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A cura di: Vito Sibilio
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NON OCCIDES
Appunti di teologia morale del V Comandamento

“Non occides”

“Ou phoneùseis”

(Il Signore Dio a Mosè)

“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere;
chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma Io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello
sarà sottoposto a giudizio”

(Nostro Signore Gesù Cristo)

Il V Comandamento è di capitale importanza. Prescrive il rispetto della vita altrui e vieta tutte le azioni che la possono estinguere o danneggiare, sia nell'ambito fisico che in quello morale e spirituale. L'uomo infatti ha due vite: la terrena e l'eterna, la quale non può essere spenta ma può essere votata ad uno stato, la dannazione, che è peggiore della morte, quella che l'Apocalisse chiama la morte seconda. La vita umana, come primo dono concesso all'uomo come individuo e quindi come basamento di tutti gli altri, è il sacrario della dignitas hominis; eppure sin dall'inizio le creature sono omicide: satana con Adamo, che vota alla rovina eterna con la sua progenie, Caino con Abele, che sopprime. Ma dalla notte dei tempi il sangue versato, segno e simbolo della vita, grida vendetta innanzi a Dio (Gn 4,10-11), è uno dei quattro peccati più gravi. Il Signore ha proibito ad ognuno di uccidere, come attesta la coscienza di Caino, e ha rinnovato il precetto a Noè (Gn 9, 5-6) e a Mosè, perfezionandolo soprannaturalmente mediante il Suo Cristo (Mt 5, 21), per mezzo del Quale dà la vita soprannaturale e nel Quale sussiste ogni vita naturale. Morto per darci la Sua Vita, versando il Suo Sangue Prezioso dalle Sue Piaghe e dal Suo Cuore squarciato, il Cristo, assassinato da noi, esige a compensazione innanzitutto la nostra sincera dedizione alla causa della tutela, della garanzia e della protezione della vita nostra ed altrui. Vediamo dunque cosa prescrive il Comandamento.

CIO' CHE PRESCRIVE IL COMANDAMENTO PER LA VITA FISICA E MORALE

La vita di ogni uomo è sacra per l'altro uomo perché è creata direttamente da Dio, da Lui mantenuta nell'essere, analoga alla Sua per modalità esistentiva anche se non essenziale (ossia la vita umana non è né infinita né di per sé necessaria); ragion per cui nessuno può rivendicare a sé, in nessuna circostanza, il diritto di distruggere una vita umana innocente (Es 23,7). In ragione di ciò, la legittima difesa delle persone e della società, oltre che di se stessi, non è una eccezione alla norma divina, ma il suo stesso complemento, perché non è un omicidio volontario, né riguarda un innocente. Infatti, come insegna San Tommaso d'Aquino (1225-1274), dalla difesa personale derivano due conseguenze: la prima, necessaria, è la sopravvivenza della vita propria o della persona difesa; la seconda, non necessaria, ma possibile, è l'estinzione della vita dell'aggressore. La prima è una conseguenza voluta, la seconda è solo tollerata ed involontaria. Nessuno è tenuto a rinunciare alla legittima difesa, perché la tutela della propria vita è più doverosa del rispetto di quella altrui, anche se tutti sono tenuti a difendersi solo nel modo necessario, senza una violenza sproporzionata. Chi poi ha la responsabilità di altri, di una famiglia, di un gruppo sociale, dello Stato, ha il dovere di provvedere alla loro legittima difesa.

In tale prospettiva, l'autorità costituita ha la prerogativa e il dovere di infliggere delle pene proporzionate alla gravità dei delitti commessi, compresa, nei casi più gravi, la pena di morte. La pena deve sortire l'effetto di riparare il disordine causato dalla colpa, dando a ciascuno il suo in nome della giustizia, per cui è valida anche se inflitta a chi non ne trae beneficio; se poi il condannato la accetta come espiazione, allora essa purifica anche la sua anima come penitenza volontaria; inoltre, la pena difende l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, dando un esempio e tenendo fuori dal consorzio civile chi è potenzialmente pericoloso o anche semplicemente infamato dalla gravità dell'azione commessa; infine la pena serve come correzione del colpevole e ha una valenza pedagogica. Quest'ultima caratteristica è senz'altro la più difficile da realizzare, soprattutto per la resistenza del condannato; non bisogna tuttavia trascurarla, così come va evitato l'errore, assai diffuso, per cui la pena abbia solo valore rieducativo. Essa in verità ha piena legittimità anche se non raggiunge l'effetto di rieducare, né è necessario che il rieducato sia esentato dalla pena residua, perché la correzione non implica la fine dell'espiazione, che è proporzionata al danno fatto e non è compiuta dal cambiamento morale del colpevole stesso.

Se i mezzi incruenti sono sufficienti a difendere la vita umana e a raggiungere i fini di cui sopra, la pena di morte non è necessaria. Ma essa rimane una parte integrante della Rivelazione, imposta dalla Legge mosaica in molte circostanze, pena naturale per colui che uccide il suo simile. Sebbene le norme mosaiche siano decadute nel diritto penale, esse sottintendono un senso morale. Sta alle varie epoche, a seconda del loro sviluppo culturale, determinare le circostanze in cui tale pena estrema debba essere inflitta, sino ad estinguerle del tutto, oltre che le modalità della sua esecuzione. Per secoli le nazioni cristiane e la Chiesa stessa, tramite il braccio secolare, l'hanno inflitta, senza che questo sia in contrasto, come si crede spesso erroneamente, con la Fede. Tuttavia una recente e intensa riflessione sulla dignità della persona umana ha fatto sì che la Chiesa sia diventata più precisa nella determinazione delle circostanze che rendono lecita la pena di morte e più impegnata nella promozione delle condizioni che la rendano superflua e inutile, specie con il magistero del beato papa Giovanni Paolo II (1978-2005). Dai tempi dell'imperatore Costantino I (306-337) è poi prescritta la pena di morte per Crocifissione, per rispetto a Colui Che ci ha redenti per tale Morte. La proscrizione più ampia odierna, non prescrittiva in senso stretto, della pena capitale, è in fondo un'ampliazione di quella forma di rispetto estesa ad ogni pena capitale.

In ordine alla tutela della vita fisica, il V Comandamento proibisce anzitutto l'omicidio volontario. E' proibito l'omicidio e la collaborazione ad esso, perché grida vendetta al cospetto di Dio, come anche qualunque azione che che lo causi indirettamente, o l'omissione di assistenza o l'esposizione di sé o di terzi, senza grave motivo, a grave rischio. Tollerare anche indirettamente la miseria o l'iniquità nelle relazioni economiche e finanziarie tra i popoli che causano la morte di tanti uomini è esso stesso un peccato per la società umana. In quanto all'omicidio involontario, non è una colpa, ma se la morte è stata causata, anche se preterintenzionalmente, con atti sproporzionati alle circostanze, vi è responsabilità. Vi è ovviamente responsabilità se si compiono azioni delittuose che possono implicare l'assassinio - che implicano la malizia di più colpe insieme - a maggior ragione se si è disponibili a compierlo (come la rapina a mano armata, lo sfruttamento degli esseri umani, la loro tratta, l'esazione usuraria e del taglieggiamento) e se ci si associa per farle (come nell'associazione a delinquere, specie se di stampo mafioso); analogamente, vi è colpa se si producono e diffondono o disperdono cose che causano direttamente o indirettamente la morte di chi viene a contatto con esse (come il traffico di stupefacenti, di scorie radioattive, di rifiuti tossici, di armi in modo illegale). E' particolarmente grave l'omicidio compiuto con efferatezza, per futili motivi, in modo seriale e associato a violenze contro la persona della vittima; lo è altresì il parricidio, il matricidio, l'uxoricidio, l'infanticidio, l'assassinio dei figli, dei parenti, dei benefattori, degli amici. L'omicidio può non essere imputabile nel caso di turbe psichiche, ma colui che è consapevole di avere simili disturbi, almeno finchè è in tempo o quando ne è consapevole sia pure a tratti, anche se si è già reso colpevole o se ragionevolmente teme di farlo, è tenuto a sottoporsi alle cure e alle restrizioni necessarie per garantire la sicurezza degli altri.

L'aborto è la soppressione della vita del nascituro nel seno materno, in qualunque stadio della sua gestazione. Esso, se volontario, sia come fine che come mezzo, è gravemente immorale. Ogni uomo infatti, com'è ormai sentenza unanime del magistero ordinario, riceve l'anima nel primo istante del concepimento (ominizzazione), per cui è persona viva sin dalla fecondazione avvenuta dell'ovocita. La Bibbia attesta la cura di Dio per il soggetto personale sin dal grembo materno (Ger 1,5; Sal 139, 15). Il diritto alla vita è imprescindibile sin dal seno materno, nonostante oggi molti Stati, contravvenendo alla legge naturale, la negano. Sin dal I sec. la Didakè vieta l'aborto come omicidio, mostrando che sia la Scrittura che la Tradizione insegnano che l'anima umana è immessa nel corpo sin dal grembo materno. La violenza subita, l'incesto, la povertà o la malattia del nascituro, se rendono drammatica la gestazione, non rendono lecito l'aborto. Ovviamente singoli e gruppi, famiglia, società e Stato non devono privare del loro sostegno le donne che vivono, spesso in solitudine, queste gravi situazioni, perché esse non siano indotte, per disperazione, a compiere il male. E' possibile anche dare in adozione i figli avuti in condizioni drammatiche. Ma non si può far ricadere su un bambino innocente il peso di queste stesse condizioni, che già segneranno la sua vita. Invece il rifiuto puro e semplice del figlio che deve nascere rende la colpa ancora più spregevole. La gravità dell'azione e la sua diffusione fanno sì che la Chiesa la condanni, in chi la compie come genitrice o medico, e in chi vi collabora moralmente e clinicamente, con la pena della scomunica, inflitta automaticamente, anche se la colpa è occulta (latae sententiae). L'aborto è ormai la causa del più grande genocidio della storia, le cui vittime si calcolano in miliardi. La legge statale dovrebbe punire coloro che praticano l'aborto, violando in modo gravissimo il diritto alla vita di chi è più debole di tutti e nel luogo dove dovrebbe essere più al sicuro – il grembo materno – per mano della stessa madre.

Il suicidio viola il V Comandamento perché nessuno è il padrone della sua vita, ma la riceve in dono. Essa va accettata con riconoscenza e va custodita con amore. Il suicidio invece va contro la naturale tendenza alla conservazione della propria esistenza e viola l'obbligo che abbiamo di amare noi stessi, a dispetto della cattiva percezione che abbiamo della nostra persona; rompe altresì i legami di solidarietà umana con i cari e tutti gli uomini ingiustamente e prematuramente abbandonati; manca nei confronti dell'amore di Dio di cui disprezza il maggior regalo e della cui Provvidenza diffida. Se commesso con l'intenzione di dare l'esempio, specie ai giovani, il suicidio è anche uno scandalo, come vedremo. I disturbi psichici, l'angoscia, il timore grave della sofferenza o della prova o della violenza o della tortura possono attutire la responsabilità del suicida, sino ad azzerarla. Né il suicida è necessariamente dannato, qualunque siano le ragioni del suo gesto, sia perché è presumibile che lo stato d'animo che muova a tale gesto sia perturbante e quindi attenuante, sia perché tra il darsi la morte e la morte stessa intercorrono istanti in cui la Grazia di Dio può convertire il peccatore con la contrizione dell'atto che si è commesso. Per questo oggi il suicida è generalmente ammesso ai funerali religiosi.

