LA TEOLOGIA CRISTIANA. APPUNTI PER UN CORSO SISTEMATICO

A cura di: Vito Sibilio
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CHRISTUS DEUS
Il mistero cristologico nel dogma cattolico

-“La gente, chi dice che Io sia?”
-“Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio Vivente”
(Gesù e San Pietro in Mt 16,16)

Cristo Dio. In questo lemma si sintetizza tutto il senso della cristologia, ossia della branca della dogmatica che si occupa del mistero della Seconda Persona della Trinità degli Uguali, Quella che, secondo l’antica Formula teopaschita, ha sofferto nella carne: Eis tēs Triados patōn, Unus ex Trinitate passus. Della Seconda Persona o Ipostasi o Sussistenza divina, generata in eterno dal Padre, da cui procede lo Spirito, sia direttamente che come mezzo del Padre, si è sommariamente detto – per quanto è possibile a chi scrive– nel breve saggio sulla Trinità. Ma Dio Figlio, senza smettere di essere tale, diviene anche Cristo, quando il Verbo del Padre si fa carne. Questo è il cuore del Vangelo, nel senso etimologico di buon annuncio, buona nuova. Dio ha mandato Suo Figlio, nella pienezza del tempo (Gal 4, 4-5), ossia nel tempo da Lui stabilito, per salvare l’umanità. In questa venuta si compie la promessa messianica, fatta sin dalla notte dei tempi all’umanità decaduta in Adamo, rinnovata ai Patriarchi, ricordata dai Profeti. Nella venuta del Cristo, Dio si rivela a tutti gli uomini non solo quale unico, ma anche come Trinità, perché il Figlio mostra il Padre e manda lo Spirito. Egli, come uomo, è immagine del Dio invisibile, esattamente nello stesso modo in cui, come Figlio, è impronta e irradiazione della sua sostanza – secondo le testimonianze dell’Apostolo. Il Cristo non è né un uomo semplicemente come gli altri, né un Dio separato dagli uomini. Il Cristo è il Dio incarnato, per cui, come personaggio storico, è l’oggetto della nostra fede. Il Cristo della fede e il Gesù storico - contrariamente a quanto si è più volte sostenuto da R. Bultmann in poi nell’esegesi biblica del XX sec., a dispetto delle reiterate affermazioni del magistero ecclesiastico (ultima tra le più impegnative quella di Giovanni Paolo II nella Redemptoris Missio) – sono la stessa cosa: diversamente, non solo la fede sarebbe una stupida superstizione, ma anche qualsiasi studio critico della stessa teologia cristologica sarebbe impossibile.

LA DEFINIZIONE DEL MISTERO DI CRISTO. LE COORDINATE DELLA CRISTOLOGIA

Nell’antropologia biblica, il nome esprime il mistero della persona che lo porta. Il Santissimo Nome di Gesù Cristo – esattamente come l’ineffabile Nome di Dio – non fa eccezione alla regola. Il Nome di Gesù, comunicato dall’Arcangelo Gabriele a Maria, significa “Dio salva”; Yehoshua, Iēsous, Jesus ne sono le forme ebraica, greca e latina. Il Nome Gesù esprime dunque sin dall’inizio la funzione che Egli verrà a svolgere, per lo stesso fatto di incarnarsi; la ragione del Suo venire; la Natura preesistente a quella che assume; l’infallibile risultato che otterrà. Il Nome Cristo indica invece la funzione, in quanto è la traduzione greca – Christòs – del termine ebraico che significa Messia, ossia Unto. Perciò il Nome proprio, che indica il mistero della Persona, è Gesù, mentre “Cristo” indica lo stato. Chi contrappone i due termini, che costituiscono un solo Nome, nel quale il proprio assume l’attributo, esattamente come la Persona divina assume la Natura umana, non comprende il mistero di Cristo, ma tenta di separare la storicità dell’Uomo dalla sua valenza di fede.

Al Nome sublime, Gesù Cristo, si aggiunge da sempre “Signore”, Kyrios, Dominus, in greco e latino; in molti punti della Scrittura Gesù è chiamato semplicemente Signore. Esattamente come Adonai sostituiva il Nome Ineffabile di Dio nell’AT, così Kyrios nel NT surroga il Nome di Gesù: segno inequivocabile dell’identità divina di Cristo. Egli stesso, che assume il Nome di Gesù quando la sua Persona divina assume la Natura umana, afferma che, prima dell’Incarnazione, il suo Nome era lo stesso di Suo Padre – e dello Spirito Santo: ̉Εγώ Eιμί; Ego Sum; Io Sono, dice agli scandalizzati Giudei, con una formula ancora una volta qui scandita nelle lingue sacre neotestamentarie, oltre che nel volgare italiano. Lo proclama ancora innanzi alle guardie venute ad arrestarlo, che arretrano quando Egli afferma: ̉Εγώ Eιμί. Consapevoli di ciò, gli scritti apostolici nella Bibbia e la Tradizione della Chiesa lo chiamano, senza altri mezzi termini, Dio, Theòs, Deus. E nella stesura dei codici biblici, i copisti cristiani abbreviano le parole Gesù Cristo in ΙΣ ΧΣ, perché era un nomen sacrum, come quello di YHWH nel VT, analogamente trascritto senza vocali ma pronunziato correttamente, a differenza del Tetragramma Sacro, in cui erano inserite le vocali di Adonai, perché leggendolo non fosse infranto il divieto di pronunziare invano il Nome Divino (1). Per il Nome di Gesù non vi era tale divieto, anzi era stato comunicato agli uomini proprio perché lo pronunziassero, e trovassero così in Esso perdono e salvezza. Se tuttavia tale Nome è pronunziabile, perché in Gesù Dio si è fatto vicino, Esso rimane sempre divino, e la prassi di abbreviarlo nella scrittura lo dimostra, in modo peraltro assai eloquente, in quanto nel NT, scritto in greco, tutti le parole sono scritte con vocali e consonanti, tranne questo Nome (e gli altri sacri), mentre nell’AT, redatto in ebraico, si scrivevano solo le consonanti e le vocali erano intercluse o mandate a memoria.

Gesù fece confessare a Pietro che Egli era il Figlio di Dio, e si proclamò tale innanzi al Sinedrio, rendendo pubblico il cosiddetto segreto messianico, e manifestandosi al Suo popolo, che in quello stesso istante lo rinnegò, condannandolo a morte per aver detto la verità su Se stesso. Parlando di Sé come “Figlio” agli Apostoli, Gesù mostra la triplice sussistenza di Dio: a Lui si rivolge come Padre – a cui sta sottomesso come ogni buon figlio – e da Lui dice che manderà lo Spirito Santo, che è sia Suo che del Padre stesso. Dal Nome del Cristo si risale al mistero trinitario, l’essenza ineffabile a cui rimanda il Nome stesso di Dio nell’AT, il cui senso è rivelato proprio dal Figlio, che è nel seno del Padre. Tale Figlio è identificato con la Sapienza dell’AT, che Giovanni ridefinisce Logos, Verbum, Verbo (2). Egli è Colui per mezzo del quale il Padre ha fatto il mondo, è la Verità, la Vita, la Luce. Tuttavia Gesù in pubblico ama definirsi soprattutto Figlio dell’Uomo, Filius Hominis, Uiòs tou Anthropou, Bar Masha’, con un’espressione usata sempre in terza persona, e che riprende il profeta Ezechiele e il profeta Daniele. In essi, il Figlio dell’Uomo è un uomo che però ascende a una condizione superiore alla propria: Egli è l’inviato di Dio stesso, giudice in sua vece dei vivi e dei morti, assiso alla destra di Dio, Re immortale nei secoli. E’ in questo nome che Gesù adombra il senso compiuto di tutto il suo messianismo, ad un tempo unitario (3), davidico (4), regale (5), profetico (6), sacerdotale (7), sovraumano (8) e redentivo (9). In ragione di ciò Egli è chiamato, altrettanto giustamente, Figlio di Davide, Re dei Giudei, Sommo Sacerdote, Salvatore e Redentore, in svariati luoghi biblici. Dal modo in cui parla di Sé, Gesù mostra l’altro grande mistero che si nasconde dietro il Suo Nome proprio: l’essere Dio e Uomo contemporaneamente.

Gesù è il Figlio di Dio. Il Verbo del Padre, Persona sussistente homoousios, consubstantialis, consostanziale al Padre (10), senza smettere di essere Dio, assunse una Natura (Fysis) Umana perfetta, composta di Anima e di Corpo (11). Tale Natura è immune dal Peccato originale, in quanto generata di Spirito Santo, e quindi libera dall’eredità della colpa legata alla generazione carnale dei discendenti di Adamo. Essendo perfetta, nella Natura Umana del Verbo vi è appunto un’Anima (Psykè) razionale, ossia del tutto simile alla nostra, dotata di intelligenza, volontà, energia (noùs, thélema, enérgheia) e sentimento propri (12), distinti da quelli della Natura divina (13) e che svolge nei confronti del Corpo la funzione formale intellettiva, sensitiva e vegetativa. E’ l’Anima di Cristo a informare e vivificare il Suo Corpo, non la Sua Divinità, come erroneamente insegnarono gli apollinaristi, dimenticando che Gesù stesso disse che la sua anima era triste sino alla morte, attestando così di averne una. Tale Anima, immune dai danni propri del Peccato originale che non ha mai contratto, è la più perfetta, essendo il modello a cui Dio avrebbe voluto che fosse corrispondente l’anima di ognuno (14), dotata in grado pieno di tutte le qualità proprie dell’anima umana e ripiena della Grazia Santificante, ossia della vita soprannaturale che Dio stesso conferì al primo uomo. Essa dunque è stata, è e sarà inabitata dallo Spirito Santo, così come ogni santo lo è, ma nel massimo modo possibile.

Il Corpo (Sōma) di Cristo è a sua volta purissimo e perfetto, l’archetipo della corporeità concepito da Dio nel Suo Verbo prima e in vista della Creazione del mondo e entrato nel mondo materiale al momento dell’Incarnazione. Tale Corpo è assolutamente reale, concreto, materiale, riempito anch’esso di Grazia. Diversamente, Gesù non sarebbe stato uomo veramente, come invece sostenevano i docetisti, per salvaguardare Dio dal contatto con la materialità. Tale Umanità perfetta del Cristo non ha ricevuto il dono dell’immunità dal dolore e dalla morte, concesso ad Adamo prima del Peccato originale -come pure Le spettava- divenendo in questo simile agli altri uomini, con la differenza che per questi tale sorte è meritata, per Essa è liberamente scelta, per poter compiere la Redenzione nel Suo Sangue. Nell’Umanità di Cristo vi è il perfetto equilibrio tra Anima e Corpo che Dio ha stabilito nella Natura umana ideale e primigenia, e tra le loro facoltà; in più, essendo pienamente inabitata dallo Spirito per la santità comunicatale dalla Natura Divina per contatto, Essa fu elevata immediatamente, all’atto della nascita, in tutta la sua pienezza, ai doni concessi ad Adamo per generosità: l’assenza di passioni e la scienza infusa. Tali doni, detti preternaturali in Adamo, perché perfezionatori della natura umana, sono in Cristo, in virtù della Sua Persona, pienamente confacenti e dovuti. La Natura divina non avrebbe potuto essere congiunta ad una Natura umana diversa.

L’Unione delle Nature avviene senza che esse siano mescolate o confuse o disperse, nel vincolo della Persona (Hypostasis o anche Prosopon 15) del Figlio. Ossia questa Persona o Ipostasi, senza cessare di far sussistere in Sé la Sostanza divina (Ousìa o anche Fysis 16), fa sussistere anche, sempre in Sé e accanto a quella divina, la Sostanza umana. E’quella che chiamiamo l’Unione Ipostatica (kat’hypostasin) (17) e che costituisce l’unità, nel Cristo, di un unico Soggetto, sempre uguale a Sé. Se dunque il Figlio, sin dall’eternità, ha avuto sempre e ha la Natura divina, solo dal momento dell’Incarnazione ha anche una Natura umana; ma la Persona del Verbo – ossia quella di Gesù – esisteva anche prima dell’Incarnazione, e non ha subito con essa alcuna modifica. Tutto ciò che pertiene al soggetto unitario della Persona si predica ad un tempo della Natura umana e della divina: è infatti la Persona che s’incarna, nasce, vive soffre, muore, risorge, così come anche è eterna, è generata dal Padre, fa procedere da sé lo Spirito, innesta in sé le mistiche membra della Chiesa, si rende presente nell’Eucarestia. Ma ciò che concerne le Nature, come le loro caratteristiche peculiari – quali l’infinitezza per la divina e la finitezza per l’umana – spetta solo a loro senza confusione. Per cui è in quanto uomo che Gesù soffre e muore, per poi risorgere, ed è in quanto Dio che ha creato l’universo. Tuttavia è sempre dell’unico Soggetto che si predicano le azioni; Egli tutto opera nell’unità della Sua Sussistenza, al di fuori della quale sia la Sostanza divina che la Sostanza umana sarebbero pure astrazioni inconsistenti. Tale Unione Ipostatica non si spezza neppure nella Morte di Cristo: in essa l’Anima si separa dal Corpo, ma entrambe rimangono unite alla Natura Divina – per cui il Corpo stesso non si corrompe, anche se deceduto - salvo poi ricomporsi nuovamente nella Resurrezione, per essere poi glorificate in Cielo definitivamente con l’Ascensione, dove ancora sono.

Tuttavia tutto ciò che si predica dell’una o dell’altra Natura, nella misura in cui si riferisce alla Persona unitaria in quanto Soggetto agente, può essere attribuita indistintamente ad entrambe. Per cui Maria è Madre di Dio (Theotòkos) – esempio classico – non perché abbia generato la Divinità, ma perché ha generato l’Umanità della Persona del Verbo, Che è suo Figlio non solo in quanto alla Natura, ma anche – conseguenzialmente – come Persona (18).

