LE “STORIE” DI GIOVANNI CANTACUZENO:
CARATTERI DI UN’OPERA A CONFINE TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
A cura di: Eugenia Toni
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IV parte

L'opera

Abbiamo visto come l’onestà sia una costante fondamentale nell’autoritratto dello scrittore, ed è in conformità con questa virtù che il Cantacuzeno s’impegna, in quanto autore, a lasciarsi guidare nel suo racconto soltanto dalla verità (87), esponendo i fatti con precisione e veridicità, dalle quali non si è mai discostato per seguire il canone dell’eleganza (χάρις) del discorso, senza mai avere il proposito di infangare alcuno, anche se nemico, con la menzogna88. Egli prende a testimone il Signore che vede tutto e al quale nulla sfugge (89).

Un episodio interessante ci è offerto dal racconto delle trattative dell’autore con gli ambasciatori di Galata. Cantacuzeno sottolinea come questi ultimi ricercavano la verità (τἀληθές) sulle cause della guerra (90), “che non volevano nascondere la verità” (91), inoltre “tenevano alla verità” (92), “al nome della verità” (93), “la verità riguardo alla guerra” (94)

Frequenti sono le menzioni ad ἀλήθεια ed a a τἀληθές, circa sei volte in meno di una pagina, e l’episodio si conclude in questo modo: “al fine di non discostarsi dalla verità” (95).

Al contrario, la menzogna e la dissimulazione compaiono nel testo con abbondanza di sinonimi (96).

Un episodio interessante è dato dal caso in cui la menzogna appare sotto la forma dell’utile e dell’onesto. Come racconta l’autore, Andronico III e Cantacuzeno fingevano (ἐπλάττοντο)  di considerare che una spedizione contro l’Occidente fosse più vantaggiosa (λυσιτελέστεραν) di una campagna contro Costantinopoli; pensavano che non fosse utile, né esente da rischio (ἀσϕαλές) annunciare apertamente (ϕανερῶς) all’esercito lo scopo reale della spedizione, poiché essi non si fidavano completamente delle loro truppe, e temevano che potessero prendere la fuga (97).

In questo caso il tema della menzogna si lega a quello del profitto, in quanto l’eroe onesto e disinteressato si trova costretto a ricorrere all’inganno per il suo proprio vantaggio, giustificato chiaramente da motivi di sicurezza.

Il racconto dell’assedio di Didimoteico da parte delle truppe bulgare dello zar Giovanni Alessandro dà luogo ad un altro esempio: gli assediati, con a capo Irene, moglie del Cantacuzeno, minacciarono lo zar di una subitanea liberazione della città, nonostante ciò non fosse affatto possibile per la mancanza di rinforzi. “Queste promesse non erano sincere, ma gli assediati cercarono d’ingannare il nemico, sperando di spaventare Anna di Savoia” (98). La menzogna è, anche in questo caso, autorizzata e lodevole, a dispetto del principio cavalleresco dell’onore e della verità, allorché risponde agli interessi dell’eroe.

Le contraddizioni interne dell’eroe, di cui è intessuta la Storia, sono una regola letteraria nella letteratura bizantina, dove si esprimono pienamente sul piano del contenuto, e si spiegano con la complessità della natura umana. In Cantacuzeno, invece, il principio di contraddizione appare grazie al confronto tra contenuto e materiale lessicale, producendo una tensione letteraria ed una drammaticità narrativa tutta originale per cui, “la figura dell’eroe, accampato in un ambiente lessicale antinomico, assume una profondità particolare” (99).

La credibilità del racconto e l’indubbio fine dell’obbiettività sono affidate, inoltre, all’uso che Cantacuzeno fa della terza persona per parlare di se stesso, come Cesare fece nei suoi commentarii di guerra (100).

Riguardo ai suoi avversari, Giovanni non ne parla mai negativamente. Nella prima parte della Storia, sebbene tutte le sue simpatie vadano ad Andronico il Giovane, di cui egli fu partigiano e consigliere, tuttavia Andronico II non è presentato sotto una cattiva luce: egli è “assennato ed esperto” (101), ed è ritenuta una debolezza “francamente imperiale” quella “predisposizione al cruccio” (102) al quale neanche il nipote è estraneo (103).

L’arte della reticenza fa sì che Cantacuzeno taccia le stravaganze del giovane Andronico, che erano la ragione della sfiducia del vecchio imperatore, non descriva in maniera dettagliata la congiura di Sirgianne Paleologo, e non citi affatto la presa di Nicea e Nicomedia da parte dei Turchi (104). Lo stesso dice di sopprimere le cose che possono recare danno ad altri (105).

Rifiuta allo stesso modo di calunniare Anna di Savoia: secondo Giovanni ella fu sempre benevola nei suoi confronti e, nel contempo, si rifiutò di prestare fede alle calunnie di cui Cantacuzeno era oggetto (106). Quando scoppiò la guerra civile Anna si afflisse e si pentì (107), ma non fu in ogni caso colpevole del conflitto (108).

Giovanni V, il rivale e il vincitore di Giovanni è descritto col tono del panegirico, ed è qualificato come “ricettacolo delle grazie più varie” (109); già all’età di 15 anni manifestava il suo valore e la sua saggezza, non era inferiore ai suoi avi per intelligenza, e diede, più di una volta, prova d’intrepidità davanti al nemico (110); sopportò la sofferenza con disinvoltura come gli uomini più esperti (111); si distingueva per la filantropia, la clemenza, la grandezza d’animo, il coraggio e la saggezza (112).

