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NON FURTUM FACIES
“Non furtum facies” “Ou klépseis” (Il Signore sul Sinai a Mosè) “Non rubare” (Nostro Signore Gesù Cristo al Giovane ricco) Il Settimo Comandamento prescrive il rispetto della proprietà, che è garanzia e prolungamento della libertà e della sicurezza di chi la possiede. Proscrive perciò di prendere o trattenere ingiustamente i beni altrui o di arrecare a terzi dei danni nei loro beni. Impone carità e giustizia nella gestione dei beni materiali e del lavoro umano. Esige il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà, in vista del bene comune. Ordina a Dio i beni del mondo, nello spirito cristiano della carità fraterna. CIO' CHE PRESCRIVE IL SETTIMO COMANDAMENTO Dio, all'atto della Creazione, affidò a Adamo ed Eva il mondo intero, costituendoli custodi e amministratori di tutti i suoi beni; fondò così la proprietà della razza umana sul cosmo e anche quella degli individui singoli sulle loro cose, sempre però solidaristicamente orientata alla destinazione universale dei beni stessi e all'interesse comune. Non vi è dunque proprietà collettiva di beni individuali né proprietà individuale della globalità dei beni. Vi è l'unità della proprietà nella molteplicità gerarchica dei possessori. Il diritto di proprietà è dunque anteriore al Peccato Originale, né si è perduto dopo di esso, né la perfezione cristiana si identifica con la povertà, bensì con la carità, né è necessario rinunciare alla proprietà per adire al Regno dei Cieli (Quia vir reprobus del 1329 di papa Giovanni XXII [1316-1334]). Il diritto di proprietà è sempre legittimo e si configura come sostanza della libertà umana e come espressione della sua capacità giuridica naturale, sia quando si esercita acquisendo i beni col lavoro o col controvalore versato, sia quando si eredita, sia quando è donato. La destinazione universale dei beni è superiore alla proprietà privata da un punto di vista assiologico e teleologico, ma l'una non esclude l'altra. Naturalmente le circostanze storiche modificano, quando non addirittura deteriorano, l'esercizio fattivo di entrambi i diritti. Le modifiche sono nel corso naturale delle cose e vanno accettate nel loro sviluppo storico, le forme di deterioramento vanno corrette, per quanto possibile. Il criterio di distinzione sta nella ragione naturale e, all'occorrenza, nella Verità Rivelata. Generalmente, l'accettazione dell'ordine vigente e la conseguente perequazione delle risorse in modo tale da garantire a tutti la sopravvivenza anche se in forme diverse sono i criteri con cui ogni generazione esprime la propria sintonia con le modifiche storiche in questione; diversamente, si potrebbe parlare di deterioramento. I beni di produzione materiali o immateriali, come terreni, stabilimenti, capi di bestiame, competenze, arti, vanno curati, da chi li possiede, perché essi servano al maggior numero di persone. I beni di uso e consumo vanno usati con moderazione, riservando la parte migliore al povero, all'ospite, al malato. L'autorità politica deve regolamentare l'esercizio del diritto di proprietà e l'orientamento della stessa al bene comune. Nel rispetto della persona umana e della sua dignità, il VII Comandamento esige la temperanza nell'uso di quanto si possiede o nella volontà di acquisire, la giustizia per dare a ciascuno il proprio e la solidarietà per condividere con i bisognosi nello spirito della Regola d'Oro e nell'imitazione della liberalità divina. I beni altrui esigono il rispetto che ci aspettiamo per i nostri. Il furto è l'usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario, ed è peccato mortale. Tutti coloro che vi concorrono, ossia sia il ladro, che il basista, il palo e il ricettatore, sono gravemente colpevoli. Se vi è un consenso anche presunto o se il rifiuto è contro la ragione, in particolare in campo morale, o contro la destinazione universale dei beni, allora non vi è furto. Particolarmente riprovevole è il furto che implica l'effrazione dell'intimità altrui (furto con scasso), quello che si compie con la violenza, come la rapina, che mette anche a rischio la vita di terzi, l'estorsione, l'usura. Tali azioni contengono la malizia di più peccati mortali, violando anche il V Comandamento. Spesso altresì tali violenze sono occasioni di altri ripugnanti crimini sulle persone dei malcapitati che ne sono vittime. Ogni modo di prendere e tenere ingiustamente i beni del prossimo, anche se legale, è immorale, come trattenere la roba prestata o smarrita, commettere frodi nel commercio, pagare salari ingiusti, alzare i prezzi arbitrariamente sfruttando ignoranza o bisogno degli altri. Tra essi, la frode nella mercede agli operai è un peccato che grida vendetta al cospetto di Dio. Analogamente, qualunque azione che implica l'oppressione dei poveri è peccato che grida la stessa vendetta, in quanto nessuno deve essere privato dei beni di cui ha bisogno per vivere né deve subire ingiustizia a causa della debolezza sociale in cui si trova. Di questo Dio sarà giustiziere inesorabile. Peccati altresì gravi sono la speculazione, che varia artificiosamente la stima dei beni per trarne vantaggio a danno di altri; la corruzione, con cui si svia il giudizio di chi deve prendere decisioni in base al diritto; la concussione, con cui ci si lascia corrompere; l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa di qualunque genere e anche della collettività di qualsiasi ordine e grado; i lavori eseguiti male o non eseguiti affatto (assenteismo o negligenza); la frode fiscale ed l'evasione delle giuste tasse; l'imposizione abusiva od oppressiva delle imposte (alle quali si può, secondo sant'Agostino, opporre rifiuto); la contraffazione di assegni, fatture ed altre documentazioni finanziare ed economiche, o anche di merci di ogni genere, a scopo di dolo; l'imposizione di tassi di interesse troppo alti nei prestiti; la requisizione di beni di prima necessità, da parte della collettività o dei singoli, in conseguenza di indebitamento o per ragioni ideologiche o di convenienza; le spese eccessive dei singoli e della collettività; lo sperpero dei beni; l'avarizia dei beni stessi. Il danno volontario inflitto a beni altrui o della collettività esige la riparazione per esigenza di giustizia; ciò è opportuno anche per i beni danneggiati involontariamente laddove la ragione e la legge lo esigano (come in un incidente). Le promesse vanno mantenute e i contratti rispettati, purchè siano conformi alla legge morale, per non cadere in colpa grave. I contratti a loro volta devono sottostare alla giustizia commutativa, che regola gli scambi secondo equità e vincola in modo grave. Essa è legata ma non è identica alla giustizia distributiva, che dà a ciascuno il suo, compreso quanto dovuto a chi presta la propria opera lavorativa. Entrambe sono distinte ma sostenute dalla giustizia legale, che riguarda ciò che il cittadino deve alla comunità e che all'occorrenza sanziona gli inadempienti della distributiva e commutativa. Per la giustizia commutativa il ladro deve restituire ciò che ha preso, per avere il perdono divino, esattamente come fece Zaccheo (Lc 19, 8), all'occorrenza risarcendo i danni che ne sono derivati, ai danneggiati o agli eredi, integralmente e tempestivamente dopo aver preso coscienza della colpa. Il gioco d'azzardo e le scommesse non sono di per sé peccaminose, ma possono diventarlo se dilapidano i beni, se li sottraggono a scopi più urgenti, se diventano un vizio, se sono illegali, se avvengono col trucco o barando. Il VII Comandamento proscrive altresì la schiavitù, intesa come possesso della persona altrui e come negazione della sua stessa personalità, per qualunque motivo sia fatta. Storicamente parlando, il Cristianesimo non impose l'esigenza dell'abolizione dello schiavismo come sistema di lavoro, né poteva farlo, essendo l'economia antica basata sul lavoro servile. Tuttavia da Costantino il Grande (306-337) in poi la legislazione romana, che prevedeva lo schiavismo e che rimase il faro della civiltà giuridica per secoli, riconobbe che lo schiavo non era cosa ma persona, concedendogli progressivamente tutti una serie di diritti umani. I Padri della Chiesa, con Agostino in