Analogamente si dice che Dio ha sofferto ed è morto per noi non perché la Divinità possa soffrire, ma perché la Persona del Verbo soffre nella Sua Natura Umana. Chiamiamo questa transitività delle proprietà naturali in seno all’unica Sussistenza del Figlio la Comunicazione degli Idiomi, la Communicatio Idiomatum. Nel Cristo, Verbo Incarnato, non vi sono dunque due sostanze sussistenti (19), né una sola sussistenza sostanziale (20), ma una Sussistenza di due Sostanze. Tecnicamente la cristologia ortodossa è perciò un diofisismo.

La Communicatio Idiomatum è l’aspetto visibile agli occhi della mente, illuminata dalla Fede, della dinamica interna alla Sussistenza ipostatica del Verbo. Infatti la Natura Umana, sebbene operi in modo proprio, non da sé ma per la Sua unione col Verbo, conosce, sente, vuole, opera e manifesta tutto ciò che conviene a Dio (21). Perciò, la conoscenza umana di Gesù crebbe esattamente come quella di ogni altro uomo, e si formò alla stessa maniera, tramite l’esperienza e l’insegnamento dei genitori (22); ma la conoscenza divina, nell’Unità della Persona, fu sempre comunicata all’Umanità del Verbo, che ebbe sempre una cognizione intima e intuitiva dell’Essenza divina e delle Persone del Padre e dello Spirito, oltre che della propria Sussistenza nella Trinità, e che conobbe poi tutto quanto Gli era necessario per adempiere la Sua missione, compresa la profondità dei cuori umani; quanto poi asserì di non conoscere come Uomo – come il momento della Fine del Mondo – Gesù lo conosceva in quanto Dio, ma non aveva la missione di rivelarlo, pur avendone cognizione infusa anche nella mente umana. Lo stesso discorso vale per i sentimenti umani di Gesù, sviluppatisi nella Sua vita terrena, ma corroborati e perfezionati sempre dalla Santità della Sua Natura divina. Cristo ci ha amati con un Cuore umano, ma di un amore divino. Analogamente il Suo operare, compiuto nella carne, è lo specchio fedele del Suo operare divino, in seno alla Trinità, per cui l’Uomo Gesù può dire che Egli compie tutto ciò che vede fare al Padre Suo, ossia è lo strumento consapevole dell’agire divino. Lo stesso Volere del Cristo Uomo è perfettamente sincronizzato, nel Suo agire, con il Suo Volere divino, nonostante lo sforzo che deve compiere per sottomettersi accettando la sofferenza, la morte e l’espiazione del peccato, con cui entra moralmente in contatto, sebbene Gli sia ripugnante, perché incompatibile con la Sua santità. Naturalmente mancano nelle facoltà umane del Cristo le imperfezioni causate dal Peccato originale, perché, come dicevamo, non l’ha mai contratto, e questo le rende ancora più efficaci nel loro operare.

Questo Verbo Incarnato, che ha assunto una Natura Umana definita, delimitata, visibile, le cui caratteristiche fisiche, come quelle spirituali, sono le sole confacenti alla Sua Natura divina, è l’immagine del Dio invisibile. Perciò Dio, nella Sua Sostanza, si è reso visibile in Cristo, così come anche lo ha fatto il Figlio nella Sua Sussistenza. La rappresentabilità, anche artistica, del Cristo Uomo rende lecito, legittimo e doveroso sia il rappresentarLo che il venerarLo nelle Sue sante icone. Il divieto mosaico di farsi un immagine di Dio cade, perché Dio stesso ha fatto un immagine di Sé nel Cristo. Se l’adorazione spetta solo alla Sua Sostanza triplicemente Sussistente, e alla Natura Umana del Verbo unita alla Sua Ipostasi, la venerazione dev’essere tributata alle Sue immagini perché esse rimandano a Lui, e sono un mezzo di cui si serve per santificare il mondo, in absentia della Sua corporeità visibile, che tutti contempleremo solo nell’altra vita (23).

Nel Verbo Incarnato il Cuore umano col quale ci ha amato è degno di amore e adorazione, sia in quanto parte del Suo Corpo divino, sia perché esso è il simbolo dell’Amore Personale del Figlio di Dio per noi. Infatti, nell’antropologia biblica il cuore è la parte intima e sussistente della persona, sede dell’intelletto, della volontà e del sentimento. Il culto del Sacro Cuore di Gesù è dunque il culto per Gesù Che ci ama, e Che chiede amore in modo analogo al proprio.

Il Sangue di Cristo è altrettanto degno di amore e adorazione, non solo in quanto parte della Sua Umanità, ma perché simbolo biblico della Sua stessa vita di uomo, data per noi in modo doloroso e cruento. Per esso e in esso amiamo e adoriamo il Figlio di Dio che ha dato tutta la Sua vita per l’umanità. Tale Sangue è il tesoro dell’umanità redenta, per cui è detto “preziosissimo”. Le Sante Piaghe di Gesù, aperte nel Suo Corpo adorabile, sono adorabili anch’esse, segno e simbolo del Redentore che ci salva tra le sofferenze più atroci. Il culto per esse è il culto per il Salvatore sofferente e morto per amore.

La Santa Infanzia di Gesù, sebbene sia solo un segmento della Sua vita terrena, poiché è inserita nella dimensione eterna della Persona del Verbo - specie dopo la glorificazione dell’Umanità di Cristo nella Risurrezione e nell’Ascensione, quando ormai questa è slegata dalle leggi del tempo - è ora e sempre presente nel Suo mistero, per cui può e dev’essere amata e adorata, simbolo e segno della Sua innocente purezza. Lo stesso si può dire di altre fasi della Sua Vita terrena, in particolare per quelle della Sua Santa Passione, in cui adoriamo Cristo nel momento culminante della Sua Esistenza umana, i cui frutti sono sempre presenti; sono ancor degni di culto i vari aspetti del Suo unico mistero - che è sempre proprio della Sua Persona, come per esempio la Sua dignità di Re dell’Universo (il Pantokrator dell’iconografia bizantina), in quanto Uomo perfetto, Dio Creatore e Redentore - o ancora delle Sue perfezioni, che esprimono in grado eminente la Sua Umanità e che si identificano con la Sua Divinità, come ad esempio la Sua Misericordia.

Infine il Suo Nome Santissimo, che altro non è che il simbolo biblico del mistero della Sua Persona, è, in virtù di questo rimando, degno esso stesso di culto e adorazione: in esso, ogni ginocchio si piega in cielo, in terra e negli inferi.

L’Unione Ipostatica inizia nel momento in cui il Verbo entra nel mondo. Egli discese dal Cielo – ossia dal Suo stato esclusivamente divino- per la nostra salvezza e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Beata Vergine Maria e si è fatto uomo (24). Tale articolo di fede è di capitale importanza. Il Verbo si è fatto carne per riconciliarci con Dio, espiando nella Sua Passione i nostri peccati; per mostrarci così l’amore di Dio per noi e per diventare il nostro modello di santità e vita; per renderci partecipi della figliolanza divina, in terra e in Cielo. Il Verbo assume la natura umana dal gamete femminile della Vergine Maria fecondato direttamente dallo Spirito di Dio, che compie il mandato ricevuto dal Padre attraverso il Verbo stesso. Il Corpo di Cristo risulta quindi generato dallo Spirito e da Maria Vergine, mentre la Sua Anima è creata direttamente e solamente da Dio. La nascita dalla Vergine è la garanzia della reale umanità di Gesù, nato da un altro essere umano, e la concezione di Spirito Santo è il segno che anche in quanto Uomo Egli è Figlio di Dio. E’ il Padre Che, per tramite dello Spirito, intesse il Corpo di Suo Figlio nel grembo di Maria. Solo generando di Spirito Santo, Dio fa sì che nasca una Natura che immediatamente si può predicare del Soggetto divino sussistente del Suo Figlio. Diversamente, in caso dell’assunzione di una Natura generata tramite concorso umano, essa sarebbe stata anche dotata di una propria individualità, in quanto ogni generazione attiva è sempre datrice di forma. E il Verbo avrebbe dovuto assumere una Natura con la rispettiva personalità, per poi sopprimerla nello stesso istante di tale assunzione, perché essa fosse realmente unita alla Sua Persona divina. Ciò avrebbe implicato un’Unione diversa da quella Ipostatica. La generazione di Spirito Santo implica anche che Gesù non sia un semplice discendente di Adamo, ma un Uomo inserito nella sua discendenza solo dopo il Peccato originale, per ripararlo, e da cui è dunque preservato, sia perché non generato carnalmente e quindi privo di tale eredità, sia perché esso sarebbe stato incompatibile con la Sua perfezione divina, naturale e personale. Gesù è dunque Uomo, ma di una umanità nuova, uguale alla nostra nella natura ma radicalmente diversa nell’origine e nel fine; l’ingresso nel mondo attraverso l’azione diretta dello Spirito tutela e dà inizio alla sua missione redentiva. La generazione da Maria Vergine, come dicevamo, è a sua volta reale: Gesù nasce da un essere umano, una donna, per innestarsi nella natura umana già esistente; tale donna, preservata dal Peccato originale in vista dei meriti del nascituro, è la prima e più completa redenta: è l’Immacolata Concezione, esattamente come è Immacolata la Concezione del Suo Figlio. Il Corpo di Cristo non scende dal Cielo, defluendo nel grembo verginale di Maria come l’acqua nel condotto, ma è tratto da esso come il corpo di Adamo fu tratto dalla terra vergine dell’Eden da Dio stesso. La Verginità di Maria è la tutela, reale, fisica, psichica, morale e soprannaturale, della generazione divina di Cristo. Tale Verginità rimane miracolosamente intatta durante e dopo il Parto, suggellando il legame sponsale di Maria con lo Spirito e quello materno col Suo Unigenito (25). Maria è dunque Madre del Verbo, perché è Madre della Persona del Figlio divenuto Uomo, e il Figlio è realmente generato, nel tempo, da Lei e dallo Spirito Santo. Lungi dall’essere un teologumeno, la concezione verginale di Spirito Santo è un fatto storico strettamente connesso alla Redenzione (26). In seno a tale economia salvifica, Giuseppe di Nazareth, che garantisce l’innesto del Cristo nella dinastia davidica, in quanto padre legale, è tuttavia realmente Suo padre in relazione all’Umanità, in quanto svolge verso di essa tutte le funzioni della paternità, ad esclusione di quella generativa. Il termine dunque “putativo”, che spesso la definisce, è dunque riduttivo, anche se non scorretto.

LA VITA DI CRISTO. LA DINAMICA DELLA CRISTOLOGIA.

Il Verbo Incarnato non è un personaggio mitico, ma storico. La Sua vita, avvenuta in un’epoca precisa e in un luogo determinato, terminata con la morte come quella di tutti noi, poi ricominciata anche corporalmente con la Resurrezione, e che ancora oggi prosegue in Cielo, è descritta in fonti storiche – innanzitutto i Vangeli – che possono essere studiati e sottoposti ad analisi con metodi storico-filologici moderni. Il loro esame, lungi dal dover essere scoraggiato, è invece doveroso; i risultati, ormai acclarati e sufficientemente chiari per chi non abbia preconcetti, sono una conferma della fede perché, constatando la storicità della Vita di Gesù, permettono di credere in Lui quale Verbo di Dio in mezzo a noi. Sorta di nuovo tipo dei preambula fidei, la dimostrazione della storicità dei Vangeli è una frontiera importante della nuova apologia della religione, e meriterebbe più attenzione. Non è compito di questo studio fare una critica storica del NT e una metacritica delle sue interpretazioni storiografiche (27), ma non possiamo esimerci dal ricordare quattro argomenti forti. Anzitutto i Vangeli sono certamente stati scritti in tempi vicinissimi ai fatti narrati, per cui non sono assimilabili alla letteratura mitica e leggendaria che in genere è alla base delle religioni  (28). Poi hanno avuto autori identificati, che hanno redatto da cima a fondo i testi, come ogni buon testo storiografico e biografico antico, e che sono senza ombra di dubbio gli apostoli Matteo e Giovanni, nonché Marco, discepolo di Pietro e Luca discepolo di Paolo (29).

La loro tradizione testuale non ha conosciuto oscillazioni neanche men che significative di sorta, come dimostra una serie ininterrotta di codici dalla prima metà del I secolo sino all’invenzione della stampa, scritti da ogni generazione, in moltissimi luoghi e in tutte le lingue (30). I fatti narrati hanno riscontri certi extratestuali, in quanto hanno corrispettivi significativi – anche se esigui – nella letteratura extrabiblica greca, latina, ebraica, samaritana, nonché di molte altre lingue antiche, e anche numerosi e certi agganci nell’archeologia  (31). Le discordanze tra i Vangeli, peraltro mai sostanziali, sono appianabili da una attenta lettura comparata, da cui emerge che ogni autore sacro scrisse per completare e integrare i precedenti  (32). Inoltre, va detto che la ricca letteratura apocrifa – espressione ambigua che designa moltissimi testi di eterogenea origine ed eteroclita finalità – non ha nemmeno lontanamente una credibilità paragonabile ai testi canonici, sia in ordine alla datazione, che all’autenticità, alla tradizione testuale e ai riscontri extratestuali (33). L’eccessiva, morbosa attenzione riservata ai testi apocrifi è un segno della malafede e del pregiudizio anticristiano contemporanei, e della dilagante ignoranza ed eresia. E’ un rigurgito di gnosticismo, l’antica eresia che cercava la salvezza nella conoscenza esoterica, e non nel Sangue di Cristo. Da essa non ci si difenderà mai abbastanza. Il Cristianesimo è una religione storica, perché il Verbo si è fatto Carne, e ha vissuto una Vita che è tutta datrice di salvezza. Questa Vita, proprio per questa potenza salvifica che sprigiona, è dunque mistero, non solo per i suoi aspetti inspiegabili, ma anche perché rimanda sempre alla compresenza, nel soggetto Cristo, della Natura divina con l’umana, e soprattutto perché attraverso di essa continuamente Egli opera la nostra salvezza. In ogni caso, una sommaria esposizione della Vita di Gesù, com’è descritta nei Vangeli, può avvenire nel modo che segue, mediante la focalizzazione di alcuni misteri principali, che manifestano gli aspetti determinanti della Sua missione.