Elena, moglie di Giovanni V e figlia di Cantacuzeno, era ugualmente ornata delle più alte qualità: poteva competere con le mogli più illustri del passato, si distingueva per una vivace intelligenza, per il merito della ragione e per la fermezza di un animo nobile (113).

Cantacuzeno apre le sue pagine al genere particolare del “discorso riportato”, ossia, come dice Kazhdan, introduce, in maniera insolita ed estranea alla letteratura bizantina, i discorsi critici e polemici mossi al suo personaggio (114).

Dalla bocca del Cantacuzeno sappiamo che egli veniva accusato di aspirare al trono, e di aver impedito ad Andronico II, per questo scopo, di concentrare il potere nelle sue mani (115). Lo si accusava, inoltre, di perfidia e corruzione, e di essersi mostrato ingrato verso i figli di Andronico III che aveva fatto tanto per lui (116). Le spie inviate nel suo campo affermavano che egli era intenzionato ad eliminare Anna di Savoia e Giovanni V, e che progettava di punire i loro partigiani ed il patriarca con pesanti torture e supplizi (117).

L’aspirazione alla corona non era il solo e più pesante rimprovero. L’autore cita l’accusa di “turcofilia” che gli lanciavano i “giovani e gli insensati” (118), affermando l’ingiustizia di tale critica (119). Egli, riconosciuto come autore della guerra civile e responsabile della partecipazione ad essa di forze straniere, insiste nella giustificazione di essere stato costretto a combattere (120).

Se questa difesa sia stata dettata dalla consapevolezza della sua debole posizione è difficile da chiarire (121).

Le cause della guerra tra Cantacuzeno ed il partito dei Paleologi, nonché gli orrori che ne derivarono, sono l’invidia (ϕθόνος) e la calunnia (συκοϕαντία) (122).

Questo procedimento non ha eguali nella letteratura bizantina. Niceforo Gregora, nella sua Storia polemizza ampliamente contro Gregorio Palamas e contro il Cantacuzeno, i quali, in compenso, non hanno diritto che a repliche isolate, e la loro confessione eretica è esposta in poche righe parsimoniose (123). Al contrario, Cantacuzeno non elude i discorsi dei suoi antagonisti più in vista come Apocauco (124) e il patriarca Giovanni Calecas (125), e quelli comuni di entrambi (126), sebbene diretti contro di lui.

Cantacuzeno non dissimula i suoi fallimenti. Durante l’inverno 1341-1342, tutta la Tracia si sollevò contro di lui (127), e benché disponesse di un valoroso esercito, la neve e la pioggia impedirono qualsiasi azione bellica (128); non riuscì ad impossessarsi di Peritheorion, nonostante gli abitanti di questa città fossero stremati dalla resistenza (129); si attardò a giungere a Tessalonica, permettendo agli zeloti d’impossessarsi della città (130), e l’autore stesso nota con malinconia che “gli avvenimenti non obbediscono al loro corso” (131). Quando, lasciata Tessalonica, si ritirò nell’Epiro, il fiume Vardar straripò e fu impossibile attraversarlo (132); il tradimento di Sinadeno gettò l’esercito nello scompiglio (133); durante la marcia contro Serre con dei reggimenti serbi si diffuse un’epidemia che decimò l’esercito di 1500 uomini (134). Dopo i primi successi del 1343, le cose non andarono come si sperava (135) perché Dušan, cambiato atteggiamento, iniziò a nuocergli; dopo la partenza di Umur, all’inizio del 1344, tutti si sollevarono contro Cantacuzeno (136).

La lista delle disfatte si potrebbe allungare di molto, ma ciò è sufficiente a dare l’idea che Cantacuzeno non sia presentato in modo encomiastico come un trionfatore, e i fallimenti e le critiche di cui egli fu oggetto, conferiscono alla Storia un carattere antipanegirico che dà illusione di veridicità, ugualmente ottenuta grazie al costante riferimento al “reale”, come abbiamo visto, e all’aspetto documentario della relazione.

Inoltre, si ricorre ad un procedimento particolare della storiografia bizantina, l’introduzione nel racconto dei discorsi e di lettere autentiche o fittizie (137): lettere di Andronico II a suo nipote (138); lettere di Andronico il Giovane a suo nonno (139); lettere di Andronico il Giovane ai senatori (140) e al patriarca Isaia (141); missiva di Cantacuzeno ad Andronico II (142), trasmessa dall’ambasciata di Andronico il Giovane; lettera di Cantacuzeno al patriarca Giovanni Calecas, datata nel 1342 (143); lettere di Cantacuzeno ad Apocauco (144); missive di Calecas e Apocauco a Cantacuzeno (145); rapporto di Apocauco ad Anna di Savoia146; lettera dei Latini del Peloponneso a Cantacuzeno (147); lettera del metropolita di Didimoteico ad Apocauco (148); corrispondenza di Apocauco con gli abitanti di Didimoteico (149); lettera della città di Tessalonica al Cantacuzeno (150); lettera del sultano Malik Nasir Hassan (151).