testa, sostennero che la schiavitù era contraria alla Legge evangelica – essendo prescritta la legge che nell'AT la permetteva– ma che doveva essere tollerata come conseguenza del Peccato originale e dei peccati attuali e per non gettare scompiglio nell'ordine sociale. La grande occasione contro lo schiavismo si ebbe con la Caduta dell'Impero Romano in Occidente, dove irruppero i Barbari, tra i quali tutti erano liberi e che non erano in grado di rendere stabilmente schiavi i Romani assoggettati. In ragione di ciò, la schiavitù si trasformò gradatamente in servitù della gleba, ossia in quella condizione ereditaria del colonato agricolo che, già prevista da Diocleziano, era molto meno dura della schiavitù propriamente detta e non in contrasto con l'etica cristiana e naturale, sia pure rapportata ad una società assai semplice nei rapporti produttivi, poco progredita e assai chiusa e statica, con una scarsa differenza di condizioni di vita tra aristocratici e plebei. In questo spirito, Carlo Magno (768 [800]-814) e i suoi successori tentarono di sradicare la schiavitù ove sopravviveva. Essa di fatto scomparve nell'Occidente, sopravvivendo qua e là, specie laddove si potevano acquisire schiavi non battezzati. Tuttavia la Chiesa non approvò mai questa equiparazione del cives col battezzato e la conseguente privazione dei diritti naturali del non battezzato. Il coinvolgimento nello schiavismo dei cristiani non può dunque essere imputato all'insegnamento morale della Chiesa stessa. Fino a quando la Cristianità fu chiusa in se stessa e non ebbe contatti con altri popoli – ossia per tutto il Medioevo – non ebbe la tentazione di praticare lo schiavismo in grande stile. L'inizio delle scoperte geografiche invece la rese molto forte. Papa Niccolò IV (1447-1455) proibì – senza grande successo – lo schiavismo ai Portoghesi; Paolo III (1434-1449) lo proibì nelle Americhe; la proibizione fu reiterata più volte, per esempio da Benedetto XIV (1740-1758), ma senza successo particolare. I Padri missionari nelle Americhe si impegnarono per l'emancipazione degli Indios, affermarono che essi erano realmente umani, li evangelizzarono perché il Battesimo li preservasse dalla decadenza nel servaggio, li educarono alla partecipazione sociale nelle Reduciones; un impegno analogo fu poi dispiegato per i Neri. Tuttavia non va passato sotto silenzio il coinvolgimento persino di sacerdoti nella tratta degli schiavi, sebbene essi non esprimevano una posizione etica ufficiale. La fine della società feudale e la nascita dell'industrialismo fece finire il servaggio, anche se inaugurò l'età del proletariato industriale. Perciò nel XIX sec. Gregorio XVI (1831-1846) potè reiterare la condanna severa della schiavitù, sebbene sino agli anni Ottanta dello stesso secolo si precisò la legittimità del servaggio. Ma ormai l'economia andava verso nuove forme, il diritto naturale che si oppone allo schiavismo potè affermarsi ovunque e la Chiesa dovette occuparsi dei problemi della Società industriale. La tratta degli esseri umani, il loro commercio, in genere la loro riduzione ad uno stato equivalente alla schiavitù nello sfruttamento delle loro capacità lavorative o per altri scopi servili ed umilianti, come la prostituzione, sempre a discapito della loro libera scelta, sono gravissimi peccati, contro i quali il Cristianesimo ha sempre agito, diffondendo nel mondo il concetto di dignità umana. Contro di esso oggi è ancora necessaria una forte azione. Quella grande proprietà dell'umanità che è la Creazione esige di essere trattata con rispetto nell'interesse di tutti. Ne trattavamo anche per il V Comandamento. Qui basti aggiungere alcuni concetti di teologia morale ecologica. Innanzitutto che tutte le risorse naturali, minerali, vegetali, animali, sono orientate al bene comune dell'umanità presente e futura. Esse dunque vanno utilizzate secondo criteri etici che non le dilapidino né le depredino, ma le mettano a frutto e le rispettino secondo un criterio religioso: il mondo è il luogo dell'epifania di Dio. Il principio della responsabilità verso le future generazioni di Hans Jonas viene qui sostanzialmente battezzato; l'oblio dell'essere causato dalla tecnica denunciato da Martin Heidegger viene qui stigmatizzato. In quanto poi agli animali, essi sono creature di Dio, vive, alle quali si deve il rispetto che è dovuto alla vita di per sé e a Chi li ha fatti. Essi ci sono stati donati, per cui è lecito, anzi necessario, usarli per nutrirsi (per cui il vegetarianesimo non può essere un precetto morale, né si può riprovare la caccia, anche se la sua pratica solo per il piacere di uccidere, dati anche i tempi di crisi ecologica, non è di per sé virtuosa e può essere da respingere come ogni azione che si compiaccia di schiacciare il capo a una creatura vivente), per ricavarne indumenti, per il lavoro (per cui non si può tacciare di schiavismo l'uso degli animali da soma o simili), per addomesticarli, per sperimentazioni scientifiche ragionevolmente fatte e utili al progresso delle scienze mediche. Essi non sono portatori di diritti morali o giuridici, né valgono come l'uomo, ma è altresì vero che infliggere loro sofferenze inutili, eccessive, sadiche o indiscriminate viola la dignità umana e causa un dolore a dei viventi che, pur non sapendo di soffrire, lo patiscono. Ciò viola la norma di universale benevolenza che contraddistingue il cristiano: non a caso tanti Santi hanno amato le bestie e addirittura la Bibbia presenta gli animali che sono in fedele compagnia di Gesù nel Deserto. E' altresì vero che gli animali non possono essere amati come gli uomini: destinare a loro le attenzioni che spettano agli umani o addirittura la beneficenza è contrario alla morale cristiana e naturale. Essi rimangono sempre dei beni dell'uomo, non sono da considerarsi persone. Nell'ambito della Nuova Alleanza, il VII Comandamento va vissuto alla luce dell'esempio di Cristo, nato e vissuto povero, morto spogliato di tutto, e della Sua asserzione: Beati i poveri di spirito perché di essi è il Regno dei Cieli; va costantemente ricordato che il Signore ha minacciato i ricchi, dicendo loro: Guai a voi, perché avete già la vostra consolazione, mentre ha considerato beati i poveri, perché più facilmente otterranno misericordia ed ospiteranno il Regno in se stessi. Gesù rammenta che più facilmente un cammello passa per la cruna di un ago che un ricco entra nel Regno dei Cieli, ossia ne abbraccia lo spirito, pur soggiungendo che la loro salvezza non è impossibile, perché a Dio nulla lo è. Gesù raccomanda di non negare un prestito a chi ne ha bisogno (Mt 5, 24); di dare gratuitamente come gratuitamente si è ricevuto (Mt 10, 8); afferma che quanto si fa ai poveri è fatto a Lui (Mt 25, 31-46). In ragione di ciò la Chiesa ama i poveri, nel corpo e nello spirito, e sovviene alle loro necessità; analogamente deve fare il cristiano. L'amore per i poveri, che è l'amore per Dio, non si concilia né con la smodata brama di avere né con l'uso egoistico della ricchezza, come insegna l'Apostolo Giacomo (Gc 5, 1-6). L'amore per i poveri, peraltro, non deve spacciare per carità ciò che si deve loro per giustizia: sovvenire alle loro necessità è giustizia da parte di chi molto ha (Lc 3,11), mentre condividere il proprio con loro è carità. Né mai va dimenticato che la povertà perfeziona, ma la miseria degrada. In quest'ottica vanno ricordate quelle Opere di Misericordia corporale e spirituale che già citammo per il V Comandamento e che qui sovvengono alla povertà umana: per le prime, dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare i carcerati, visitare gli infermi, seppellire i morti; per le seconde, consolare gli afflitti, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, perdonare le offese, consigliare i dubbiosi, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti. La pia pratica dell'elemosina, insegnata nella Bibbia, piace a Dio, testimonia la carità, espia i peccati, suffraga i defunti. Sovvenire al bisogno materiale è indispensabile, sia per il bisogno in sé, sia per dare credibilità alla propria testimonianza. La miseria umana, fatta di debolezza, meschinità, ignoranza, malattia, solitudine e ogni altra condizione dolorosa