La Vita di Cristo comincia, come quella di ogni altro essere umano, con la sua Concezione. Essa avviene appunto di Spirito Santo nel seno di Maria di Nazareth, in quella località, nella casa di Lei, su cui oggi sorge la Basilica dell’Annunciazione (34). La Beata Vergine era appartenente ad una famiglia sacerdotale, imparentata con la discendenza di David, nella quale aveva trovato marito nella persona di Giuseppe di Nazareth. Era nata a Gerusalemme, dove aveva conosciuto Giuseppe, che era nato a sua volta nella vicina Betlemme (35). Per ragioni a noi ignote, in quegli anni Maria e Giuseppe vivevano appunto a Nazareth, ciascuno in una propria casa, entrambe individuate dall’archeologia. Probabilmente questo si deve al fatto che Giuseppe era carpentiere, e i grandiosi piani edilizi del re Erode (37-4 a.C.) nella Galilea lo avevano spinto a trasferirvisi per lavoro, assieme alla sua futura sposa. Ella ricevette dall’arcangelo san Gabriele l’annuncio di ciò che Dio stava per compiere in Lei; il messo celeste chiese il suo assenso rivelandole, almeno implicitamente, i grandi misteri – passati, presenti e futuri – della Vita sua e del suo preconizzato Figlio (36). Dinanzi al Fiat di Maria, che compensò la ribellione di Eva, si compì il grande miracolo e il Nuovo Adamo, insensibilmente, fu concepito in Lei. Da subito di Lui si seppe che sarebbe stato Re in eterno, discendente di David, Figlio di Dio; che sarebbe stato concepito di Spirito Santo e che sarebbe vissuto per sempre; che la Sua nascita non avrebbe infranto ma anzi avrebbe consacrato la Verginità materna, e sarebbe accaduto per opera dello Spirito Santo. Il racconto lucano dell’Annunciazione del Signore è dunque un sommario sia mariologico e cristologico di spessore. A questo evento seguì la Visitazione della Beata Vergine Maria a sua cugina Elisabetta, nella sua casa in Ain Karin di Giudea, presso Gerusalemme, luogo ancora oggi consacrato alla memoria di tali eventi. La fonte è ancora il Vangelo di Luca. Elisabetta, incinta anche lei miracolosamente, nonostante l’età avanzata e la sterilità, di Giovanni il Battista – la cui concezione, annunciata dallo stesso arcangelo Gabriele al padre Zaccaria mentre officiava nel Tempio in quanto sacerdote della classe di Abia, fu una preparazione della Nascita di Cristo (37) – ricevette la cugina e, in Lei, il Redentore. Questi, prima ancora di nascere, già operò la salvezza altrui per mezzo della Madre, e non potendo ancora parlare con voce umana, si servì di quella di Maria per comunicare lo Spirito. In ragione di ciò, profeticamente, Elisabetta riconobbe la pienezza di benedizioni presente in Gesù e -conseguenzialmente- in Maria (che subito declamò il Magnificat); professò la Regalità dell’Uno e dell’altra, e ricevette la grazia che santificò suo figlio ancora nel suo grembo. In ragione di ciò, Giovanni sarebbe diventato il Precursore, il preparatore dell’avvento del Messia, annunziato dal padre Zaccaria al momento della sua nascita, tre mesi dopo, nel Benedictus. In questo cantico la funzione redentiva di Cristo è chiaramente delineata e ricondotta alle promesse dell’AT; in esso è delineata anche la missione di Giovanni Battista. La Madre di Gesù fu testimone di questi eventi e dopo circa tre mesi tornò a casa sua. Non mancò di palesare, forse subito dopo l’Annunciazione, il mistero che si era compiuto in Lei al suo sposo Giuseppe. La loro unione non era ancora perfezionata dalla convivenza, ma era già legale. I due avevano deciso di consacrare la loro verginità a Dio, sulla scorta di esempi ascetici allora in uso, come confermato dagli apocrifi e indirettamente riferito da Luca e Matteo. Una volta che Giuseppe, grazie alla visione onirica di un Angelo, ebbe vinto la sua ritrosia ad assumere la paternità di un Figlio concepito dall’alto, potè inserire il Nascituro nella discendenza davidica legale. La fonte di questa importante notizia, che dà compimento alla profezia di Isaia al re Manasse sulla concezione verginale del Messia nella Casa di Davide, è il Vangelo di Matteo.

Secondo Luca, compiuti i tempi della gravidanza, in corrispondenza dell’anno del Censimento di Publio Sulpicio Quirino in Siria Palestina, Maria generò verginalmente il Suo Unigenito in Betlemme, città in cui la coppia aveva il domicilio anagrafico e in cui era risalita per essere appunto censita (38). Si adempì così la profezia di Michea sul luogo della nascita del Salvatore. Era probabilmente la fine di novembre o di dicembre quando accadde il Natale del Signore  (39). La grotta – ossia l’ambiente per gli ospiti e per gli animali, significativamente messi insieme nelle antiche case palestinesi dei poveri – è ancora oggi, assieme al resto della dimora paterna di Giuseppe, visibile sotto la Basilica della Natività. La Nascita fu umile ma non oscura: dei pastori, in seguito ad una rivelazione angelica, adorarono il neonato Cristo Signore, alla presenza di testimoni. A Lui, dopo otto giorni, nella Circoncisione, fu imposto il Nome di Gesù. Iniziò così la Sua missione redentiva, con il versamento del primo Sangue innocente, dando efficacia al significato del Suo Nome. Nella Presentazione del Signore al Tempio, avvenuta in concomitanza della Purificazione della Madre dall’impurità legale che si credeva avesse contratto in quanto puerpera, i genitori crearono l’occasione perché il Figlio fosse salutato Salvatore di tutto il mondo dal profeta Simeone, che per Lui intonò il Nunc Dimittis, e dalla profetessa Anna. Trattenendosi ancora a Betlemme immediatamente dopo tali avvenimenti, in base al racconto di Matteo la Sacra Famiglia potè ricevere l’ossequio di alcuni dotti Magi dell’Impero Partico, innanzi ai quali, essendo pagani, Gesù compì la sua prima Epifania divina, mostrandosi come Re. Essi erano infatti giunti in Betlemme seguendo un segno celeste preconizzato nell’AT da Isaia e in altri testi non canonici, quale foriero della nascita del Messia: la celebre Cometa, che probabilmente fu una congiunzione planetaria di grande splendore, tra Saturno e Giove, osservata e descritta anche da Keplero  (40). Qui la storia di Gesù si mescola con la grande storia: i Magi, giunti dall’Oriente a Gerusalemme, furono ricevuti dal re Erode il Grande. Questi altro non era che un idumeo usurpatore del trono asmoneo e davidico, che regnava come vassallo di Roma. Al Re i Magi svelarono di essere giunti alla ricerca del Messia. Erode ne fu turbato e chiese agli illustri ospiti di cercarlo – dissimulando le sue reali intenzioni – affinchè potesse anch’egli sottomettersi a Lui. Essi allora partitono per Betlemme, nei luoghi dove appunto i Profeti avevano annunziato l’avvento del Messia. Avvertiti poi in sogno, fecero ritorno al loro paese per un’altra strada. Quando Erode si accorse di essere stato ingannato, decise a scopo prudenziale di uccidere tutti i bambini di Betlemme dai due anni in giù. Fu la Strage degli Innocenti, vaticinata da Geremia (41). Ma Giuseppe, avvertito in sogno da un Angelo, fece in tempo ad organizzare la Fuga in Egitto, dove esistevano fiorenti comunità ebraiche, e dove ancora oggi molte comunità conservano la memoria del soggiorno della Sacra Famiglia (42). Dopo tale Esilio, morto Erode e diviso il suo regno tra i quattro figli superstiti, Giuseppe, avvisato ancora in sogno da un Angelo, tornò in Palestina e si stabilì definitivamente in Galilea, a Nazareth, governata da Erode Antipa (4 a.C.-39 d.C.), che riteneva – non a torto – meno pericoloso del fratello Archelao (4 a.C.-6 d.C.). Si adempirono così altre profezie, a cui rimanda genericamente il primo Vangelo. La casa di Giuseppe è ancora oggi visibile grazie alle scoperte archeologiche: lì visse la Sacra Famiglia durante la Vita Nascosta di Gesù. Solo uno squarcio si ha di questa esistenza, al momento del passaggio alla pubertà, con il Ritrovamento di Gesù nel Tempio, dopo una inopinata fuga del Ragazzo durante il pellegrinaggio pasquale annuale a Gerusalemme. In questa circostanza, all’età di dodici anni, Gesù si mostra consapevole di essere Figlio e Logos del Padre. La fonte è ancora Luca. Con questo evento terminano i misteri dell’Infanzia. Negli anni oscuri dell’adolescenza e della gioventù, Gesù visse nel silenzio, nel lavoro, nell’umiltà, crescendo in statura, età e grazia innanzi a Dio e agli uomini. La Sua Vita nascosta dà valore redentivo all’esistenza ordinaria di ognuno di noi. Fece il carpentiere col padre putativo – che morì in una data imprecisata prima che Gesù divenisse noto– fino al momento della Sua missione pubblica, iniziata poco dopo quella del cugino Giovanni, divenuto il Battista, perché annunciatore di un battesimo di penitenza, nell’anno quindicesimo di Tiberio (14-37), ossia nel 27 della nostra era, secondo il computo siriaco.

Proprio dalle mani del cugino Gesù ricevette il Battesimo presso il Giordano. In tale contesto scese su di Lui lo Spirito Santo sotto forma di colomba e una Voce dal Cielo lo proclamò Figlio prediletto, invitando tutti ad ascoltarlo. Il Battesimo del Signore è dunque una seconda Epifania della Sua Divinità, che più perfettamente della prima rimanda anche al mistero trinitario. Tale evento è descritto dai tre Sinottici, mentre Giovanni lo riferisce indirettamente, quando riporta le parole del Battista che presentano Gesù quale Agnello – o Servo – di Dio, adempiendo in Lui le parole di Isaia, nei suoi Canti del Servo. Di lì a poco la missione di Giovanni, redivivo Elia mandato a preparare la strada del Signore (43), terminerà coll’arresto e il martirio voluto da Erode Antipa. Da questo momento Gesù – che aveva almeno trentacinque anni – iniziò la Sua missione pubblica, palesata a tutto il cosmo. Il primo innanzi al quale deve rendere testimonianza è l’antico avversario. Gesù infatti si recò a fare una penitenza preparatoria di quaranta giorni nel Deserto di Giuda; al termine del lungo digiuno, satana gli si accostò per tentarlo. Gesù, Che in quanto uomo poteva subire tale assalto senza tuttavia avere nulla in Sé che lo rendesse fragile come la progenie di Adamo, respinse per Sua virtù gli assalti diabolici e riaffermò il Suo dominio sulla natura terrestre e angelica, ottenendo l’ossequio delle bestie e degli spiriti celesti. Il progetto satanico, di un finto messianismo basato sul successo, sul potere e sul miracolismo, venne distrutto (44). Subito dopo, Gesù si manifestò agli uomini. Anzitutto radunò attorno a Sé la comunità dei discepoli, spesso già seguaci del Battista. Tra essi sceglierà poi un gruppo ristretto, gli Apostoli, di dodici membri, da inviare nel mondo alla Sua dipartita (45). Il loro capo è Simone, figlio di Giona, a cui Gesù impose il nome di Pietro – letteralmente Kephas, ossia roccia. A lui Gesù conferirà in Sua vece il potere d’insegnare e di comandare (46). Tra i Dodici, oltre che alcuni seguaci di Giovanni, vi sono consanguinei di Gesù; Pietro, Giacomo di Zebedeo e Giovanni suo fratello sono i tre più intimi collaboratori del Maestro, i testimoni dei Suoi momenti più personali, i confidenti privilegiati.

Gesù poi iniziò le Sue peregrinazioni apostoliche, nelle quali predicò il Vangelo del Padre. All’inizio della vita pubblica Egli compì una terza Epifania, raccontata da Giovanni, che lo mostrò Messia Signore, permettendo ai suoi discepoli di credere in Lui: alle Nozze di Cana trasformò l’acqua in vino. In questa occasione ordinaria Gesù mostrò la Sua signoria messianica e, tra l’altro, permise alla Madre di palesare la Sua potenza di intercessione. Da qui in poi iniziò l’Annunzio del Regno, ossia la predicazione del Vangelo, ampiamente descritto da tutti e tre gli Evangelisti, i quali però attestano anche che molto è rimasto nella tradizione orale, tanto più che, com’è noto, Gesù non ha scritto nulla.