Cantacuzeno cita una serie di documenti: prostagmata del 1327 di Andronico II (152), e chrysobulla di Cantacuzeno che nomina Giovanni Ange amministratore della Valacchia (153). Il realismo del racconto è rafforzato dalla cura di fornire delle cifre precise. L’autore nota l’impossibilità di valutare il numero dei prigionieri uccisi durante il massacro perpetrato dalla plebe dopo l’assassinio di Apocauco (154). Nella descrizione della spedizione di Chio, indica che la flotta era equipaggiata di 105 navi, di cui otto trasportavano 300 cavalli (155); la fortezza di Chio era difesa da 800 uomini (156), e 300 soldati latini perirono durante la battaglia (157). Leggiamo che nel 1333, 12.000 albanesi si presentarono ad Andronico III (158), il quale li riunì in una squadra navale costituita da 84 imbarcazioni (159); Cantacuzeno dimorò 22 giorni a Tomokastron, nell’Epiro (160); nel 1341 Umur, emiro di Aydin, attrezzò 250 vascelli (161); Apocauco attrezzò una flotta di 70 navi (162).

Non è fondamentale essere certi dell’assoluta fedeltà delle cifre. In alcuni casi si osservano delle notevoli divergenze con i dati riportati da Gregora (163). La frequenza delle cifre tonde e l’utilizzo del numero 30 instilla il dubbio164, sebbene imprima al testo una nota di autenticità.

La semplicità volontaria e la naturalezza della lingua sono elementi del sistema letterario del Cantacuzeno in accordo col suo disegno principale: l’apologia dell’eroe-autore. Si sa che l’opposizione tra l’encomio e la storia costituisce un luogo comune (τόπος) nelle dissertazioni erudite della letteratura bizantina. Come ha formulato Psello, l’encomio propone un ritratto del personaggio assolutamente positivo, mentre l’opera storica dovrebbe restituire un’immagine reale, nonché contraddittoria, in virtù della sua complessità. In realtà Psello non tracciava frontiere tra le tecniche letterarie dei due generi: la sua Cronografia utilizza gli ornamenti retorici più vari, dalle metafore, ai giochi di parole, e agli aforismi. La cronaca di Niceta Coniate, con la sua abbondanza di citazioni bibliche e di allusioni alla letteratura classica, è ancora più tributaria dell’arte retorica. Dicendo ciò, contrariamente a Grecu165, Kazhdan (166) non emette alcun giudizio di valore. Crede, invece, che Psello e Coniate, grazie alla retorica, abbiano raggiunto un effetto altamente artistico. In Cantacuzeno si osserva il fenomeno inverso. Egli, predisposto alla composizione di una figura di tipo encomiastico, nota con grande intuizione artistica che la retorica tradizionale rischia, in questa circostanza, di sfociare nell’enfasi triviale. L’effetto che egli cerca non si ottiene con l’intensità della metafora e della parola, ma con un’opposizione lampante tra l’elevazione morale del personaggio e la semplicità di uno stile senza artifici. Di sicuro troviamo in Cantacuzeno anche delle reminiscenze classiche, come l’elmo di Ade (167), Cerbero (168), Atlante (169), Ulisse e i Ciclopi (170); egli evoca gli antichi Lacedemoni (171), Licurgo e Solone (172), Scipione l’Africano, Pompeo e Silla (173), e Costantino il Grande (174); cita Omero (175), Euripide (176) e Tucidide, come meglio esamineremo più avanti.

L’uso della metafora tradizionale non si organizza in un sistema autonomo, poiché le comparazioni esistono allo stato elementare e non costituiscono un vero e proprio strumento letterario: il sole (177), il mare (178), la tempesta (179), il vascello (180), la barca (181), il porto (182), la bestia (183) e il drago (184).

Ad esempio, mentre le figure animali di Coniate sono portatrici di una carica etica particolare, ed instaurano inconsciamente un’atmosfera di paura che corrisponde al progetto dell’autore di preparare il lettore alla catastrofe dell’impero bizantino, i confronti di Cantacuzeno sono pallidi, avari e soprattutto privi di finalità artistica (185). La metafora inspirata al mondo animale appare in Cantacuzeno rare volte, ed egli scrive: “ma anche gli animali più feroci non vogliono il male dei loro piccoli” (186). Per due volte utilizza la formula tradizionale: “più selvaggio delle bestie feroci” (187), e cita l’espressione stereotipata: “più pauroso di una lepre” (188).

Egualmente rudimentali e prive di finalità propria sono le metafore tradizionali legate all’immagine del mare e della tempesta, quali: “oceano di disgrazie” (189), espressione che perde il suo carattere metaforico per trasformarsi in uno stereotipo, e ancora “mentre il mare si agita, la tempesta ribolle” (190); egli evoca il brusco scatenarsi della tempesta che minaccia d’inghiottire l’impero romano (191); afferma che Apocauco non voleva essere preso per un uomo che aveva abbandonato il timone dell’impero nel momento di una violenta tempesta (192), paragone al quale rispondono le immagini del vascello che naviga in balia delle onde, senza timoniere (193), e della formula parallela: “il timoniere non abbandona il timone al momento della tempesta” (194); parla di un’imbarcazione che cola a picco (195), e fa notare che colui che conduce una vita giusta non rischierà di naufragare (196); evoca le genti che cercano di salvarsi dalla grande tempesta sollevata dai Serbi che aspirano alla causa dell’impero romano (197). Cantacuzeno paragona il suo personaggio ad un uomo che sta per annegare tra le onde, mentre i suoi avversari si chiedono quando arriverà la sua morte (198). Infine egli si paragona ad uno scoglio in un porto calmo, e Sirgianne ad un battello che, ormeggiato a questa roccia, gode della calma (199). Queste ultime due immagini sono di certo più complesse e meno banali dei precedenti paragoni marini, sebbene, disseminati in un’opera monumentale, non impongono un’atmosfera ed hanno una carica differente: pessimista in un caso, e felice nell’altro.