Sono in genere proibiti, per la tutela della vita fisica, le percosse, i ferimenti, le violenze fisiche e psichiche, specie se gravi e continuate o se compiute a danno di chi è affidato alla propria tutela a qualsiasi titolo, le ingiurie, le risse, il duello e tutte quelle forme di competizione che affidano alla sorte e alla forza l'affermazione del diritto, nonché le mutilazioni arbitrarie, inflitte a sé e a terzi, ossia senza ragione medica, al pari delle amputazioni parimenti inferte. Tali azioni non possono essere compiute neanche dall'autorità pubblica. Tra le violenze particolarmente ripugnante è il rapimento, a qualunque scopo fatto; vile è la presa di ostaggi; il terrore che ne deriva è riprovevole moralmente. Il terrorismo, che pretende di fare politica e di combattere uccidendo o ferendo di soppiatto, indiscriminatamente e crudelmente, è ingiusto e cattivo. La sterilizzazione degli innocenti è lesiva dei diritti umani, anche se si tratta di disabili mentali o fisici, specie se orientata a scopi eugenetici. Tale pratica è particolarmente immorale se imposta dallo Stato.

La tortura è stata praticata per secoli in tutti i sistemi giudiziari. Essa corrisponde ad una fase storica in cui l'elaborazione concettuale della modalità concreta della tutela della dignità umana non era ancora sufficientemente elaborata. Sebbene non autorizzata nella Rivelazione, non è in contrasto con essa.

La posizione teologica assunta nei suoi confronti cambiò dunque più volte. Nei primi secoli fu rigettata (per esempio da Tertulliano [150-220], ma in una fase già aperta all'influsso del Montanismo); Costantino il Grande la conservò solo per il processo penale come strumento di indagine. Sant'Agostino (354-430) la considerava di per sé un male ma indispensabile da praticare e da subire, per la mancanza di certezza della colpevolezza dell'imputato: questa sua posizione, che sottende che il colpevole sia meritevole di tortura, anche se praticarla non si addice alla perfezione evangelica, fece sì che essa potesse essere accettata nella società cristiana in linea di principio (sul suo parere si costruì la communis opinio dei teologi che fu orientativa in materia fino al nostro secolo); l'aver sottolineato però che essa non fosse confacente allo spirito cristiano e che non desse la sicurezza della colpevolezza del torturato che confessa, fece si che, nonostante il Codice Teodosiano (438) la accettasse in alcuni casi come punizione per gli eretici oltre che per la procedura penale, Giustiniano I (527-565) restringesse ulteriormente la pratica della tortura nel suo Corpus Iuris e che Carlo Magno (768-514) non la introducesse nei suoi codici. Il papa San Niccolo' I (858-867) la considerò una pratica barbara, contraria alla legge divina perché non dava la certezza della colpevolezza del reo confesso, in concomitanza col declino del diritto romano in Occidente. Reintrodotta nei tribunali profani dalla metà del XII sec. con la riscoperta dello stesso diritto romano, fu autorizzata anche nei tribunali ecclesiastici, con una decisione disciplinare e non magisteriale, contro gli eretici perché confessassero, a partire dalla metà del XIII sec. (decretale Ad extirpandam di Innocenzo IV [1243-1254]), anche se per una sola sessione di tormenti e senza nocumento per la vita e l'integrità del corpo. Tuttavia la norma, che pure non fu mai in vigore ovunque, fu interpretata in modo estensivo e il Concilio di Vienne (1311) pose dei limiti canonici alla procedura penale connessa. San Tommaso d'Aquino (1225-1274) accetta la congruità della punizione corporale per i battezzati caduti nell'eresia; afferma che l'imputato è tenuto a dire la verità dinanzi a prove della sua colpevolezza; insegna che, potendosi infliggere la pena di morte, a maggior titolo e con meno rigore si può infliggere una punizione corporale; tuttavia non parla mai esplicitamente di tortura. Tra XVI e XVII sec. iniziò il dibattito tra abolizionisti e conservatoristi: i primi considerano la tortura una barbarie, dato anche l'abuso fattone in quei secoli; i secondi la considerano un male minore da tollerare per le istruttorie penali rispetto all'impossibilità di individuare i colpevoli. Sant'Alfonso Maria de' Liguori (1696-1787) fa una sintesi finale sulla questione ormai plurisecolare: la tortura va utilizzata come ultima risorsa verso coloro sui quali vi è già un quadro probatirio pesante e mai per le persone deboli; non va mai inflitta in modo tale da non poter essere sopportata e le confessioni estorte anche solo con il timore di una violenza pesante sono da considerarsi nulle; la reiterazione della tortura è lecita fino a tre volte, se il reo confessa sotto tortura ma ritratta innanzi al giudice, mentre se già dalla prima sessione di tormenti non ammette alcuna colpa va rilasciato, così come se per la terza volta ritratta innanzi al magistrato. Siamo già prossimi al clima in cui l'illuminista italiano Cesare Beccaria (1738-1794) teorizzò l'inutilità della tortura giudiziaria. Pio VII (1800-1823) nel 1816 abolì e vietò ogni forma di tortura nel mondo cristiano, assumendo in tal senso le istanze dell'Illuminismo, conformi alla Rivelazione ancor più degli ormai arcaici principi del diritto romano. Il Codice Pio – Benedettino, riconoscendo il principio giuridico per cui nessuno, al di fuori di un tribunale ecclesiastico, è tenuto ad accusarsi di una colpa anche se commessa e quindi non può essere sottoposto a tortura durante interrogatorio, ne proscrisse nuovamente l'uso (1917). Pio XII (1939-1958) riconobbe l'inutilità della tortura come strumento di indagine, rovesciando l'assunto per cui essa sarebbe il male minore; il Concilio Vaticano II (1962-1963) condanna l'uso della tortura come contraria alla dignità umana, accettando definitivamente l'idea che non solo l'innocente, ma anche il reo, in quanto uomo, non debba essere torturato, conformemente alla nuova antropologia, sia laica che cattolica, invalsa in tempi recenti e perfettamente conforme alla Rivelazione. In tale prospettiva, il beato papa Giovanni Paolo II (1978-2005) potè più volte reiterare la condanna della tortura e deplorare gli abusi commessi in tal senso nei secoli precedenti. Il suo insegnamento è reiterato nel Catechismo della Chiesa Cattolica (1993) e nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (2003), e da papa Benedetto XVI.

Lo spirito del Vangelo è dunque sempre stato incline alla clemenza e alla misericordia, nonché alla carità e alla giustizia, contenendo così in nuce la ragione per cui meglio si confà, alla Rivelazione, l'astensione dalla pratica torturatoria piuttosto che la sua realizzazione. Oggi poi la riflessione sull'inutilità e la dannosità della tortura, nociva piuttosto che utile all'accertamento della verità giudiziaria, ha fatto si che il Magistero rigettasse questa pratica antichissima, sia per questo fine sia, a maggior ragione, per infliggere punizioni e per procurare la morte. Sempre poi è stata rigettata come strumento terroristico o come mezzo per sfogare l'odio. Oggi però la tortura è più diffusa del passato. Essa degrada carnefici e vittime. L'impegno per la sua abolizione è gravemente doveroso per la comunità umana, apparendo essa ormai contraria alle modalità più mature di applicazione del diritto naturale. Anch'essa può essere considerata proscritta per rispetto di Cristo, Che ci salvò venendo torturato a morte.

I moribondi hanno diritto alle cure e alle attenzioni per vivere serenamente e pacificamente gli ultimi istanti; devono essere sostenuti con la preghiera per gli agonizzanti e dai Sacramenti, da riceversi tempestivamente e prima ancora dei medicinali. I corpi dei defunti, consacrati dal Battesimo e dagli altri Sacramenti, destinati alla Resurrezione, abitati dalla Grazia attraverso le anime ormai uscite da essi, vanno trattati con rispetto e devozione; essi hanno diritto alla sepoltura. In ragione dell'attesa della Resurrezione si pratica l'inumazione. La cremazione è lecita solo se praticata senza pregiudizio della fede nella Resurrezione della carne. Per ragioni mediche o giudiziarie la disciplina canonica permette l'autopsia, così come in passato permetteva lo smembramento dei corpi per particolari sepolture, come quelle dei Re e dei Santi, e la conseguente generazione di Reliquie, possibile anche ora a determinate condizioni. La donazione di organi da morti è moralmente lecita e anche meritoria se decisa in grazia di Dio. E' lecito, e all'occorrenza meritorio, acconsentire a trapianti e donazioni di organi a vantaggio di terzi anche da vivi, purchè non ci sia nocumento della propria salute e della propria vita. E' invece abominevole espiantare organi da una persona viva non consenziente o costretta ad acconsentire per bisogno, e ancor più da una persona uccisa a tale scopo, a vantaggio di un terzo anche gravemente malato. Oggi questo delitto avviene orrendamente su persone povere e su bambini rapiti e uccisi appositamente.

La difesa della vita corporea implica anche l'obbligo, quando si può farlo e nei modi che ognuno ha a disposizione, di aiutare gli altri nelle loro necessità corporali, sia come singoli che come gruppi, società e Stati. In particolare ciò avviene con le Opere di Misericordia corporale, su cui Gesù ci giudicherà, e che hanno creato i moderni servizi assistenziali ispirando l'azione umana ben oltre i confini visibili della Chiesa Cattolica: Dar da mangiare agli affamati; dar da bere agli assetati; vestire gli ignudi; visitare i malati; visitare i carcerati; alloggiare i pellegrini; seppellire i morti. Declinate secondo le esigenze moderne, esse implicano, in aggiunta alle forme tradizionali, come la cura delle necessità dell'infanzia abbandonata, quelle relative alla tutela dei gruppi disagiati socialmente, degli immigrati, degli anziani, dei diversamente abili fisici e mentali, dei malati permanenti, gravi e terminali, dei tossicodipendenti e di tutti coloro che hanno dipendenze, delle donne e dei minori oggetto di violenze o bisognosi di particolari cure, delle madri senza compagni, degli stranieri, dei disoccupati, dei profughi, dei senza casa e di chiunque soffra nel corpo per le avversità dell'esistenza. Destinare a chi non ha bisogno gli aiuti che legittimamente toccano a costoro è spregevole, specie se implica la fine delle risorse così ignobilmente distratte.

