezione di Cristo fu parte essenziale e segno finale di questa vittoria (scil. sul peccato), così anche per Maria la lotta che ha in comune col Figlio suo si doveva concludere con la glorificazione del suo corpo verginale (77)." Ma, se l'equiparazione tra la gloria di Cristo e quella di Maria fu talmente assoluta da segnarli con una escatologia immediata, allora anche quella della loro sofferenza, di cui la glorificazione è parte integrante, dev'essere assoluta, e quindi implica l'unione della Madre alle sofferenze salvifiche del Figlio, con un valore analogo, anche se inferiore gerarchicamente.

Peraltro, anche il dogma dell'Immacolata (che trova nei passi del Pentateuco che abbiamo citato a sostegno della Corredenzione continue prefigurazioni, quando leggiamo che il capo di bestiame dev'essere senza difetto, senza macchia e non deve aver mai portato il giogo), essendo biblicamente fondato sul Protovangelo, lega indissolubilmente questo dogma alla Corredenzione, specie attraverso l'esplicitazione di senso fatto negli altri passi biblici, specie in quelli del Levitico e dei Numeri che abbiamo commentati. Peraltro, molte figure bibliche della Ineffabilis Deus per la dottrina dell'Immacolata Concezione si prestano ad una lettura soteriologica in chiave mariana. Così l'Arca di Noè, che scampa dal comune naufragio del peccato originale, ma fa scampare anche coloro che ospita, ossia svolge una funzione salvifica. Così la torre inespugnabile del Cantico dei Cantici, a cui ben si addice l'aver resistito all'assalto del maligno nel giorno dell'ira (78).

Tutto ciò dà un senso più preciso alla già indiscutibile valenza soteriologica di Gv 19, 25-27, su cui peraltro non credo ci sia bisogno di aggiungere alcunché. Il commento che ne fa Ambrogio ancora oggi è insuperato per afflato lirico, sensibilità esegetica, acutezza dogmatica: "La madre stava ritta ai piedi della Croce, e mentre gli uomini fuggivano ella rimaneva là, intrepida. La madre mirava con occhio pietoso le piaghe del Figlio, dal quale sapeva che sarebbe venuta la redenzione del mondo. Stava ritta, offrendo uno spettacolo non dissimile da quello di lui, mentre non temeva chi l'avesse uccisa. Il Figlio pendeva dalla Croce; la madre si offriva ai persecutori. Se l'avesse fatto anche solo per essere abbattuta prima del Figlio, già sarebbe lodevole il suo affetto materno, per il quale non voleva sopravvivere al Figlio; ma se invece l'ha fatto per morire col Figlio, è perché bramava di risorgere con lui, non ignara del mistero di aver generato colui che sarebbe risorto. Sapendo inoltre che la morte del Figlio avveniva per il bene di tutti, si affrettava semmai anche lei avesse potuto apportare qualcosa al bene comune con la sua propria morte (79)."

E' storicamente credibile che Maria sapesse cosa stesse facendo ai piedi della Croce ? La domanda è tutt'altro che peregrina, in quanto ogni dogma della vita di Gesù e Maria è anzitutto un fatto storico. Diventa ancor più angosciante, se ricordiamo che, a partire da Origene (80), tutta una tradizione patristica, rappresentata tra gli altri da Anfilochio (81) , aveva interpretato la spada di Simeone come un dubbio sulla fine miserevole di Gesù sulla croce. Un dubbio che, storicamente parlando, sembra più umano e suffragato dalle fonti, visto che Lc parla della spada dopo aver detto che Gesù sarà segno di contraddizione. Sembrerebbe voler dire che lo è stato pure per la madre sua.

In effetti, il messianismo di Gesù di Nazareth era molto diverso da quello comune ai suoi tempi: l'insegnamento - peraltro esoterico - della sofferenza e della Resurrezione era una sua sostanziale rivisitazione di certa letteratura profetica, come i Canti del Servo del Signore, sul cui senso messianico non si era affatto in accordo. Ma proprio il fatto che Gesù stesso insegnasse ai suoi questa dottrina fa credere che Maria non fosse sconvolta dalla fine, che il Figlio stesso aveva preventivato. Del resto, lei lo aveva concepito verginalmente, e non aveva motivo di dubitare dell'adempimento della profezia dell'angelo, che le aveva vaticinato per il Figlio un regno eterno, e quindi la Resurrezione. Possiamo addirittura supporre che la madre si fosse consapevolmente ritagliata un ruolo mistico nella missione del Figlio, esattamente come suppone Ambrogio, facendo di sé quella che appunto noi oggi chiamiamo la socia del Redentore.