Analogamente, un altro procedimento letterario tipico della prosa retorica è il gioco di parole, il quale permette di assemblare gli elementi lessicali attraverso la pluralità delle loro relazioni interne. Il nostro autore rigetta tale artificio, che nella Storia è estremamente raro e deliberatamente semplificato: Cantacuzeno avendo rimosso (ἀναστήσας) il campo di Berroia, condusse il suo esercito ad Anastasioupolis (Ἀναστασίου πόλιν), città chiamata anche Peritheorion (200). Il gioco qui è dato dalla consonanza tra un participio e un nome di città, non da una relazione di senso fra le due parole. L’espediente retorico è superficiale in una frase in cui Cantacuzeno si riferisce ad Andronico III utilizzando tale espressione: “egli ignora (ảγνοεῖν)  ciò che tutto questo può significare (νοεῖν)” (201).

L’impoverimento e la semplificazione del vocabolario, invece, si esplica con un numero ingente di esempi. Qui basta citarne alcuni: mentre Andronico III “si preparava” a marciare contro i Bulgari, gli viene annunciato che l’armata turca “si preparava” ad attaccare Nicomedia (202). Il verbo παρασκευάζομαι  è utilizzato cinque volte in cinque righe; il verbo συγγίγνομαι “incontrarsi”, appare tre volte nella descrizione dell’incontro tra Cantacuzeno ed Umur di Aydin (203), il verbo ὁμιλέω “riunirsi” ed il sostantivo corrispondente ὁμιλία “riunione”, tre volte (204); nel racconto dell’incontro tra Cantacuzeno e Dušan, il verbo ἀφικνέομαι “arrivare” è ripetuto cinque volte (205), al quale si aggiunge l’impiego del sostantivo ἄφιξις “arrivo” (206).

Alla povertà del vocabolario corrisponde la semplicità sintattica. Il periodo, in Cantacuzeno, è costruito su di una serie di verbi a malapena separati gli uni dagli altri da sostantivi ed avverbi. Ecco un esempio: poichè Cantacuzeno “non poteva impadronirsi di Peritheorion, giudicava indispensabile dirigersi immediatamente a Tessalonica, pensando che conveniva annunciare la sua venuta al protostrator” (207). L’indigenza del vocabolario e l’estrema semplicità sintattica offrono al racconto un tono di veridicità.

Parallelamente, un altro tema è sviluppato nella Storia: la lotta di Cantacuzeno contro il male. Sappiamo quanto questi non fosse incline a negare i meriti dei suoi avversari politici, ma una persona, tuttavia, riunisce in sé ogni difetto: si tratta di Alessio Apocauco. “Uomo torbido (ἄσημος) e di origine oscura” come designa Cantacuzeno (208), Apocauco si distingue per l’inferiorità (φαυλότης) del suo carattere e della sua origine (209). La sua vita è impregnata di menzogna e le sue parole sono ingannevoli (210); è un fedele della calunnia, della menzogna, della diffamazione e dell’intrigo (211); è un perfido intrigante (212); è ingrato ed insensato (213); è vile  (214).

In una sola parola, Apocauco è un uomo uscito dal fango (215); la sua anima è macchiata (216); egli è odiato da tutti  (217). In una lettera degli abitanti di Didimoteico, viene qualificato come “figlio del diavolo”, non inferiore al padre per vanagloria sfrontata (218); lo paragonano a “Satana che suscita la guerra contro Dio” (219).

In Gregora, il ritratto di Apocauco differisce poco dall’immagine proposta dal Cantacuzeno: egli è odiato da tutti, è colpevole di tutte le sventure, e perverso (μοχθηρός), ingrato e perfido, mentitore e vile (220). Egli, tuttavia, è un amministratore capace, che sa trovare una via d’uscita a situazioni inestricabili, sempre in allerta, con una predilezione per il lavoro, più che per le conversazioni. Se avesse amato, nota Gregora, la verità e la giustizia avrebbe apportato molta gloria ai Romei, ma poiché era quello che era, poteva essere definito come il flautista degli uomini cattivi (221). Cantacuzeno riconosceva che Apocauco si era logorato dedicandosi agli affari del fisco, pur avendo acquisito una grande esperienza, ma in quanto a capacità militare, non aveva compiuto niente di meritevole (222).

T. D. Florinskij (223) ha rimarcato il carattere ambiguo di Apocauco, la sua personalità scaltra ed avida di potere,così come è presentato da Gregora e Cantacuzeno.