Ognuno di noi è poi tenuto alla legittima cura di sé, nell'alimentazione, nell'igiene, nella tutela della salute e nelle cure mediche, nonché nel mantenimento della giusta forma fisica in base alle proprie attitudini, anzi dev'essere in questo supportato dalle strutture pubbliche e sociali e garantito dal diritto, senza però cadere nell'edonismo estetizzante dei miti del salutismo, dell'igienismo, dell'iperattività sportiva e del narcisismo estetico, intesi come forme di culto del corpo; rischi speculari sono legati al vizio della gola, come l'abuso dei cibi, la crapula, l'ubriachezza, e l'alcolismo, nonché il tabagismo e la dipendenza immotivata da farmaci; particolarmente deleterio è l'uso di sostanze stupefacenti e quindi gravemente immorale, come del resto la loro produzione e distribuzione, in quanto causano la rovina fisica, psichica e morale di coloro che le consumano, fino alla morte, deteriorando le relazioni familiari e sociali; anche la guida di qualunque mezzo a grande velocità o in stato di ebrezza, ponendo a rischio la propria e altrui vita, è peccaminosa; del pari l'ignoranza e l'inosservanza delle regole dei codici stradali.

In ordine alla vita morale, il V Comandamento proscrive le imprecazioni contro sé e i terzi e soprattutto lo scandalo, ossia l'atteggiamento e il comportamento che inducono gli altri al male, che è quindi peccato mortale se volontariamente induce ad una grave mancanza, configurandosi come un vero omicidio spirituale. Ancor più grave dell'omicidio fisico (Mt 18, 6), lo scandalo è particolarmente ripugnante se colui che lo compie ha un'autorità o una visibilità o un prestigio particolari, se ha una responsabilità educativa religiosa, morale o culturale e se si rivolge a persone particolarmente deboli. La legge, la moda, le istituzioni e l'opinione pubblica possono dare scandalo e anche in modo gravissimo, degradando i costumi, corrompendo la vita religiosa, creando condizioni di vita in cui è difficile o impossibile obbedire ai Comandamenti di Dio; sono di scandalo gli imprenditori che inducono alla frode, i maestri che esasperano gli allievi, gli operatori delle comunicazioni sociali che manipolano l'opinione pubblica sviandola dai valori morali. Se dunque gli scandali sono inevitabili, è altresì vero che chi scandalizza sarà punito (Lc 17, 1).

Per quanto riguarda la difesa della vita morale e spirituale, il Comandamento impone la cura della propria innanzitutto e, per analogia e in base alle responsabilità, di quella altrui. Anzitutto vanno tutelate le facoltà dell'anima: l'intelligenza, con lo studio, la riflessione e la ponderatezza nell'agire, lo sviluppo delle inclinazioni, la fuga della pigrizia, dell'ozio, della svogliatezza; la volontà, col dominio dei propri istinti, la coltivazione di alti ideali, l'esercizio delle virtù naturali che la rinsaldano (gentilezza, schiettezza, pazienza, umiltà), la scelta e la cura delle buone amicizie. Bisogna poi salvaguardare la propria vita soprannaturale, evitando il peccato mortale che è un autentico suicidio spirituale, e per quanto è possibile il veniale che è paragonabile ad una ferita inflitta all'anima; si deve altresì a tale scopo essere solerti e costanti nella preghiera, accettare e offrire a Dio le nostre sofferenze in unione col Crocifisso, accostarci frequentemente ai Sacramenti. Per la vita spirituale, naturale e soprannaturale altrui, bisogna pregare, dare l'esempio, dire le parole giuste al momento giusto e compiere opere di apostolato; soprattutto si devono praticare le Opere di Misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e i morti. Esse hanno avviato le grandi opere di soccorso spirituale della civiltà cristiana e che oggi operano anche al di fuori di essa; i moderni mezzi di educazione, di ascolto e consiglio, di formazione e di apostolato morale e spirituale, utilizzati all'occorrenza da esperti, aumentano enormemente le possibilità di sollevare le miserie di una umanità affranta e in difficoltà.

L'INTEGRAZIONE DEL V COMANDAMENTO NEL DISCORSO DELLA MONTAGNA

Da un altro Monte, quello degli Ulivi, il Verbo di Dio fatto Carne volle, nella Nuova ed Eterna Alleanza, completare la formazione morale degli uomini con le norme della vita soprannaturale. Il Signore Gesù ci ha insegnato che l'ira sarà sottoposta a giudizio (Mt 5,22); essa, che è un vizio capitale, ci spinge a desiderare la vendetta per il male per chi va punito, ma erroneamente, perché la vendetta appartiene a Dio; sebbene sia lodevole imporre una riparazione al fine di correggere i vizi e conservare il bene della giustizia, la vendetta non è mai lecita, perché esorbita dalla giustizia. Perciò il Signore corregge l'espressione Occhio per occhio dente per dente e prescrive di perdonare generosamente, con una serie di iperboli che vietano di agire per rappresaglia (Mt 6, 39-41), mentre ordina di non negare, all'occorrenza, l'aiuto al nemico in difficoltà esattamente come all'amico, perché abbandonare, per ostilità o indifferenza, può essere come un assassinio. Se invece l'ira si spinge sino al proposito di ferire brutalmente o uccidere un'altra persona diviene peccato mortale. L'odio per il nemico opposto all'amore del prossimo è abolito da Gesù, che invece ordina di amare tutti, come Dio, pregando per i propri nemici e facendo del bene a chi ci perseguita, in quanto solo in questo vi è merito, perché vi è gratuità (Mt 6, 43-48). L'odio del prossimo è un peccato quando desidera per lui il male; se il male desiderato è un grave danno, il peccato è ovviamente grave anch'esso (Mt 5,44-45). Gesù ci ammonisce anche sul giudizio morale insultante espresso e sanzionato per ira, perché può meritare anche l'inferno (Mt 5, 22). Impone la riconciliazione come condizione previa per la presentazione dell'offerta all'altare. Esorta a comporre in vita le controversie, per non scontare i rancori in Purgatorio (Mt 5, 25-26). Infine, il grande precetto della carità si configura come l'antidoto dell'odio che genera la morte attraverso l'omicidio: amare il prossimo come se stessi, come si ama Dio e come lo ama Dio è il segreto della perfezione cristiana. Da questa ardua scalata alla vetta della perfezione si fa agli altri ciò che si vuole sia fatto a sé e non si fa loro ciò che non si vuole sia fatto a sé, poi si fa per gli altri tutto ciò che Dio vuole e che si fa per Lui, per amor Suo, infine si spende e si dà la vita per loro esattamente come ha fatto Gesù, amandoci gli uni gli altri di un amore di comunione, gratuito, oblativo, senza retorica e pieno di concretezza materiale e spirituale. In questo spirito si può e si deve perdonare sempre, anzitutto non volendo il male di nessuno e il bene di tutti, poi aprendo il cuore nuovamente a chi umilmente dica: mi pento, anche fino a settanta volte sette, esattamente come noi siamo continuamente perdonati. Ciò non implica certo di ridare a tutti la stessa fiducia o intimità, almeno non a scatola chiusa, ma comporta la manifestazione esteriore del perdono già concesso. In questo spirito noi viviamo le Beatitudini dei miti, dei misericordiosi, degli operatori di pace, che erediteranno la terra, troveranno misericordia e saranno chiamati figli di Dio. Per vivere questa affascinante ma difficile perfezione noi preghiamo nel Padre Nostro: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori. In questo noi riceviamo la pace di Cristo e la diamo agli altri, come riconciliazione spirituale e unificazione in Lui, secondo quanto Lui stesso ci ha promesso.

L'ATTUALIZZAZIONE DEL V COMANDAMENTO NELLA BIOETICA

Il moderno progresso delle scienze e delle tecniche mediche e biologiche ha fatto porre dei problemi completamente nuovi alla coscienza morale, creando una disciplina trasversale, la bioetica, che propriamente è la branca dell'etica che si occupa della generazione e della conservazione della vita. Essa si configura come afferente sia al V che al VI Comandamento. Applicando gli eterni principi della Rivelazione, la Chiesa ha dato la risposta ai grandi interrogativi legati alla tutela della vita nelle questioni critiche della bioetica.

Anzitutto va ricordato che, essendo l'essere umano tale sin dal suo concepimento, sia per la creazione dell'anima da parte di Dio all'interno della cellula fecondata in quello stesso istante, sia per la presenza di tutto il genoma dell'individuo in essa sin dall'inizio, l'embrione come il feto è persona. Esso dunque dev'essere difeso, curato e guarito come chiunque, per quanto possibile. Solo a queste condizioni, e purchè non comportino per lui interventi sproporzionati, è lecito intervenire sull'embrione stesso. La distruzione dell'embrione o il suo danneggiamento sono dunque delitti come l'omicidio e la ferita, tanto più che le condizioni di sviluppo dell'embrione generato e conservato al di fuori del grembo materno sono tutte affidate alle tecnologie umane, che sono indispensabili alla vita dell'embrione stesso, e la cui sospensione immotivata è dunque omicida essa stessa. La generazione di embrioni in sovrannumero, per lasciarne sopravvivere o farne attecchire uno solo nel grembo materno sapendo che gli altri saranno perduti o per sceglierne uno soltanto per criteri eugenetici, è un crimine inedito nella storia umana, perché consiste nel dare la vita a molti per far sopravvivere uno solo eliminando volontariamente, in modo diretto o indiretto, gli altri. Oggi milioni di embrioni, individui in uno stato evolutivo bloccato, sono tenuti nel limbo di una crioconservazione dalla quale non potranno mai essere tirati fuori, sia perché nessuno li vuole, sia perché ne sono troppi, sia perché la loro stessa conservazione implica, alla lunga, il loro danneggiamento e quindi rende inevitabile la loro distruzione o la loro morte (1). E' questo una sorta di microsistema di sterminio di massa, per persone, fortunatamente, senza coscienza, ma non senza dignità, alla cui strage ci si accinge con la minore sensibilità causata dal fatto che essi non hanno le parvenze riconoscibili dell'uomo e per il delirio di onnipotenza causato dal fatto di averli generati in laboratorio. In queste azioni particolarmente riprovevole è la responsabilità di chi, come i genitori e i medici, danno la vita e la curano solo in vista della morte. L'uso degli embrioni, anche sovrannumerari nelle disumane tecniche di fecondazione assistita, se non generati a tale scopo, per il prelevamento di cellule staminali totipotenti a scopo terapeutico per terzi è a tutti gli effetti un omicidio dilazionato, peraltro basato sull'erronea convinzione che tali cellule così ottenute siano più efficaci di quelle ricavate dal cordone ombelicale, da altro materiale organico o da cellule adulte svuotate del loro nucleo. Agli embrioni distrutti e ai feti abortiti non si concede neanche la dignità di una sepoltura, ma solo l'oscura sorte di un sacco di spazzatura (2).