I contenuti della predicazione non possono essere qui condensati, essendo essi alla base della dogmatica, dell’etica e della liturgia cristiana. Importante è ricordare che Gesù adempie scrupolosamente le profezie antiche, dichiara compiuta l’attesa messianica, presenta Sé stesso come Messia, Re, Redentore e Dio, pone il drammatico problema dell’Espiazione della colpa e si prepara a compierla Lui stesso col Suo Sangue, siglando una Nuova Alleanza Eterna. Annunzia che sarà torturato e ucciso dai Sacerdoti e dai pagani in Gerusalemme, e che risorgerà dopo tre giorni. Chiama inoltre tutti gli uomini nel Regno, specie i peccatori, che invita alla conversione. Proclama la Nuova Legge nel Discorso della Montagna e nelle Beatitudini (47); fonda la Sua Chiesa, la nuova e definitiva Qal YHWH (48); trasmette i Suoi poteri a Pietro e ai XII, preparandoli a continuare la missione in Sua vece; istituisce i segni della Grazia che si chiameranno Sacramenti; addita la perfezione nei consigli della povertà, della castità e dell’obbedienza, da Lui praticate come esempio. Fornisce le Sue credenziali operando miracoli, prodigi e segni che mostrano come ogni cosa sia sottomessa al Suo volere: gli oggetti materiali (49, gli elementi (50), gli animali (51), le piante (52), le leggi dello spazio-tempo (53), le malattie, le minorazioni (54), i segreti dell’anima umana (55), i demoni (56) e persino la morte (57). Suscita eccezionali conversioni, avvicinando misericordiosamente prostitute, pubblicani e peccatori di ogni tipo (58). Tiene stupendi discorsi, raggruppabili in due tipologie. La prima è per il grande pubblico, inteso sia come popolo che come discepoli, di cui il Discorso della Montagna è il più famoso. In essi parla in modo lapidario e chiaro; spesso con l’uso di sublimi parabole (59), racconti mitici di valenza didattica, altre volte con insegnamenti sentenziosi e asciutti, i cosiddetti loghìa. La seconda è costituita dai discorsi con gli avversari e gli interlocutori più accreditati; sono contenuti nel Vangelo di Giovanni, hanno una dialettica aggirante, un discorrere letterario profondo e complesso, un senso polemico e un contenuto teologico di alto spessore, espresso da un lessico specialistico tipico della cultura giudaica del I sec: celebre il Discorso sul Pane di Vita, ma ricordo, a titolo esemplificativo, quello ai Giudei sulla Divinità del Messia, quello a Nicodemo, quello alla Samaritana e naturalmente il corpus dottrinale di eccezionale valore dei Discorsi dell’Ultima Cena. Gli uni e gli altri – con buona pace del Jesus Seminar (60) – sono autentici. Rispecchiano una personalità teologica fortissima e due livelli differenti di comunicazione, per contenuti disposti su due livelli di profondità: catechetica e didascalica (61). Di essi probabilmente si fece stenografia dal vivo. Una menzione a parte merita il Discorso escatologico del Martedì Santo – riportato in forme simili dai Sinottici- che è una vera e propria Apocalisse di Gesù: sono descritte con precisione le circostanze della fine della Vecchia Alleanza, e da esse si trapassa a vaticinare le circostanze della Fine del Mondo, annunziando i temi tipici sull’argomento propri del Cristianesimo. In esso Gesù si manifesta quale Giudice dei Vivi e dei Morti, preannunziando che terrà il Giudizio Finale. Anche questo discorso fu probabilmente stenografato.

Gesù compì la Sua missione viaggiando continuamente, in tre anni (62). Percorse tutta la Palestina, si spinse fino in Transgiordania e Libano, salì almeno tre volte a Gerusalemme; ebbe residenza temporanea in quel di Cafarnao durante il Suo ministero galilaico, ma il Suo Cuore fu sempre rivolto alla Città Santa, dove predicò spesso nel Tempio. Si rivolse essenzialmente ai Giudei, pur non mancando pochissimi ma significativi incontri con pagani e samaritani. Fu circondato da un piccolo gruppo strutturato, comprendente anche alcune donne, consanguinei e discepoli di ogni estrazione sociale. Ebbe relazioni intense ma polemiche con i gruppi religiosi ortodossi come i Farisei e con il clero aronitico, legato alla setta dei Sadducei, ma non mancano nei Vangeli prove di riferimenti ad usi e costumi degli altri gruppi religiosi giudaici contemporanei, come per esempio Erodiani, Esseni e altri seguaci di messianismi sovraumani, ma anche Zeloti e Davidici. La routine della predicazione, durata un triennio, fu interrotta da Gesù con la Trasfigurazione, sul Monte Tabor (63) , in cui Egli mostrò quello che avrebbe dovuto essere il Suo aspetto glorioso ai Suoi tre Apostoli più intimi. In tale mistero, Gesù si manifesta come Regno di Dio vivente, come Egli stesso ebbe a dire otto giorni prima: “Alcuni dei presenti non morranno senza aver visto il Regno di Dio venire con potenza”. Il racconto della Trasfigurazione è in tutti e tre i sinottici.

La vita pubblica di Gesù tocca il suo apice con l’Ingresso Trionfale in Gerusalemme, attraverso la Porta Bella o Dorata, nella nostra Domenica delle Palme, nel 30, a pochi giorni dalla morte (64). Da Betfage presso Betania, dove aveva un congruo numero di seguaci, Gesù percorre la strada che porta al Tempio, vi entra ed è acclamato Figlio di David e Messia. Ma la gloria terrena, pur essendo necessaria per il pubblico riconoscimento della missione di Gesù, non è il suo scopo. Infatti in quei momenti il Sinedrio (65) - all’epoca presieduto da Giuseppe Caifa (18-36), uomo di paglia dei Romani - già ordiva la sinistra trama che doveva causare la morte di Gesù. Il Sinedrio infatti temeva di perdere la sua influenza religiosa sul popolo e adduceva come pretesto per un intervento contro Gesù il timore di un tumulto politico in suo favore con conseguente intervento dei Romani.

La fine di Gesù è il cuore del Suo mistero. Non temuta, anzi cercata, quasi provocata umanamente, essa è lo scopo della Vita di Cristo, venuto a redimere, con infinità di dolore, gli uomini tutti. In tale fine si mostra l’Amore e il Potere di Cristo. L’amore, perché nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i propri amici, e gli amici di Cristo siamo noi, divenuti tali proprio per il Sangue versato fino all’ultima goccia dalle Piaghe squarciate orrendamente sul Suo Corpo umano. Il potere, perché nessuno poteva toglierGli la Vita, ma Lui la diede da Sé, dominando il dolore coll’assoggettarvisi, e salvando l’uomo dal male. Nella Passione e Morte infatti il Corpo è offerto in sacrificio, il Sangue è versato in remissione dei peccati per la Nuova Alleanza Eterna. Infine nella Resurrezione Gesù mostra pienamente la Sua Personalità divina, perché da solo riprende l’Umanità, solo temporaneamente imprigionata dalla morte, ma non lambita da corruzione. Il grande mistero della Passione è voluto da Dio Padre, Figlio e Spirito; la malvagità umana ne è lo strumento, ma essa non raggiunge lo scopo di annullare il piano divino, ma anzi lo compie; la causa ne è il peccato di ognuno di noi, in quanto non vi è, non vi fu né vi sarà mai alcun uomo le cui colpe non abbiano causato la Morte di Cristo; l’influenza diabolica la ispira, ma senza poterne cavare ciò che ordinariamente ricava dalla proliferazione di morte e dolore, ossia il peccato, anzi ottenendone un arginamento e una regressione progressiva, destinata ad essere completa alla fine dei tempi. Tornerò prossimamente, a Dio piacendo, sul rapporto tra Passione e Giustificazione. Ora limitiamoci a tratteggiare i contorni storici dei fatti, armonizzando i Quattro Vangeli.

Già dal mercoledì santo Giuda Iscariota si era venduto ai Sinedriti, promettendo di consegnare Gesù per trenta denari – come profetizzato da Geremia. Il giovedì Gesù celebrò la Pasqua seguendo il calendario solare degli Esseni: fu l’Ultima Cena (66). In essa Gesù si mostrò consapevole di quanto stava per accadere e ne fissò il senso: istituendo l’Eucarestia, Egli presentò pane e vino come trasformati nel Suo Corpo e nel Suo Sangue offerti in sacrificio per l’umanità. Conferì poi ai XII il potere di rifare il miracolo in altre Cene, istituendo il Sacerdozio cristiano su misura del proprio, superiore a quello aronitico. Compiuta la Cena e lavati i piedi ai XII in segno di umiltà, mentre già Giuda Iscariota si recava dai Sinedriti per preparare l’arresto di Gesù, Questi, dati i Suoi ultimi insegnamenti, si avviò a notte inoltrata verso il Giardino del Gethsemani – l’Orto degli Ulivi, sul Monte omonimo – oltre il torrente Cedron (67). Qui, dove spesso si ritirava a pregare con i discepoli, Egli visse quella che chiamiamo la Sua Agonia o Passione interiore. Avendo lasciato in disparte i XII, portandosi dietro solo Pietro, Giacomo e Giovanni, che però si addormentarono, allontanandosi da loro quanto un tiro di sasso, in ginocchio Gesù chiese per tre volte al Padre di essere liberato dal sacrificio imminente, rimettendosi però sempre al Suo Volere. Dinanzi alla mostruosità delle pene che l’attendevano e alla considerazione dell’orrore delle colpe di tutti gli uomini che Gli si fecero presenti in spirito, perché potesse detestarle Lui in vece dei peccatori, l’Uomo Gesù provò uno sgomentato terrore e un angoscioso disgusto. La paura Lo assalì, nell’abbandono in cui tutti, compresi i fedelissimi, lo avevano lasciato, ignari dell’imminente pericolo e dimentichi del Suo invito a pregare con Lui. Lo stato di sofferenza fu tale da provocare, in proporzioni non naturali, il tremendo fenomeno della Sudorazione di Sangue (68). Persino un Angelo scese dal Cielo a confortarlo. Vinta la battaglia con Sé stesso e avendo sposato la causa dell’immolazione per i peccatori a dispetto della bruttezza del male, dell’ingratitudine umana e della Sua innocenza immeritevole di pena, Gesù raggiunge i tre dormienti e li desta, preparandoli all’arrivo del traditore. Questi, l’Iscariota, si accostò a Gesù per baciarlo: il segnale convenuto per indicare alle guardie che l’accompagnavano chi arrestare. Queste, seguite dagli altri discepoli di Gesù, attirati dal loro arrivo, Gli si fecero innanzi. Gesù, Signore degli eventi anche in queste drammatiche circostanze, chiese loro chi cercassero, si palesò loro e si offrì all’arresto, chiedendo l’immunità per i discepoli, secondo quanto previsto dai profeti. Scandendo innanzi alle guardie il Nome Biblico- Io Sono – per affermare la Sua identità, Gesù ne provoca il momentaneo arretramento e la caduta. Incattivite dal prodigio, le guardie tornano alla carica e Lo arrestano, di soppiatto, come se fosse un brigante. Gesù proibì tuttavia ai XII di impugnare le armi per salvarlo; costoro allora, pronti a combattere ma non a consegnarsi ai nemici, abbandonatolo, fuggirono. Solo Giovanni e Pietro lo seguono, da lontano.

Gesù è trascinato nella parte alta di Gerusalemme, nei quartieri buoni. Qui avevano casa i capi della congiura. Gesù fu tradotto innanzi al tribunale personale dell’ex sommo sacerdote Anna (6-15), deposto dal procuratore Valerio Grato (15-26), ma ancora molto influente. Qui subì i primi oltraggi, secondo il Quarto Vangelo. Nel frattempo Giovanni e Pietro lo attendevano nel cortile della casa del sommo sacerdote Caifa, dove erano potuti entrare perché il primo conosceva l’alto prelato (69). Attendevano l’esito del processo imminente. E’ qui che Pietro, preso dal panico, riconosciuto dai servi di Caifa, dichiara per tre volte di non conoscere Gesù, come registrano tutti i Vangeli. Quest’ultimo, tradotto in vincoli presso il tribunale, fece in tempo a sentire il rinnegamento del suo Apostolo, come nota Luca. E mentre Pietro si allontanava in lacrime , Gesù fu introdotto in casa, dove si era riunito tutto il Sinedrio. La procedura era affrettata, volendo i sacerdoti condannarlo al più presto per un reato capitale. Le accuse furono false e contraddittorie, e l’andamento caotico dell’istruttoria dipese dal fatto che di notte non si poteva processare nessuno. Gesù tacque, fino a quando Caifa, dopo averLo inutilmente invitato a discolparsi, Gli chiese formalmente: “Sei Tu il Cristo, il Figlio di Dio Benedetto?”. A quel punto, come ho detto, Gesù rompe il segreto messianico e si manifesta al Sommo Sacerdote: “Io lo Sono! E vedrete il Figlio dell’Uomo, seduto alla destra della Potenza, venire con le nubi del Cielo!”. Matteo e Marco tramandano questo essenziale interrogatorio e il suo esito: avendo fatto la domanda per incastrare Gesù – a dimostrazione della sua malafede – Caifa potè accusarLo di bestemmia e il Sinedrio decretò la Sua morte. Subito i giudici cominciarono ad insultare, schernire, percuotere e sputare su Gesù. Questi, in attesa della ripetizione formale della sentenza al mattino, rimase nelle mani dei servi del sommo sacerdote, che continuarono ad infierire su di lui, come c’informa Luca. E’ sempre il Terzo Evangelista a riferirci come all’alba il Sinedrio, in seduta legale, rifece l’interrogatorio – ormai per formalità- ma senza che Gesù si sottraesse ad una nuova ammissione: “Se Tu sei il Cristo diccelo!”- fu la domanda; “Anche se ve lo dico non Mi crederete…ma da questo momento starà il Figlio dell’Uomo seduto alla destra della Potenza di Dio” – fu la risposta; nuovamente Gli chiesero: “Tu dunque sei il Figlio di Dio?”, e Gesù disse loro: “Lo dite voi stessi: Io lo Sono.” Gesù sapeva che la dichiarazione d’identità l’avrebbe ucciso, ma sapeva anche che Egli, in qualità di Messia atteso, doveva svelarsi proprio innanzi a coloro che custodivano la promessa, anche se essi erano ostili. Il momento più solenne della Sua Vita pubblica è anche quello più drammatico.