A detta del Nostro, Apocauco non fece nulla , sin da quando era in vita Andronico III che dopo la sua morte, se non nuocere all’impero e al suo protettore, ossia il Cantacuzeno stesso, il quale era sempre stato benevolo con lui, e gli aveva sempre accordato con indulgenza il suo perdono. Apocauco è in tutto e per tutto opposto a Giovanni: Cantacuzeno è nobile, Apocauco è di origine oscura; Cantacuzeno è un uomo d’armi, Apocauco un falso e pusillanime uomo d’affari; Cantacuzeno è un uomo d’onore, Apocauco è un perfido intrigante; Cantacuzeno è disinteressato, Apocauco è avido di potere e di ricchezza. Il loro raffronto è inevitabile e rappresenta non lo scontro di due personalità, ma l’opposizione di due categorie etiche, quelle del bene e del male.

Il tragico di questa situazione è che il male perfido (Apocauco) riesce ad ingannare il bene (Cantacuzeno). Quest’ultimo aveva conferito al primo l’incarico di tesoriere della cassa imperiale, e in seguito alla vittoria di Andronico il Giovane, lo elevò alla carica di mesazon (224). Cantacuzeno sottolinea che fu grazie alla sua iniziativa che Apocauco assunse la direzione dell’amministrazione civile (225), sebbene all’inizio della sua carriera, impiegato nell’ufficio del fisco, avesse attinto dal Tesoro ingenti somme (226).

Cantacuzeno aveva creduto ad Apocauco sia quando questi affermava l’intenzione di volersi ritirare in un monastero (227) sia quando aveva promesso di organizzare a sue spese una spedizione contro i Turchi (228). L’imperatore Andronico III, capendo che Apocauco cercava solo di rendersi popolare con tutti i mezzi, si adirò contro di lui e contro il Cantacuzeno, suo protettore (229).

Sempre Apocauco, quando nel 1341 Andronico III cadde gravemente malato, cercò di persuadere Cantacuzeno ad impadronirsi del titolo imperiale (230), proposta che il Nostro rifiutò (231). Anna di Savoia desiderava allontanare Apocauco dal potere, ed è Cantacuzeno che fece di tutto perché il Megas Dux ottenesse il perdono dell’imperatrice, la quale, a sua volta, aveva avvisato il Cantacuzeno dell’ostilità che Apocauco stesso provava per tutti e due (232). Apocauco aveva sempre giurato di ricordarsi della bontà di Cantacuzeno e costui credette ai suoi giuramenti (233). Tuttavia Apocauco divenne il nemico implacabile del suo benefattore (234), e ancora di più, nemico della pace (235).

Nella Storia, Apocauco ha un doppio, il patriarca Giovanni XIV Calecas. Anche questo è di origini oscure, e come Apocauco, doveva la sua ascesa al Cantacuzeno (236). Egli tramava contro Cantacuzeno, e quest’ultimo, anima semplice, pensava che tutto sarebbe passato (237). Concedendo benefici al patriarca, Cantacuzeno ne attendeva il sostegno (238), ma Calecas, prendendo le parti di Apocauco, fu oltremodo anch’egli responsabile della guerra civile (239).

Così, il paragone di Apocauco a Satana nella lettera degli abitanti di Didimoteico non è occasionale. Alla perversione di Alessio Apocauco si mescola l’ingratitudine di Calecas. Come Satana si è rivoltato contro Dio, questi si sono rivoltati contro il loro benefattore, contro colui al quale dovevano la loro ascesa.

Si spiega come la lotta tra Cantacuzeno e i suoi nemici assuma una dimensione non solo etica, ma anche cosmica, e l’autore sottolinea il costante beneficio di forze trascendenti e superiori (240). La provvidenza divina sostiene Cantacuzeno nell’ora del pericolo (241): egli ha la meglio sui Turchi, seppure con un esercito inferiore (242); ogni qualvolta che i nemici inviavano dei sicari per assassinare Cantacuzeno, il loro progetto veniva scoperto. Alla fine del racconto di questi episodi, Cantacuzeno ringrazia Dio per averlo salvato dal pericolo (243). Dio, dichiara, vedendolo nella disgrazia, nella Sua compassione lo libera dai pericoli (244). Ma se Dio sostiene Cantacuzeno e colpisce i suoi nemici, perché allora subisce una disfatta? In realtà, come uomo del Medioevo, Cantacuzeno attribuisce volentieri ogni disgrazia all’azione dei demoni (245).

Gregora descrive Cantacuzeno ed i suoi come degli adepti di un credo nella “Fortuna”. Difatti Cantacuzeno considera che la Τύχη diriga casualmente le azioni degli uomini, ed è questa, piuttosto che Dio, a condurre i destini umani. Seguendo in questo Palamas, che Gregora detesta, Cantacuzeno dichiara che “la Τύχη è un’energia divina increata” (246). Matteo, suo figlio, in merito a questa concezione della fortuna, trae fuori la suddetta deduzione: “Se la Τύχη ed il caso (τὸ αὐτόματον)  dirigono i nostri affari e, per oscure ragioni sottomettono la nostra volontà, allora noi agiamo subendo i fatti nostro malgrado e costretti dalla necessità (υπ᾽ ἀνάγκης)” (247).

