Al Medioevo delle torture, delle guerre stagionali, delle lotte di religione, che occupa tanto spazio, spesso a sproposito, nell’immaginario collettivo, bisogna affiancare e a volte sostituire un altro Medioevo, operoso, civile, colto e raffinato, che eleva monumenti imperituri di arte e cultura, dominato da un sentimento altrettanto ancestrale e profondo della violenza, ma più caldo e avvolgente, più rassicurante dinanzi all’ignoto, più fervoroso di ispirazioni morali ed estetiche: il sentimento religioso.
Per esso è fiorita la grande civiltà mediolatina, dall’Atlantico al Baltico, dalla Scandinavia alla Palestina, in cui le arti figurative, attraverso il romanico e il gotico, e le humanae litterae, mediante l’umanesimo monastico e la letteratura scolastica, hanno raggiunto vette altissime di perfezione formale e vigore espressivo.
Nel novero dei generi letterari coltivati con successo dai chierici, va inserita la letteratura mistica. Comune a tutte le religioni, essa attraversa la storia del Cristianesimo senza soluzione di continuità fino ai nostri giorni. Difficile da ricondurre a caratteristiche retoriche proprie, in quanto basata essenzialmente sulle esperienze dei singoli spiriti, e fondata su un tema che per sua natura viene trattato in modi sempre simili al di là delle epoche, la letteratura mistica difficilmente si può separare dagli altri generi (come la trattatistica filosofica o l’autobiografia), anche perché se ne serve come mezzo espressivo (ciò avviene ad esempio con il dialogo, l’epistolografia, il sermone), e con fatica si può dividere in tranches cronologiche. Autori di cose spirituali, come Bernardo di Chiaravalle o Giovanni della Croce, si parlano e si ammaestrano a distanza di secoli, allo stesso titolo di Platone e Kant. Tuttavia, fortemente radicati nel proprio contesto storico, sia perché ogni esperienza spirituale scaturisce da un vissuto, sia perché ogni spiritualità profonda avverte prepotente il bisogno di incidere nella propria epoca, sia perché ogni uomo di Dio è avvertito come maestro dai contemporanei, questi classici meritano di essere considerati in relazione al proprio secolo per la lezione che gli hanno lasciato. In definitiva, gli hanno insegnato come pensare a Dio, e attraverso Lui, come e cosa pensare di sé. Lo studio della mistica è – più che ogni altro – lo studio della forza dell’idea di Dio nella coscienza, nel sacrario dell’anima, nell’intimo dell’uomo, dove nasce e cresce l’identità. E tale identità si riverbera potente sul mondo, lasciandovi la traccia di Dio stesso, maestro interiore che forma i suoi discepoli in ogni tempo. E così la mistica – specie quella speculativa – è una chiave ermeneutica assai profonda, anche se nascosta, per interpretare uomini e cose, per vederli in un certo senso sub specie aeternitatis, perché, per usare una felice espressione di Eckhart, “l’occhio col quale vediamo Dio è quello in cui Lui ci vede.” Peraltro le molteplici implicazioni culturali del loro pensiero fa di questi autori religiosi, spesso consapevolmente in polemica con il sapere filosofico dell’epoca, delle voci autorevoli del dibattito metafisico, gnoseologico, psicologico, etico e addirittura ontologico.
Prenderemo perciò, a scopo esemplificativo, in considerazione alcune figure, che segnano in momenti cruciali la civiltà medievali, e ne sono dunque simboli e maestri.
In quest’ottica, la prima figura che più di tutte ci serve per divinare lo spirito dei tempi propri è quella di Bernardo di Chiaravalle (1092-1153), la cui personalità mistica fu prepotentemente spinta ad operare tra i suoi contemporanei[1]. Lo stesso slancio che profuse nella predicazione della Seconda Crociata lo adoperò nella diffusione della sua dottrina dell’amore mistico, assai utile anche per comprendere la spiritualità dei milites pro Christo nella predicazione bernardiana. Tale filone teologico ha avuto un grande sviluppo nei secoli successivi. Egli, interpretando alla lettera il grido apostolico che non voleva si conoscesse altro al di fuori del Cristo Crocifisso, si lanciò contemporaneamente in una campagna antidialettica che, se da un lato è il naturale completamento della sua battaglia antiereticale – in quanto ben focalizzò la sua offensiva contro il nominalismo triteista di Roscellino[2]e il razionalismo critico di Abelardo[3] – dall’altro fu tuttavia una battaglia di retroguardia che, meno male, non potè impedire la diffusione della grande cultura scolastica nel Medioevo latino. Era l’inevitabile scoria antintellettualista che i riformatori dei secc. XI – XII si portavano dietro da Pier Damiani in poi[4], ma che affondava le sue radici fino nell’apologetica di Tertulliano.