Allora Gesù, incatenato, fu condotto dalla casa di Caifa al Pretorio, innanzi al procuratore Ponzio Pilato (26-36), uomo noto per le maniere spicce con cui trattava i sediziosi politici (70). Fu per tale ragione che il Sinedrio presentò il caso di Gesù in chiave politica (71). Era la vigilia della Pasqua, che al Tempio si calcolava col calendario lunare. Gesù, come nota Giovanni che segue questo calendario, appare proprio come l’Agnello immolato. Secondo il racconto dei Vangeli, Pilato andò incontro ai Sinedriti, udì che accusavano Gesù di sedizione, Lo portò dentro con sé e dall’interrogatorio, a cui Gesù rispose a Suo modo, solenne e libero, capì che nulla vi era di politico in quel caso. Saputo dai Sacerdoti che era galileo, approfittando della presenza in Gerusalemme di Erode Antipa, gli inviò Gesù perché lo processasse lui, come attesta Luca (72). Anche il tetrarca, che insultò e schernì Gesù, non trovò in Lui nulla di colpevole e lo rimandò a Pilato. Questi riprese l’istruttoria e rimase colpito dalla personalità del Prigioniero. I brevi dialoghi sono registrati dal Vangelo di Giovanni, perché probabilmente il giovane evangelista seguì il Maestro per tutto il processo. Ma l’insistenza del Sinedrio spinse Pilato ad una soluzione di compromesso: egli ordinò la Flagellazione di Gesù, per poi poterLo rilasciare. I soldati romani dell’intera corte, che si accanirono ferocemente sul Prigioniero per la Sua impassibilità (73), lo sottoposero poi al supplizio della Coronazione di Spine (74) e ad una serie di ulteriori tormenti come scherno della Sua Regalità: Gesù fu schiaffeggiato, sputato, percosso, graffiato, insultato, schernito, deriso; già denudato per la Flagellazione, fu rivestito di un mantello di porpora con una canna come scettro. Di questi supplizi Matteo, Marco e Giovanni ci danno tremende descrizioni.

A quell’ora, in virtù di una vecchia usanza, il popolo di Gerusalemme si accalcava presso il Pretorio per chiedere il rilascio di un prigioniero, come attestano tutti i Vangeli. Pilato mostrò alla folla Gesù, così come i soldati l’avevano ridotto e travestito (il famoso Ecce Homo, narrato in dettagli da Giovanni) (75); sperava infatti che il popolo lo liberasse. Ma esso, sobillato dal clero, chiese il rilascio di un noto sedizioso, Barabba. Tutti i Vangeli lo registrano con muto orrore. Per tre volte Pilato tentò di persuadere la folla, a causa dell’innocenza di Gesù – alla quale lo aveva sensibilizzato anche la moglie, per un sogno che aveva fatto, riportato da Matteo – ma inutilmente. Allora, lavandosi le mani pubblicamente per significare il suo dissenso, il Procuratore decretò la morte dell’Innocente. Inserito frettolosamente nella schiera dei condannati alla crocifissione, rivestito con i Suoi abiti sulle carni rese incandescenti dalle ferite, Gesù fu caricato del Suo patibolo: una Croce completa dei due bracci, in quanto quello verticale non era stato annoverato tra quelli già piantati per i due criminali che dovevano morire. Gesù dovette così portare un peso enorme. Esso gli procurò una ferita nella spalla destra, profonda tre dita, che scoprì tre ossa (76). Lungo la strada tra il Pretorio e il luogo extraurbano della Crocifissione, il colle Calvario – in ebraico Golgotha- Gesù percorse quella che è appunto chiamata la Via Crucis (77). Cadde tradizionalmente almeno tre volte procurandosi ferite e lacerazioni su tutto il lato anteriore (78), ebbe lo strazio di incontrare Sua Madre che Lo seguiva fino al supplizio, dovette essere aiutato da Simone di Cirene a portare la Croce per arrivare vivo al luogo del martirio, ricevette il breve conforto di una donna che Gli asciugò il volto (79), ammonì le Donne che piangevano ritualmente su di Lui a pentirsi delle loro colpe, nelle quali Egli ravvisò la causa del Suo soffrire, fedele, sino all’ultimo, alla Sua vocazione di Redentore e citando appositamente le Scritture. Il breve racconto del viaggio del Condannato, fatto da tutti gli Evangelisti, è arricchito di episodi da Luca e dalla tradizione. Esso terminò con l’arrivo al Calvario per il supplizio (80).

Qui Gesù, dopo aver rifiutato l’anestetico che spettava ai condannati (come previsto dai Profeti), spogliato nuovamente e definitivamente delle Sue vesti, fu disteso sulla Croce e orribilmente inchiodato. I chiodi trapassarono la base delle mani e la sommità dei piedi; il braccio destro fu tirato violentemente per accomodarlo ai punti fissati per l’inchiodamento e ne fu slogato, per cui rimase in quella trazione scomposta fino alla Sua morte. Le braccia furono stirate e fissate in modo tale che il Condannato non potesse restringere e dilatare la cassa toracica in un normale movimento respiratorio; i piedi furono fissati in modo da tenere flesse le ginocchia e appoggiate le piante ad un supporto, così da far leva su entrambe, innalzarsi oltre il punto di stiratura del torace e poter respirare, a prezzo di un indicibile dolore ai piedi stessi. I chiodi delle mani incidevano senza recidere un nervo che percorreva il braccio e il polso, fino alle mani stesse, provocando dolore e la paralisi del polso (81). Il Corpo, così orrendamente e precisamente infisso alla Croce, fu poi issato in posizione verticale. Durante lo strazio, Gesù non si stancava di ripetere: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (82). Era circa l’ora sesta (83). Sul capo di Gesù, crocifisso – ennesimo oltraggio – tra due ladroni, Pilato fece apporre la profetica motivazione: “Gesù il Nazareno, il Re dei Giudei”; ai Suoi piedi i soldati romani Gli facevano la guardia, dividendosi le Sue vesti; attorno a Lui i sacerdoti e il popolo che, assieme alle stesse guardie, si accanivano a deriderLo e ad insultarLo, adempiendo, anche in questo, le Scritture. Anche uno dei ladroni crocifissi Lo insultava, mentre l’altro lo difendeva: a questi Gesù, con sublime bontà disse: “In verità ti dico: oggi tu sarai con Me in paradiso.” Tutti i discepoli Lo avevano abbandonato, e i parenti; le uniche eccezioni erano Giovanni, la zia, Maria di Cleofa, Maria di Magdala e la Madre, in un oceano di dolore. A Lei Gesù riserva un toccante pensiero, affidandola a Giovanni: “Donna, ecco tuo figlio.”, e affidando questi a Lei: “Ecco la tua madre.” Maria infatti è strettamente unita al dolore espiativo del Suo Unigenito.  

Dopo alcune ore in cui il Condannato stette immerso nei dolori, cosparso ovunque di Piaghe, grondante Sangue sino allo sfinimento, sempre in bilico sull’orlo dell’asfissia, ecco che anche il Creato, inorridito dal deicidio, si velò di tenebre (84). All’ora nona, Gesù, citando le Scritture per esprimere il Suo immenso dolore, ma anche la Sua perseveranza nella missione, gridò con voce forte, in aramaico: “Dio Mio, Dio Mio, perché Mi hai abbandonato?”, che è il versetto incipitario del Salmo 22, in cui sono profetizzate le Sue sofferenze (85). Fu un momento di acutissimo dolore e profonda angoscia: sebbene non cessasse l’Unione Ipostatica né la visione intuitiva dell’Essenza divina e delle Sussistenze del Padre e dello Spirito, nella Persona di Gesù era pienamente sospesa l’unione di protezione, per cui la Divinità preservava l’Umanità dalle sofferenze, morali e fisiche, non necessarie. In questo estremo frangente, Gesù, in quanto Uomo, le prova tutte, oltre ogni umana comprensione e sopportazione: il Padre stesso perciò Gli appare irrimediabilmente lontano, se non ostile. Alle guardie, che volevano aiutarLo per vedere se giungesse Elia a liberarlo dalla Croce (86), Gesù disse: “Ho sete.”, ricevendo una spugna imbevuta di aceto sulla sommità di una canna (87). Era l’adempimento delle ultime Scritture, ma anche la prima richiesta di aiuto di Gesù. L’unica cosa che poteva dissetarLo era però la salvezza delle anime. Dopo ciò, potè dire: “Tutto è compiuto”, perché realmente la Sua missione, così com’era stata profetizzata, era terminata (88). E così, con un’ultima citazione biblica, compiendo l’estremo atto di misericordia, quel Gesù al quale nessuno poteva togliere la vita, che invece Lui stesso donava, in quanto Persona divina, rese lo Spirito esclamando: “Padre, nelle Tue mani consegno il Mio Spirito”. Ciò detto, morì. Fu presumibilmente un infarto, favorito dall’asfissia, dall’emorragia e dalle sofferenze tremende. Così, con tale atroce dolore, sopportato per immenso amore, il Figlio di Dio ha espiato le colpe, grandi e piccole, passate, presenti e future, di ognuno di noi uomini, di oggi, di ieri e di domani, battezzati o no. E ancora la mia colpa di oggi è la causa, diretta e crudele, di tale orrendo supplizio. In questo momento di atroce sofferenza, la Vita di Cristo, trapassando nella Morte, è unita ad ognuna delle nostre piccole vite. Il dramma del Calvario è dunque sempre attuale, fino alla Fine del Mondo. Il Sacrificio della Croce è apportatore di salvezza per l’eternità. Per questo i cristiani praticano l’Adorazione della Croce, per Colui che vi fu appeso e che, tramite essa, operò la Redenzione (89).

La Morte di Gesù fu accompagnata da un terremoto. Il velo del Tempio si squarciò, segno che la via del Cielo si era ormai riaperta. Il Corpo di Gesù rimase pendente per un po’: qualora fosse svenuto, sarebbe morto soffocato nell’incoscienza. Per essere sicuro che Gesù fosse realmente morto, mentre agli altri condannati furono spezzate le gambe perché soffocassero, il soldato Longino Gli vibrò un colpo di lancia al Cuore. Dalla ferita uscì Sangue e Acqua, perché il Sangue stesso era finito. Giovanni registra l’accaduto, che dà sicurezza della Morte del Signore, e adempie altre, ultime profezie. Anche da morto, Gesù veniva ancora oltraggiato, e dispensava amore. Due suoi discepoli, i sinedriti Giuseppe di Arimatea e Nicodemo, che non avevano condiviso l’operato della cricca di Anna e Caifa, chiesero e ottennero il permesso di deporre, imbalsamare e seppellire Gesù. Ma l’approssimarsi del Vespro del Sabato impedì, per il riposo festivo, di completare l’imbalsamazione. Avvolto in bende, con un lenzuolo funerario da capo a piedi, il Corpo di Gesù fu sepolto nel vicino sepolcro di Giuseppe: una tomba sontuosa, con un vano funerario munito di nicchia, una camera mortuaria di ingresso e una pesante pietra circolare come chiusura. Si adempì così ancora una profezia, che seppelliva il Giusto sofferente con l’uomo ricco (90). Queste circostanze sono descritte da tutti gli Evangelisti. Il giorno dopo, il sabato santo, la Pasqua ufficiale, i Sacerdoti chiesero a Pilato di sorvegliare il Sepolcro, per essere sicuri che, passato il riposo, nessuno rubasse il Corpo, almeno entro il terzo giorno, e la profezia di Gesù sulla Sua Resurrezione risultasse incompiuta (91). Pilato lo concesse.

Dopo la Morte, l’Anima di Gesù continuò la Sua opera salvifica. Se dopo la Sua scomparsa la via del Cielo era riaperta, e i giusti morti da quel momento in poi potevano accedere al Paradiso – come il Buon Ladrone- bisognava liberare le anime di coloro che erano morti prima, i quali avevano bisogno che il Redentore condividesse il loro stato per affrancarli, così come aveva condiviso la morte per salvare i vivi. Gesù scese dunque nello Shèol, il Limbo dei Padri, dove, da Adamo in poi, in una felicità naturale velata di attesa, le anime dei Giusti attendevano la loro liberazione. Li prese e li condusse con Sé in Cielo (92).

   

Al momento stabilito, perché il Sacrificio fosse e si dimostrasse gradito, efficace e potente, compiendo il segno di Giona, che stette tre giorni nel ventre del pesce, e volendo manifestare al mondo la Sua inequivocabile divinità, Gesù risorse dalla morte. Il Padre risuscitò il Figlio, mandando lo Spirito che vivificò il Corpo nuovamente, mentre l’Anima rientrava in Esso per volere della Persona del Verbo. La Santissima Trinità operò così la Resurrezione. Ciò avvenne senza testimoni, prima dell’alba, in un terremoto. Un angelo, sceso dal Cielo, rotolò la pietra sepolcrale, vi si sedette sopra e tramortì le guardie spaventandole. Probabilmente era accompagnato da un secondo Angelo. Questo racconta Matteo. Il gruppo delle Donne discepole di Gesù, ignare dell’evento e anche del fatto che il sepolcro fosse sorvegliato, si recarono in quei frangenti alla tomba per completare l’imbalsamazione del Maestro. Quando esse giunsero, all’alba, le guardie erano già rinvenute e si erano recate dai Sacerdoti per informarli dell’accaduto (93). Le Donne si meravigliarono che il sepolcro fosse aperto. Il grosso di loro entrò in esso, mentre Maria di Magdala si staccò dal gruppo per andare ad avvisare gli Apostoli. Le altre, entrate nella tomba, ebbero la visione di due Angeli, che annunziarono la Resurrezione di Gesù e le incaricarono di avvisare gli XI. Ma esse, spaventate, pur allontanandosi, non si recarono subito dagli Apostoli, temendo di non essere credute. Così raccontano Matteo, Marco e Luca. Nel frattempo Maria di Magdala giunse al sepolcro accompagnata da Pietro e Giovanni, che volevano constatare se realmente il Corpo di Gesù fosse stato sottratto. Presone atto, i due Apostoli se ne andarono. Maria invece rimase nel sepolcro, piangendo. Ebbe anche lei la visione dei due Angeli che cercarono di confortarla e poi di Gesù stesso. Questi, all’inizio con sembianze diverse, si fa riconoscere e la incarica di avvisare gli Apostoli che Egli era risorto (94). Maria andò, ma gli XI non le credettero. Questo è narrato da Giovanni. E’ la prima apparizione del Risorto, anche se la tradizione attesta una precedente epifania alla Madre stessa di Gesù. Di lì a poco anche le altre Donne ebbero una visione del Risorto, e su Suo mandato tornarono a raccontarlo agli Apostoli, ma neanche a loro vollero credere. Il fatto è narrato da Matteo. In ogni caso, Gesù si manifestò ai Due discepoli di Emmaus. Questi avevano abbandonato il gruppo e si dirigevano verso quel villaggio (95). Ad essi Gesù spiega il senso delle Scritture su di Lui, per poi manifestarsi allo spezzare del pane e scomparire immediatamente. Anche i Due tornarono a Gerusalemme per informare gli Apostoli, che ancora non vollero credere. Non credevano nemmeno all’apparizione avvenuta a Pietro, della quale sappiamo molto poco, citata da Luca dopo il racconto di Emmaus. Per vincere le ultime ritrosie, la sera della Pasqua Gesù entrò nel Cenacolo, dove i XII risiedevano ancora, mangiò e parlò con loro, come testimoniano Marco, Luca e Giovanni. E finalmente essi si convinsero. Siccome mancava l’apostolo Tommaso, Gesù, per sconfiggere la sua incredulità, tornò sette giorni dopo, perché egli potesse toccare le ferite della Passione, rimaste nel Suo Corpo come trofeo di vittoria. Questo episodio è aggiunto da Giovanni.