In realtà Matteo identifica la fortuna con la provvidenza divina (248), attirando il netto rifiuto di Gregora, secondo cui Dio conosce l’avvenire, ma non impone agli uomini le loro azioni, poiché Dio non può essere la causa delle cattive azioni (249).

Cantacuzeno non nega l’esistenza della provvidenza divina, cosa che a quel tempo sarebbe stata un’eresia senza precedenti, ma l’avvicina alla Fortuna. Questa è una forza cosmica, un’energia divina che non lascia alcuno spazio alla volontà umana, la quale risulta in questo modo ciecamente determinata (250).

Ora vediamo in quale misura la concezione della Fortuna si rivela nella Storia di Cantacuzeno.

Descrivendo la cerimonia d’incoronazione, l’autore rimarca che, nello svolgimento di questo rituale, vengono percepiti i segni incontestabili della prosperità e del successo futuri. Si potrebbe considerare che tali segni vengano dalla provvidenza divina (ἐκ τῆς ἄνωθεν προνοίας) e non dall’arbitrarietà (αὐτόματα) della Τύχη. Cantacuzeno pensa che i destini umani siano tenuti segreti dalla provvidenza che li rivela a pochi eletti (251).

La necessità (ἀνάγκη τῶν πραγμάτων) (252), appare come un fattore determinante dell’attività dei personaggi della Storia. La necessità (ad esempio un’epidemia che si propaga nel suo campo), costringe Cantacuzeno ad abbandonare Serre (253); costretto dalla necessità ed abbandonato dalle sue truppe, egli chiede l’aiuto di Dušan (254); è suo malgrado (δι᾽ἀνάγκην)  che combatte contro Costantinopoli (255); egli si allea ai Barbari ἐξ ἀνάγκης, πρός ἀνάγκην  e εἰς ἀνάγκην(256); è la necessità che lo fa diventare imperatore257; “la necessità mi fece agire diversamente da come volevo”, dice a proposito della guerra contro i Serbi nel 1350258; a proposito dell’attacco di Giovanni V nel 1352-53 scrive: “gli avvenimenti stessi mi costrinsero (ἠναγκασαν) ad agire diversamente da come io volevo (259).

Le azioni umane, in particolar modo le sue, non dipendono dalla volontà ma da una potente forza esterna, chiamata ἀνάγκη o ἀνάγκη τῶν πραγμάτων, e sono dunque determinate. Naturalmente il determinismo di Cantacuzeno ha piuttosto un carattere personale, e non ha la pretesa di organizzarsi in un sistema filosofico. Inoltre si può notare con interesse che, quando Apocauco dichiara di essere stato costretto alla guerra per il “corso delle cose” (φορά τῶν πραγμάτων) (260), si attira la collera dell’autore, il quale rimpiazza l’abituale ἀνάγκη con φορά, espressione meno tradizionale che però assume lo stesso senso.

La Τύχη è inoltre presentata come instabile, incostante ed incomprensibile (261). La gente esperta e sensata, pensa Cantacuzeno, prima di dare inizio alle ostilità valuta le forze delle due parti, e non si espone al pericolo fidandosi del caso infedele (262).

Così le imprese del Nostro non furono ostacolate solo dal perfido nemico Apocauco, che appariva come l’incarnazione del male, ma anche da forze più potenti, trascendentali e cosmiche: dalla Necessità, che lo costringe ad agire contrariamente alle sue convinzioni, e dalla Fortuna, la cui incostanza annulla sempre i suoi sforzi. La sua disfatta, come conseguenza di una congiunzione di avvenimenti, era scritta, ed il suo combattimento contro le forze insormontabili del Male e del Caso acquistano un carattere tragico.


87 CANTACUZENO, I, p. 10, 8-10.

88 CANTACUZENO, III, p. 364, 7-8.

89 Idem, I, pp. 368, 21-369, 1.

90 Idem, II, p. 504, 1.

91 Idem, II, p. 504, 10.

92 Idem, II, p. 504, 11.

93 Idem, II, p. 504, 16.

94 Idem, II, p. 505, 2.

95 Idem, II, p. 508, 4.

96 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., annexe 4, p. 334.

97 CANTACUZENO, I, pp. 105, 21-106, 2.

98 Idem, II, p. 337, 10-20.

99 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 301.

100 HUNGER, Die Hochsprachliche, profane literatur der Byzantiner cit., p. 469.

101 CANTACUZENO, I, p. 79, 4-5.

102 Idem, I, pp. 33, 23-34, 1; p. 37, 4-5; p. 40, 10; p. 51, 18-19; pp. 55, 23- 56, 1; p. 70, 11-12; p. 212, 19; p. 216, 23; p. 217, 19-21; p. 224, 13; p. 244, 22.

103 Idem, I, p. 492, 4; p. 500, 8; p. 523, 2-3; p. 541, 5; p. 558, 11-12; II, p. 90, 23; p. 480, 14.

104 PARISOT, Cantacuzène, homme d’Etat et historien cit., p. 21.

105 CANTACUZENO, II, p. 13, 17-19.

106 Idem, II, p. 106, 6-10; p. 127, 4-5; p. 131, 1-5.

107 Idem, II, p. 202, 18-19.

108 Idem, II, p. 525, 12-13.

109 CANTACUZENO, III, p. 9, 17.

110 Idem, III, p. 9, 8-22.

111 Idem, III, p. 53, 9-12.

112 Idem, III, p. 333, 20-22.

113 Idem, III, p. 254, 6-11.

114 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 303.