Il primo tema che ci suggestiona in Bernardo è l’elogio dell’umiltà: ad essa egli eleva un monumento alto come le guglie delle cattedrali gotiche di cui propugnava l’elevazione in tutta Europa. Era infatti l’unica ragione per cui il cistercense credeva che valesse la pena innalzarsi. Infatti solo nell’abbassamento dell’humilitas si diviene uguali a Cristo. Un metodo democratico, alla portata di tutti, che però seleziona una nuova aristocrazia dello spirito, nata dalla dura ascesa dei gradini di questa virtù, che sono ben dodici, come già insegnava Benedetto da Norcia. Solo l’uomo veramente umile scopre la verità, che è riconoscere la propria miseria, e solo essa ci fa compatire il prossimo nelle sue mancanze e genera la carità per esso. E la carità apre l’anima al pentimento e alla purificazione. Così, libera dalle cose del mondo – ma senza disprezzarlo in sé stesso, come invece facevano i manichei – l’anima cristiana, ovunque si trovi, può elevarsi alla contemplazione, fino all’estasi, che la fa perdere in Dio, quasi deificandola. In questa ineffabile dottrina Bernardo sublima la sensualità propria di tutti i mistici, accendendo una fiamma viva d’amore che arderà in letteratura fino all’opera omonima di Giovanni della Croce. Infatti, la fenomenologia psichica di tale ascesi è identica a quella di una passione amorosa, e il Dottore ne è perfettamente consapevole, specie quando attribuisce la felix unio all’amore, inteso come impetuosa, virile ed irresistibile volizione. E come tutti i grandi amori esso è un tormento, destinato a placarsi solo nell’eternità, e non può essere comunicato, in quanto la piena del cuore forza, fino a divellerla, la porta del linguaggio. Al servizio di questa elaboratissima mistica Bernardo, che era antidialettico ma non antiretorico, mise il suo stile elegantissimo, degno del rinnovato fervore umanistico della sua epoca, e l’arsenale inesauribile delle sue esperienze parapsicologiche. Lungi tuttavia dal credersi degno delle sue estasi, Bernardo giustifica teologicamente questo fenomeno, partendo addirittura dalla Creazione come atto di amore libero, in cui Dio fa l’uomo a sua immagine, perché libero nell’arbitrio. La volontà umana è una scintilla dell’amore di Dio, e l’uomo ama il Signore naturaliter. Amato da Dio, l’uomo può e deve amarsi, e questo amore coordinato, dell’uomo verso Dio che si ama da sé, e verso se stesso amato da Dio, è la vera unione con Lui.
Tale unione è infranta dal peccato, che è l’amore di qualcosa oltre il volere di Dio, non per Lui. L’uomo si rende dissimile da Dio. Ma questi continua ad amarlo, e con il Cristo Redentore lo rimette in condizione di amarLo e, in Lui, di amare ogni cosa. In quest’ottica l’uomo si rieduca all’amore continuamente per opera di Dio, maestro interiore di carità. Tutta la vita è mistica, perché divina le cose scorgendovi dietro la forza misteriosa della carità, e in essa vi è tutto il senso dell’elevazione dello spirito, che non ha bisogno di estasi o miracoli. Per questa storia d’amore coronata dal successo, l’uomo ama Dio non per la ricompensa ma per sé, e Dio, che lo riama, lo vuole in eterno accanto a sé. Tutto l’impianto giuridicizzante della vita cristiana ordinaria è ripensato magistralmente. Ed è a questo punto che l’anima, amando Dio per sé e sé stessa in Dio, può da questi essere pienamente amata, anche in senso metafisico, meritando il sublime tocco dell’estasi. Non dunque questa esperienza come frutto di una segregazione fisica dal mondo, ma come una separazione dalla propria natura corrotta. Il mistico bernardiano è a suo agio nel monastero come tra i crociati o tra i templari o tra gli architetti gotici; egli è unito a Dio oltre le cose, sia che dissodi le terre col saio bianco dei cistercensi, sia che combatta gli Slavi sul Baltico, sia che predichi agli eretici, e può liberamente parlare con tutti con umile senso di uguaglianza, dall’Imperatore, ai Re, al Papa (al quale, Eugenio IV, suo discepolo, Bernardo indirizzò lo scritto pedagogico De Consideratione).
Altro genio della mistica cistercense, notevole per rigore speculativo e per introspezione psicologica, è Guglielmo di San Thierry († 1148), autore dell’Epistola aurea, del De Contemplando Deo, del De natura et dignitate Amoris
[5]. Spirito più filosofico di quello di Bernardo, Guglielmo dipende più di lui dalla dottrina della reminiscenza di Agostino[6]. Dio, infatti, ha naturalmente inserito nell’uomo l’amore per Lui. Solo il peccato distoglie l’uomo da questo amore. Il monachesimo è proprio lo sforzo di ricondurre l’amore dell’uomo a Dio. Il metodo da seguire impone prima che l’anima conosca se stessa come imago Dei, nel suo pensiero stesso (mens). In essa, Dio ha lasciato la sua impronta, perché lo ricordiamo sempre. E’ la memoria, segreta, che genera la ragione; da entrambe procede la volontà. In effetti, la memoria è memoria di Dio, la ragione è lo sforzo di comprenderlo alla sua stessa luce, la volontà il conato verso di Lui. Questa generazione delle facoltà dello spirito ricalca l’eterna genesi della Trinità. Senza il peccato, sarebbero solo per Dio. Col peccato, si pervertono, e possono essere redente solo dalla grazia. Così restaurate, esse, progredendo nella conoscenza d’amore, rendono l’anima sempre più uguale a Dio stesso. Essere immagine di Lui implica infatti la conoscenza di Lui.