La clonazione umana, ottenuta inserendo il nucleo di una cellula adulta in un ovocita in modo da avviare la mitosi cellulare, separa la generazione della vita dall'atto sessuale, replica in modo surrettizio un essere umano in un altro, genera la vita stessa senza un concorso diretto della paternità e maternità umane. Tale pratica, disumanizzante per il clonato e finora mai praticata, se genererebbe di sicuro esseri umani animati, sarebbe tuttavia gravemente contraria all'ordine divino stabilito in natura. Solo la replicazione parziale di sequenze di DNA o la clonazione terapeutica di organi per trapianto può essere, in vista dei suoi scopi terapeutici e scientifici, legittima.

Le manipolazioni genetiche sono lecite solo se, avvenendo senza contravvenire alle norme della generazione umana naturale, vogliono contrastare le malattie. Il loro uso per selezionare le caratteristiche psicofisiche del nascituro sulla base di uno schema precostituito è una forma di eugenetica razzista assai pericoloso per la disparità tra gli uomini che essa presuppone erroneamente e crea artatamente, oltre che una violenza fatta alla irripetibile ricchezza di ogni persona umana. L'ibridazione del genoma umano con quello di specie animali per la creazione di chimere con scopi eugenetici o come manodopera da sfruttare o materiale organico da utilizzare all'occorrenza è un'azione spregevole che viola l'ordine naturale fondato da Dio e che genera esseri infelici votati ad una esistenza incompleta e dolorosa. La legge civile è tenuta a seguire tutte queste indicazioni della legge naturale, confermata dal Magistero, a tutela dell'embrione e della sua integrità e normale sviluppo. L'eventuale uso di tecnologie cibernetiche ed informatiche per sovvenire a problemi di salute non presenta, al momento, problemi morali, evidentemente in ordine al sostegno dell'apparato neurologico e alla sostituzione di arti e organi malati o perduti.

Le sperimentazioni mediche, scientifiche e psicologiche sui singoli e i gruppi possono concorrere alla guarigione dei malati e al progresso della salute pubblica. Tuttavia le scienze non sono autonome dalla morale, anzi vi sono pienamente sottomesse per essere esentate dalla schiavitù della funzione d'uso, delle ideologie, dell'utilitarismo, specie se a vantaggio di terzi. Ogni sperimentazione deve implicare il consenso di chi la subisce e non giustifica mai, anche se consensuale, azioni lesive della dignità umana o rischiose inutilmente o sproporzionatamente per la vita e l'integrità psicofisica dei soggetti che vi si sottopongono.

L'eutanasia, inflitta con qualsiasi mezzo ai malati terminali o gravi o permanenti per abbreviare o porre fine alle loro sofferenze, o anche ai disabili fisici e mentali per le stesse ragioni, o anche a tutti costoro per altre ragioni, è un omicidio a tutti gli effetti, anche se può essere compatito per la disperazione che muove a compierlo. Compassione che non può essere concessa a chi se ne serve per strumentalizzazioni politiche e ideologiche (spesso in odio alla Fede), per eliminare persone sgradite, per sovvertire il diritto naturale, per ampliare, in nome di una distorta e presunta libertà di scelta, l'ambito di rivendicazione di tale azione anche a coloro che, a qualunque titolo, siano tediati della loro esistenza. Tale compassione non può neanche essere estesa a chi pone al servizio dell'eutanasia le sue competenze mediche e scientifiche. La legalizzazione di questa pratica è contraria alla legge naturale ed è essa stessa un delitto. Naturalmente i malati in gravi, irreversibili e terminali condizioni, come anche i disabili, devono essere aiutati, perché non basta proibire di ucciderli per salvaguardarne l'esistenza; ma anche su questo tema vi è indifferenza pubblica e privata, vuoto normativo, carenza di strutture, indispensabili per far fronte a situazioni individuali e familiari che la scienza, col suo progresso, di fatto prolunga allungando la vita dei sofferenti. In ogni caso, qualunque azione od omissione che, da sé o intenzionalmente, causa la morte per porre fine al dolore è moralmente peccaminosa; l'errore di giudizio commesso in buona fede non ne muta la natura. Interrompere procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate (ossia di difficile o impossibile applicazione, di documentata inefficacia, di aumento di sofferenza per il soggetto, di eccessivo costo economico) rispetto ai risultati attesi può essere legittima configurandosi come rinuncia all'accanimento terapeutico. Essa infatti non procura la morte, ma la accetta come inevitabile. Ciò dev'essere scelto dal paziente o da chi lo rappresenta legittimamente, nel suo interesse. Tuttavia, anche se la morte è considerata imminente, le cure ordinarie non vanno interrotte. L'uso di analgesici per lenire il dolore in malati prossimi alla morte è legittimo, anche se abbrevia la vita residua, in quanto la morte è solo prevista e tollerata come conseguenza inevitabile, ma non cercata di per sé. Le cure palliative sono invece da incoraggiare perché mostrano carità disinteressata. In ordine poi allo stato vegetativo, esso non può essere oggi considerato come terminale, perché nutrizione e idratazione artificiali possono fare sopravvivere a tempo indeterminato; non possono essere considerate accanimento terapeutico perché nutrirsi e idratarsi non sono cure ma funzioni organiche anche se supplite artificialmente (3). Tuttavia, quando la fine è prossima, anche nutrizione e idratazione fatte in modo oneroso possono essere evitate o interrotte.

TEOLOGIA ETICA DELLA PACE E DELLA GUERRA

Il rispetto e lo sviluppo della persona umana esigono la pace, che non è solo l'assenza della guerra, ma è l'ordine tranquillo della giustizia e della solidarietà umana. E' peraltro di per sé un valore per tutti e quindi un dovere universale. Può fiorire solo se tutti e ciascuno s'impegnano a promuoverla secondo la propria competenza, aderendo all'ordine voluto da Dio. Essa implica la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, la pratica assidua della fratellanza. La pace terrena è l'immagine e il frutto della Pace messianica, perché Cristo è il Principe della Pace (Is 9,5) Che ha riconciliato in Sé tutti gli uomini, creando una nuova unità del genere umano nel Suo Corpo Mistico e riappacificandolo con Dio e con se stesso. Essa è a sua volta l'epifania di Dio, Che è Egli stesso Pace (Gdc 6, 24). Conseguenzialmente, la pace messianica è in grado eminente la realizzazione di tutte le prospettive della pace dell'AT: essa la pienezza di vita, dono di Dio e benedizione che genera ogni altro bene; essa è la condizione escatologica in cui tutti i popoli celebrano insieme l'Altissimo, è il progetto che Egli ha per la società umana in questo e nell'altro mondo; essa si realizza nella Persona stessa di Cristo. In ragione di ciò, non vi è vera pace senza annuncio del Vangelo, senza la conversione ad esso. Tuttavia la pace messianica non si esaurisce in quella terrena né l'assenza della pace terrena pregiudica quella messianica, perché Cristo ci dà la pace in modo completamente diverso dal modo con cui la dà il mondo. In ogni caso, vertendo quanto segue sulla pace e sulla guerra in quanto assenza o inizio di conflitti, va anzitutto detto che coloro i quali, per salvaguardare i diritti umani, rinunciano ai metodi non violenti, denunciando i rischi impliciti nell'uso dei mezzi violenti, attestano la carità evangelica, purchè avvenga senza pregiudizio dei diritti e dei doveri degli altri uomini, compresi quelli connessi alla difesa di sé e di terzi. A tali condizioni, costoro sono profeti disarmati, segno di contraddizione, oggetto di persecuzione, seme che morendo fruttifica.

La Chiesa esorta innanzitutto a pregare perché non ci siano o cessino le guerre. La guerra in quanto tale è condannata dal Magistero, come avventura senza ritorno e mezzo mai adatto a risolvere le controversie (Giovanni Paolo II), flagello (Leone XIII), inutile strage (Benedetto XV), come qualcosa con cui tutto può essere perduto, mentre con la pace nulla lo è (Pio XII). Tuttavia il diritto della legittima difesa, da esercitarsi una volta che le possibilità di accomodamento pacifico delle controversie internazionali siano esaurite o risultino impraticabili, esiste ed esisterà sempre per le nazioni, fino a quando non sarà istituita una istanza arbitrale o un governo universale riconosciuto da tutti, dotato di mezzi propri, evidentemente anche coercitivi, capace di comporre i conflitti stessi. Ciò è stato confermato dal Concilio Vaticano II. La necessità di questa istanza o di tale governo è oggi, col progresso delle tecnologie belliche, ancora più forte di un tempo; esse, come l'interdipendenza globale, esigono che il problema della guerra sia trattato con un approccio del tutto nuovo per cui, come diceva Paolo VI, essa non si ripeta più - specie su scala planetaria – e noi uomini non siamo più gli uni contro gli altri. La pluralità delle minacce da più parte insorgenti giustifica tuttavia, specie per gli Stati più deboli, l'azione e il raccordo internazionali con organizzazioni che operino a tale livello, sia globalmente che regionalmente (5).