Questo sentire è in perfetto accordo con l'archeologia, che ci mostrano la presenza, nelle viscere del Calvario, di luoghi di culto del I secolo, in cui il Redentore era associato ai dolori della madre, specie nel sabato santo. Non sarebbero stati venerati dai cristiani, se fossero stati dettati da miscredenza. Gli scavi del 1958 e del 1973-1977 di Mallios, Katsimbinis e Diéz, restituendoci alcuni elementi del Calvario originale e del monumento sacrilego voluto da Adriano, hanno portato alla luce l'ambiente detto dai testi "post - crucem" e la famosa "grotta dei tesori", legata al ciclo di Adamo col sepolcro del nostro progenitore e con la dottrina della "descensio ad inferos" di Cristo, come ricorda Luciano di Antiochia nella sua Passione. Tale luogo era legato anche al planctus della Nuova Eva che nel triduo pasquale aspettava la Resurrezione del Figlio. Qui si conservava la santa lancia, la spugna che dissetò il Crocifisso e l'immagine dell'Addolorata. Da qui trassero ispirazione i testi liturgici della staurotheotókia. Non a caso Adriano volle sovvertire questo culto con quello di Venere che piange per risuscitare Adone. Segno che i Giudeo- cristiani avevano già strettamente congiunto i dolori di Maria a quelli del Figlio (82). Perciò la erronea teologia della scuola antiochiena e dei suoi continuatori va addebitata proprio alla mancanza di collegamento alla storia, ed è dettata più che altro dal pregiudizio per cui anche la Vergine dovesse peccare, per essere redenta da qualcosa. Il peccato, mostruoso, era proprio compiuto col dubbio ai piedi della Croce ! E' incredibile come il clima teologico dell'epoca abbia ottenebrato la sensibilità spirituale di autori tanto illustri e peraltro così devoti di Maria. Grazie al magistero di Ambrogio - e, per inciso, al macolismo di certa patristica, che faceva redimere Maria dal peccato originale - la dottrina della Corredenzione si è riaffermata, riallacciandosi sia pure inconsapevolmente, alle sue origini giudeo-cristiane, ed è continuata in tutta la letteratura sacra.

Si è peraltro materiata della fervida devozione popolare, specie all'Addolorata, il cui percorso cultuale è una strada privilegiata per constatare come, lungo i secoli, la credenza nella Corredenzione è stata parte della fede del popolo di Dio, il quale non si inganna nel suo sentire soprannaturale (83). Un sentire che, si badi bene, ha avuto sempre illustri conferme di magistero (84).

C'è pertanto da auspicare che questa verità, fondata sulla Scrittura, esplicitata dai Padri e dalla liturgia (85), creduta dai fedeli, sia solennemente sanzionata dall'insegnamento straordinario del Papa, alla cui devozione mariana darebbe un luminoso suggello, magari nel quadro di una sessione speciale del Sinodo dei Vescovi, appositamente investita di poteri di magistero deliberante.


(1) A questo termine è stato decretato un ostracismo autorevole - non fosse altro che per coloro che l'hanno decretato, Pio XII e il Concilio Vaticano II - che ha senz'altro ottime ragioni. Tuttavia semanticamente suggerisce una collaborazione per forza di cose subordinata, per cui il suo uso è sicuramente appropriato per la sua sintetica significatività. Sulla questione in gen. e sulla definibilità del dogma la bibliografia è sterminata. A titolo esemplificativo cfr. I.CALABUIG, Dossier di una giornata teologica sulla richiesta di definizione dogmatica di Maria Corredentrice Mediatrice Avvocata, 28 maggio 1998, Roma 1998; ID., Riflessione sulla richiesta della definizione dogmatica di Maria Corredentrice, Mediatrice, Avvocata, Roma 1998; S.M.MANELLI, Maria, a titolo unico, è corredentrice. La corredentrice in Cristo e nella Chiesa, Roma 1999; ID., Maria Corredentrice. Nuovi saggi di soteriologia mariana, Roma 2001; AA.VV., Mary at the foot of the Cross - II : acts of the second International Symposium on Marian Coredemption : Ratcliffe College (Nr. Leicester), Ratcliffe on the Wreak, England : april 1 - april 7, 2001, New Bedford (Massachusetts) 2002; Mary at the foot of the Cross - III: Mater unitatis : acts of the third International Symposium on Marian Coredemption : Downside Abbey Stratton-on-the-Fosse Bath, Somerset - England : august 20 - august 26, 2002, New Bedford (Massachusetts), 2003.