Questa mistica è la trasposizione teologica di uno stato psichico collettivo, proprio dell’uomo medievale: questi, nonostante la propria barbarie, conserva sempre in sé la memoria di Dio, e il raffinamento progressivo della complessa civiltà bassomedievale è proprio uno sforzo collettivo di conoscere meglio il Signore, in quanto non vi è forma di cultura mediolatina che non faccia capo alla religio. Guardare a questa reminiscenza mistica significa vedere la strada fatta da questa antica dottrina platonica: da contemplazione quasi esoterica delle Idee e dell’Uno a scoperta dell’Essenza divina in Agostino e a innamoramento di Lui in Guglielmo, messo alla portata di tutti gli uomini di buona volontà. E se Platone riservava la sua conoscenza ai filosofi, selezionati dalla natura, Guglielmo concede ai monaci, chiamati da Dio, il privilegio di questa contemplazione trasformante. Ma l’essenza del monachesimo risiede proprio nella natura dell’anima, quindi questa mistica, come la bernardiana, è democratica, è aperta a tutti, conformemente allo spirito dell’epoca, in cui il senso della partecipazione, anche religiosa, si fa sempre più esteso. Infine, la generazione in se stessa dell’anima, se ripensa misticamente la psicologia agostiniana, riecheggia in modo più scoperto del suo modello la processione delle ipostasi nell’Uno plotiniano, ed è così spia sensibilissima della rinascita filosofica dell’epoca, la cui venatura platonica è appunto misticheggiante.
Il secondo focolare della mistica speculativa del XII sec. è l’abbazia parigina dei canonici agostiniani di San Vittore. Ugo di San Vittore (1096-1141)
[7], sassone, a differenza della scuola cistercense, volge consapevolmente in contemplazione tutto lo scibile che riesce a ottenere. Consapevole dell’ampliamento delle frontiere cognitive della sua epoca, e della esplosione delle forme classificatorie tradizionali del sapere, si sforza lui stesso di elaborare una nuova forma di enciclopedismo che superi, integrandolo, il sistema del trivio e del quadrivio, ma ribadisca con forza la supremazia della teologia, culminante nella sistematizzazione della mistica. In questo senso l’enciclopedismo medievale, degno di essere affiancato a quello ellenistico e a quello illuminista per vastità d’intenti e solidità di risultati – sia pure in proporzione alle diverse epoche – trova una delle sue ragioni d’essere proprio nel misticismo, ansioso di alimentare la propria conoscenza di Dio attraverso la riconversione religiosa dello stesso sapere profano[8]. Il De Sacramentis di Ugo è infatti una vera enciclopedia. La complessa organizzazione delle scienze del vittorino è avviata dalla constatazione che il sapere è sempre utile per l’amore – in quanto oggetto d’amore è Colui che fece ogni cosa – e conclusa dalla sua mistica. Essa cerca d’interpretare in senso allegorico il messaggio spirituale insito in ogni cosa. L’anima riconosce in esso come l’orma che Dio ha lasciato nel cosmo, in attesa di vederlo in Cielo. Per ora essa sta ritirata in se stessa, come Noè nell’Arca, lasciandosi scivolare sul mare del mondo, ostile ed insidioso. La decodificazione del senso delle cose avviene in ordine alla creazione e alla redenzione; la prima è esplorata dalle scienze profane, l’altra da quelle sacre. Gli ambiti sono dunque significativamente e modernamente complementari ma separati. Non a caso Ugo accetta di leggere la Bibbia secondo l’allegorismo agostiniano, rifiutando ogni fondamentalismo e anticipando Galilei, senza che la Chiesa dei suoi tempi avesse laceranti crisi di coscienza.
Inoltre il vittorino, precorrendo in questo lo spirito di altri filosofi futuri, coonesta il proprio misticismo epistemologico con una matrice esistenziale, proponendo una efficace e suggestiva dottrina del Cogito. Non possiamo ignorare di esistere, né di essere al di là del nostro stesso corpo; la consapevolezza di non essere sempre esistiti e di non poter essere causa di sé, ci spinge a scoprire Dio come fondatore del nostro stesso esistere. E’ lo schema delle Meditazioni metafisiche di Cartesio, senza la tortuosa cerebralità del dubbio iperbolico, e senza l’affannosa deduzione dell’esistenza di Dio tramite prove astruse[9]. Ugo aggancia l’esistenza di Dio a quella di ognuno, prova la necessità di Dio in relazione alla vita del singolo. Mai la filosofia monastica aveva dovuto tanto alla suggestione di una vita solitaria. In questo cogito esistenziale fortissime, più che in Cartesio, sono le implicazioni idealistiche, che hanno però i propri contravveleni ortodossi nella rigorosa fondazione dell’essenza individuale su quella divina. Come Cartesio, Ugo afferma risolutamente che le cose sono buone perché Dio le ha volute, e non viceversa, fondando così il suo oggettivismo naturalistico su un volontarismo metafisico. Sebbene egli anticipi la figura moderna del filosofo scienziato, potè così evitare le cesure tra esprit de finesse e esprit de géometrie di Pascal, e i ragionamenti apodittici della teodicea di Leibniz. Segno, questo, di una società che fa progredire senza traumi scienza e fede in un parallelismo armonioso.