fino al dolore e alla morte, e che è di per sé conseguenza del Peccato d'origine e delle colpe attuali, così diventa occasione di salvezza, di redenzione, di santificazione, perché si compia il piano di Dio il Quale volle che il Peccato fosse depotenziato e sconfitto mediante le sue stesse conseguenze. La povertà non finirà mai in questo mondo, ma questo non ci esonera dal combattere contro di essa, non tanto per estirparla, ma per fare il bene nell'occasione che ci è fornita. Nel moderno contesto sociale, il VII Comandamento non ha perso, anzi ha accresciuto, la sua importanza. E' da esso che si è andato sviluppando la Dottrina Sociale della Chiesa, sulla quale diremo dopo. Qui vanno puntualizzate alcune cose. Anzitutto, che la Rivelazione guida l'uomo all'approfondimento delle leggi che regolano la vita sociale, per cui l'ordine economico è sottoposto anch'esso alla legge morale. Indi, che la Chiesa stessa formula il giudizio etico, laddove sia richiesto dalla tutela dei diritti della persona umana, dal bene delle anime o dalla condanna del peccato. La Chiesa, pur non suggellando col crisma dell'infallibilità straordinaria il suo magistero sociale – come del resto fa per ogni insegnamento etico – e sebbene tale magistero sia suscettibile, per sua natura, di integrazione e modifica essendo soggetto a mutamento ciò su cui esso verte, fornisce alcuni criteri orientativi, sulla cui scia innanzitutto i fedeli laici, e poi tutti gli uomini di buona volontà, possono operare nel campo economico, che è ambito di azione loro proprio. Perciò, anzitutto va detto che ogni sistema per il quale i rapporti sociali sarebbero determinati solo dai fattori economici è contrario alla natura della persona umana. La considerazione del profitto come fine ultimo e regola esclusiva dell'attività economica è moralmente inaccettabile. Il desiderio del denaro senza freni si configura come una delle cause principali delle lotte sociali, per cui è socialmente deleterio. Non è lecito sacrificare i diritti fondamentali delle persone singole e dei gruppi all'organizzazione collettiva della produzione. L'individualismo non è la legge principale dell'economia, né il mercato deve avere il primato sul lavoro umano. La regolamentazione dell'economia mediante la sola pianificazione centralizzata perverte i legami sociali di base. Lo stesso mercato non può regolare tutti i bisogni umani, perché alcuni di essi non sono dotati di accesso al mercato. La vita economica è orientata al servizio della persona umana e della comunità umana; secondo le regole sue proprie dev'essere realizzata secondo la legge morale, rispettando la giustizia sociale, secondo il piano di Dio sull'uomo. Il lavoro prolunga nell'uomo l'attività creatrice di Dio; è la condizione morale e sociale della sopravvivenza (2 Ts 3,10); permette di utilizzare i talenti; può avere valore redentivo se vissuto cristianamente, in unione alle fatiche e alla Croce di Cristo, primo Modello di ogni lavoratore, avendo Egli lavorato per trent'anni; serve alla santificazione personale e all'animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo. Il valore primario del lavoro riguarda l'uomo stesso, per realizzarlo, per cui è finalizzato alla persona e non viceversa. Per esso, ognuno ha il diritto e il dovere di trarre i mezzi di sostentamento di cui ha bisogno per sé e i suoi cari. Ciascuno ha il diritto di iniziativa economica, purchè conformemente alle leggi, che a loro volta non devono imbrigliare tale diritto. I conflitti che inevitabilmente animano la vita economica si devono risolvere per quanto possibile con l'accordo. Lo Stato deve garantire le libertà individuali, le proprietà, la stabilità monetaria e servizi pubblici efficienti; deve sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico, assecondando la prima responsabilità che in materia è anzitutto dei singoli e dei corpi sociali. I responsabili delle imprese sono responsabili moralmente, economicamente ed ecologicamente delle loro azioni innanzi alla società; devono mirare al bene delle persone e non solo al profitto, che pure è necessario per garantire il futuro dell'impresa stessa e dell'occupazione. L'accesso al lavoro deve essere garantito a tutti e lo Stato deve, per quanto possibile, garantirlo e promuoverlo. Il giusto salario è dovuto al lavoratore; esso deve essere atto a soddisfare le giuste esigenze del lavoratore stesso; non può, senza motivo, essere negato o differito; la contrattazione non giustifica salari ingiustamente bassi. Lo sciopero è legittimo, in mancanza di altri mezzi o per necessità, in vista di un vantaggio proporzionato; se invece è accompagnato da violenze, mira ad obiettivi non connessi al lavoro o in contrasto col bene comune, non è morale. Il versamento dei contributi previdenziali stabiliti dalla legge è moralmente doveroso. La privazione del lavoro per disoccupazione è un'offesa alla dignità della persona umana e una minaccia all'equilibrio della sua vita, nonché per quella della sua famiglia, per cui ogni potere competente deve adoperarsi per la piena occupazione. A livello internazionale la disuguaglianza delle risorse e dei mezzi economici è tale da provocare un baratro sociale. Le sue cause configurano una questione sociale di dimensione mondiale. Le Nazioni devono essere solidali tra loro; devono rimuovere le condizioni da circolo vizioso che bloccano lo sviluppo di alcune di loro; i sistemi finanziari abusivi ed usurai, le relazioni commerciali inique, la dilapidazione delle risorse nella corsa agli armamenti vanno energicamente condannati e sostituiti con iniziative stabili per lo sviluppo morale, culturale ed economico, nonché ridefinendo le priorità e le scale di valori. Le Nazioni ricche hanno una grave responsabilità morale nei confronti di quelle che da sole non sono in grado di crescere o addirittura ne sono impedite. L'aiuto diretto è dovuto nelle contingenze gravi ed eccezionali, ma non basta; le riforme istituzionali dell'economia e della finanza internazionali sono necessarie per rendere equi i rapporti con i Paesi meno sviluppati e per sostenerne gli sforzi, specie nell'ambito agricolo, essendo i contadini la maggioranza dei poveri ed essendo le risorse alimentari fondamentali per la sopravvivenza dei popoli e il settore primario quello fondamentale per avviare l'economia. Lo sviluppo completo della società umana sta nella crescita del senso di Dio e nella conoscenza di sé, in quanto solo allora si moltiplicano i beni e si mettono al servizio della persona umana. LA CONDANNA DEGLI IDOLI DEL SECOLO Una menzione particolare meritano le condanne dei sistemi economici contrari alla dottrina cattolica. Sin dalle origini del liberismo economico e della sua diffusione nel mondo cattolico, la Chiesa ne ha censurato gli aspetti deleteri. Gregorio XVI (1831-1846) nella enc. Mirari Vos (1832), in cui condannò ogni forma di liberalismo, fu il primo ad affrontare il tema economico; da lui in poi, ogni intervento papale in materia sociale nelle grandi Encicliche sull'argomento contiene condanne delle devianze del sistema capitalistico, sino agli insegnamenti positivi della costituzione pastorale Gaudium et Spes del Vaticano II (1962-1965) e al Magistero contemporaneo, come vedremo parlando della Dottrina Sociale. L'individualismo economico, il principio del lassaiz faire- lassaiz passaire, l'anarchia del mercato, l'indipendenza dell'economia dalla morale, la deregolamentazione del diritto al lavoro, la mancanza di garanzie previdenziali, l'agnosticismo statale in materia economica, l'industrialismo selvaggio, l'imperialismo economico, la visione positivista della natura, della scienza, della cultura e dello Stato sono gli aspetti più gravemente lesivi della Rivelazione sottesi al capitalismo. Il socialismo e il comunismo sono stati censurati dal beato Pio IX (1846-1878) a partire dalla Qui Pluribus del 1846, fino alla Quanta Cura (1864); Leone XIII (1878-1903) ribadì queste condanne e quelle dell'anarchismo; Pio XI (1922-1939) condannò solennemente il comunismo ateo con la Divini Redemptoris (1937); il ven. Pio XII (1939-1958) in svariate circostanze censurò lo censurò a sua volta; così i suoi Successori il beato Giovanni XXIII (1958-1963) e il servo di Dio Paolo VI (1963-1978), fino al beato Giovanni Paolo II (1978-2005) che si battè in modo leonino per la caduta del gran drago rosso, sin da quando era un semplice sacerdote, ispirando un movimento non violento clandestino che operò in tutto l'Est europeo. Il collettivismo, la lotta di classe, la programmazione economica, l'esproprio proletario, il terrore come mezzo di governo economico, il materialismo storico e dialettico, il plus-valore, la democrazia sostanziale, l'alienazione religiosa, la Rivoluzione e la dittatura del proletariato, la società socialista e comunista, l'ateismo militante sono gli aspetti più gravi del comunismo e del socialismo che il Magistero rigetta. Il fascismo e il nazismo sono stati condannati da Pio XI con la Non abbiamo bisogno e la Mit brennender sorge (1931 e 1937), in cui, in campo politico, è stata rigettata la forma autoritaria di corporativismo che i due regimi statolatrici imponevano e la gestione autocratica delle politiche economiche, specie autarchiche, e l'imperialismo nazionalistico ad essi sotteso, nelle forme specifiche del militarismo e del totalitarismo oltre che nel ripudio dell'influenza morale e religiosa sulla politica. Questi principi furono ribaditi più occasioni da Pio XII. DE CHRISTIANO RERUM OECONOMICARUM ORDINE Brevissima esposizione della teologia etica economica “Non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso” (Dt 15,7) “Chi non vuole lavorare, neppure mangi” (San Paolo) “La pace è risultato della solidarietà” (Beato Giovanni Paolo II) Sull'ordine dell'economia cristianamente inteso il Magistero si è ampiamente diffuso da quando è iniziata la cosiddetta Questione Sociale, poi allargatasi e divenuta questione del sottosviluppo. Attraverso questa riflessione si è configurata la Dottrina Sociale della Chiesa, dapprima come insieme di sole norme economico-sociali, poi come riflessione sistematica sulla politica, sulla società, sull'ambiente. Di questi aspetti ho avuto modo di fare sintesi in precedenza. Qui darò ragione dei temi fondamentali della Dottrina Sociale, ossia il lavoro e l'economia, dopo una breve introduzione storica. GENESI DELLA DOTTRINA SOCIALE Il fondamento della Dottrina Sociale sta nelle prescrizioni bibliche sul Giubileo e sull'Anno Sabbatico, come anche nelle norme morali sulla schiavitù, la proprietà e il prestito presenti nel Pentateuco. Ciò mostra che la Fede illumina e regola la vita economica. Il Vangelo mostra poi la sua predilezione per i poveri, di cui assume la tutela. Alla luce di ciò, nelle dure contingenze della Questione Sociale, quando ormai i guasti dell'industrialismo erano universalmente diffusi, iniziò la teoria di documenti ecclesiali che dovevano illuminare il settore della Luce del Vangelo. Il grande maestro di questa Dottrina fu papa Leone XIII (1878-1903), il cui genio dottrinale si manifestò innanzitutto nella prima enciclica sociale propriamente detta, la Rerum Novarum (1891), il cui valore profetico non è mai sufficientemente sottolineato. Del suo magistero – che si esplicò anche in ambito politico con altre immortali encicliche – la Chiesa visse sino a quando Pio XI (1922-1939), anch'egli prolifico autore di importanti encicliche nelle materie indicate, redasse la Quadragesimo Anno (1931). Il suo Successore, il venerabile Pio XII (1939-1958), pur senza scrivere alcuna enciclica, in numerosi discorsi, allocuzioni, messaggi e soprattutto radiomessaggi delineò i contorni di una società più giusta, di una politica più umana e di una economia moderna e nello stesso tempo moralmente orientata, risolvendo problemi tanto delicati da meritare di essere considerato il maggior esperto di economia politica dei suoi tempi e delle sue elaborazioni morali e giuridiche in campo cattolico. Il beato Giovanni XXIII (1958-1963) scrisse due encicliche sull'argomento, la Mater et Magistra e la Pacem in Terris, rispettivamente del 1961 e del 1963, l'ultima orientata ad allargare il discorso sociale alla questione della pace nel mondo. Il Servo di Dio Paolo VI (1963-1978) fu autore dell'enciclica Populorum Progressio (1967) e della lettera apostolica Octogesima adveniens (1971), che ulteriormente approfondirono il solco pacelliano e giovanneo. Papa Montini poi promulgò i documenti del Concilio Vaticano II (1962-1965), tra i quali la Costituzione pastorale Gaudium et Spes ha una parte significativa sul lavoro e l'economia. Lo stesso Papa assiduamente estese il corpo dottrinale sociale della Chiesa mediante i Messaggi per la Giornata Mondiale della Pace il primo giorno di ogni anno e attraverso l'attività della Pontificia Commissione, oggi Pontificio Consiglio, per la Giustizia e la Pace, non mancando di concretizzarne le indicazioni in iniziative fattive di carità attraverso la Pontificia Commissione, oggi Pontificio Consiglio, Cor Unum. Sul modello di tali istituzioni operano quelle analoghe nate presso le Conferenze Episcopali nazionali e regionali, nonché presso le singole diocesi. Il Beato Giovanni Paolo II (1978-2005) fu sensibilissimo al tema sociale. Vi dedicò tre encicliche, la Laborem Exercens del 1981, la Sollicitudo Rei Socialis del 1987 e la Centesimus Annus del 1991; si profuse su di essa con moltissimi discorsi, allocuzioni, omelie, messaggi, video e radiomessaggi, specie in occasione dei suoi viaggi apostolici, e promulgò il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa (2003). Sua Santità Papa Benedetto XVI ha arricchito la Chiesa con il suo insegnamento sociale contenuto nella lettera enciclica Caritas in Veritate (2009) e non ha smesso dopo di ammonire e consigliare, specie nelle tristi contingenze della Crisi attuale. IL LAVORO CRISTIANO Anzitutto va detto che la Chiesa ha esplicitamente rivendicato il diritto di giudicare se le basi di un dato ordinamento sociale sia in sintonia con l'ordine immutabile che Dio ha manifestato per mezzo del diritto naturale e della Rivelazione, perché le verità dell'una e dell'altra promanano dalla medesima fonte divina (principio di competenza). Indi, va aggiunto che il concetto di diritto naturale, che è alla base della Dottrina Sociale, come del resto della teologia politica, della Chiesa, viene ampiamente sviluppato in relazione ad una realtà dinamica come l'economia. Infatti il Magistero non solo ha ribadito la concezione tradizionale per cui tale diritto è sottoposto a mutazione in seguito alla trasformazione delle circostanze in cui esso è applicato, ma ha anche aggiunto che esso può modificare la definizione dei suoi postulati, dialetticamente interagendo con i fattori esterni, per tramandarne il nucleo immutabile alle generazioni successive, che così in base alle contingenze ne avvertono più o meno forte la cogenza (storicità del diritto naturale). In genere, la Dottrina Sociale, come è espressa nel Compendio delle stessa, verte sul lavoro e sull'economia. Il lavoro umano ha il suo fondamento nel compito affidato da Dio all'Uomo di coltivare e custodire la terra. Esso nasce ancor prima della maledizione della fatica che pur vi è collegata; perciò va onorato quale strumento efficace contro la povertà, anche se non è da idolatrare, perché sempre il Signore è la fine della vita umana. Il vertice dell'insegnamento biblico sul lavoro è la prescrizione del Sabato, che salva l'Uomo dall'asservimento e dallo sfruttamento servile. Perciò è prescrizione perenne, anche in questi tempi di liberismo sfrenato. Gesù stesso è un esempio di lavoro, sia per la Sua Vita, sia per la Sua Predicazione. La conseguenza è il dovere del lavoro, parte integrante della condizione umana. Esso è un'attività pienamente umana. L'uomo, col lavoro, abbellisce e completa l'opera della Creazione. Il lavoro umano ha una altissima dignità. Si configura in una dimensione soggettiva ed oggettiva. La prima è l'agire dinamico e personale del lavoratore; la seconda l'insieme delle attività compiute. Quest'ultima è l'aspetto contingente dell'attività umana. Avendo tuttavia anche una dimensione soggettiva, il lavoro acquisisce la dignità sua propria, non può essere considerato solo una merce né una realtà impersonale dell'organizzazione produttiva, va commisurato alla persona umana, che ne è il metro del