(2)
Rm 5, 12-21.
(3)
Col 1, 24.
(4)
Gal 4, 4-5.
(5)
Lc 3, 22-24.
(6)
Es 13, 2; 13, 11.
(7)
Lv 12, 2-4.
(8)
Lv 12, 8.
(9)
In AAS 35 (1943), pp. 247-248.
(10)
In AAS 20 (1928), p. 178.
(11)
In Acta I, p. 154.
(12)
In ASS 15 (1895-1896), p. 303.
(13)
PG 97, 865 A.
(14)
PG 98, 321 B-C; 361 D.
(15)
PG 96, 712 B-C; 713 A.
(16)
Con il progresso delle scienze teologiche oggi, ha senso ancora proporre argomentazioni legate alla lettura allegorica della Sacra Scrittura ? Io credo di sì. Infatti, anche per la letteratura ispirata si può dire che esiste in funzione del pubblico, che la fa nel senso che la decodifica e la recepisce come fatto letterario ed erudito. In tale prospettiva, proprio la Parola rivelata, nel momento in cui diventa scritta, assume una fissità semantica che ha bisogno di una molteplicità di registri di significato che la liberi dallo spettro della sterilità ermeneutica e quindi esegetica. Questa molteplicità di significati, questa polisemia immanente al testo ben si addice ad una comunicazione che, pur essendo espressa nelle modalità letterarie di un'epoca, è pur sempre di origine divina e quindi di inesauribile comprensione. Essa si snoda attraverso i secoli, mediante il raffinarsi degli strumenti ermeneutici ed esegetici, via via che gli uomini la esplicitano, senza impoverirsi ma anzi arricchendosi di più. Evidentemente questa impostazione analitica risente della tensione tra il polo comunitario e quello individuale. E tuttavia è innegabile la coesistenza dei due fattori nel processo di creazione teologico-letteraria, e di tale cosa lo studio storico-teologico deve tener conto. Una buona sintesi degli opposti può essere desunta dal critico ermeneutico S.E. Fish, quando asserisce che è l'interprete (inteso sia come autore che come lettore) che fa la letteratura, in quanto membro di una comunità interpretante che ha i suoi metri di giudizio e che riconosce il valore estetico (ma evidentemente anche teologico) delle opere a posteriori. L'opera stessa infatti è ovviamente determinata dalle condizioni culturali di chi la fa e la legge. Dio stesso sa questo, volendo comunicarsi agli uomini attraverso una cultura semitica e non sinica o sciita. Cfr. S.E. FISH, Professional correctness: literary studies and political changes, Londra 1995. Inoltre, il linguaggio della comunicazione non è solo verbale e logico, ma anche mitico e prelogico. La lettura profetica è una forma di simbolismo e quindi di interpretazione mitica. Il senso a posteriori non è posticcio, ma è compreso nel quadro di una risistemazione dei significanti e dei significati, operato nel suo complesso proprio dal sentire comune dei fedeli, recettori e decodificatori del messaggio. In questo senso la filosofia dei linguaggi deve divenire una teologia dei linguaggi, se non addirittura una teolinguistica, che esplori le inesauribili prospettive di comunicazione biplanari della parola divina, archetipo di quella umana. In tale modo acquistano un valore anche per le moderne dinamiche della dogmatologia brani come quelli che andremo a commentare e che altrimenti sarebbero inutili, fossili di comunicazione religiosa afferenti a un culto e a una profezia ormai scomparsi e persino rozzi. Sul rapporto tra interprete (inteso come narratore) e oggetto di interpretazione (fatto o testo), da considerarsi, secondo l'insegnamento della critica ermeneutica, come un tutt'uno, cfr. la trattazione di GADAMER, Verità e metodo , Milano 1972 (ed. it.).