Riccardo di San Vittore (†1173)[10], discepolo e successore di Ugo nell’abbazia, più di lui indulge alla sistematizzazione della mistica, ancorandola ad una teologia speculativa che ripropone in modo serrato i ragionamenti di Anselmo di Aosta e Agostino. Sostenitore di una conoscenza di Dio che salga dall’esperienza alla ragione alla contemplazione, fino al tocco divino della visione estatica nell’oblio di sé, Riccardo suggella, nelle sue opere (Benjamin maior e Benjamin minor), lo sforzo di una teologia che, invece di mortificare il sapere come faceva Bernardo, vada alla ricerca di nuove sintesi culturali. Quando la rinascita dell’aristotelismo sarà piena, esse nasceranno. In tal senso, i vittorini hanno aperto la strada al futuro, tracciando una linea che conduce da Platone a Bonaventura passando per Agostino, Anselmo e essi stessi, progenitori di quel filone mistico-francescano che contenderà al tomismo l’egemonia culturale sul mondo cristiano e che, paradossalmente, saprà sostanziarsi dell’empirismo logico dell’Università di Oxford, nel XIII sec.[11]
Con questi fermenti, si apre la tradizione mistica bassomedievale, che si protrarrà, in corrispondenza del fiorire della civiltà mediolatina occidentale, per i secc. XII-XIII. Coloro che furono tra i padri di questa civiltà, e tra essi senz’altro Bernardo di Chiaravalle, furono anche i fondatori di questa letteratura spirituale. Lo sforzo profuso dai vittorini nel racchiudere in una sintesi enciclopedica tutto il sapere riconducendolo alla matrice dello spirito ben attesta il fervore edificatorio di queste generazioni di intellettuali, intenti a progettare la loro rinnovata civiltà cristiana.
Nel suo fiorire, al vertice della letteratura scolastica erudita, come rappresentante di una temperie di pensiero che è platonico-agostiniano-francescana, e alla guida dell’Ordine del Poverello d’Assisi, troviamo Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), filosofo, teologo, letterato e cardinale[12]. Nel quadro del suo complesso pensiero la mistica speculativa appare il vertice della riflessione, concordemente con i suoi interessi personali e con lo sforzo pastorale di adattare la santità francescana alla tradizione e ad un sistema che ne facesse uno strumento formativo. Convinto dell’accordo tra fede e ragione, Bonaventura attribuisce alla prima una più profonda guida verso Dio. Essa culmina in un itinerarium mentis che scorge dietro le cose le orme divine, facendo della vita un viaggio verso il Signore. Ciò può avvenire solo per grazia, essendosi la natura corrotta per il peccato: l’uomo deve pregare, vivere santamente, scoprire il vero, contemplare, ed elevarsi a Dio. Questi ci parla attraverso le cose, e si fa riconoscere nelle vestigia del mondo sensibile, nell’immagine di sé lasciata nell’anima e nell’unione mistica. Su queste tre tappe si innestano complessi temi filosofici, prove dell’esistenza di Dio, dottrine della conoscenza, ma la loro ispirazione rimane sempre genuinamente spirituale, con un fine ascetico molto più forte di quello tomista.
All’altro capo del Medioevo, a testimonianza di una dissoluzione sempre più incalzante, altri mistici elaboreranno dottrine diverse, più intime, più ripiegate su se stesse, quando non addirittura in totale frattura con la tradizione, ardite fino all’eresia formale nel ripensare quel Dio dalla cui esperienza prendevano le mosse.
Siamo ormai nel XIV sec. La mistica è categoria storico-religiosa per decodificare la crisi nella quale l’Occidente medievale si sta, insensibilmente, inoltrando. Questo balzo cronologico non deve fare credere che in mezzo non vi sia mistica, o che non sia degna di essere menzionata. Tutt’altro. Ve ne fu e a iosa. Ma non fu speculativa nel senso proprio del termine, non fu apportatrice di sistemi nuovi di pensiero. Con gli autori domenicani che andiamo, sommariamente, ad esplorare, rinasce lo sforzo innovativo della riflessione mistica, e alcune delle loro intuizioni fanno discutere ancora oggi, espresse peraltro in un tedesco che con loro raggiungeva le prime vette della sua letteratura religiosa.
La prima figura è quella enigmatica, ed emblematica, di Giovanni Eckhart (1260-1327), chiamato di solito Meister Eckhart, ossia maestro Eckhart, quasi lo sia per antonomasia
[13]. Domenicano tedesco, professore a Colonia, nelle sue lezioni e nelle sue opere egli, profondo conoscitore di tutta la tradizione filosofica antecedente, riprese il pensiero neoplatonico, così come era stato formulato da Proclo[14], e capovolse tutte le asserzioni dei pensatori ufficiali della Chiesa. Nella prima delle sue Quaestiones sull’essere, datate al 1313-1314, egli si domandò se in Dio essere e conoscere fossero identici, e si rispose non come chiunque farebbe, e come aveva fatto Tommaso d’Aquino, ossia che Egli conosce perché è, ma che Egli è perché conosce. Subordinava così l’essere al pensiero, facendo di quest’ultimo il fondamento del primo, esattamente come il De causis di Proclo, e come avrebbero fatto spiriti religiosi come Spinoza e Berkeley, o in ogni caso fortemente teoretici, come Fichte o Hegel. Ma, a differenza di costoro, Eckhart insisteva sull’aspetto epifanico dell’essere rispetto al pensiero, con un’enfasi che prima di lui, nel Cristianesimo, aveva avuto solo Scoto Eriugena, su cui gravava il peso di una plurisecolare damnatio memoriae che, tuttavia, non aveva impedito alla sua ispirazione di percorrere, come un fiume carsico, i meandri del pensiero cristiano[15]. Ed Eckhart, riprendendo alla lettera la celebre asserzione del De causis, afferma senza esitazioni che l’essere è la prima delle cose create, e che quindi ciò che è di pertinenza di Dio, essendo egli increato, è anteriore, superiore e differente dall’essere. Dio è metaessenziale.