valore. Tale dimensione deve avere la preminenza su quella oggettiva. Infatti il lavoro ha nella persona la sua causa e il suo fine. Ha una intrinseca dimensione sociale, perché si compie con e per gli altri. E' un dovere dell'uomo per mantenersi. Conferma infine la profonda identità dell'uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. In ragione di ciò il lavoro è superiore al capitale e ad ogni fattore di produzione; perciò i rapporti tra l'uno e gli altri saranno di complementarietà alla luce della priorità intrinseca del primo sui secondi. Lavoro e capitale sono entrambi legittimi; sono entrambi indispensabili per la produzione; negli odierni rapporti di produzione, il lavoro rimane fattore principale e principale risorsa del sistema economico, per cui il capitale umano si rivaluta con le conoscenze, le competenze, la creatività, la relazionalità e la solidarietà dei lavoratori stessi. Tuttavia è normale che sorgano conflitti sempre nuovi tra capitale e lavoro, che nei tempi moderni, con la nuova tecnologia e la globalizzazione, diventano più deleteri per il lavoratore stesso, e a cui va posto argine rimanendo fedeli a tali principi. Né la diminuzione dell'aspetto materiale del lavoro lo libera dal rischio dell'alienazione: a parte la permanenza condannabile del lavoro nero, del lavoro minorile, del lavoro sfruttato e sottopagato, vi è la tendenza allo stachanovismo e allo sfruttamento di nuovi lavori nonché al carrierismo e alla competitività, vere cancrene dell'uomo contemporaneo. Il superamento di tali conflitti avviene mediante la partecipazione del lavoratore alla proprietà, alla gestione, agli utili dell'impresa. In genere, la proprietà privata e pubblica e i vari meccanismi del sistema economico devono essere predisposti per una economia al servizio dell'uomo, ricordando la destinazione universale dei beni stessi, intesi anche come beni finanziari, tecnici e intellettuali, specie in ordine alle nuove tecnologie. Il riposo festivo è un diritto, naturale e positivo, ma anche divino, prescritto sul Sinai. La Domenica è giorno da santificare con le opere liberali e con l'assistenza ai bisognosi e ai propri cari. Lo Stato deve garantire questo diritto, a partire dal tempo per esercitare il culto divino. Il diritto al lavoro è fondamentale; infatti il lavoro è un bene utile per l'uomo, degno di lui, atto ad esprimere ed accrescere la dignità umana. Esso serve a mantenere chi lo compie e la sua famiglia. Perciò la disoccupazione è una piaga morale. Il lavoro è un bene di tutti, che deve essere disponibile per tutti coloro che ne sono capaci: la piena occupazione è un obiettivo doveroso per la comunità umana; anzi la progettualità sociale si mostra soprattutto con la capacità di dare lavoro ai cittadini. Il mantenimento dell'occupazione dipende invece sempre di più dal doveroso sistema di formazione professionale, che inizia dalla gioventù e dura per tutta la carriera e l'età lavorative. Lo Stato e la Società civile hanno un ruolo importante nella promozione al diritto al lavoro. Il primo deve promuovere politiche attive in materia, non assicurando tanto direttamente il diritto al lavoro dei cittadini, né irreggimentando la vita economica o mortificando la libera iniziativa, ma piuttosto assecondando la libera impresa e creando occasioni di lavoro e stimolandole e sostenendole all'occorrenza, specie nelle crisi economiche. In ragione delle dimensioni planetarie delle relazioni economiche e finanziarie, nonché del mercato del lavoro, si deve promuovere una efficace collaborazione tra gli Stati in materia. Di capitale importanza è che la società sia sempre libera di auto-organizzarsi senza inframmettenze fuori luogo della comunità statale. Il diritto al lavoro è strettamente connesso alla famiglia, perché ne è il naturale fondamento patrimoniale. Un diritto particolare è da riconoscere alle donne, la cui presenza va garantita e tutelata. Il lavoro minorile nelle sue forme intollerabili è una violenza che va combattuta. L'emigrazione può essere una risorsa e non un ostacolo per lo sviluppo. Essa non deve essere causa di sfruttamento, anzi i diritti elementari degli immigrati, compreso quello al ricongiungimento familiare, vanno promossi. Nel mondo agricolo, il diritto al lavoro si collega alla primarietà del settore produttivo in questione e alle sfide connesse alla globalizzazione. Ancora in varie parti del mondo è necessaria una politica delle riforme agrarie che crei una piccola e media proprietà produttiva. I lavoratori hanno dei diritti che si basano sulla dignità umana naturale e trascendente. Essi sono essenzialmente quello alla giusta remunerazione, al riposo, alla salubrità fisica e morale degli ambienti di lavoro e dei processi produttivi, alla salvaguardia della propria personalità, della propria coscienza, della propria dignità, alle sovvenzioni convenienti indispensabili per i periodi di disoccupazione, alla pensione, all'assicurazione per la vecchiaia, per la malattia e per gli incidenti sul lavoro, alle garanzie per la maternità e la paternità, alla riunione e all'associazione. Essi sono stati elencati soprattutto dal beato Giovanni Paolo II nella Laborem Exercens; ancora si deve lavorare perché siano universalmente rispettati. In particolare la remunerazione è lo strumento più importante per la realizzazione della giustizia nel lavoro stesso. Infatti il benessere di un Paese non sta solo nella produzione di beni ma nel modo della loro produzione e nell'equità della distribuzione del reddito. Ciò si persegue anche mediante adeguate politiche sociali. Il diritto di sciopero è legittimo, quando si esercita in vista di un vantaggio proporzionato e senza valide alternative per la soluzione dei conflitti che possano essere sperimentate. La solidarietà tra i lavoratori è fondamentale. I sindacati sono la concretizzazione del diritto all'associazione propria dei lavoratori stessi e il mezzo per il conseguimento dei loro obiettivi legittimi di promozione e difesa. I rapporti tra lavoratori e tra essi e imprenditori sono da basarsi sulla cooperazione e non sull'odio e la lotta, che invece sono inaccettabili. La lotta di classe non è il motore della storia, sebbene la dialettica sociale implichi contrasti anche tra gruppi diversi censitariamente. Il sindacato deve svolgere funzioni di promozione della lotta per la giustizia, di difesa e di rivendicazione, di rappresentanza, di educazione. Le nuove forme di solidarietà legate al rinnovamento del sindacalismo dipendono dai cambiamenti sociali e sono doverose, estendendosi non solo ai lavoratori tradizionali ma a coloro che hanno contratti atipici o a tempo determinato, che sono a rischio per fusioni aziendali, che sono disoccupati, che sono stagionali, che sono stati espulsi dal mercato per mancanza di aggiornamento e che non possono rientrarvi senza riqualificazione. Le nuove caratteristiche del mondo del lavoro esigono un discernimento attento. La globalizzazione ha ridislocato le agenzie e le fasi connesse del lavoro stesso, separando i luoghi della produzione da quelli della gestione. Tale fenomeno coinvolge milioni di persone, spesso in mercati del lavoro più disagiati. Non raramente tali decentramenti sono stati strumenti di imperialismo economico e di neocolonialismo, mentre sono avvenuti mediante l'uso di tecnologie obsolete e di materiali inquinanti, specie nei Paesi del Terzo Mondo, che hanno, anche in ragione di ciò, subito e subiscono un depredamento delle loro risorse e una loro valutazione inferiore al loro valore. Se le tecnologie moderne possono attutire l'impatto ambientale e se l'aumento di capitale può attenuare le disparità tra i lavoratori di vari continenti, questa ridislocazione può essere gestita in modo politicamente ed eticamente corretto, e quindi economicamente e socialmente benefico, solo in un modo. Ad essa deve conseguire la globalizzazione dei diritti stessi minimi, dell'equità, delle tutele. Vanno calibrati gli effetti della frammentazione del ciclo produttivo, promossa per maggiore efficienza e più alti profitti, sempre nell'ottica di una estensione delle garanzie legali al lavoratore e nel ripensamento del sistema delle tutele che non va abolito ma adattato