115 CANTACUZENO, I, p. 420, 18-21.

116 Idem, II, p. 190, 3-6. Le cattive intenzioni di Cantacuzeno nei confronti dei bambini di Andronico III sono evocate più volte: Idem, p. 475, 7-9; p. 502, 10-14; pp. 508, 14-509, 2. I nomi dei figli di Andronico sono Giovanni, Michele e Maria.

117 CANTACUZENO, II, p. 224, 7-14.

118 Idem, III, p. 299, 19-24.

119 Idem, II, p. 595, 8-11; III, p. 37, 6-9.

120 Idem, I, p. 160, 18; p. 162, 6; p. 221, 1-3; III, p. 35, 15-16.

121 HUNGER, Die Hochsprachliche, profane literatur der Byzantiner cit., p. 471.

122 CANTACUZENO, II, p. 12, 10-18.

123 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 304.

124 CANTACUZENO, I, pp. 537, 5-538, 5; II, pp. 108, 23-110, 20; pp. 112, 19-116, 10; pp. 438, 13-439, 20.

125 Idem, II, pp. 128, 11- 129, 11; pp. 131, 15-133, 20; pp. 206, 11-208, 1.

126 Idem, II, pp. 204, 18-206, 9.

127 Idem, II, p. 180, 14-17; p. 184, 13-17.

128 CANTACUZENO, II, p. 185

129 Idem, II, p. 217, 12-25.

130 Idem, II, p. 235, 16-18.

131 Idem, II, p. 237, 17.

132 Idem, II, p. 242, 16-22.

133 Idem, II, p. 244, 9-13.

134 Idem, II, pp. 292, 25-293, 11.

135 Idem, II, pp. 355, 16-17.

136 Idem, II, p. 420, 14-16.

137 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 305.

138 CANTACUZENO, I, p. 26, 5-14.

139 Idem, I, p. 95, 21-96.

140 Idem, I, pp. 292, 20-294, 3.

141 Idem, I, pp. 223, 12-225, 6.

142 Idem, I, pp. 221, 16-223, 4.

Idem, I, pp. 199, 24-202, 6.

144 Idem, II, pp. 72, 19-74, 18; pp. 362, 23-368, 1; pp. 479, 24-482, 2.

145 Idem, II, pp. 519, 12-520, 16.

146 Idem, II, pp. 439, 24-441, 12.

147 Idem, II, pp. 75, 11-76, 10.

148 Idem, II, pp. 341, 12-342, 20.

149 Idem, II, pp. 277, 21-281, 10.

150 Idem, I, pp. 108, 10-110, 18.

151 Idem, III, pp. 94-2-99, 9.

152 Idem, I, pp. 232, 20-233, 14.

153 Idem, II, pp. 312, 15-322, 15.

154 Idem, II, p. 545, 18-20.

155 Idem, I, p. 375, 8-10.

156 CANTACUZENO, I, p. 376, 11-19.

157 Idem, I, p. 391, 2.

158 Idem, I, p. 474, 13.

159 Idem, I, p. 477, 1-3.

160 Idem, I, p. 526, 6.

161 Idem, II, p. 55, 24.

162 Idem, II, p. 225, 9; p. 333, 10; p. 357, 19-21.

163 D. M. NICOL, The Byzantine family of Cantacuzenos, Washington 1968, p. 54, nota n. 54.

164 G. FATOUROS, Textkritische Beobachtungen zu Johannes Kantacuzenos, in «BS», XXXVII (1976), p. 191-193.

165 GRECU, La valeur littéraire des œuvres historiques byzantines cit., pp. 259-262.

166 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 308.

167 CANTACUZENO, I, p. 450, 9-10; III, p. 206, 5.

168 Idem, II, p. 326, 9-10.

169 Idem, III, pp. 175, 22-176, 1.

170 Idem, II, p. 349, 9.

171 Idem, III, p. 190, 15-16.

172 Idem, III, pp. 86, 23-87, 3.

173 Idem, II, p. 364, 13-17.

174 Idem, III, p. 351, 17-20.

175 Idem, I, p. 18, 7-8; p. 21, 7; p. 28, 3.

176 Idem, I, p. 24, 23.

177 CANTACUZENO, II, p. 609, 16-17.

178 Idem, I, p. 23, 4; p. 29, 13.

179 Idem, I, p. 223, 19-21; II, p. 492, 22-24; III, p. 315, 20-22.

180 Idem, I, pp. 445, 18-446, 3; II, p. 35, 6; p. 159, 5-10; III, p. 100, 15-17.

181 Idem, II, p. 344, 22-23; p. 582, 3-4.

182 Idem, II, p. 589, 7.

183 Idem, I, p. 74, 7-8; p. 320, 17-18; p. 397, 13; III, pp. 153, 21-154, 2; p. 334, 7; FATOUROS, Textkritische Beobachtungen zu Jhoannes Kantakuzenos cit., p. 193.