Le condizioni in cui è lecito ricorrere alla guerra sono da valutarsi da parte di chi ha il potere politico e sono quelle che concorrono a definire il cosiddetto bellum iustum, già sistematizzato da Sant'Agostino: anzitutto la constatazione che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni che si vogliono difendere sia durevole, grave e certo; indi che tutti gli altri mezzi per ovviare all'aggressione siano stati inefficaci o impraticabili; ancora, che nell'impresa bellica vi siano fondate condizioni di successo; infine, che il ricorso alle armi non implichi mali più gravi di quelli da eliminare o impedire, tenendo oggi particolarmente conto della potenza delle armi adoperate. Appare evidente che la valutazione di questi criteri non solo è fattibile soltanto caso per caso, ma che si sostanzia di elementi differenti, culturali, a seconda delle epoche e delle sensibilità, né vi è mezzo alcuno per ovviare a questa normale condizione storica dello spirito umano, se non nella educazione alla pace e alla convivenza ordinata. In ragione di ciò, lo Stato ha il diritto e dovere di imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa nazionale, anche in tempo di pace, orientati evidentemente alla pace stessa come deterrente del disordine (5); a coloro che, legittimamente, fanno obiezione di coscienza, è giusto chiedere un impegno equipollente per la comunità statale; nessuno è poi autorizzato a tacciare chi presta il servizio militare di immoralità. Naturalmente, sia nel servizio in armi, sia nel corso di eventuali conflitti, nessuna legge morale è sospesa e tutte vanno applicate. Ciò implica il rispetto e il trattamento umano dei prigionieri, degli inermi, dei soldati e dei civili feriti; qualunque disposizione contraria allo ius gentium, sia impartita che eseguita, è un crimine contro Dio e l'uomo e non può essere scusata dalla disciplina militare, anzi è doveroso ricusare da parte dei militari quelle istruzioni che implicano il genocidio su base etnica, religiosa, culturale, sociale o di qualsivoglia altro criterio. La distruzione indiscriminata di intere città, di vaste regioni, dei loro abitanti, è delitto contro l'umanità e contro Dio. Analogamente va inteso lo sterminio sistematico anche delle forze militari avversarie. L'uso e l'effetto delle armi di distruzione di massa, chimiche, biologiche, atomiche, proprio perché implica quanto detto, appare quindi particolarmente insidioso e, a conti fatti, quasi sempre impraticabile. I colpevoli di questi crimini devono essere chiamati a rispondere innanzi alla giustizia umana, così come accadrà dinanzi a quella divina (6). E' dovere connesso al diritto alla difesa quello di proteggere le vittime innocenti e che non possono difendersi dall'aggressione e di tenere la popolazione civile al riparo delle guerre, nonché di accogliere debitamente i rifugiati. Proprio in favore di coloro che corrono il rischio dello sterminio o che vedono gravemente violati i loro diritti la Comunità internazionale ha il dovere morale, se possibile, di intervenire per fermare e disarmare gli aggressori e promuovere iniziative analoghe. Contro i governi di quegli Stati che opprimono la popolazione e minacciano l'ordine mondiale è legittimo imporre sanzioni ai sensi del diritto, per promuovere il dialogo, senza intenti punitivi per i popoli e con la dovuta prudenza, specie per quelle economiche, non dovendo soffrire intere nazioni e i loro membri più deboli. L'embargo economico non deve avere durata indeterminata né effetti indiscriminati. L'accumulo delle armi, nonostante il suo potenziale effetto dissuasorio per le guerre di aggressione, appare tuttavia foriero di gravi incognite, sia per la possibilità di essere emulato, che di essere adoperato e di essere di sprone all'aggressione; la corsa agli armamenti implica un dispiego di risorse che sono sottratte a usi civili, specie a vantaggio dei popoli poveri, e quindi appare come moralmente discutibile, oltre che inadatta da sola a fungere da deterrente ai conflitti, se non ad accrescere la possibilità degli stessi; l'armamento ad oltranza moltiplica le condizioni dei conflitti e la loro espansione. Se ne deduce che la produzione e il commercio delle armi, in sé legittimo, esige una normativa internazionale e nazionale scrupolosa e sanamente restrittiva, oltre che severe sanzioni agli inadempienti, basandosi sul principio di sufficienza, per cui è lecito acquisire, produrre e commerciare solo le armi necessarie per la difesa, sia da parte degli Stati che delle stesse imprese. Si impone in tale ottica la necessità di un disarmo, generale, equilibrato, controllato, nonché dell'interdizione delle armi che infliggono traumi eccessivi, che colpiscono indiscriminatamente, che uccidono in modo insidioso anche a distanza di tempo, come le mine antiuomo. La loro produzione e il loro uso è una colpa gravissima. Le campagne di sminamento sono un grave dovere morale per la Comunità Internazionale. Anche la produzione e la distribuzione delle armi leggere, spesso per uso personale, esigono misure restrittive, sia per l'alto numero di vittime che causano, sia per la proliferazione di violenza che generano. Una censura particolarmente severa merita l'arruolamento di bambini e adolescenti in guerra, con il corredo di violenze psicologiche e fisiche che l'accompagnano; i precoci soldati esigono una dedizione particolare per il recupero e la rieducazione nell'ambito di una vita familiare e sociale normale. Il fenomeno del terrorismo, oggi così odiosamente diffuso, specie nella sua matrice religiosa fondamentalista spesso anticristiana, apportatore di gravi squilibri e generatore di odio, non è mai giustificabile ed è da condannarsi senza riserve; esso implica il diritto di difendersi, sia pure in una cornice giuridica e morale definita, senza violare i diritti fondamentali dell'uomo, senza criminalizzare interi popoli e culture, senza tralasciare l'analisi delle cause che lo rendono possibile per poi rimuoverle. Nessuna religione ha il diritto di predicare e tollerare il terrorismo, né tantomeno si può compierlo in Nome di Dio senza profanarLo; tutte le religioni hanno il dovere di promuovere, come indica loro la legge di natura, la concordia e la pace, anche in base a quei frammenti di verità che ognuna di esse possiede. Coloro che muoiono dando la morte agli altri in atti terroristici, anche sacrificando la propria vita, non sono martiri, ma dannati.

La promozione della pace nel mondo è parte della missione della Chiesa. Essa lo fa in quanto sacramento di pace, con la preghiera liturgica e dei suoi membri, con i loro sacrifici, con il suo zelo. La Chiesa sottolinea come senza perdono e riconciliazione non è possibile pace, anche se il diritto alla difesa, alla verità e alla giustizia ne sono i prerequisiti, sono il fondamento al diritto alla pace. La rimozione degli squilibri sociali internazionali, la lotta alle ingiustizie economiche, politiche, culturali, religiose, nonché all'umana inclinazione all'odio e all'ira, all'orgoglio e alla diffidenza, sono i veri e principali deterrenti dei conflitti e vanno perseguiti dalla Chiesa e dalla comunità internazionale come dai singoli Stati e individui, da soli o associati. Un mezzo qualificato della indispensabile formazione alla pace è la celebrazione delle Giornate Mondiali della Pace il primo giorno di ogni anno, sotto gli auspici della Madre di Dio; volute dal servo di Dio Paolo VI (1963-1978), sono occasione per Messaggi sempre ricchi di contenuto etico, giuridico, politico e religioso.

APPROFONDIMENTO: LA GUERRA E LA PACE NELL'ETICA CRISTIANA ATTRAVERSO LO SVILUPPO STORICO

In tempi recenti un malinteso senso di autocritica cristiana nei confronti del proprio passato, in alleanza con un ipercritico spirito laicista, ha sostenuto e divulgato una opinione erronea, per cui la morale della Chiesa in materia di guerra e pace si sarebbero modificate e addirittura bisognerebbe vergognarsi di secoli e secoli di magistero. In realtà, salvi gli abusi della prassi concreta, per cui valgano i mea culpa di papa Giovanni Paolo II nel Grande Giubileo del 2000, in virtù della divina assistenza il Magistero ecclesiastico ha sviluppato con coerenza la dottrina della Fede, ovviamente adattandola alle circostanze storiche. Un primo errore da correggere è la convinzione che nel Cristianesimo primitivo fosse sostenuto il pacifismo in forme analoghe a quelle contemporanee. Fino all'età costantiniana il servizio militare è regolarmente prestato, anche se non mancano obiezioni di coscienza legate ai riti sacrificali in onore delle insegne e alla teologia cultuale e celebrativa delle guerre imperiali. Il centurione san Cornelio (I sec.), san Longino (I sec.), san Mercurio (III sec.), san Giorgio (III sec.), i Martiri della Legione Tebea (IV sec.) sono solo alcuni dei testimoni del Cristianesimo che militarono sotto le insegne romane.

Quando poi l'Impero si cristianizzò, la religione cristiana prese il posto della pagana nella propiziazione dell'aiuto divino per le imprese belliche dello Stato; la teologia agostiniana della guerra giusta pose i paletti per l'equo esercizio del mestiere delle armi nel consesso internazionale da parte dell'Impero. La difesa dell'ecumene romano, che a tal punto divenne la difesa dei cristiani, spettò sempre al sovrano, alla cui valutazione etica e politica ci si rimetteva per intraprendere o meno le guerre. Durante poi le invasioni barbariche la Chiesa coi suoi Vescovi si adoperò sempre per evitare le incursioni di quei popoli o per rendere pacifica la nuova convivenza: nomi come quello di San Leone Magno (440-461) per gli Unni e i Visigoti, di San Severino Abate (410-482) coi Rugi e gli Eruli, di San Remigio (†533) coi Franchi, di San Gregorio Magno (590-604) con i Longobardi, gli Angli, i Sassoni, i Visigoti, sono legati a questi sforzi per sempre. La guerra è vista e giustificata essenzialmente come difesa del mondo cristiano; l'Imperatore ha l'incombenza di farla ovunque, i Re nella loro giurisdizione. Ragion per cui nel VIII sec. vi è una trasformazione: dapprima, entrata in crisi la bizantinocrazia in Italia, papa san Gregorio III (731-742) chiede a nome dei Romani inermi l'auxilium dei Franchi di Carlo Martello (714-741) contro i Longobardi, per difendere la Chiesa fondata da Pietro – per cui si configura il principio per cui l'autorità ecclesiastica può chiedere che si prendano le armi per salvaguardare la sicurezza fisica e morale della Chiesa stessa-e poi, quando quest'aiuto viene fattivamente prestato da Pipino il Breve ([741] 751-768) a papa Stefano II (752-756) facendo nascere lo Stato della Chiesa, la guerra viene combattuta non solo come aiuto, ma come venia delictorum, ossia diviene mezzo per esercitare una carità fraterna che espii i peccati. L'una e l'altra cosa avvengono sempre nell'alveo della legalità internazionale, in quanto i due Papi offrono alle loro controparti il titolo di Patricius Romanorum, che dava il diritto di intervenire militarmente, non senza il consenso degli Imperatori d'Oriente. Restaurato l'Impero d'Occidente con Carlo Magno ([768] 800-816), la teologia della guerra e della pace è imperniata sulla necessità che il sovrano mantenga l'ordine e la sicurezza nel suo dominio, fuori del quale vi è solo barbarie. Egli combatte e il Papa prega, essendo la Chiesa racchiusa – qui come in Oriente – nell'Impero stesso come in un guscio. La pace rimane il bene sommo: Gregorio IV (827-844) tenta di porre fine alle lotte intestine tra i Carolingi; ma la difesa dai barbari, pagani o saraceni, è tanto necessaria quanto è meritorio esporre la vita per salvare gli altri, per cui san Leone IV (847-852) e Giovanni VIII (872-882) concedono la remissione delle pene a chi muore in queste drammatiche guerre di difesa. Nel corso del secolo oscuro le guerre dilagano, pur non mancando sforzi costanti di pacificazione svolti dal Papato e dall'Episcopato, per cui all'inizio dell'XI secolo nella Francia, in Lorena e in Borgogna fioriscono le Paci e le Tregue di Dio. Queste impongono, sotto minaccia di scomunica, la cessazione ciclica delle guerre endemiche, nei periodi di penitenza annuali (quaresima, avvento) e settimanali (venerdì), o nei periodi di particolare solennità (natale, pasqua) e nelle domeniche. Le prime invece impongono la cessazione dei conflitti per decreto sinodale e costituiscono leghe di volenterosi, sanzionate in cerimonie liturgiche, che combattano quei feudatari più riottosi che devastano le terre altrui, dopo averli scomunicati. Inoltre, viene ampiamente cristianizzata la cavalleria, con un apposito sacramentale d'investitura, così da impiegare nella difesa degli inermi e della Chiesa stessa i cavalieri erranti.