Ma questa singolarissima teologia, che anticipa i concetti del Nulla divino cari a tanta filosofia romantica e post-romantica (come il Secondo Schelling, anche se in lui Dio emerge proprio da questo nulla
[16]), era assai ardita, in quanto faceva a pugni con quanto Dio stesso diceva di Sé, nell’Esodo, quando affermava scultoreo: “Ego sum qui sum”, “Egò eimì ò òn”, “Io sono Colui Che sono”, “Io sono Colui che è”, ossia l’essere stesso. Su cosa fosse l’essere, se l’essenza agostiniana o l’esistenza tomista, si poteva pure essere in disaccordo, e ancora i fuochi della battaglia metafisica avevano brillato nella notte medievale nel recente magistero filosofico di Duns Scoto[17], ma nessuno aveva mai messo in discussione che Dio fosse l’essere. Eckhart, con una abilità dialettica spregiudicata e originalissima, riprendendo l’ontologia negativa di Maimonide[18] anche la teologia apofatica dello Pseudo-Dionigi[19], disse che Dio aveva risposto che era “Colui che è”, non per dire chi realmente fosse, ma per tenerlo celato, in quanto, se realmente avesse voluto dire di essere l’Essere, avrebbe detto soltanto “Io sono”. Dicendo “Io sono Colui che sono”, Egli afferma di essere qualcosa di radicalmente diverso da ciò che gli altri sono. Esplicitando il senso, Eckhart dice che Dio non è, perché Egli è solamente sapienza. Se fosse essere, non sarebbe veramente creatore, perché non ne sarebbe la causa, essendo l’esse preesistente a se stesso in Lui. E’ evidente che per Eckhart l’essere ha conservato qualcosa dell’unità che aveva in Parmenide, per cui riunisce in sé tutte le cose. Forse influenzato dall’univocità dell’essere di Duns Scoto, Eckhart non riusciva a salvaguardare la distinzione ontologica tra Dio e mondo, avendo perduto l’analogia tomista, e così spostò la questione dal piano ontologico a quello metaontologico.
Qui il suo pensiero diventa ancor più complesso. Se Dio è la sapientia, ossia l’atto di conoscere – pensiero di pensiero, come si è detto da Aristotele a Gentile – solo in modo improprio si dice che Egli è. Forse per essere il meno possibile eretico, forse per ancorare la sua metaontologia alla teologia trinitaria, Eckhart dice che il Padre è la Sapientia, il Figlio il vivere, lo Spirito Santo l’esse. Ossia, Dio è essere solo nell’ultima delle sue ipostasi. E come nel Neoplatonismo, l’essere scaturisce dal pensiero.
E quanto sia neoplatonico, nel senso di seguace di Plotino, si vede di Eckhart nel commento all’Epistola ai Galati, posseduto in manoscritto da Cusano: il concetto di Uno rimane il più alto, ed è soltanto pertinente dell’Intelligere. Infatti, l’essere è composto di essere e intelligibilità, e quindi è complesso, duplice. Solo ciò che è al di là dell’essere è Uno, ossia l’Intelligere considerato in sé. Dio, appunto.
Ma in questo è implicito che l’Uno, al di là dell’essere e del pensiero in Plotino, lo sia anche in Eckhart, almeno nel senso che l’Unità è ciò che fa l’Intelletto. Esso si pone come conseguenza dell’Unità, perché è l’unica cosa che può dirsi una. Perciò, se il Padre è l’Intelligere, ma è pur sempre un’Ipostasi della Trinità, ossia non tutto Dio, allora la Divinità stessa, la Sua natura, è l’Uno. Mai resa a Platone e a Plotino fu più completa nel monoteismo. Questa Deitas identica all’Unità è come un deserto, una quiete eterna, che è nel profondo della Trinità, e oltre essa. Contemplandola si va nel cuore di Dio. Ma non può starsene inerte. Essa deve per forza ipostatizzarsi, come nella dottrina di Plotino. Deve identificarsi col Padre, che genera il Figlio, e dai quali procede lo Spirito, ossia deve identificarsi coll’Intelligere, generare il Vivere e far procedere da essi l’Essere.