Gesù ordinò agli Apostoli di recarsi in Galilea, dove voleva dare le ultime istruzioni sul Regno da predicare, approfittando della maggiore riservatezza dei luoghi. Per quaranta giorni dopo Pasqua durarono questi ultimi colloqui intimi tra il Signore e gli XI. Sappiamo che Gesù apparve agli Apostoli sul Mare di Galilea, confermando il primato a Pietro (96); che li incontrò sul Monte per conferire loro il mandato missionario, perché evangelizzassero tutti i popoli in Nome della Trinità e battezzassero tutti gli uomini, affinchè essi potessero salvarsi (97); sappiamo infine che tornarono a Gerusalemme dove, dopo un ultimo pasto, Gesù si fece accompagnare fuori città, sul Monte degli Ulivi, dove avvenne la Sua Ascensione (98). Questo evento, storico e trascendente, avviene perché la Persona del Verbo decise di assumere nella Sua gloria divina l’Umanità che aveva resuscitato. Tale azione, conforme al volere del Padre, implicò che l’Umanità di Cristo fosse costituita dallo Spirito Santo quale strumento consapevole dell’esercizio della sovranità naturale e sovrannaturale del Verbo sul cosmo. Gesù salì al Cielo sotto gli occhi degli Apostoli, scomparendo nel simbolo della Gloria, la Nube (99). Ma la vicenda storica di Cristo non si conclude qui. Anzitutto Egli effonde, dieci giorni dopo, il Suo Spirito sugli Apostoli a Pentecoste, avviando la Chiesa e costituendola come Suo Corpo Mistico, attraverso il quale attivamente opera (100). Poi continua ad apparire ai Suoi per confortarli nella fede: a cinquecento fratelli tutti insieme, a Giacomo, agli Apostoli ancora insieme, a Saulo di Tarso, convertendolo e facendo di lui l’apostolo Paolo (101). Apparve anche a Giovanni, perché descrivesse le sue visioni nell’Apocalisse. Da allora continua ad apparire ad ogni generazione cristiana, mentre è sostanzialmente presente nel sacramento dell’Eucarestia. Noi lo attendiamo per il Suo ultimo ritorno.

Infatti, alla fine dei tempi, Egli verrà nella Gloria per giudicare i vivi e i morti. Questi risorgeranno per Suo volere, e tutti riprenderanno il loro corpo, quanti fecero il bene per una resurrezione di vita, quanti il male per una resurrezione di condanna. Nessuno potrà sottrarsi al Suo volere. Allora la morte, il dolore, gli inferi e satana con i suoi diavoli saranno sigillati nella dannazione eterna. Gesù consegnerà il Regno a Dio Padre, e il Cristo totale, ossia Lui con i Salvati innestati nel Suo Corpo Mistico, trionferà come Pleroma, reggendo l’Universo. Allora Dio sarà tutto in tutti, e la missione di Cristo sarà coronata in perpetuo.   


1. Ludwig Traube, che coniò il termine nomina sacra per indicare i termini divini abbreviati nel NT, ne individuò quattro (Dio, Gesù, Cristo, Signore e Figlio) da abbreviare con la prima e l’ultima lettera, e dieci (Spirito, Croce, Salvatore, Padre, David e Uomo in dipendenza da “Figlio di”, Madre da cui dipenda “di Gesù” almeno in modo implicito, Cieli in dipendenza da “Regno dei”, Israele e Gerusalemme) da abbreviare con le prime due più l’ultima lettera, o con la prima più le ultime due. I primi quattro, universalmente abbreviati alla stessa maniera, furono dei veri e propri Nomina Divina, come scrisse Schuyler Brown. Tale scrittura fu una sorta di forma grafica del credo embrionale della Chiesa primitiva, come lo definì Colin Roberts.

2. Tale Logos giovanneo è appunto la Sapienza veterotestamentaria, con due differenze capitali: è denominato con un termine desunto da Filone di Alessandria, il maggiore filosofo ebreo dell’epoca, medioplatonico, contemporaneo di Gesù; è generato dal Padre, non creato. Giovanni così ci rivela che il Figlio è generato in un modo che fa di Lui l’oggetto del pensiero pensante del Padre. In questo l’Evangelista si differenzia dallo stesso Filone, che considera il suo Logos come creato. Il NT usa dunque la cultura contemporanea, ma in modo assai libero e particolare.

3. Molti, ai tempi di Gesù, attendevano anche due Messia, uno sacerdotale e uno regale. Lo si evince da alcuni testi profetici minori del VT, interpretati in tal senso specie dagli Esseni. Gesù però afferma di essere il solo Messia.

4. Il Messia doveva essere, nella corrente profetica inaugurata da Isaia, un discendente di David. Ma non tutti lo aspettavano in quel casato, anzi alcuni sostenevano che, una volta venuto, il Messia non avrebbe reso note le sue origini. Ma Gesù si fa chiamare Figlio di David anche in pubblico e i Vangeli annotano la Sua discendenza legale dalla famiglia davidica tramite Giuseppe.

5. Il Messia di molti era sacerdotale e profetico. Ma Gesù, pur dando una interpretazione spirituale della regalità messianica, non la rinnega, e ne dà la sua interpretazione innanzi a Ponzio Pilato: essa è sul mondo ma non si esercita come le altre potestà profane. Il procuratore ne riconosce tuttavia la realtà, facendo affiggere sulla Croce di Cristo il cartello che lo definisce “Re dei Giudei”.

6. Gesù rivendica questo ruolo ma non ne usa mai il termine. Si identifica col Profeta simile a Mosè che l’antico condottiero aveva preconizzato, e lo fa proprio quando corregge e integra la Legge col Discorso della Montagna.

7. Gesù compie un rito nuovo nella Cena, e nella Lettera agli Ebrei l’Autore sviluppa ampiamente l’equiparazione tra il sacerdozio aronitico e quello di Cristo, sostenendo la superiorità di quest’ultimo, sul modello di Melchisedek, re di Saleme e sacerdote di Dio Altissimo.

8. Come molti gruppi della sua epoca, Gesù parla di un Messia semidivino. Accanto a chi aspettava il ritorno di Elia, di Geremia, di Noè, di Melchisedek o di Enoc, si colloca Gesù, che presenta Se Stesso come la più complessa di queste figure, il Figlio dell’Uomo, che nei testi del VT non aveva identità precisa, e che molti contemporanei identificavano con Enoc. Gesù, dopo essersi presentato come Figlio dell’Uomo, interpreta i passi biblici che lo riguardano in modo radicale, facendone anche- e facendo quindi di Sé – il Figlio di Dio. Inoltre attribuisce a Sé le caratteristiche delle altre figure messianiche sovraumane, senza però identificarsi con esse, ma svalutandole completamente. Quello che non fa Gesù direttamente, lo fanno gli Apostoli: per esempio nella Lettera agli Ebrei Gesù viene caricato della valenza messianica della figura di Melchisedek, che viene degradata al rango di semplice figura anticipatrice.

9. Gesù è presentato e si presenta come Servo o Agnello di Dio, traduzione in greco di una espressione ebraica che può intendersi in entrambi i modi; la figura profetica di riferimento fiorisce con i Canti del Servo del Signore in Isaia. Qui un Giusto patisce per salvare il popolo, ne espia i peccati col sangue, con le piaghe, con le sofferenze e con la morte. Esattamente come fece Cristo.

10. Ossia della Sua stessa sostanza, come definì il I Concilio di Nicea nel 325, utilizzando la dottrina di sant’Atanasio di Alessandria, che coniò la parola –chiave, homoousios. Di essa non si può più fare a meno nel linguaggio teologico, anche se non è biblica. Il Santo patriarca battè in breccia l’arianesimo, che invece sosteneva la creaturalità del Figlio, considerato un dio sì, ma creato da quello supremo, il Padre appunto, e poi adottato. Ario voleva salvaguardare l’unità della Sostanza divina, ma in questo modo tutta la Divinità di Cristo, presupposto e valore della Sua Redenzione, era negata. Le imprecisioni terminologiche di Atanasio furono corrette dai Padri neoniceni, in particolare i Grandi Cappadoci san Gregorio di Nazianzo e san Gregorio di Nissa. Essi corressero gli errori relativi ai temi dogmatici tralasciati da Nicea e concernenti il rapporto tra Umanità e Divinità in Cristo, affermando che in Lui la prima era

11. Tale Natura Umana è chiamata biblicamente Carne, Caro, Sarx, Basar, rispettivamente in latino, greco ed ebraico. Infatti nel linguaggio biblico l’uomo non ha corpo, ma è il suo corpo (a cui è inscindibilmente unita l’anima, intesa sia come soffio vitale che come realtà sovraeminente e immortale, lo spirito, e che sono lo psykè e lo pneuma greci e il nefesh e il ruah ebraici) e che è denominato appunto in greco nel NT carne, sarx, piuttosto che sōma, senza distinzione terminologica – ma con distinzione semantica – dalla materialità corporea presa in sé. Da qui l’espressione biblica e dogmatica Il Verbo si è fatto carne, oggetto a volte di interpretazioni erronee, quasi che Egli si travestisse di materialità, o che essa fosse apparente o temporanea, o priva di anima. Quest’ultima fu ad esempio la dottrina di Apollinare di Laodicea e dei suoi seguaci, gli apollinaristi, come diremo tra breve, rintuzzata appunto dai summenzionati Gregorio di Nissa e di Nazianzo.

12. Il sentimento non è mai stato oggetto di disputa dogmatica, ma la Natura umana ha la facoltà di amare distinta da quella della Natura divina. La mancanza di una disputa ha implicato anche quella di un tecnicismo.

13. Come ha insegnato il III Concilio di Costantinopoli nel 679-681, sulla scorta dell’insegnamento di san Sofronio di Gerusalemme, san Massimo il Confessore, san Martino I e sant’Agatone. Al monoergetismo e al monoteletismo, creati a tavolino dai patriarchi Sergio e Pirro per riconquistare i monofisiti all’unità ecclesiastica, di cui diremo, l’Ortodossia contrappose un rigoroso dioergetismo e dioteletismo, conseguenza delle due Nature perfette del Cristo, che però hanno sempre un unico oggetto di volizione, il cosidetto thèlema gnomico.

14. L’uomo archetipico, ossia l’idea di uomo presente nel Logos, sulla base del quale fu fatto Adamo e in lui tutti noi, è Cristo. Per questo in Lui, incarnato, tutti noi siamo perfezionati e ricapitolati. Sebbene l’Incarnazione sia stata decisa in subordine al Peccato di Adamo per correggerlo, nel Verbo del Padre, in cui tutto è coeterno e sempre presente, l’Umanità del Cristo è pensata al di sopra di tutte le altre, e quindi ne è il modello.

15. Etimologicamente, hypostasis significa in cristologia sussistenza, e prosopon indica ciò che si mostra a, ossia la persona come manifestata alle altre. Del resto, è lo stesso etimo della parola latina persona. In seno alla Trinità, il Figlio è sia sussistente che conosciuto – ossia manifesto – al Padre e allo Spirito come Dio e come Uomo; così anche Egli è in relazione al mondo.

16. I due termini sono sinonimici dogmaticamente, ma l’ousìa indica sempre la Natura delle Tre Persone Divine, e la fysis indistintamente la Natura Divina e quella Umana del Cristo.

17. Definita dal Concilio di Calcedonia del 451 sulla scorta del Tomo a Flaviano redatto da san Leone I Magno. Il Papa, scrivendo al Patriarca di Costantinopoli, corresse gli abusi della teologia alessandrina integrando e precisando la dottrina del Concilio di Efeso del 431, il cui maestro era stato san Cirillo Alessandrino. In quella sede era stata condannata la cristologia di Nestorio, che – come vedremo – era un’esasperazione di quella antiochiena di Teodoro di Mopsuestia. I termini controversi erano, in greco, hypostasis e fysis. Nella teologia calcedonese, la prima è la sussistenza, la seconda è la natura. Ragion per cui Cristo ha una hypostasis e due fyseis, unite appunto katà hypostasin. Ma ad Efeso, Cirillo usava ancora hypostasis e fysis come sinonimi, e parlava di krasis, per indicare l’unione, con un termine che poteva indicare anche la fusione delle nature distinte. L’unione era poi spesso detto katà fysin, dai tempi di Atanasio, e anche krasis, dai Cappadoci, a dimostrazione che la determinazione del lessico fu un fatto abbastanza complesso. Cirillo accettò le puntualizzazioni fatte sul suo lessico da Iba di Edessa e Teodoreto di Ciro. Ma l’esasperazione della sua terminologia fatto dai monofisiti, di cui diremo, necessitò del chiarimento dato da Calcedonia.

18. Questa nobile verità, ampiamente espressa nei Vangeli di Matteo e Luca, è stata dogmaticamente definita dal Concilio di Efeso nel 431, a dispetto di Nestorio.