184 CANTACUZENO, II, p. 316, 8-10.

185 KAZHDAN, L’Histoire de Cantacuzène cit., p. 311.

186 CANTACUZENO, I, p. 74, 7-8.

187 Idem, I, p. 320, 17-18; p. 397, 13.

188 Idem, II, p. 480, 4-5.

189 Idem, I, p. 29, 13.

190 Idem, I, p. 23, 4.

191 Idem, I, p. 233, 19-21.

192 CANTACUZENO, II, p. 492, 22-24.

193 Idem, II, p. 35, 6.

194 Idem, II, p. 566, 6-7.

195 Idem, II, p. 344, 22-23; p. 582, 3-4.

196 Idem, III, p. 100, 15-17.

197 Idem, III, p. 315, 20-22.

198 Idem, III, p. 158, 5-7.

199 Idem, I, p. 445, 18-20.200 Idem, II, p. 197, 8-11.

201 CANTACUZENO, I, p. 364, 17-18.

202 Idem, I, p. 459, 12-17.

203 Idem, I, p. 482, 16-23; p. 483, 5.

204 Idem, I, p. 482, 15, 20, 24.

205 Idem, II, p. 260, 17, 22, 25; p. 261, 1, 5.

206 Idem, II, p. 261, 8.

207 CANTACUZENO, I, p. 225, 20-23.

208 Idem, I, p. 117, 24-24; II, p. 89, 1-2.

209 Idem, II, p. 278, 11-12; p. 480, 12; p. 541, 21-22.

210 Idem, II, p. 283, 3-5.

211 Idem, II, p. 279, 7-8.

212 Idem, II, p. 88, 16.

213 Idem, II, pp. 101, 23-102, 1.

214 Idem, II, p. 280, 10-11; p. 380, 18; p. 480, 4-5.

215 Idem, II, p. 459, 16-17.

216 Idem, I, p. 535, 9-10

217 Idem, II, p. 541, 17-19.

218 Idem, II, p. 278, 18-21.

219 Idem, II, p. 279, 19-20.

220 GREGORA, II, p. 735, 20-21; p. 584, 13-14; p. 585, 23; I, p. 301, 12-14; II, p. 668, 17-18, 23.

221 GREGORA, II, p. 577, 11-20.

222 CANTACUZENO, I, pp. 538, 19-539, 1.

223 FLORINSKIJ, Andronik Mladšij I Ioann Kantakuzin224 CANTACUZENO, II, p. 90, 11-12.

225 Idem, I, p. 338, 6-13.

226 Idem, II, p. 89, 17-23.

227 Idem, I, p. 535, 13, 21-22.

228 Idem, I, p. 538, 5-7.

229 Idem, I, p. 541, 5-6.

230 Idem, I, p. 557, 22-24

231 Idem, I, p. 558, 15-23.

232 Idem, II, p. 88, 9-12; p. 102, 19-21.

233 Idem, II, p. 96, 1-15; p. 98, 13-14.

234 Idem, II, p. 399, 5-12 ; p. 443, 6-9.

235 Idem, II, p. 494, 18-19.

236 CANTACUZENO, I, p. 432, 3; p. 435, 18-19.

237 Idem, II, p. 19, 2-12.

238 Idem, II, pp. 48, 23-49, 5; p. 51, 1; p. 103, 11-19.

239 Idem, II, p. 110, 21-22; p. 456, 15-16. [Žurnal Ministerstva Narodnogo Prosveščenija], San Pietroburgo 1878, p. 204.

240 Idem, III, p. 35, 20-21; II, p. 340, 9-17: il vescovo di Didimoteico, nutrendo dei dubbi sulla nomina di Cantacuzeno ad imperatore, pregò Dio di fargli comprendere la verità, e lo Spirito gli rivelò che Cantacuzeno regnava grazie alla volontà divina.

241 Idem, II, p. 361, 19-20; III, p. 146, 6-8.

242 Idem, II, pp. 415, 18-418,4.

243 Idem, II, p. 591, 1-3.

244 Idem, II, p. 395, 18-21.

245 CANTACUZENO, I, p. 217, 1; p. 257, 22; p. 287, 6-7: φθονερός δαίμων; p. 127, 23; II, p. 150, 21; p. 206, 11; p. 376, 13-14; III, p. 36, 8: πονηρός καί βάσκανος δαίμων..

246 Idem, III, p. 96, 9-15.

247 Idem, III, p. 206, 7-10.

248 Idem, III, p. 209, 9-10.

249 GREGORA, III, p. 210, 17.

250 Sul determinismo nella filosofia bizantina dei secoli XIV e XV: I. P. MEDVEDEV, Vizantijskij gumanizm XIV-XV vv., Leningrad 1976, pp. 107-121.

251 CANTACUZENO, II, p. 167, 12-21.

252 Idem, I, p. 62, 11-12; II, p. 359, 16.

253 Idem, II, p. 295, 12-20.

254 Idem, II, p. 310, 12.

255 Idem, II, p. 404, 23-24; p. 508, 1-2; III, p. 106, 11-14.

256 Idem, II, p. 461, 12-13; p. 507, 5-6; p. 608, 15-18.

257 Idem, III, p. 45, 5-10.

258 Idem, III, p. 159, 7-8.

259 Idem, III, p. 258, 10-12.

260 CANTACUZENO, II, p. 362, 16-19.

261 Idem, I, p. 104, 14-19; II, p. 314, 12-13; p. 469, 17.

262 Idem, III, p. 395, 17-20.


Theorèin - Gennaio 2011