Forse Eckhart non si rese conto che quasi egli poneva la necessità di un Super-Dio, superiore al Dio triplicemente ipostatizzato. Quasi che la natura divina preesistesse alle persone. In effetti, se non sul piano ontologico – ammesso che si possa parlare di ontologia di Eckhart – questa precedenza nel suo pensiero c’è nell’ordine logico. Lo stravolgimento della scolastica non poteva essere maggiore. Certo lui, legato ad una concezione trinitaria più greca che latina, ossia con l’accento calcato più sulla successione delle Ipostasi che sulla distinzione tra Essenza e Sussistenze divine, forse non avvertiva questa latente e mostruosa eresia. Ma la sua esperienza mistica, volta a radunarsi proprio nella quiete del deserto divino, oltre dunque le Ipostasi, la poneva di fatto e necessariamente.
A questa infatti si aggancia la sua enigmatica psicologia, che poi è un tutt’uno con la sua esperienza di Dio. Se Dio è unità, e se l’unità è essere nell’ultima sua ipostatizzazione, Dio è il vero essere, e tutto il resto è nulla, almeno nel senso che non è di per sé. E ogni ente è solo nella misura in cui ha in sé l’intellegibilità e l’intelletto. In ragion di ciò, ha proporzionalmente vita e essere. In conseguenza, nell’approfondimento della conoscenza, ogni ente, e l’uomo innanzi tutto, può risalire fino a Dio. E’ la lettura mistica della Riunificazione plotiniana.
Quest’anima, che deve nella conoscenza risalire sino all’Uno – Dio, ha le tre facoltà agostiniane di intelletto, volontà e memoria, ma anche una cittadella intima, una favilla interiore, una sorta di sacrario in cui si racchiude la somiglianza di essa con Dio, e che è essa stessa semplice e una come Lui, per cui per Eckhart è essa stessa increrata e increabile, e con cui si identifica l’intelletto. In questa favilla l’anima si identifica con Dio, e Questi la genera allo stesso modo e allo stesso tempo in cui genera il Figlio. E’evidente che Eckhart voleva replicare nell’anima il processo metaessenziale di “formazione” di Dio. Ed è altrettanto evidente che la sua metaontologia lo spingeva a far dell’anima una emanazione di Dio stesso. In tal maniera, l’unione dell’anima con Dio era naturale, e lo sforzo umano doveva indirizzarsi proprio a conservarsi in questa cittadella interiore. Del resto, una simile psicologia giustifica le condanne che colpirono la morale di Eckhart, ed è in se stessa sconcertante per un cristiano. Forse il domenicano non si rendeva pienamente conto di ciò che diceva. Certo era condizionato dalla sua particolare esperienza mistica. Infatti, se l’anima è naturaliter unita a Dio, ovviamente la ricerca dei beni mondani è fonte di sofferenza. Ma lo sforzo di unione con l’intimità della propria anima, dove essa è in contatto con Dio, implica da parte del mistico un superamento di ogni molteplicità, attraverso un distacco assoluto da ogni cosa mediante la Povertà. Essa, lungi dall’essere un fatto materiale, è il distacco da ogni cosa, ivi compresa la propria individualità, per perdersi nell’unità divina. Questo implica una svalutazione della morale e dei sacramenti, che non solo non sono necessari a quest’unione, ma addirittura vengono superati in essa. E persino il desiderio di Dio viene superato in questo processo di unificazione.
Chiaramente, Eckhart anche in questo trasportava nel cristianesimo – ridotto ad un simulacro – tutta la tradizione neoplatonica. I suoi accenti sono tutti posti su una sorta di spersonalizzazione, per cui non a caso i moderni cultori del Nirvana o del Brahaman sono sedotti da questo mistico estatico. D’altro canto, chi si meraviglierebbe, scoprendo che Eckhart doveva essere condannato come eretico, e che solo la morte lo salvò dal verdetto avignonese di Giovanni XXII, promulgato postumo con la bolla In Agro Dominico? E se la sua esperienza religiosa fu senz’altro ben intenzionata, e se le sue proposizioni, prese da sole, possono risultare edificanti e addirittura ortodosse, e se anche il suo magistero fu tanto ben intenzionato che alcuni suoi discepoli furono i maggiori mistici del Cattolicesimo, è altrettanto vero che il suo pensiero rappresenta, nell’Ordine domenicano, quella crisi che i francescani vivevano nella controversia sulla povertà proprio in quei decenni, condannati proprio da Giovanni XXII. La mistica di Eckhart rappresenta la dissoluzione della religiosità intellettuale della scolastica, non riuscendo più a dosare la mistura di fede e filosofia greca, e facendosi in parte suggestionare dalle ambiguità del Beghinismo e, forse, da certe forme dell’eresia del Libero Spirito, impalpabile nei contenuti, così come l’evocava il suo nome, e che pure si riallacciava ad un panteismo eriugeniano, quello di Almarico di Benè, o di Davide di Dinant
[20]. In effetti, non si può dissentire da Ockham che, presente ad Avignone contemporaneamente a Eckhart perché anche lui sospetto di eresia, trovava del tutto assurde le tesi del domenicano.
E tuttavia una sostanziale bontà religiosa di questi insegnamenti arditi e generosi, a tratti confusi, bisogna senz’altro ammetterla, perché tra i discepoli di Eckhart sorsero alcuni tra i maggiori maestri della mistica cristiana, profondi rinnovatori della pietà religiosa, e legati da molteplici relazioni a quella devotio moderna che, da Gerardo Groote in poi, avrebbe, tra ‘300 e ‘400, rinnovato lo spirito cattolico
[21].