Il cambiamento di teologia politica iniziato già dall'VIII sec. e culminato nell'XI sec., in virtù del quale non la Chiesa è nell'Impero, ma questo e tutti i Regni sono nella comunità temporale universale dei battezzati, la Cristianità, e questa a sua volta è nella Chiesa, da cui trae origine, fa sì che la gerarchia ecclesiastica possa essa stessa promuovere azioni difensive nell'interesse di tutti i fedeli, soppiantando progressivamente l'Imperatore. Per esempio papa san Leone IX (1049-1054) insegnò che la lotta contro i barbari che devastano le terre cristiane è una difesa doverosa e meritoria, che apre il cielo a chi cade in essa, mentre Alessandro II (1061-1074) concesse l'indulgenza a coloro che andavano in Spagna a combattere per liberarla dal giogo dei Mori, dando al concetto di difesa un interpretazione estensiva, atta alla liberazione dei luoghi che da secoli erano sottomessi all'islamocrazia (7). Papa san Gregorio VII (1074-1085) offrì alla coscienza cristiana molti validi motivi per combattere in difesa dei fedeli minacciati dai barbari, dei deboli, dei cristiani d'Oriente e d'Africa, di Gerusalemme, della Chiesa Romana anche e soprattutto nella guerra che l'oppose, suo malgrado, all'Impero per la Lotta delle Investiture, volta a restaurare l'indipendenza della Chiesa e liberarla dal suo più forte fomite di corruzione.

La svolta più importante la fece il beato Urbano II (1088-1099). Non solo considerò meritoria la lotta anche armata contro l'Impero, non solo esortò ad aiutare i cristiani oppressi, anche da secoli, dai musulmani in Spagna e Sicilia (8), ma soprattutto progettò un grande soccorso armato per i Cristiani d'Oriente, minacciati dai Turchi, sino alla liberazione del Santo Sepolcro. Fu la Prima Crociata, bandita in Concilio a Piacenza e Clermont (1095). La teologia crociata, destinata a durare per secoli, si reggeva su alcuni presupposti: che il viaggio in Oriente fosse un pellegrinaggio armato, esattamente come l'Esodo biblico verso la Palestina; che i Cristiani, Nuovo Israele, tornassero così nella Terra di loro spettanza, da cui erano stati espulsi dai musulmani, con un nuovo Esodo; che la Chiesa gerarchica potesse chiamare tutta la Cristianità a combattere per i suoi legittimi interessi difensivi. Ai combattenti, che usavano le armi come mezzo di carità fraterna, era concessa l'Indulgenza plenaria, per il semplice fatto di partecipare all'impresa. Essa liberava (o manteneva liberi) i Luoghi Santi e per secoli vide impegnati i cavalieri cristiani per mantenere la sovranità cristiana nei posti in cui si è compiuta la storia sacra. Tale atteggiamento, di reazione alla Jihad islamica, era perfettamente congruente alla situazione culturale, politica e religiosa dell'epoca, per cui la Crociata è la manifestazione più tipica della spiritualità di una società guerriera. Peraltro, nonostante la Crociata fosse un istituto polimorfo che lega il merito alla violenza difensiva, concepita in varie maniere attraverso il legame con il pellegrinaggio, essa non fu mai considerata un precetto della Fede, come la Jihad dell'Islam, né un mito fondativo come l'Esodo nell'Ebraismo, per cui potè scomparire gradatamente senza attentare al nucleo delle verità rivelate. Ma non merita di essere considerata un errore o tantomeno un crimine. Esprime solo una teologia ortodossa ma sorpassata (9). Essa, autorevolmente confermata dal I Concilio Lateranense (1123) potè essere legittimamente combattuta in Spagna (terra santificata dalla presenza dell'Apostolo Giacomo e in cui i cristiani avevano il pieno diritto di tornare liberi) e in Palestina. A coloro che si dedicarono alla difesa armata dei loro correligionari a tempo pieno si additò come modello la perfezione monastica, facendo poi nascere la milizia monastica, le cui forme sono impropriamente conosciute come Ordini monastico-cavallereschi; tra essi i Templari ebbero l'onore di un trattato tutto per sé di San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), il De Laude Novae Militiae. Sviluppando un concetto di Urbano II, Bernardo insegnò che l'omicidio in guerra, essendo un gesto di difesa dal male, andasse inteso come malicidium, perché più soppressione del male in azione che volontà di nuocere a chi, contro la volontà del cavaliere cristiano, lo attaccava o attaccava i suoi correligionari. Il Beato Eugenio III (1145-1153) estese il pellegrinaggio armato indulgenziato anche ai Paesi Baltici, dove i pagani dovevano essere sgominati per permettere la libera evangelizzazione della zona: i guerrieri facevano devoto viaggio verso le Chiese inermi e onoravano in esse le membra mistiche del Cristo, duramente perseguitate (10). Il III Concilio Lateranense (1179) autorizzò ad infrangere la potenza politica degli eretici che diffondeva l'errore e contrastava la verità, specie in Francia meridionale. Papa Innocenzo III (1198-1216) concepì questa impresa come pellegrinaggio armato indulgenziato tra le membra mistiche afflitte e perseguitate nella stessa terra cristiana al di qua del mare, rendendo ancora più complessa l'articolazione interna del concetto della Crociata e del pellegrinaggio ad esso connesso (11). Lo stesso Pontefice, sia pure assecondando le circostanze, legittimò l'idea che la Crociata potesse essere rivolta contro gli scismatici, peregrinando nelle terre cristiane, da essi separate dal Vero Israele che dovrebbe possederle (12). Ancora Innocenzo acclarò l'idea che un analogo pellegrinaggio armato potesse essere fatto contro i nemici politici della Chiesa, purchè scomunicati, che ne opprimevano le libertà. La più feconda applicazione di questa idea si ebbe con la Lotta contro Federico II (1211-1250) e i suoi discendenti, che papa Innocenzo IV (1245-1254) e i suoi Successori considerarono delle Crociate a tutti gli effetti (13). Fino a quel momento le Lotte armate dell'Imperium contro il Sacerdotium, pur essendo sempre difensive -non avendo il secondo la potenza militare del primo – non erano state mai considerate Crociate. Peraltro, nei momenti di pace tra l'uno e l'altro, il Papato mediò sempre, per evitare conflitti armati, tra l'Imperatore e i Comuni, come, del resto, tra i vari Stati cristiani. Il I Concilio di Lione (1245) bandì una Crociata per la difesa comune della terra cristiana dai Mongoli. Il II Lionese (1274) invece cercò di promuovere una pacificazione generale tra Oriente e Occidente per la restaurazione dell'unità del mondo cristiano, mantenendo e confermando la vocazione pacificatrice della Chiesa tra i popoli. Tale vocazione rimase intatta nei secc. XIII-XIV, con i tentativi dei Papi di comporre tutte le grandi guerre tra le Nazioni cristiane, cominciando da quella dei Cent'Anni, anche se spesso inutilmente. L'ultima tipologia di Crociata che si affermò fu quella che implicava la liberazione delle terre cristiane dai Turchi, resa necessaria dall'espansione dell'Impero Ottomano e durata fino alla Rivoluzione Francese. Caldeggiata dapprima come sostegno all'Impero d'Oriente, in vista del quale il Concilio Fiorentino (1438-1447) concluse l'Unione ecclesiastica e promosse la pace generale, fu poi un sostegno costante alla guerra nei Balcani. San Pio V (1565-1572) con la Lega Santa che vinse a Lepanto e il beato Innocenzo XI (1676-1688) con quella che liberò Vienna dall'assedio salvarono la libertà europea (14).

Anche nei secoli dell'età moderna il Papato continuò, quando gli fu possibile, la funzione di mediazione tra potenze belligeranti in vista della pace. Per esempio papa Adriano VI (1522-1523) e papa Paolo III (1534-1549) cercarono di mediare tra l'Impero e la Francia, le cui lotte sconvolgevano l'Europa. In genere i Pontefici, che pure come Capi di Stato avevano più volte condotto delle guerre – suscettibili di diverse valutazioni morali – nei secc. XVII-XVIII si tennero fuori dalle controversie politiche. In età moderna la fine della Cristianità, per la laicizzazione della politica internazionale, oltre che l'emergenza causata dallo scontro tra Rivoluzione – anticlericale e anticristiana – e Conservazione fecero si che l'idea di Crociata tramontasse, risultando impraticabile. Pio VI (1775-1799) prese le armi con tutta l'Europa contro gli orrori della Rivoluzione Francese, anche se senza successo. Alla stessa maniera i Papi del Risorgimento chiesero e ottennero l'aiuto delle nazioni cattoliche per la difesa dello Stato della Chiesa, come Gregorio XVI (1831-1846) o il beato Pio IX (1846-1878) contro la Repubblica Romana. Coerentemente, lo stesso Papa non aderì alla I Guerra d'Indipendenza (1848), meramente politica e onerosa per la sua missione spirituale, e oppose una resistenza solo simbolica, in quanto ogni sforzo era inutile, all'invasione piemontese dello Stato Pontificio nel 1870.

La fine del Potere Temporale e il delinearsi di una comunità umana che andasse ben oltre i confini del mondo cristiano fecero sì che la Chiesa e il Papato si impegnassero come non mai nella promozione della pace nel mondo. Leone XIII (1878-1903) descrisse indefessamente le condizioni in cui essa poteva fiorire e svolse una intensa attività diplomatica per comporre i conflitti, laddove gli fu richiesto. Benedetto XV (1914-1922) si impegnò per contrastare la Prima Guerra Mondiale (1914-1918) seguendo delle direttrici che fecero scuola per i Successori: intervenire per salvare vite umane; essere imparziale nel giudizio delle parti in lotta ma non neutrale nelle valutazioni; guidare con prudenza la Chiesa nei campi avversi; svolgere una costante attività di sprone alla pace attraverso il Magistero e i documenti diplomatici; intervenire fattivamente per fermare l'olocausto degli Armeni; tessere una tela diplomatica di mediazione e pacificazione; indicare i punti programmatici per una pace giusta (i VII Punti della Nota di Pace del 1917) – poi confluiti nei XIV Punti di Wilson- la censura dell'immoralità della guerra in questione, bollata come inutile strage; la preconizzazione di un'istanza arbitrale internazionale; la rivendicazione dei diritti umani e di quelli delle nazioni; la deplorazione dei Trattati di Pace imposti. In genere, il Pontefice fu solerte nel Dopoguerra nel soccorrere tutte le vittime del conflitto e di tutti i Paesi in qualunque genere di difficoltà, compresa l'URSS, l'Impero Turco, la remota Cina.