alle situazioni nuove, senza cedere alle sirene del neoliberismo. La liberalizzazione dei mercati, l'accentuazione della concorrenza, l'aumento delle imprese specializzate in prodotti e servizi, legate alla globalizzazione, producono una materia delicata alla quale va garantita la giusta attenzione: la flessibilità del mercato del lavoro, con i processi produttivi e organizzativi connessi; essa esige una gestione innovativa ma sempre fedele ai principi etici faticosamente raggiunti. La transizione dal posto fisso al posto variabile, dovuta al passaggio dall'economia industriale a quella dei servizi e dell'innovazione, con la conseguente scomparsa di intere professioni e la nascita di nuove, va liberata dalle conseguenze deleterie della competitività esasperata e dell'incertezza dei flussi del capitale finanziario, che non è e non dev'essere trattato come il signore dell'economia; tali fenomeni deleteri fanno sentire il loro peso specie nelle zone meno sviluppate, che quindi esigono una maggior tutela che però al momento non c'è o vi è in scarsissima misura. Il decentramento produttivo da grandi unità d'impresa a molteplici piccole aziende, fa acquistare vigore a queste ultime e rende più umane e creative le condizioni del lavoro. Un ambiente propizio a questo tipo di condizioni si ha in genere nelle piccole e medie imprese, nell'artigianato, nel lavoro indipendente; in tali ambienti bisogna quindi combattere sfruttamento, ingiustizia e precarietà. Il fenomeno delle attività informali o sommerse, in crescita nelle aree in via di sviluppo, va sorretto con un impegno etico e giuridico che lo liberi dalle condizioni di disagio e incertezza che spesso lo caratterizza a causa delle condizioni socio-economiche dei luoghi dove avviene. La Dottrina Sociale, innanzi alle continue trasformazioni del lavoro, le res novae di leonina memoria, ricorda che esse non accadono mai in modo deterministico, ma dipendono dall'uomo, il quale, considerando sempre il primato ontologico, sociologico, giuridico, economico, politico e morale della dimensione soggettiva del lavoro stesso, deve agire in modo tale da giovare al bene di tutti e ognuno, mediante creatività e responsabilità. Infatti le analisi economicistiche e meccanicistiche dell'attività produttiva, sebbene influenti e prevalenti, sono di fatto superate dalle problematiche lavoristiche considerate in se stesse. Perciò vanno superate con intelligenza e coraggio, pena catastrofi maggiori di quelle che pretendono di risolvere. Il regolo è il rispetto dei diritti inalienabili dei lavoratori pur nel cambiamento delle forme del lavoro stesso. La ricerca scientifica e intellettuale è perciò indispensabile per affrontare le nuove sfide in modo proficuo e morale. Gli scenari attuali esigono con maggiore urgenza il coinvolgimento di tutte le aree del pianeta nello sviluppo solidale. Gli squilibri si superano mettendo sempre al primo posto la dignità della persona che lavora. Questo, nel quadro globalizzato, permettono di immaginare la prospettiva di un umanesimo planetario del lavoro stesso. LA VITA ECONOMICA CRISTIANA La considerazione teologico-morale dell'economia parte innanzitutto da ciò che di essa dice la Rivelazione. Nella Bibbia viene considerato il plesso tematico uomo-povertà-ricchezza. L'AT presenta i beni materiali come necessari per la vita, tanto che l'abbondanza – nelle austere forme della società patriarcale o anche dello sfarzoso impero davidico-salomonico- è considerata una benedizione divina per il virtuoso (cosa predicata ancora oggi dalla Chiesa presbiteriana calvinista); tuttavia condanna senza mezzi termini il loro cattivo uso. Coloro che, ricchi o poveri, riconoscono la loro radicale povertà dinanzi a Dio e il loro assoluto bisogno di Lui in tutte le loro cose sono i Suoi anawim, i Suoi poveri, quelli che Gesù chiamerà i Poveri di spirito; essi hanno la speciale attenzione del Signore, Che si prende cura di loro in modo particolare. Gesù stesso è un anawim, come Sua Madre o il Suo Padre putativo o gli Apostoli. Modello di povertà, nato povero, vissuto povero, morto poverissimo, il Signore Gesù con la Sua Redenzione ha liberato l'uomo dal peccato mettendolo in condizione di operare per il bene dei fratelli, contro l'ingiustizia, l'oppressione, l'afflizione, la miseria, la diseguaglianza. Quando ciò accade, si compie la profezia escatologica del Regno vaticinata dai Profeti. Se il Regno di Dio non è uno Stato né una società perfetta, esso si realizza progressivamente anche nella miglioria delle forme della convivenza umana. La Rivelazione considera l'economia come la doverosa risposta dell'uomo alla vocazione concessagli da Dio di custodire e coltivare l'Eden, ossia il Creato. Ciò avviene se l'attività economica e il progresso sono al servizio dell'uomo stesso. In tal maniera l'uomo arricchisce innanzi a Dio anche se gli tocca di produrre ricchezza, nonostante essa spesso sia, a causa della concupiscenza, mezzo di peccato e fomite di tentazione. La Fede dunque rende possibile una corretta comprensione dello sviluppo giungendo ad un umanesimo integrale solidaristico. Un altro tema che la Rivelazione tratta è quello della finalità della ricchezza, ossia la condivisione. Essa infatti, legittimamente posseduta, è orientata sempre alla destinazione universale propria di tutti i beni; non deve essere accumulata indebitamente; non deve né soddisfare né alimentare l'attaccamento ad essa, che è causa di tutti i mali; deve produrre perciò benefici per gli altri e per la società, come costantemente rammentano i Padri; deve essere considerata, da chi la possiede, come un bene da amministrare e non da tenere gelosamente, perché dare a chi ha bisogno è atto di giustizia e non di carità e perché trattenerle per sé contrariamente a ciò è un atto peccaminoso, come ammoniva Gregorio Magno. Alla luce di ciò, la Dottrina Sociale ha impostato i rapporti tra morale ed economia. Sebbene l'una e l'altra siano distinte e separate, non sono eteronime, anzi le leggi morali hanno la preminenza su quelle economiche, perché le informano e le conducono allo scopo loro proprio, sia nell'ambito specificamente produttivo che nell'ordine umano naturale e soprannaturale nel suo complesso. Efficienza economica e promozione dello sviluppo solidale dell'umanità sono dunque finalità inscindibili. E' pertanto doveroso produrre in modo efficiente, per non sprecare risorse, com'è ingiusta una crescita economica per alcuni attraverso l'indigenza e l'esclusione di altri, se non della maggioranza. La moralità dell'economia passa dunque attraverso il riconoscimento del diritto di tutti a parteciparvi e al dovere di contribuirvi, come singoli, gruppi, popoli e nazioni. L'oggetto proprio dell'economia è la formazione e l'incremento della ricchezza sia nella quantità che nella qualità, ossia orientandola allo sviluppo globale e solidale dell'uomo e della società. Perciò il consumismo, che gonfia singoli e popoli di beni senza valori, è una piaga morale, così come lo è dell'economia, perché si regge sullo sforzo irrealizzabile di un arricchimento continuo e sulla sperequazione tra chi ha e chi non ha. In tale ottica, il capitalismo viene rigettato come sistema che rifiuta le regole giuridiche atte a garantire il nucleo antropocentrico e morale dell'economia stessa. Se però esso indica un sistema che riconosce il valore dell'impresa, del mercato, della proprietà privata, della responsabilità nell'uso dei mezzi di produzione, della libertà e della creatività umana in economia, allora è accettabile ed è l'economia libera, d'impresa e di mercato che la Chiesa accetta nel mondo contemporaneo. Relativamente all'iniziativa privata e all'impresa, la Chiesa considera la libertà dell'iniziativa economica un valore fondamentale e un diritto inalienabile da promuovere, che tutti hanno. Lo Stato deve porre le condizioni perché tale iniziativa sia compibile nello spazio più ampio possibile, avendo cura di porre argine alle sole attività economiche che, per la loro natura o le loro modalità, sono incapaci di perseguire il bene comune. La dimensione creativa è essenziale all'agire umano anche imprenditorialmente, sia come progettazione che come innovazione. Perciò