Primo è Giovanni Tauler (1300-1361)[22], autore di sermoni in cui la dottrina della favilla eckhartiana viene completamente ripensata, e consapevolmente inserita nel filone agostiniano, arricchito da suggestioni psicologiche di Alberto Magno. Il tema fondamentale è quello del fondo o vetta dell’anima, luogo di assoluta quiete, privo di rappresentazioni, in cui lo spirito, assolutamente recettivo, può elevarsi alla contemplazione mistica. Attraverso il fondo, l’anima si ricongiunge all’idea eterna che Dio aveva di lei. Questo accade per mediazione del Gemüt, ossia di una sorta di cuore pascaliano ante litteram, la cui disposizione fondamentale verso il bene o il male altro non è che l’inclinazione verso l’esterno o l’interno dell’anima. Sviluppando e assecondando l’introversione dell’anima verso il suo fondo, l’uomo riconosce in essa la presenza ammaestratrice di Dio stesso. Grande è il conforto che viene dal dialogo interiore – lo dimostrerà nelle sue opere, secoli dopo, Giovanni della Croce[23] – ma pericoloso è il fruirne senza aver fatto una vera esperienza delle virtù cristiane, in quanto l’esaltazione potrebbe far ritenere parola del Signore ciò che non lo è. Fondamentale rimane dunque l’esemplificazione della vita cristiana sulla Passione e la Morte di Cristo, per la quale Tauler riprende gli insegnamenti del prologo dell’Itinerarium di Bonaventura. A questa vita ascetica sono chiamati tutti. Tauler ha nelle sue omelie espressioni delicate su chi, volendo lasciare il proprio lavoro per darsi tutto a Dio, viene da Questi interiormente dissuaso, perché rimanga nel suo stato a dargli gloria. Lo stesso dottore dichiara che un lavoro onesto fatto per amore di Dio vale più di mille devozioni senza amore, e afferma che avrebbe voluto fare il ciabattino, se avesse potuto. Certe forme spirituali per la santificazione dei laici, come quelle insegnate da Josè Maria Escrivà de Balaguer ai suoi discepoli dell’Opus Dei, o l’iniziativa del rosario vivente del sarto polacco Jan Tyranowsky, che larga influenza ebbe sulla formazione spirituale di papa Wojtyla, sono qui ampiamente precorse[24]. Putroppo, i vincoli di parentela spirituale tra Tauler, la devotio moderna e la Riforma protestante causarono al dottore mistico alcuni gravi infortuni postumi, tanto che – del tutto ingiustamente – Sisto V arriverà a metterlo all’Indice, da cui poi fu saggiamente rimosso. In ogni caso, la mistica controriformistica non sarebbe stata tedesca e domenicana, ma ispanica e carmelitana.
Altro discepolo di Eckhart fu Enrico Suso (1295-1366)[25], attento agli aspetti sentimentali della devozione e grande interprete del pensiero del maestro, legato al movimento degli Amici di Dio
[26]. Mistico poeta e trovatore, riveste le sue riflessioni e le sue immagini di amore cavalleresco. Fortemente legato all’arte figurativa del suo tempo, procede per immagini intense e icastiche. Convinto come Eckhart che misticismo voglia dire distacco dalle cose e immersione in Dio, non cade tuttavia nell’equivoco panteista, sebbene abbia subito sanzioni ecclesiastiche per la sua fedeltà morale al maestro, e accentua l’identità personale e separata del Signore come partner d’amore.
Giovanni di Ruysbroeck (1293-1381), brabantino, mantiene una sua fisionomia che lo differenzia dai discepoli di Eckhart[27]. Egli, autore dell’Ornamento delle Nozze spirituali e del Libro delle Dodici Beghine, descrive, specie nella prima opera, il modo in cui Dio, prendendo l’iniziativa, attraverso la grazia, fa innamorare di sé l’anima. I suoi doni la seducono, e lei risponde. Rispondendo, essa viene progressivamente perfezionata, ed esce verso il suo Dio, come le spose della parabola verso il loro promesso. Ispirandosi a Bernardo, Giovanni vuole che l’anima viva la sua ascesa mistica nella vita affettiva, attiva e contemplativa, e nessuna forma di esistenza risulta penalizzata, anzi ognuna è la scala che si deve salire sino a Dio.
Questa ascesi implica un triplice processo di unificazione: della natura nel cuore – le potenze spirituali – delle potenze nell’intelligenza e dell’uomo tutto in Dio. Ciò implica uno sforzo volitivo costante. Dalle virtù morali si sale agli esercizi spirituali, da essi alla contemplazione e da qui, a Dio piacendo, all’unione mistica. Essa è tuttavia indescrivibile. Sviluppando un tema trattato contemporaneamente da Tauler, egli, che si ispira al neoplatonismo dello Pseudo-Dionigi, la paragona alla restituzione all’esistenza essenziale, ossia all’unificazione con l’idea che Dio ha di noi nel Verbo. Lungi dal voler avviare una disputa essenzialista, Ruysbroeck ne fu tuttavia coinvolto da Giovanni Gerson, che nella generazione successiva gli attribuì intenti filosofici che non aveva mai avuto
[28].