Pio XI (1922-1939) censurò i fomiti di violenza intrinseci nel fascismo, nel nazismo, nel comunismo, nel radicalismo massonico. Il venerabile Pio XII (1939-1958), nelle drammatiche contingenze della II Guerra Mondiale (1939-1945), agì secondo delle direttrici fondamentali, ingiustamente criticate oggigiorno: lanciare una serie di iniziative diplomatiche e morali per evitare lo scoppio del conflitto o circoscriverlo; appoggio ai tentativi di rovesciamento del regime nazista; imparzialità nel conflitto per esercitare la libertà di giudizio; riprovazione del mezzo della guerra ma riserbo sulle singole azioni belliche allo scopo di poter intervenire per sostenere le popolazioni; protezione dei cattolici dalle rappresaglie naziste; condanne precise anche se non clamorose dello sterminio razziale attuato dai nazisti, specie sugli Ebrei; attività fattive per salvarne il più possibile (tra i seicentomila e gli ottocentosessantamila); difesa della città di Roma; organizzazione di aiuti umanitari; enunciazione dei principi per una pace e una società giuste; sostegno per la restaurazione della legalità internazionale; ripulsa dell'imposizione dei trattati di pace; opposizione alla divisione del mondo in blocchi. Pio XII mantenne le stesse posizioni nel II Dopoguerra: condannò il comunismo, minaccia per la pace; continuò a dare indicazioni per la costruzione di una pace giusta, specie in corrispondenza della Guerra di Corea (1950-1953), mantenendo l'imparzialità della Santa Sede; rifiutò di aderire al Patto Atlantico; sostenne l'integrazione europea; condannò l'invasione dell'Ungheria da parte del Patto di Varsavia (1956); additò al mondo le frontiere di una civiltà cristiana né collettivista né individualista. Il beato Giovanni XXIII (1958-1963) mediò nella Crisi di Cuba (1961) contribuendo a salvare il mondo dall'olocausto nucleare e trattò il tema della pace per la prima volta sotto forma di enciclica, la Pacem in Terris (1963). Il servo di Dio Paolo VI (1963-1978) lanciò un importantissimo appello per la pace all'ONU nel 1965, primo papa a farlo. Mantenne la tradizionale imparzialità della Santa Sede nella Guerra del Vietnam (1965-1975), non appiattendosi sulle posizioni di nessuna delle parti in lotta; si appellò più volte all'opinione pubblica internazionale per sensibilizzarla alle condizioni della pace da lui sempre rammentate, nonché ai suoi sforzi diplomatici; cercò il dialogo interreligioso con i buddhisti per raggiungere i suoi obiettivi pacificatori; condannò le violenze da ogni parte commesse; organizzò aiuti umanitari; chiese costantemente il rispetto dei diritti umani. Fu peraltro lui a iniziare la prassi dei Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace, di cui abbiamo detto. Respinse il pacifismo come viltà intransigente. Continuò a sostenere l'integrazione europea. Assecondò la politica della Distensione (1963-1979), ritenendo che il crollo del comunismo fosse lontano da venire; in quest'ottica va vista la sua Ostpolitik. Il beato Giovanni Paolo II (1978-2005) approcciò il comunismo in modo diverso e contribuì decisivamente al suo crollo (1989-1991), continuando a sostenere il movimento non violento di resistenza morale ai regimi rossi, da lui stesso creato quand'era Cardinale Arcivescovo di Cracovia e operante, sin da allora, in Polonia, URSS, DDR, Cecoslovacchia, Ungheria. In tal senso importantissimo fu il sostegno al sindacato libero di Solidarnosc e l'appoggio alla linea politica di Gorbacev (1985-1991). Il Papa inserì la sua politica nella cornice mistica delle Rivelazioni della Vergine Maria a Fatima (1917), in ottemperanza alle quali egli consacrò il mondo e la Russia al Cuore Immacolato di Maria stessa. Egli personalmente acclarò l'interpretazione del Terzo Segreto rivelato dalla Madonna a Suor Lucia dos Santos (1907-2005), per cui esso prevedeva sia la persecuzione comunista dei credenti sia l'attentato alla sua persona (1981), miracolosamente fallito. Ciò fu sanzionato da un apposito documento della Congregazione della Dottrina della Fede (2000).

Il grande Papa tenne una condotta coerente anche negli altri conflitti combattuti sotto il suo Pontificato. Mantenne la tradizionale imparzialità della Santa Sede nella Guerra delle Falkland (1982), invitando ad ottemperare alle sanzioni ONU e recandosi sia in Gran Bretagna che in Argentina, perorando in entrambi i Paesi la causa della pace e del diritto. Si impegnò costantemente per la pacificazione della Terra Santa, mediante la costruzione di uno Stato palestinese, uno statuto particolare per Gerusalemme e i Luoghi Santi, la garanzia di esistenza per Israele. Dispiegò altresì un impegno senza precedenti per la pacificazione del cristiano Libano, dedicandogli addirittura una Lettera a tutti i Vescovi (1989) e lanciando vibranti appelli con un simultaneo impegno diplomatico. In una Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1991 il Papa lanciò un appello per la soluzione di tutte le controversie politiche del Medio Oriente, comprese quelle di Cipro e del Curdistan. Nel Nuovo Ordine Mondiale (1990-2001) il Papa si oppose alla reductio ad unum della politica mondiale sotto l'egemonia USA, sostenendo il multilateralismo e mantenendo la linea della Santa Sede sempre libera e sovrana. Nella II Guerra del Golfo (1990) egli condannò l'invasione iraqena del Kuwait ma i suoi appelli alla pace evidenziarono il suo rifiuto di far appiattire l'ONU sulle posizioni USA. Deprecò poi l'uso indiscriminato dell'embargo che colpiva i civili. Ebbe sempre a cuore la sicurezza dei cristiani nei Paesi a maggioranza musulmana. A tale scopo promosse anche un ampio dialogo ecumenico e interreligioso. Nei drammatici anni della Guerra di Bosnia (1992-1995) il Papa, che aveva subito sostenuto l'indipendenza di Slovenia e Croazia, dispiegò un impegno diplomatico e umanitario senza confini; gli appelli all'Europa furono vibranti; egli sostenne la necessità di una ingerenza umanitaria che ponesse fine ai genocidi in atto in modo simultaneo, a dispetto dell'indifferenza mondiale; intraprese iniziative ecumeniche per la promozione della pace; fece disamine coraggiose delle motivazioni del conflitto; mantenne riserbo sull'intervento unilaterale della NATO e non dell'ONU. Con la stessa coerenza operò nella Guerra del Kosovo (1999), deplorando l'unilateralità dell'azione NATO e censurando i genocidi di tutte le parti. Dopo il tragico attentato dell'11 settembre 2001, il Papa condannò la violenza del terrorismo, riconobbe il diritto alla difesa degli USA ma non riconobbe la proporzionalità della reazione (Guerra di Afghanistan, 2001) al danno inferto e distinse tra Islam e terroristi, sempre usando l'arma dell'ecumenismo. Infine, nel 2002, Giovanni Paolo II respinse la Dottrina Bush sulla Guerra Preventiva, poi applicata nella III Guerra del Golfo e svolse un'attività diplomatica senza precedenti per impedire il conflitto. Gli esiti destabilizzatori della guerra hanno dato ragione alla sua impostazione. In genere, il Sommo Pontefice ha valutato con molto scrupolo se, nei vari conflitti, ricorressero le condizioni per la guerra giusta, e non li ha quasi mai rintracciati. Né può essere passato sotto silenzio il suo zelo per l'integrazione europea e africana, nonché le censure di molte sanguinose dittature di Paesi del Terzo Mondo, che contribuì a far cadere (come ad esempio ad Haiti, in Paraguay, in Cile o nel regime di apartheid in Sudafrica). Il regnante papa Benedetto XVI ha continuato il magistero dei Predecessori; ha condannato il terrorismo integralista e la violenza; ha invitato l'ONU a rinnovare le proprie ragioni ideali; ha lanciato appelli per la pace in Terra Santa, per i negoziati sul nucleare iraniano, per la pace in Iraq e per la cessazione di tutte le guerre.

TUTELA DELLA VITA ED ELEMENTI DI TEOLOGIA ETICA ECOLOGICA

La tutela dell'ambiente è diventato un tema importante dell'etica; sebbene di solito connesso alla morale del lavoro, oggi le gravi conseguenze dell'inquinamento sulla vita umana e non solo consigliano di dare questi lineamenti in aggiunta all'etica del V Comandamento. Anzitutto va evidenziato che l'ambiente, il Creato, è il luogo in cui Dio ha posto l'uomo, per cui le sorti di entrambi sono collegate. Decaduto per il Peccato del suo custode, anche il Creato attende una pienezza di redenzione, già iniziata (2 Pt 3,10, Rm 8, 19-23). Dio ha sempre operato in un contesto storico e spaziale, nel quale l'ambiente non è mai ostile di per sé; esso partecipa alle vicende della salvezza secondo il piano divino: nemico per castigo dopo la caduta, alleato nella lotta contro l'Egitto, nella traversata del Mar Rosso e in quella del Giordano, rifugio nei Quarant'anni nel Deserto, benedetto nella Terra Santa, assoggettato alla Signoria di Cristo e partecipe del dolore della Sua Morte e della gioia della Sua Resurrezione, il Creato è soggetto ai figli di Dio. Alla luce di questi elementi biblici, si capisce come dev'essere il rapporto tra l'uomo e l'universo delle cose, compreso lo sviluppo della scienza e della tecnica in relazione ad esso. Tutti i risultati in sé sono positivi, ma le loro applicazioni sotto sottomesse alle condizioni etiche del Magistero, anche quando riguardano solo l'ambiente o l'agricoltura. Ciò deve avvenire mediante un vaglio prudente di natura, finalità e modi delle applicazioni stesse. Ciò avviene considerando sempre come criterio il rispetto dell'uomo, poi quello delle altre creature – della cui natura specifica e delle cui connessioni con il Creato stesso bisogna tener conto – per cui nessuno si deve credere padrone arbitrario della natura, quanto piuttosto di custode responsabile. La crisi nel rapporto tra uomo e ambiente, invalso di recente, è oggetto di valutazione del Magistero alla luce della Rivelazione. Lo sfruttamento sconsiderato delle risorse e la considerazione della natura come strumento da manipolare continuamente, con i loro corollari di meccanicismo, consumismo e convinzione dell'inesauribilità della dotazione organica del Creato stesso, scaturisce da una ideologia scientista e tecnocratica perversa che condiziona la scienza e la tecnica in modo negativo. Specularmente, una difesa dell'ambiente che non veda differenze tra esso e l'uomo e che lo innalzi addirittura sull'uomo stesso, arrivando a divinizzare la terra o la natura come sostiene certo ecologismo radicale, alla ricerca addirittura di legittimazione legale delle sue concezioni, è altrettanto censurabile. L'ecocentrismo e il biocentrismo sono due errori, basati sull'idea che tutta la biosfera sia una sola unità biotica indifferenziata ontologicamente e assiologicamente. Essi, come l'idea che esista una dignità personale degli animali, addirittura parificata a quella umana, sono contrari alla Fede cristiana. Così anche il rifiuto della trascendenza ha negato il concetto di Creazione e ha preteso di attribuire all'uomo e alla natura un'esistenza autonoma. In realtà la dimensione valoriale dell'ecosistema e delle sue relazioni con l'uomo possono essere intese solo se fondate ontologicamente ed euristicamente su Dio quale Creatore. L'uomo ha il dovere di salvaguardare l'ambiente come sano, per sé e per tutti, intesi come viventi e come generazioni future. In ragione di ciò, vi è una comune responsabilità della razza umana verso l'ambiente. Esso è il bene collettivo per eccellenza, la cui tutela è dovere comune ed universale. Non si può fare impunemente uso di animali, vegetali, minerali, né trascurarne l'interconnessione, né disconoscere il valore della biodiversità delle forme viventi, né tantomeno distruggere elementi fondamentali dell'ecosistema planetario, come per esempio le foreste o i mari o l'aria, con interventi inquinanti indiscriminati o di sfruttamento forsennato. La responsabilità ecologica esige una traduzione adeguata a livello giuridico, nazionale ed internazionale, basata sul diritto ad un ambiente sano e sicuro che ogni uomo ha. Laddove le autorità debbano gestire situazioni di eventuale rischio con dati parziali o contraddittori, esse potranno seguire una valutazione ispirata al principio di precauzione, che sia proporzionata ai provvedimenti già in atto per altri rischi e che valutino rischi e benefici per ogni possibile scelta alternativa; tali decisioni, modificabili, connesse all'avanzamento doveroso della documentazione in materia, saranno prese sia in ordine all'azione che all'inazione, a volte altrettanto necessaria. La programmazione dello sviluppo economico deve rispettare l'integrità e i ritmi della natura, sapendo che le risorse non sono inesauribili e nemmeno rinnovabili. L'economia deve salvaguardare l'ambiente, prevedere i costi delle sue iniziative, e valutare i cambiamenti climatici insieme alla politica e alla scienza. Perciò non si perseguirà il profitto per il profitto, né la sua massimalizzazione, tantomeno nello sfruttamento e nell'organizzazione delle risorse energetiche. Analogamente, si deve salvaguardare il rapporto tra gli aborigeni e l'ambiente, come espressione fondante della loro identità. Una menzione specifica meritano le biotecnologie, sia nell'agricoltura che nella medicina, nella zootecnia e nella protezione ambientale. I criteri etici della loro applicabilità sono la liceità, la responsabilità, la giustizia, la solidarietà. Queste tecnologie e la stessa formazione scientifica vanno messe a disposizione dei Paesi in via di sviluppo per sovvenire ai loro problemi alimentari, sanitari e igienici, urgenze planetarie che esigono una ricerca prioritaria. Ovviamente tali ricerche, una volta commercializzate, non devono diventare fonte di illecito guadagno sulla pelle delle persone. L'impatto delle biotecnologie deve essere oggetto di corretta informazione per l'opinione pubblica e di legislazione accurata. Tutti i beni dell'ambiente vanno condivisi, con giustizia e carità, evitando l'avidità e rispettando i diritti di proprietà dei singoli e dei popoli, in vista della loro destinazione universale. In vista di ciò deve crescere la cooperazione internazionale. Emergenze particolari, oltre alla fame e alle malattie, sono quella della proliferazione di sobborghi disumani alla periferia delle città più grandi, lo squilibrio demografico con la sovrappopolazione e il calo demografico rispettivamente tra popoli poveri e ricchi, la prassi di risolvere il problema demografico con politiche di contenimento delle nascite immorali se non criminali, la destinazione delle risorse idriche. Queste sono un bene primario, non sono una merce come le altre, devono essere usate con razionalità e solidarietà ed esiste uno specifico diritto ad averle, diritto naturale, perché gli uomini vivono di acqua. Alla luce di tutto questo, è bene che lo stile di vita dell'uomo si modifichi verso il Creato, che va rispettato e ricevuto come dono di Dio.