19. E’ la cristologia di Teodoro di Mopsuestia, radicalizzata da Nestorio e professata dalla Chiesa Apostolica d’Oriente e dalle sue filiazioni. Teodoro diceva che Cristo aveva due hypostaseis e due fyseis, unite in un prosopon. Oggi la sua antica formula dogmatica, non calcedonese, condannata dal II Costantinopolitano nel 553 in quanto nestoriana ante litteram, è stata reinterpretata in modo interscambiabile con il senso del dogma di Calcedonia, considerando come sinonimi i termini che indicano sussistenza e sostanza (hypostasis e fysis), nel senso di quest’ultima (fysis), e considerando il termine prosopon come sinonimico di persona sussistente (hypostasis).

20. Come sostengono i monofisiti delle Chiese Orientali precalcedonesi, che, da Dioscoro in poi, hanno ritenuto che la Natura divina assorbe in Sé quella umana nel momento stesso della loro unione, radicalizzando i concetti di san Cirillo di Alessandria e usando la sua terminologia in modo diametralmente opposto da quanto stabilito da Calcedonia, La krasis cirilliana è per Dioscoro, condannato a Calcedonia, l’assorbimento dell’umano nel divino, e l’unione katà fysin è conseguenzialmente la nascita di una sola Natura nel Cristo sussistente. Anche questa cristologia è stata de-ereticizzata con la ridefinizione dell’ambito semantico del termine fysis.

21. Il testo corsivo è di San Massimo il Confessore.

22. Possiamo dunque immaginare la grandezza della santità di coloro che educarono il Verbo come Uomo, Maria e Giuseppe? Assolutamente no, ma tale inconcepibilità è la misura stessa della loro virtù.

23. Così insegnò il II Concilio di Nicea (787), sulla scorta del magistero di San Teodoro Studita, poi sviluppato da San Giovanni Damasceno.

24. Verità enunziata dai Vangeli di Luca, Matteo e Giovanni, articolo di fede del Simbolo degli Apostoli, fu definita in modo conclusivo dal I Concilio di Costantinopoli (381).

25. Questa verità di fede, descritta nei Vangeli che attestano che Gesù fu unico Figlio – dei famosi fratelli, Giacomo, Giuda, Ioses e Simone, conosciamo sia i padri, Alfeo e Cleofa, che le madri, di nome anch’esse Maria, cosa dalla quale vennero molti equivoci – fu definita dal Concilio Lateranense nel 649. Il termine adelphòs, in greco fratello, è usato per indicare non i fratelli di sangue ma i cugini, ossia semiticamente. Lo stesso dicasi delle sorelle, mai nominate.

26. Una critica storica della nascita verginale di Gesù va al di là delle finalità di questo scritto. In ogni caso va notato che la nascita verginale non era un topos teologico né ebraico né pagano, per cui non c’era necessità che Luca e Matteo la dovessero inserire nelle loro opere; la predizione di Isaia sulla ‘almah, la partènos, non li vincolava, in quanto essa non implicava una nascita verginale se non a posteriori; l’unico caso di partenogenesi nella letteratura giudaica, quella di Melchisedek da Sofonim – del quale sappiamo molto poco – non può essere paragonato a quella di Gesù, perché Melchisedek è un personaggio mitico, la cui nascita è addirittura ambientata nei tempi anteriori al Diluvio e nei luoghi dell’Eden, mentre la nascita del Cristo è localizzata in tempi e luoghi assai precisi. Le recenti tentazioni ereticali del pensiero teologico post-conciliare, come la lettura metadogmatica della partenogenesi di Cristo, interpretata come mito – si pensi ad Hans Küng- sono da respingere con fermezza.

27. Personalmente, nelle ricerche dedicate alla Resurrezione di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli e alla Passione e alla Morte di Gesù nei racconti dei Quattro Vangeli, editi on line proprio su questo sito e poi stampate – la prima, su Teresianum – ho fatto una esposizione condensata delle tematiche fondamentali della Questione Storica su Gesù Cristo, e degli orientamenti storiografici classici e contemporanei; un’attenzione particolare ho dedicato sia al senso storico della Morte di Cristo – che corrisponde alla sua interpretazione teologica, perché Egli la cercò e la volle a scopo redentivo – sia al Suo messianismo, sia alla dimostrazione che Gesù è realmente e certamente risorto.

28. Il Vangelo di Matteo fu scritto in ebraico nel 40 ca. e tradotto in greco non oltre il 60. Quello di Marco fu scritto in greco non oltre il 50 ca. Luca scrisse Vangelo e Atti entro il 60-62, probabilmente il Vangelo uscì ancor prima. Il Vangelo di Giovanni, datato di solito agli anni 80-90, quasi sicuramente fu scritto prima del 70. Le datazioni, basate su metodi paleografici comparativi e su rimandi interni a fatti storici già noti, sono assolutamente certe. Il problema è che la cultura accademica, sia cattolica che cristiana in genere, forse più di quella laica, non ha ancora inserito i dati più recentemente acquisiti in una visione organica e completa della storia di Cristo e della Chiesa primitiva.

29. La tendenza ad attribuire i Vangeli alle comunità apostoliche e a fare degli Evangelisti solo dei redattori pseudo epigrafici, assai diffusa negli ambienti dei biblisti, non ha fondamento filologico, e sia la datazione dei testi che la disamina delle caratteristiche stilistiche e compositive, improntate in senso rigorosamente unitario, la smentiscono clamorosamente. L’identificazione dei Quattro Evangelisti, mai messa in discussione nell’antichità, è suffragata sia dalle notizie di prima mano di cui essi sono depositari sia, paradossalmente, dalla irrilevanza storica degli autori stessi, dei quali solo Giovanni è da noi conosciuto bene.

30. I Vangeli sono gli unici testi antichi che hanno una tradizione testuale ininterrotta; da essa evinciamo sia l’uniformità dei testi stessi dalle origini a oggi sia la ricchezza incomparabile di codici di cui si è costituita. Unica nel suo genere nella storia della filologia mondiale, annovera più di 30000 copie. Solo dei Vangeli abbiamo codici pressoché contemporanei agli originali. Diversissimi testi sono poi da ridatarsi, perché presumibilmente sono più antichi, da aggiungersi ai moltissimi che abbiamo nel I secolo.

31. Tutti i luoghi descritti nei Vangeli, dove sono ambientati i fatti della Vita di Gesù, sono stati esplorati archeologicamente e hanno restituito i posti dove accaddero: la Casa di Giuseppe e quella di Maria a Nazareth, la Grotta della Nascita a Betlemme, il Cenacolo, i luoghi del processo religioso e civile di Gesù, il Calvario, la Tomba di Cristo – vuota – il posto dell’Ascensione, e naturalmente i siti della predicazione, sono tutti noti e portano segni inequivocabili del loro legame con la storia del Verbo. Generalmente sono ambienti della prima metà del I secolo, adattati subito a luoghi di culto per i fatti accaduti.

32. Io stesso ho potuto realizzare una concordanza nei racconti della Passione Morte e Resurrezione, nelle ricerche citate. La concordanza dei testi è stata realizzata più volte nella tradizione patristica e nell’erudizione ecclesiastica.

33. Gli apocrifi non sono quasi mai testi storiografici; di essi non abbiamo copie integre in molti casi; di nessuno sappiamo gli autori; infine sono tutti compresi tra il 150 e il 600 d.C. In essi l’influsso delle teologie e delle filosofie non cristiane o eterodosse è evidente.

34. Ho io stesso avuto la possibilità di fare un sunto delle cognizioni archeologiche sui siti dell’Infanzia di Gesù in un saggio, “Su alcuni aspetti della mariologia medievale”, edito a suo tempo su Teresianum e ancora presente sulle colonne virtuali di questo sito. Ad esso rimando per le indicazioni storiche e bibliografiche di complemento, anticipando che contiene anche notizie sui luoghi della Passione e della Morte del Redentore.

35. Le notizie sull’argomento sono date in modo indiretto dai Vangeli canonici e in modo più esauriente dal Protovangelo di Giacomo, un apocrifo del II sec. che contiene informazioni attendibili conservate nell’ambiente familiare di Gesù e Maria. Di esse vi sono riscontri archeologici in Gerusalemme.

36. Sappiamo che l’Annunciazione del Signore accadde il sesto mese dell’anno in cui nacque Gesù. Abbiamo fondate ragioni per ritenere valida la data del 25 marzo, in quanto, come vedremo, anche la data del 25 dicembre, come giorno natalizio di Gesù, è probabilmente quella esatta.

37. L’Annunciazione del Battista, narrata, come la sua nascita, da Luca, è datata dall’evangelista appunto nel periodo del servizio al tempio dei sacerdoti della classe di Abia. Purtroppo non conosciamo i tempi di tale servizio, ma presumibilmente erano quelli del nostro mese di settembre. Di certo erano anteriori di sei mesi al momento dell’Annunciazione del Signore, quando appunto Elisabetta era al sesto mese di gravidanza. Ciò conferma la data tradizionale della Natività di Giovanni il Battista, il 24 giugno.

38. La data della Nascita di Gesù non sarà mai certa. Luca sapeva qual era l’anno del censimento, indicato appunto col proconsolato di Quirino, ma noi non lo conosciamo più, in quanto egli ebbe un mandato noto intorno al 6 d.C. e uno evidentemente anteriore tra il 10 e il 7 a.C., in corrispondenza di una serie di censimenti in tutto l’Impero Romano. Matteo dice che Gesù nacque a Betlemme al tempo del re Erode, per cui l’evento è anteriore al 4 a.C., e l’anno zero è stato mal calcolato da Dionigi il Piccolo nel VI sec. L’ultimo indizio sulla datazione, la famosa Cometa, di cui diremo, è del 7 a.C. Per cui quell’anno è attualmente il più accreditato per la Nascita di Gesù.

39. Recenti studi hanno rivalutato la data del 25 dicembre, di solito considerata solo come la cristianizzazione della festa del sole invitto. Il grande pubblico degli internauti può trovare interessanti notizie sul sito www.christianismus.it., sia su questi temi cronologici che sulla storia evangelica in genere.

40. Tale congiunzione, periodica, il 7 a.C. avvenne tre volte, il 29 maggio, il 29 settembre e il 4 dicembre.

41. L’episodio, di per sé oscuro anche perché insignificante nel mare delle violenze comuni all’epoca, ben si attaglia al carattere di Erode, che conservò il potere con una serie di omicidi preventivi consumati persino a danno dei figli.

42. Diciannove località, tramandate dai cristiani e dai musulmani.

43. Anche questo per adempiere le profezie di Isaia.

44. Ancora oggi nel Deserto di Giuda è visitato dai pellegrini l’antico Monte delle Tentazioni, esattamente come è luogo di culto il sito del Battesimo, venerato, tra gli altri, di recente, dai papi Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI.

45. Pietro, Giacomo di Zebedeo, Giovanni, Andrea, Giacomo di Alfeo, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giuda Taddeo, Simone e Giuda Iscariota, il traditore, rimpiazzato da Mattia per voto della Chiesa dopo l’Ascensione.

46. Si tratta dei poteri che, nel linguaggio rabbinico, sono indicati come legare e sciogliere, e sono indicati da Gesù come chiavi del Regno dei Cieli. Conferendo tali poteri a Pietro – e in un secondo tempo a tutti gli Apostoli con lui e sotto di lui- Gesù adempì le profezie di Geremia.

47. Il Discorso della Montagna di Matteo è diverso da quello della Pianura di Luca. Questa è una scoperta della critica testuale che però i biblisti faticano a recepire. In ogni caso, i contenuti sono pressoché identici. Valutare la portata religiosa e morale del Discorso e delle Beatitudini è impossibile: i poveri di spirito, i miti, i misericordiosi, gli operatori di pace, gli afflitti, i puri di cuore, gli affamati e assetati di giustizia e coloro che sono perseguitati per essa, fino ai martiri, sono costituiti come nuovi e definitivi modelli morali per il mondo, liberato finalmente dall’orrenda morale dei signori, basata sull’avidità, la violenza, l’odio, l’impurità, l’avidità di piacere, l’iniquità e il trionfo, che tanto piacciono nuovamente ai contemporanei, traviati dal sinistro filosofo Nietszche, che ben scrisse di sé come anti-Cristo.

48. Ossia la nuova e definitiva comunità dei credenti autentici, sulla cui natura ci diffonderemo in un altro momento.

49. Si pensi alle strabilianti moltiplicazioni dei pani e dei pesci, ad esempio.

50. Come quando sedava tempeste e imbrigliava i venti.

51. Gesù dispone pesche miracolose e decide di far trasferire dei demoni all’interno di una mandria di porci, per liberare un ossesso.

52. Il Maestro fa seccare un albero di fichi a scopo simbolico.

53. Gesù cammina sulle acque e fa camminare sulle acque; a volte i discepoli si domandano quando sia arrivato in un luogo prima di loro.

54. Gesù guarì ogni tipo di infermità e minorazione: dall’emorragia femminile alle febbri, alle paralisi, alla cecità, alla sordità, al mutismo; sanò zoppi e storpi, lebbrosi e ogni altro tipo di sofferenti, non solo in presenza, ma persino a distanza.

55. Il Signore conosceva abitualmente ciò che facevano gli uomini in sua assenza, il loro passato e i loro pensieri, oltre che i loro desideri. Ne fecero esperienza amici e nemici.

56. In spettacolari esorcismi, compiuti assai velocemente, potenti spiriti oscuri, a volte riuniti in numerose schiere, furono senza troppi complimenti sloggiati dai malcapitati che avevano invaso. Essi spesso confessarono, nella disperazione, la divinità e il messianismo del loro Giudice.

57. Moltissime resurrezioni sono compiute da Gesù. Si pensi al figlio della Vedova di Naim, alla figlia di Giairo, a Lazzaro, riportato in vita dopo quattro giorni, da dentro la tomba.

58. Levi divenne l’apostolo ed evangelista Matteo; Zaccheo lasciò pubblicamente il peccato; l’anonima adultera, salvata dalla lapidazione, se ne andò promettendo di non peccare più; Maria di Magdala, prostituta posseduta da sette demoni, divenne la sua più fedele discepola; l’anonima peccatrice che entrò in casa di Simone Fariseo lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime e li asciugò con i capelli.