il ruolo dell'iniziativa privata e dell'imprenditorialità sono fondamentali. L'impresa ha dei fini suoi propri ordinati moralmente: la capacità di servire il bene comune mediante la produzione di beni e l'elargizione di servizi; svolgere funzione sociale, mediante l'incontro, la collaborazione, la valorizzazione di chi è coinvolto in essa; configurarsi ad un tempo come società di capitali e di persone, che realizza gli obiettivi economici suoi propri con i mezzi adatti senza sacrificare i valori umani e cristiani che permettono la crescita della società; tenere fisso, in tutti coloro che vi hanno parte, il principio per cui essa opera come bene comunitario e non di parte (ciò si vede più facilmente nelle cooperative, nelle piccole e medie imprese, nelle aziende artigianali e in quelle agricole a dimensione familiare); raggiungere il profitto armonizzandolo con la tutela della dignità delle persone che collaborano all'impresa stessa. In relazione a ciò, va puntualizzato che qualunque profitto deve essere equo e che l'usura è immorale; altresì la pratica usuraia nei commerci che causa fame e morte degli esseri umani è un omicidio indirettamente imputabile a chi la compie. Ciò vale anche per le relazioni tra gli Stati in cui quelli più ricchi vessano i più poveri con sistemi finanziari abusivi. L'usura, che strangola tante vite, spesso in modo legale, è un crimine spregevole. Fine particolare dell'impresa oggi è sapersi assumere responsabilità nuove e maggiori rispetto al passato, nel quadro di campi di azione sempre più ampi, in cui tutti o progrediscono o di fatto regrediscono. L'imprenditore e il dirigente d'azienda ha un ruolo legato alla necessaria e sana competizione tra le imprese, in cui tutti tendono ai medesimi scopi cercando ciascuno mezzi più opportuni. La responsabilità dirigenziale ed imprenditoriale, al centro dei molteplici legami che caratterizzano l'impresa stessa, esige uno sforzo costante sia tecnico, sia formativo, sia morale. Chi dirige deve tener conto dell'obiettivo economico, dell'efficienza, della cura del capitale e dei mezzi d'impresa, della dignità umana dei sottoposti. Devono concepire i rapporti aziendali come familiari, ma non solo in senso retorico. Importanti sono la tutela della maternità, della qualità delle merci, dei servizi da erogare, dell'ambiente e della vita in genere, oltre che la valorizzazione, mediante investimento, dei luoghi e dei settori produttivi bisognosi di crescita e ricchi di risorse umane e naturali. Le istituzioni economiche devono essere al servizio dell'uomo. In ragione di ciò, lo sfruttamento delle risorse, sia umane che naturali, deve avvenire in base al principio di economicità, per cui esse vanno usate con la consapevolezza che sono limitate e che non sono solo per la generazione presente ma anche per quelle future. Il libero mercato è socialmente importante perché garantisce la produzione efficiente di beni e servizi, per cui in molte circostanze, così com'è accaduto in passato, esso sia lo strumento più efficiente per collocare le risorse e rispondere ai bisogni. Un mercato realmente concorrenziale è strumento efficace per moderare gli eccessi di profitto, rispondere alle esigenze dei consumatori, realizzare un miglior utilizzo e un risparmio delle risorse, premiare gli sforzi imprenditoriali e l'innovazione, far circolare l'informazione per confrontare e acquistare i prodotti in regime di sana concorrenza. E' dunque un vero deterrente alle storture dei monopoli e degli oligopoli gestiti dai trust e dai cartelli delle multinazionali e delle trasnazionali. Il libero mercato si giudicherà quindi sia l'utilità individuale che garantisce all'operatore che per l'utilità sociale, mediante il raggiungimento degli scopi di cui sopra, con la responsabilità determinante della coscienza individuale e all'occorrenza dei pubblici poteri. In pratica le leggi morali a cui il mercato dev'essere ancorato sono i mezzi che ne circoscrivono lo spazio legittimo di autonomia. Perciò è importante il quadro giuridico di riferimento, sia per sviluppare tutte le potenzialità positive del mercato, sia perché esso da solo non può soddisfare tutti i bisogni umani, tra i quali gli sfuggono proprio quelli più alti, i morali, gli intellettuali, gli spirituali. L'azione dello Stato e degli altri poteri pubblici deve conformarsi al principio di sussidiarietà e creare situazioni favorevoli all'attività economica, nello spirito della solidarietà e ponendo argine a quelle autonomie economiche che possono prevaricare sui più deboli. Ciò avviene attraverso il quadro giuridico di riferimento che lo Stato vara. Esso è complementare al mercato libero, perché ne definisce e ne orienta lo sviluppo, ne fa rispettare le regole eque, vi interviene in caso di necessità in modo diretto per il tempo necessario per stimolarne l'efficienza e per la redistribuzione delle ricchezze. Esso può sollecitare cittadini e imprese alla promozione del bene comune attuando una politica economica che favorisca la partecipazione di tutti alle attività produttive. Sempre però mediante razionalità, equità, efficienza e senza surrogare l'azione dei singoli. Il fisco e la spesa pubblica devono essere orientati allo sviluppo e alla solidarietà. La finanza pubblica a sua volta è orientata al bene comune se si fonda sul pagamento delle imposte come specificazione della doverosa solidarietà, sulla razionalità e sull'equità dell'imposizione dei tributi, sul rigore e sull'integrità dell'amministrazione e della destinazione delle risorse pubbliche. I corpi sociali intermedi possono contribuire al conseguimento del bene comune mediante la collaborazione e la complementarietà con lo Stato e il mercato, per lo sviluppo della democrazia economica. Un ruolo importante hanno le organizzazioni private senza fini di lucro, che devono coniugare efficienza produttiva e solidarietà. Esse sono parte integrante della vita socio-economica e lo Stato deve rispettarne la natura propria. Per quanto concerne poi il risparmio e i consumi, vanno posti alcuni principi. Anzitutto, tenendo presente l'influsso importante che i consumatori, con la loro legittima scelta tra consumo e risparmio, possono legittimamente orientare l'economia. Indi, che tale potere di acquisto va esercitato nel contesto morale e delle responsabilità sociali: ossia il dovere della carità, sia col superfluo che con parte del necessario quando indispensabile; quello di indirizzare rettamente i comportamenti produttivi mediante una giusta scelta tra beni realizzati in modo onesto e quelli fatti invece disonestamente, a scapito di chi li compra e di chi li produce, oltre che dell'ambiente di produzione stesso; quello di aver sempre presente che lo stile di vita deve essere orientato a Cristo o almeno alla verità, alla bellezza e alla bontà naturali, oltre che alla comunione tra gli uomini, così da determinare alla luce di tutto ciò le scelte dei consumi, degli investimenti e dei risparmi. Le res novae legate alla globalizzazione sono il marchio economico e finanziario del nostro tempo. Esse alimentano speranze ma pongono interrogativi. Notevoli sono i benefici delle telecomunicazioni planetarie. Altrettanto macroscopici purtroppo i segni dell'aumento della disuguaglianza, della povertà assoluta e di quella relativa, a causa delle dimensioni delle nuove relazioni commerciali e finanziarie; è doveroso invece lavorare globalmente per redistribuire le risorse tra le aree più ricche e quelle più povere del pianeta, aiutando chi è rimasto ai margini o addirittura fuori dello sviluppo: la meta è una globalizzazione senza marginalizzazione, solidale. Il commercio internazionale è una componente fondamentale delle relazioni economiche planetarie, perché contribuisce alla specializzazione produttiva e alla crescita economica. Perciò, come tutte le relazioni economiche internazionali, deve perseguire il bene comune, rispettare la destinazione universale dei beni, garantire l'equità, essere attento ai bisogni e ai diritti dei più poveri nelle politiche commerciali e di cooperazione internazionale. Diversamente, i poveri saranno sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi. In tale ottica la globalizzazione esige