In effetti, spesso non capiti dai contemporanei e sacrificati ad una rinata cultura umanistica sempre più paganeggiante, i mistici persero via via influenza sulle generazioni seguenti. La mentalità comune, sempre più laicizzata, era incapace di coglierne le suggestioni. Erano le avvisaglie di un imbastardimento religioso a cui reagirono, con veemenza, spiriti diversi ma generosi, ciascuno a suo modo. Lutero ne incarnò l’anima tedesca ed eretica, e Ignazio di Loyola quella ispanica e ortodossa, lasciando il campo a nuove, emozionanti e profonde esperienze religiose e mistiche, sia in campo cattolico – Teresa d’Avila e Giovanni della Croce – che in campo protestante. L’antico anelito dell’uomo di scoprire il suo Creatore e di fondersi con Lui era ancora vivo
Le opere di Bernardo si vedano in Sancti Bernardi Opera, ed. J. LECLERCQ, C.H.TALBOT, H.M. ROCHAIS, voll. I-VI, Roma 1957 ss. Sulla mistica bernardiana si veda E. GILSON, La théologie mystique de S. Bernard, Parigi 1932; J.LECLERCQ,Saint Bernard, le dernier des Pères, in La spiritualité du Moyen Age,Parigi 1961, pp. 238-249 (trad. it. : Bologna 1969, pp. 322-336); ID., Saint Bernard mystique,Parigi-Bruges 1948 ; E.BERTOLA,San Bernardo e la teologia speculativa, Padova 1959. Si veda poi Studi su San Bernardo di Chiaravalle nell’ottavo centenario della canonizzazione. Convegno Internazionale, Certosa di Firenze, 6-9 novembre 1974, in “Bibliotheca Cisterciensis” 6, Roma 1975.
[2] Cfr. sull’arg. J.PICAVET, Roscelin philosophe et théologien d’après la légende et d’après l’histoire, Parigi 1911, con una ricca raccolta di testi, che rende valido questo libro pur così datato.
[3] Cfr. J.JOLIVET, Abelardo. Dialettica e Mistero, Milano 1996.
[4] Cfr. J.GONSETTE,Pier Damiani et la culture profane, Lovanio 1956.
[5] Le opere sono agevolmente consultabili tutte insieme in PL CLXXX. Sull’autore cfr. O. BROOKE, The Trinitarian Aspect of the Ascent of the Soul to God in the Theology of William of St. Thierry, in “Recherches de Théologie ancienne et médiévale”, 1959; ID., The Speculative Development of the Trinitarian Theology of William of St.Thierry , ibid., 1960; ID., William of St. Thierry’s Doctrine of the Ascent to God by Faith, ibid. 1963.
[6] Cfr. G.SANTI, Dio e l’uomo. Conoscenza, memoria, linguaggio, ermeneutica in Agostino, Roma 19902.
[7] Opere in PL CLXXV-CLXXVII; cfr. R.BARON, L’influence de Hugues de St.Victor, in “Recherches de théologie ancienne et médiévale » 1955 ; ID., L’idée de liberté chez St. Anselme et Hugues de St. Victor, ibid. 1965.
[8] Cfr. M.T.BEONIO BROCCHIERI FUMAGALLI, Le enciclopedie dell’Occidente Medievale, Milano 1960.
[9] Cfr. S.DI BELLA, Le Meditazioni Metafisiche di Cartesio, Roma 1997.
[10] >Opere in PL CXCVI; cfr. G.DUMEIGE, Richard de St. Victor et l’idée chrétienne de l’amour, Parigi 1952.
[11] Cfr. E.GILSON, La philosophie au Moyen Age, Parigi 1952 (ed. it. : La filosofia nel Medio Evo, Firenze 1973).
[12] Itinerarium mentis in Deum. De riductione artium ad theologiam,ed. J.KAMP, Monaco 1961; Itinerario dell’anima a Dio, a cura di M.LETTERIO, Milano 1996; Opere, Roma 1990 ss. Cfr. A.BLASUCCI, La spiritualità di San Bonaventura, Firenze 1974; E.BETTONI, L’uomo in cammino verso Dio, Milano 1978; E.GILSON, La philosophie de Saint Bonaventure, Parigi 1924 (ed. it. La filosofia di San Bonaventura, Milano 1995); M.SGARBOSSA, Bonaventura.Il teologo della perfetta letizia, Roma 1997.
[13] Testi. Deutsche
Werke, ed. J.QUINT, I (1958), V (1963),
Stoccarda; Lateinische Werke, ed.
J.KOCH-E.BENZ-K.WEISS e a., IV, Stoccarda 1956; F. PFEIFFER, Deutsches
mystiker II, Lipsia 1857; rist. Aalen
1962; J.QUINT, Meister Eckhart. Deutsche
Predigten und Traktate, Monaco 1955. Cfr. A.DEMPF, Meister
Eckhart, Friburgo 19602; H.HOF, Scintilla
Animae, Lund 1952; J.KOPPER, Die
Metaphysik Meister Eckharts, Saarbrücken 1955; J.ANCELET-HUSTACE, Maître
Eckhart et la mystique rhénane, in “
Maîtres Spirituelles 7“, Parigi 1956; V.LOSSKY, Théologie
negative et connaissance de Dieu chez Maîtres Eckhart, Parigi 1960.