59. La loro apparente semplicità non inganni. Con un uso simile a quello fatto da Platone dei suoi miti, la parabola evangelica è adoperata da Gesù con un intento ad un tempo dottrinale e morale. Essa condensa in sé un tale significato, che a volte è di difficile interpretazione, ma in ogni caso risulta più pregnante di qualsiasi discorso. Ve ne sono di alcune strutturate come dei piccoli racconti – come il Figlio Prodigo o i Talenti o il Servo Spietato o le Vergini stolte e sagge – e altre brevissime, alla stregua di sentenze inserite in quadri narrativi essenziali – la Dramma smarrita, la Pecora smarrita ecc.– o di icastici paragoni – il Granello di senapa, il Mercante di Perle ecc.- con in mezzo una fascia di narrazioni o apologhi di media lunghezza e bisognose di una chiave interpretativa, di solito fornita a parte (il Seminatore, il Buon Grano e la Zizzania, ecc.). Che Gesù avrebbe parlato in parabole lo aveva profetizzato Isaia, come Lui stesso ebbe a ricordare.

60. Celebre Istituto di Studi sul Gesù Storico, legato alla cosiddetta Nuova Ricerca (New Quest), che faceva votare i suoi membri su ciascuna delle frasi evangeliche attribuite a Cristo, per giudicare se erano state realmente pronunziate da Lui, o se lo erano solo probabilmente, o non lo erano affatto.

61. L’uno e l’altro termine vanno intesi nel senso più ampio, e radunano al loro interno moltissimi tipi e temi letterari.

62. I luoghi visitati hanno, come al solito, tutti le loro memorie archeologiche.

63. Ancora oggi sul Monte vi è una Chiesa dedicata all’evento.

64. Secondo il nostro calendario solare e gregoriano, Gesù entrò a Gerusalemme il 2 aprile, domenica; celebrò la Cena giovedì 6; fu ucciso venerdì 7; risorse domenica 9; ascese giovedì 18 maggio; mandò il Suo Spirito il 28 dello stesso mese.

65. Ossia l’organo di autogoverno religioso dei Giudei, comprendente i Sacerdoti e gli Scribi -i maestri laici della Legge.

66. Il Cenacolo ancora oggi è sostanzialmente intatto. Che Gesù abbia seguito il calendario esseno lo dimostrano studi recenti. Una loro sintesi è disponibile sul citato sito www.christianismus.it. Sugli aspetti teologici della Cena, come il rimaneggiamento del concetto di sacrificio e di sacerdozio in relazione al messianismo di Gesù, qualcosa ho scritto anch’io nei contributi citati. Rimando ad essi per completezza di analisi.

67. Ancora oggi sul luogo sorge la Basilica dell’Agonia.

68. La fuoriuscita del sangue dai pori o dal canale lacrimale è molto più dolorosa del deflusso dalle ferite. Lo attestano i mistici che hanno avuto il medesimo fenomeno.

69. Molto probabilmente la casa si trovava sotto l’attuale Chiesa di San Pietro in Gallicantu, anche se non mancano altri siti identificabili con essa, nella Città Alta, in corrispondenza di una chiesa armena. La casa di Anna è invece da collocarsi nei pressi del Monastero dell’Olivo delle Monache Armene e della Cappella annessa.

70. Gesù fu condotto nel Pretorio. La sua collocazione tradizionale è la Torre Antonia presso il Tempio. Qui ancora si trovano le Cappelle della Flagellazione e della Condanna, oltre che la Prigione di Cristo. Ma qualcuno sostiene che Pilato risiedesse nel vecchio Palazzo di Erode.

71. In quelle ore avviene anche la drammatica fine del traditore. Pentitosi per l’esito capitale del processo giudaico, l’Iscariota restituì le monete ai Sacerdoti, e si suicidò precipitandosi in un dirupo, come attestano gli Atti degli Apostoli. Matteo parla di un generico suicidio, definito impiccagione, impropria traduzione greca del termine ebraico indicante una morte violenta.

72. Erode alloggiava nel Palazzo degli Asmonei.

73. La Flagellazione era un supplizio orrendo. I Romani infliggevano centinaia di colpi, con fruste sempre più pesanti, capaci d’infliggere ferite plurime e di lacerare le carni, mediante colpi vibrati con energia e con un criterio anatomico preciso. Tutto il lato posteriore, dal collo ai piedi, era coinvolto, e le percosse debordavano ai fianchi e sugli organi genitali. La Vittima fu legata ad una colonna, in nudità completa. Tale supplizio in genere serviva a preparare alla crocifissione. Il crudele supplizio fu profetizzato da Isaia.

74. La Coronazione avvenne secondo la parodia del rituale orientale, per cui fu intrecciata una mitra, ossia una corona che copriva tutta la testa, dalla fronte all’occipite, da tempia a tempia, e fu conficcata con una canna. La corona non fu più tolta, neanche sulla Croce. L’atroce supplizio, assieme agli altri scherni, fu l’amplificazione di una procedura di demolizione fisica e morale che i Romani riservavano ai condannati per aver ambito alla corona.

75. L’Arco dell’Ecce Homo è ancora visibile presso la Fortezza Antonia, con la Chiesetta annessa.

76. Di questa ferita si ha riscontro nelle reliquie della Passione, ed è la logica conseguenza dello sforzo abnorme compiuto con il trasporto della Croce. Essa fu rivelata da Gesù stesso a San Bernardo. A causa dell’articolazione, fu terribilmente dolorosa.

77. Il percorso è noto e ancora fattibile. E’ costellato di edicole delle stazioni e di Cappelle, tra cui quella di Nostra Signora dello Spasmo, quella di Santa Veronica, nonché il Patriarcato etiopico col monastero annesso e quelli Copti, più la Chiesa luterana del Redentore.

78. Le ferite che ebbe Gesù in tutta la Sua Passione sono state quantificate nella spaventosa cifra di cinquemilaquattrocentoottanta.

79. L’antica reliquia della Veronica, che probabilmente è da identificarsi con il Volto Santo di Manoppello, è come la Sindone un testimone muto ed eloquente della Passione. Maggiore è l’accanimento scientifico per spiegarle, maggiore è la soglia del mistero che ci tocca accettare.

80. I fatti della Passione sono legati, come tutta la Vita di Gesù, al compimento delle profezie dell’AT. Isaia nei Canti del Servo, Geremia nelle Lamentazioni, Davide nei Salmi – specie il XXII – preconizzarono moltissimi dettagli dei supplizi di Gesù. L’accanimento dei giudici, il tradimento di Giuda, la congiura, le violenze, le piaghe, i fori nelle mani e nei piedi, l’arsura sul patibolo, il senso di soffocamento, il cuore che cede, la sepoltura in una tomba di lusso: leggendo certi brani dell’AT sembra di scorrere dei resoconti oculari, ma sono testi poetici di almeno mezzo millennio prima. Giovanni è il più attento a segnalare le profezie, ma nessun Vangelo lo fa con tutte, e nemmeno tutto il NT basta in quest’impresa.

81. Sono queste le orrende modalità di tutte le crocifissioni.

82. La prima delle Sette Parole di Gesù sulla Croce ci è tramandata da Luca. Egli ci tramanda anche la seconda e la settima.

83. La scansione cronologica della giornata è particolare. Innanzi tutto le ore corrispondevano a tre delle nostre: la terza andava dalle nove alle dodici, la sesta dalle dodici alle quindici, la nona dalle quindici alle diciotto. In ogni caso, la sequenza temporale può essere così ricostruita: Ultima Cena, dalle 19 alle 21 del giovedì; Agonia, dalle 22 alle 23; Arresto, dalle 23 alle 24; Processi innanzi a Anna e Caifa, dall’1 alle 3 di Venerdì; reclusione, dalle 4 alle 5; Processo del Sinedrio, di Pilato, di Erode, dalle 6 alle 8; Flagellazione, Coronazione di Spine, Ecce Homo, Via Crucis dalle 8 alle 9; Crocifissione e supplizio in Croce, dalle 9 alle 15; Morte, alle 15; Deposizione e Sepoltura, entro le 17; Resurrezione, prima dell’alba della Domenica.

84. La storicità dell’evento, a cui è connesso il sisma, replicatosi anche la Domenica, non è in discussione. E’ attestata dall’antica Cronaca samaritana di Thallus, edita a Roma negli anni 60 del I sec., in cui l’Autore polemizza con i cristiani proprio sulla natura di questo fenomeno.

85. Questa parola è infatti tramandata da Matteo e Marco.

86. La credenza popolare era che il Profeta liberasse i condannati a morte. L’equivoco insorse perché la forma aramaico-ebraica (Eloì Eloì lemà sabactàni, o anche Elì Elì ecc.) fu fraintesa dai soldati romani, che confusero il termine “Dio” col nome “Elia”.

87. L’esplicita richiesta di Gesù è riportata da Giovanni. Matteo e Marco attestano una malevola volontà delle guardie di dissetarlo con aceto, forse offertogli più volte. Luca invece, senza citare la frase, lega l’aceto al fraintendimento del nome Eloì. Tutti i sinottici registrano che le guardie intesero che Gesù chiamasse Elia.

88. Così registra Giovanni, in greco tetèlestai, in latino consummatum est. Orrenda la moderna traduzione liturgica: è compiuto. Non significa nulla. Le espressioni impersonali in greco e latino vogliono, in italiano, il soggetto espresso, tranne nelle gergali (come “è fatta”). Qualcuno corregga gli strafalcioni del nuovo lezionario, prima che sia troppo tardi.

89. Le reliquie della Croce, quelle vere, sono custodite tra Roma e Gerusalemme. Molte altre, i chiodi, le spine, i flagelli, sono divise tra entrambe le città. Non vi sono invece reliquie autentiche del Sangue di Gesù: esso, al momento della Resurrezione, tornò nel Corpo del Signore e ora è glorificato in Cielo. Tuttavia molte chiese sostengono di averne fiale.

90. La tomba di Gesù e il Calvario sono, con le opportune trasformazioni architettoniche, ancora oggi visibili e riconoscibili nella Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme. L’impianto della Tomba è intatto, e i suoi ambienti visitabili. Il Calvario è squadrato e coperto di mosaici.

91. La sorveglianza, estremo oltraggio alla memoria di Gesù, permette ancora oggi di escludere misteriose sottrazioni del Corpo del Maestro, sia ad opera dei discepoli – che in verità non avevano alcun motivo per farlo, e che anzi erano intimoriti da quanto accaduto, e furono perseguitati e uccisi quando iniziarono a predicare la Resurrezione – sia ad opera dei sacerdoti e dei Romani, qualora avessero voluto evitare disordini. Se infatti avessero loro sottratto il Corpo, una volta che si fosse diffusa la notizia della Resurrezione, avrebbero svelato il suo nascondiglio. In quanto al tempo trascorso da Gesù nella Tomba, senza cure di sorta, si aggiunge ai motivi che danno per certa, anche in tempi di diffidenza paranoica come la nostra, la Sua morte, mentre il peso del masso impedisce di credere in una Sua evasione solitaria, fatta peraltro con le mani lacerate e in condizioni di estremo degrado fisico e morale. E’ una puntualizzazione che va fatta, visto che qualcuno ha ipotizzato persino questo, per non credere che Gesù sia risuscitato.

92. Così attesta Matteo e l’Apostolo Pietro. La celebrazione di questo mistero, dogma di fede professato nel Credo, è legata ad alcuni ambienti cultuali – il Sepolcro di Adamo, la Grotta dei Tesori – ricavati dai cristiani del I sec. nelle viscere del Calvario.

93. Le guardie, romane, non erano tanto turbate del fenomeno a cui avevano assistito, non molto traumatico per dei politeisti, ma della reazione di Pilato per la perdita del Corpo. Si rivolsero ai Sacerdoti che avevano commissionato la vigilanza, e questi diedero loro del denaro perché testimoniassero che i discepoli di Gesù avevano rubato il Corpo, impegnandosi a insabbiare ogni cosa qualora Pilato avesse avuto notizia dell’accaduto. I Sacerdoti erano talmente refrattari all’insegnamento di Gesù che non si lasciarono convincere neanche dalla Resurrezione.

94. Il Corpo di Gesù risorto mostra caratteristiche completamente diverse da quelle di un corpo mortale. Può assumere qualunque forma, comparire e scomparire a piacimento, entrare e uscire in luoghi chiusi, essere in più posti contemporaneamente, spostarsi senza essere sottoposto allo scorrere del tempo; è inoltre ormai immune da morte e sofferenza. E’cioè un Corpo glorioso o spirituale, che manifesta le proprietà che anche i nostri corpi avranno alla fine dei tempi. Per la disamina critica delle apparizioni di Gesù rimando alle mie annotazioni sull’argomento nella Resurrezione di Gesù nei Racconti dei Quattro Vangeli. Qui rilevo solo che le apparizioni a più di due persone non sono spiegabili per suggestione; che le apparizioni a singoli sono caratterizzate da una fenomenologia che non può accettare interpretazioni psicanalitiche, in quanto i veggenti non si aspettano di vedere Gesù e questi si manifesta in modo da non essere riconosciuto; che le apparizioni sono legate a circostanze ordinarie e a gesti quotidiani che non permettono di supporre esaltazioni mistiche; che gli Apostoli e i discepoli erano già rassegnati alla morte di Gesù, erano intimoriti dai Romani e poco inclini ad intraprendere una missione religiosa pericolosa e completamente nuova; in ogni caso, il sepolcro di Gesù è misteriosamente vuoto, senza che sia stato possibile rubare il Corpo o che alcuno avesse motivo per farlo, e non si sa dove possa essere, se non in Cielo.

95. Dove ancora sorge una chiesa sulla locanda dove Gesù si fermò coi discepoli.

96. Lo narra Giovanni.

97. Lo descrive Matteo.

98. E’ narrato da Luca, nel Vangelo e negli Atti.

99. Il luogo dell’Ascensione è quello della Cappella dell’Ascensione, ancora oggi visibile a Gerusalemme.

100.E’ descritto negli Atti.

101.Le apparizioni sono enumerate da Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi. La sua conversione è data negli Atti.


Theorèin - Dicembre 2009