1. La determinazione delle condizioni generali dell'embrione in relazione al modo in cui è conservato, per cui in alcune di esse apparirebbe già avvenuta la morte biologica, apre lo spazio ad ulteriori valutazioni etiche sulla possibilità o meno di smaltire gli embrioni soprannumerari.

2. Come smaltire gli embrioni in sovrannumero? Forse andrebbero concessi in gestazione alle donne che, anche se sole, desiderano avere figli e non possono averne; a maggior ragione andrebbero concessi in gestazione a donne con il marito. Questo ovviamente è il parere di chi scrive.

3. Sulla qualifica della idratazione e della nutrizione come funzioni naturali svolte tramite strumenti artificiali o come terapie si gioca un importante distinguo tra bioetica cattolica e laica. L'ulteriore distinzione tra la funzione, naturale, e il mezzo, artificiale di per sé, potrebbe aprire la strada ad ulteriori puntualizzazioni etiche.

4. La Carta delle Nazioni Unite esprime l'interdizione generalizzata della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie tra Stati, fatti salvi i casi della difesa e delle misure prese dal Consiglio di Sicurezza, che esprime una istanza di difesa globale. Sebbene di caso in caso si giudicherà se tali misure siano realmente necessarie – e su scala mondiale è opportuno se non necessario che la Chiesa si pronunci – il principio rimane moralmente valido e giuridicamente legittimo. Sempre comunque queste azioni devono rispettare i principi di proporzionalità e necessità, come andiamo ad esporli. La guerra preventiva, lanciata senza le prove che l'aggressione sia per essere sferrata, solleva quindi interrogativi etici e giuridici, per cui esige una disamina attenta e scrupolosa delle situazioni di crisi da parte della comunità internazionale legittimamente rappresentata.

5. In passato la Chiesa ha promosso, al posto della leva obbligatoria dei grandi Imperi, gli eserciti professionisti proprio per ridurre al minimo il numero di persone coinvolte nelle violenze. Questa soluzione, come del resto la leva obbligatoria, ha i suoi pregi e i suoi difetti.

6. Da qui il riconoscimento da parte della Chiesa della Corte Penale Internazionale.

7. La Reconquista, che come vedremo poi divenne una Crociata, creò le nazioni portoghese e spagnola; sostenuta sempre dalla Chiesa, terminò nel 1492 con la Caduta di Granada.

8. Nel quadro della liberazione dei cristiani dall'oppressione moresca non solo furono combattute queste guerre, ma anche altre, specie nel Mediterraneo occidentale, da Spagnoli e Italiani, per le Baleari, per la Tunisia, la Cirenaica, la Numidia, la Mauritania ecc.

9. La costanza del Magistero, papale, conciliare, episcopale, in materia fu totale per secoli, non solo per le Nove Crociate canoniche, ma per le innumerevoli spedizioni più o meno ampie che si tennero senza soluzione di continuità fino a quando i Regni crociati non caddero nelle mani degli Infedeli (definitivamente nel 1291), nonché per i tentativi, durati almeno fino alla fine del XVI sec., di organizzarne di nuove per liberare nuovamente Gerusalemme. Le violenze commesse nelle Crociate non sono peggiori di quelle di qualsiasi guerra; né vanno addebitate in quanto tali alla teologia connessa alle Crociate stesse, che è oggetto di questa breve trattazione. Peraltro, alcuni atteggiamenti violenti, desunti dall'AT, come lo sterminio di massa dei musulmani nella Gerusalemme conquistata nel 1099, non furono percepiti come dissonanti dal modello biblico di riferimento ma neanche furono mai prescritti dal Magistero o difesi per principio. Bisogna quindi sceverare la teorizzazione teologica, di per sé corretta, dai modi applicativi, suscettibili di errore e anche di colpa morale, anche se da contestualizzare nelle epoche in cui furono fatti.

10. Su questo aspetto delle relazioni tra missione e armi mi sono più diffuso nel saggio Ite ad Gentes. Qui rilevo che, sia pure in una accezione ancora più estesa di difesa, la dottrina del bellum iustum rimane strettamente connessa alla teologia crociata, permettendo una sorta di guerra missionaria connessa alla dilatatio Imperii Christiani. La Crociata contro i pagani del Baltico dura a lungo e genera lo Stato dell'Ordine dei Cavalieri Teutonici, durato fino al XVI sec. Su questa scia si collocano indicazioni magisteriali analoghe, anche se rare, che autorizzarono la difesa delle missioni nei territori coloniali portoghesi aggiudicati da Niccolo' V (1447-1455) alla Milizia di Cristo, nonché, sia pure in modo generico, in quelli americani appena scoperti da Alessandro VI (1498-1503). Naturalmente tali interventi papali non costituivano una legittimazione delle violenze spesso pretestuosamente compiute in quei luoghi, peraltro stigmatizzate spesso dai missionari stessi.

11. Anche la Crociata contro gli eretici, così lontana dalla sistemazione teologica moderna e dalla nostra mentalità, è congruente alla situazione dell'epoca e confacente alla dottrina teologica sulla guerra e sullo Stato sostenuta correntemente all'epoca. Del rapporto tra la libertà di coscienza e l'obbligo morale di adorare il solo Vero Dio, con ciò che può comportare in materia, ho detto nel saggio Non habebis deos alienos coram Me. Rilevo che la Crociata contra haereticos si combattè spesso contro i dissidenti politicamente organizzati, che perseguitavano essi i cattolici, sino alla Controriforma. Tali guerre, sanzionate dal Magistero da un punto di vista canonico, culminarono appunto nelle Guerre di Religione dei secc. XVI-XVII e si esaurirono con quella dei Trent'Anni (1618-1648), quando si constatò non solo l'inanità dello sforzo che reciprocamente Protestanti e Cattolici facevano nel distruggersi ma la gravità delle conseguenze che questo presunto rimedio, peggiore del male, aveva nel mondo cristiano. Si avviò così la prassi della convivenza internazionale pacifica tra cristiani.

12. Ciò è legato innanzitutto alla IV Crociata che gli intrighi di Venezia deviarono contro l'Impero d'Oriente, sfruttando pregiudizi diffusi contro i Bizantini, che avevano una teologia della guerra completamente diversa da quella crociata e sembravano ostili alla liberazione del Santo Sepolcro. La conquista di Bisanzio fu tuttavia un crimine deprecato dallo stesso Innocenzo e la pretesa di unire le Chiese in tale maniera, eliminando il presunto ostacolo del potere imperiale, si rivelò impraticabile. Tuttavia questa teologia crociata contra schismaticos durò fino al XV sec., anche se sempre meno sostenuta dal Papato. Più che scorretta essa era dannosa. Lo scriteriato e peccaminoso appoggio dato da Martino IV (1281-1285) alla Crociata angioina contro Bisanzio causò la riproposizione dello Scisma d'Oriente.

13. L'uso della Crociata come guerra difensiva contro i nemici politici della Chiesa comportò molti abusi pratici, come la Guerra del Vespro (1281-1303), bandita da Martino IV contro gli Aragonesi dopo la rivolta omonima in Sicilia contro il malgoverno angioino, o le guerre di Giovanni XXII (1316-1334) contro i ghibellini in Italia. Queste iniziative fecero discreditare la spiritualità delle Crociate. Altre imprese di tal genere, fino a quelle dei Papi rinascimentali, sono altrettanto discutibili (l'ultima fu quella della Santa Lega di Cognac del 1526). Alcune tra esse furono invece giustificabili nella pratica. Notissima e controversa la Crociata contro Palestrina di Bonifacio VIII (1294-1303), bandita contro i Cardinali scismatici Colonna.

14. I bandi di Crociata in tal senso furono innumerevoli e spesso si confusero con quelli per la liberazione di Gerusalemme. Celebre e sfortunato quello di Pio I


Theorèin - Febbraio 2012