(17) Lv 1, 1-13. Sul Levitico in gen. cfr. p. es.: W.KORNFELD, Levitico, Brescia 1998.
(18)
Cfr. Es 30, 12.
(19)
Cfr. KOSTER, Die Magd des Herrn, Limburg an der Lahn 1947; ID., Unus Mediator. Gedanken zur marianischen Frage, Limburg 1950; SEMMELROTH, Urbild der Kirche Organischer Aufbau des Mariengeheimnisses, Würzburg 1950; MÜLLER, Ecclesia - Maria. Die Einheit Marias und der Kirche, Friburg 1951.
(20)
Lv 3, 1 b - 2 a.
(21)
Lv 3, 2 b.
(22)
Lv 3, 2 c.
(23)
Lv 3, 5. Paralleli i passi 3, 7-11 ; 13-16.
(24)
Cfr. Ez 44, 3; 45, 7-12.
(25)
Lv 5, 3.
(26)
Nm 19, 1. Sui Numeri in gen. cfr. p. es.: O.ARTUS, Études sur le Livre des Nombres, Friburgo 1997.
(27)
Nm 19, 2.
(28)
Nm 19, 3.
(29)
Nm 19, 4.
(30)
Nm 19, 5.
(31)
Nm 19, 6.
(32)
Nm 19, 9.
(33)
Nm 19, 7-8.
(34)
MELITONE DI SARDI, Omelia n. 70, in SC 123, 98.
(35)
Gdc 4, 21; 5, 24 ss.
(36)
Gdc 5, 24 e Gdt 13, 18. Per un commento generale cfr. p. es. M. NAVARRO PUERTO, I libri di Giosuè, Giudici e Rut, Roma 1994 (ad indicem); G.BABINI, I libri di Tobia, Giuditta, Ester, Roma 2001 (ad indicem).
(37)
Lc 1, 42.
(38)
Gn 3, 15. Su di esso cfr. H.K.BARTH, Ipsa conteret. Maria die Schlangerizertreterin: Philologische und theologische überlegungen zum Protoevangelium (Gen 3,15), s.l. 2000, con bibl. pp. 243-275, a cui rimando per approfondimenti.
(39)
GIUSTINO, Dialogus cum Tryphone, 100, in PG 6, 709-712; IRENEO DI LIONE, Contra haereses, III, 22, 4, in PG 7, 958-960.
(40)
Lam 1,3. Sulle Lamentazioni in gen. cfr. p. es.: A.BONORA, Naum, Sofonia, Abacuc, Lamentazioni: dolore, protesta e speranza, Brescia 1989.
(41)
Lam 1, 11.
(42)
Lam 1,4.
(43)
Lam 1,5.
(44)
Lam 1,8-9 a.
(45)
Lam 1, 10.
(46)
Lam 2,1
(47)
Lam 2,2
(48)
Lam 2,3
(49)
Lam 2,4
(50)
Lam 2,5
(51)
Lam 2,6
(52)
Lam 2,7
(53)
Lam 2,8
(54)
Lam 2,9
(55)
Lam 2,10
(56)
Lam 2,11-12
(57)
Lam 2,13
(58)
Lam 2,14
(59)
Lam 2,17
(60)
Lam 2,18-19
(61)
Lam 2,20-22
(62)
Lam 2,22
(63)
Is 51,18
(64)
Is 51,17
(65)
Is 51,21
(66)
Is 51,19
(67)
Is 51, 23. Fil 2, 6-11.
(68)
Is 51, 22 – 23.
(69)
Est 5, 1-3 secondo la LXX di Rahlfs. Per il commento cfr. BABINI, I libri cit., ad indicem.
(70)
Gn 22.
(71)
Mt 2 1-18
(72)
A queste sofferenze dell’infanzia è associato pure Giuseppe, a dimostrazione che la Redenzione suscita associazioni subordinate di sempre minore estensione, ma volute da Dio e quindi co-efficaci. La stretta appartenenza di Giuseppe all’economia dell’Incarnazione esige anche una sua unione alle sofferenze redentrici, essendo l’Incarnazione orientata alla Redenzione.
(73)
Lc 1, 42.
(74)
Lc 1, 43. Cfr. anche 1,31-33.
(75)
Lc 2, 35.
(76)
Lc 1, 28. Per l’esegesi assunzionista cfr. PIO XII, Munificentissimus Deus, in A.TONDINI, Le encicliche mariane, Roma 19542, p. 619, che cita gli Scolastici.
(77)
Cfr. TONDINI, 627.
(78)
Ct 4, 4.
(79)
AMBROGIO, Educatio virginum, 6, 49, in PL 16, 318.
(80)
ORIGENE, Omelie su Luca, in SC 86, 256-258.
(81)
ANFILOCHIO DI ICONIO, Omelia sull’Ypapanté, 8, in PG 39, 56-57.
(82)
Sugli scavi cfr. CH. KATSIMBINIS, The Uncovering of the Eastern Side of the Hill of Calvary and its Base Layout of the Area of the Canons’ Refectory by the Greek Orthodox Patriarchate, in LA 27 (1977), pp.197-208; cfr. per i luoghi sacri del Calvario preadrianeo D.BALDI, Enchiridion locorum sanctorum, Gerusalemme 1926, p. 625, nota 1; per il tempietto cfr. L.KADMAN, The Coins of Aelia Capitolina,Gerusalemme 1956, pp. 36 ss.
(83)
La devozione all’Addolorata nella Grande Chiesa è certamente molto anteriore alle sue prime attestazioni. Ab immemorabili il Triduo Pasquale ha i suoi momenti mariani, particolarmente espliciti nella liturgia greca e in quelle orientali in genere. Cfr. p es. A.KNIAZEFF, La Theotòkos dans les offices bizantins du temp paschal, in Irenikon 36 (1969), pp. 21-44. Del resto, Ambrogio non avrebbe potuto insegnare che la B.Vergine partecipava ai dolori del Figlio se il popolo non fosse stato predisposto ad aderire ad una simile dottrina, avendola professata nella sua pietà: i casi moderni della devozione all’Immacolata e all’Assunta lo dimostrano come esempi. Possiamo ritenere quindi che la Chiesa latina già dal Tardo Antico si avviasse verso tale forma di devozione. Della pietà per i dolori della Compatiens presso i Giudeo-cristiani abbiamo detto, e risalgono al I secolo. L’influenza di queste credenze nella tradizione siriaca fa supporre che presto anche le Chiese antiochiene abbiano recepito tale devozione. Che i greci avessero devozione all’Addolorata è attestato almeno dall’epoca delle icone dette Blachernitissa – che lega con Gv 19, 26 e con la croce la Theotókos – e Calchopratìa – in cui la Mater Dolorosa è compresa dalla dottrina della Corredenzione e della vittoria di Cristo Crocifisso che redime col suo sangue i giusti del limbo – che sono del V sec. In Occidente abbiamo un oratorio dedicato a S.Maria ad Crucem a Paderborn nel 1011. Cfr. MGH SS 19/2 (1088) 1053-1054. Anselmo di Aosta parla della Cumpatiens tra il 1063 e il 1093. Cfr. PL 158, 903-904. Nel XIII sec. la devozione alla Mater Dolorosa si sviluppa, e nel XIV si precisa in quella ai Sette Dolori. Cfr. A.WILMART, Auteurs spirituels et textes dévots du Moyen Age latin, Parigi 1932, pp. 506-507. Quest’autore riporta (pp. 505-536) formule di esercizi devoti che, basati su un ciclo settenario, scandivano la meditazione dei Dolori della Vergine, e che costituiscono la preistoria della Corona dell’Addolorata o dei Sette Dolori, nata per impulso del Capitolo generale dei Servi di Maria nel 1646 e da esso confermata nel 1652. Cfr. Annales OSM, III, 212. La Via Matris Dolorosae, che ricalca la Via Crucis con un ciclo di Sette Stazioni, risale alla Spagna del XVIII secolo, nelle chiese dei Servi di Maria. Cfr. P.M. PITZEN, Research on the “Via Matris” being a selective Bibliography (tesi di diploma mariologico), Roma 1966. Anche il pio esercizio dell’Ora Santa della Desolata – che sarebbe da rendere obbligatorio o il Venerdì Santo dopo l’Adorazione della Croce, o il Sabato Santo – risale al XVIII secolo. Dal ‘500 – ‘600 si sviluppò il mese devozionale di settembre all’Addolorata, particolarmente sentito ovviamente dai Serviti. Cfr. G.M.ROSCHINI, La Madonna secondo la fede e la teologia, Roma 1954, IV, p. 350. Purtroppo, non ancora nessun papa ha fatto per questo mese devozionale ciò che Leone XIII ha fatto per ottobre, o Pio VII, Gregorio XVI e Pio IX per maggio. Oggi, devozioni come la Corona rifioriscono per impulso di recenti esperienze mistiche: la Vergine avrebbe raccomandato la sua recita a Marie-Claire, veggente di Kibeho, il 31.5 e il 15.8 del 1982. Una corona delle Lacrime di Maria sarebbe stata annunziata da Cristo l’8.11.1929 e rivelata da Maria l’8.3.1939 a suor Amalia di Gesù Flagellato, come eredità particolare per l’Istituto delle Missionarie del Divin Crocifisso. Fatto salvo il debito riserbo sull’origine di tali rivelazioni, rimane l’impatto sociologico sulle nuove forme devozionali, in un ecumene cristiano ormai dilatatato. Cfr. in gen. anche F. MANNS et al., La Madre di Gesù presso la Croce, Roma,1999;R.RANA, Il culto dell'Addolorata , Modugno 1999; cfr. anche gli interventi in Mary at the foot of the Cross – II cit.; Mary at the foot of the Cross – III cit.
(84)
Il magistero papale ha confermato spesso la validità della devozione alla Vergine Addolorata e ha riecheggiato la dottrina ambrosiana della "Virgo stans sed non flens"; benemerito in tal senso è stato Pio XI (1922-1939). Cfr. D.BERTETTO, Maria nell'insegnamento di Pio XI, in Sal 20 (1958), pp. 596-647; ID., La devozione mariana di Pio XI, in Sal 26 (1964), pp. 334-349. In generale tutto il magistero sia papale che episcopale ha affermato in modo sempre più sicuro la piena associazione salvifica di Maria a Cristo, sia nella corredenzione remota e mediata, sia in quella prossima e immediata.
(85)
La Commemoratio angustiae et dolorium B.M.V. è attestata per la prima volta in Occidente dal decreto del Concilio provinciale di Colonia, che la istituiva per il venerdì dopo la III domenica di Pasqua, probabilmente ricalcando l’uso liturgico dei Servi di Maria, a Colonia dal ‘200. Cfr. MANSI, XXVIII, 1057 ss.; A.M.LEPICIER, Mater Dolorosa. Notes d’histoire, de liturgie et de iconographie sur le culte de Notre-Dame des douleurs, Spa 1948, p. 44. Se il valore di questa liturgia era essenzialmente commemorativo della commendatio di Maria a Giovanni, la messa di « Nostra Signora della Pietà » inserita da Sisto IV nel messale romano nel 1482 ha un sapore squisitamente soteriologico. Da papa Della Rovere in poi, le messe incentrate sul mistero dei dolori mariani si moltiplicano e si disseminano per tutto l’anno liturgico. Ma è il formulario sistino ad essere concesso ai Servi di Maria per la Missam de Septem Doloribus B.M.V. la terza domenica di settembre il 9 giugno 1668 da Alessandro VII, ricalcando quella del messale di Pio V per il Venerdì Santo. Cfr. Annales OSM, III, 265/D. Clemente XI nel 1714 concesse quest’ultima festa ai Servi, e Benedetto XIII nel 1727 la estese a tutta la Chiesa latina. Pio VII nel 1814 invece istituiva la festa dei Sette Dolori la terza domenica di settembre per tutta la Chiesa. Cfr. LEPICIER, Mater Dolorosa cit., pp. 46-47. Pio X la spostò al 15 settembre, aderendo all’uso ambrosiano. Cfr. AAS 5 (1913), p. 438. Paolo VI ha soppresso la commemorazione del Venerdì Santo e ha ridotto a memoria la festa settembrina, peraltro dedicata all’Addolorata. Cfr. Codex Rubricarum, n. 42, K.V., n. 63 in AAS 52 (1960), pp. 602.601.606; Calendarium Romanum..Città del Vaticano 1969, pp. 29.66-67.103. I Serviti conservano la festa del venerdì dopo la V domenica di quaresima, e quella del 15 settembre. Bene sarebbe fissare per tutta la Chiesa, in un venerdì di quaresima, una commemorazione della Corredentrice per preparare i fedeli alla celebrazione della Passione.


Theorèin - Ottobre 2004