la difesa solidaristica dei diritti umani. Essa deve essere adeguatamente supportata dalle organizzazioni della società civile, chiamate a nuove e complesse responsabilità. Non deve configurarsi come un nuovo colonialismo e deve rispettare le diverse culture. Deve fondarsi sulla solidarietà generazionale, specie evitando di scaricare sui nostri discendenti i costi dello sviluppo e la dilapidazione delle risorse, oltre che l'inquinamento ambientale. Il sistema finanziario internazionale si basa sul mercato finanziario, senza il quale mai si sarebbe avuta vera crescita economica. Il mercato globale dei capitali ha reso possibile la disponibilità di maggiori risorse per le attività produttive; ha tuttavia accresciuto il rischio di crisi finanziarie per la sua aumentata mobilità. Lo sviluppo della finanza, che ha spesso transazioni superiori in valore a quelli dell'economia reale, rischia di diventare autoreferenziale, senza legami con la ricchezza concreta, causando crisi simili a quella che viviamo. Essendo così priva di legami con i bisogni concreti, questa economia finanziaria non serve l'economia reale né lo sviluppo dell'uomo. Ciò implica gravissime responsabilità morali, in ordine alle cause ed agli effetti di tutto il sistema. Esso deve essere stabilizzato, senza ridurne l'efficienza, in un quadro normativo, tagliato sulle nuove esigenze, legate all'aumento del valore dei portafogli amministrati dalle istituzioni finanziarie e alla proliferazione di nuovi strumenti finanziari più sofisticati di quelli tradizionali. La comunità internazionale deve accrescere il suo ruolo in tali processi, così da compensare la perdita di importanza dei singoli Stati in essi; questi sono condizionati dai grandi operatori finanziari e privi di difesa dalle connessioni tra gli operatori globali. La regolamentazione dei processi economici e finanziari su scala globale esige una regolamentazione finalizzata al bene comune dell'umanità che solo la comunità internazionale può fare, agendo in sussidiarietà con gli Stati sovrani. E' dunque necessaria una globalizzazione della politica, economica innanzitutto, al servizio dei valori etici. Tutti questi attori dell'economia, così descritti, hanno il compito fondamentale di raggiungere uno sviluppo integrale e solidale per l'umanità. Esso gioverà anche per i Paesi ricchi, meritevoli per la creazione di sviluppo ma spesso colpevoli per averlo fatto a spese dei più deboli. Tale fine sarà raggiungibile solo se si provvederà ad una grande opera educativa e culturale che metta l'economia nel quadro dello sviluppo umano complessivo, il cui fine ultimo è sempre Dio, autore e perfezionatore di quanto esiste di buono. LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CARITAS IN VERITATE Nell'enciclica Caritas in Veritate (CIV), l'ultima sulla Dottrina Sociale e la prima dopo la pubblicazione del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, il papa Benedetto XVI àncora l'azione sociale a qualcosa di più alto della giustizia e di più profondo della società, dicendo che "la carità è la via maestra della Dottrina Sociale della Chiesa". Per evitare il rischio di fraintendere e di estromettere la Verità – che è Cristo stesso- dal vissuto etico, la CIV ammonisce che: "un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali". "Lo sviluppo ha bisogno della verità " - scrive Benedetto XVI e si sofferma su due criteri orientativi della morale: la giustizia e il bene comune. Ogni cristiano è chiamato alla carità anche per incidere nella vita della polis. "La Fede cristiana – si legge nella CIV - "si occupa dello sviluppo non contando su privilegi o su posizioni di potere (...) ma solo su Cristo". Il Pontefice evidenzia che "le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale", ma sono innanzitutto nella volontà, nel pensiero e ancor più "nella mancanza di fraternità tra gli uomini e i popoli". Vi è dunque un legame fortissimo tra l'azione sociale e la responsabilità morale individuale, tra il progresso de la conversione. L'esclusivo obiettivo del profitto "senza il bene comune come fine ultimo rischia di distruggere ricchezza e creare povertà". Da esso derivano le distorsioni dello sviluppo: un'attività finanziaria per lo più speculativa, i flussi migratori spesso solo provocati e poi mal gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della terra. Dinnanzi a ciò la CIV invoca una nuova sintesi umanistica, constatando che cresce la ricchezza mondiale ma aumentano le disparità e nascono nuove povertà. Sul piano culturale le possibilità di interazioni aprono nuove prospettive di dialogo, ma vi è il rischio di un eclettismo culturale in cui le culture vengono considerate sostanzialmente equivalenti. Poi vi è il rischio dell'appiattimento culturale, dell'omologazione degli stili di vita. Benedetto XVI rivolge poi il pensiero allo "scandalo della fame" ed auspica "un'equa riforma agraria nei Paesi in via di Sviluppo". Infatti il rispetto per la vita non può essere disgiunto dallo sviluppo dei popoli ed avverte che quando una società s'avvia verso la soppressione della vita non trova più motivazioni per adoperarsi a servizio del bene dell'uomo. Benedetto XVI tesse poi un elogio dell'esperienza del dono, spesso non riconosciuta a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. Lo sviluppo deve invece "fare spazio al principio di gratuità". Ciò vale in particolare per il mercato. La CIV indica la necessità di un sistema a tre: mercato, Stato e società civile e incoraggia una "civilizzazione dell'economia". Servono "forme economiche solidali". Vi è poi una nuova valutazione del fenomeno globalizzazione, a cui serve "un orientamento culturale personalista e comunitario, aperto alla trascendenza" capace di correggerne le disfunzioni. Governi e organismi internazionali non possono dimenticare l'oggettività e l'indisponibilità dei diritti. Al riguardo, si sofferma sulle problematiche demografiche. Gli Stati sono chiamati a varare politiche che promuovano la centralità della famiglia. L'economia ha bisogno per il suo corretto funzionamento, di un'etica amica della persona. La stessa centralità della persona deve essere il principio guida negli interventi della cooperazione internazionale. Gli organismi internazionali dovrebbero interrogarsi sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici, spesso troppo costosi. Infine la CIV si sofferma sulle problematiche energetiche. L'accaparramento delle risorse da parte di Stati e gruppi di potere costituisce un grave impedimento per lo sviluppo dei Paesi poveri. Le società tecnologicamente avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico, mentre deve avanzare la ricerca di energie alternative. Benedetto XVI evidenzia che "lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia". D'altronde, la religione cristiana può contribuire allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella sfera pubblica. Il Papa fa quindi riferimento al principio di sussidiarietà, che offre un aiuto alla persona attraverso i corpi intermedi. La sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista ed è adatta ad umanizzare la globalizzazione. La CIV esorta poi gli Stati ricchi a destinare maggiori quote del Prodotto Interno Lordo per lo sviluppo, rispettando gli impegni presi. Auspica un maggiore accesso all'educazione e ancor più alla formazione completa della persona rilevando che, cedendo al relativismo, si diventa più poveri. Un esempio, scrive, ci è offerto dal fenomeno perverso del turismo sessuale. "E' doloroso constatare - osserva - che ciò si svolge spesso con l'avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore". Il Papa affronta poi il fenomeno delle migrazioni. Ogni migrante è una persona umana che possiede diritti che vanno rispettati da tutti e in ogni situazione. Il Pontefice volge poi un pensiero all'urgenza della riforma" dell'O.N.U. e "dell'architettura economica e finanziaria internazionale. Urge "la presenza di una vera 'Autorità politica mondiale'" che si attenga "in modo coerente ai principi di sussidiarietà e di solidarietà". La CIV mette poi in guardia dalla pretesa prometeica secondo cui "l'umanità ritiene di potersi ricreare avvalendosi dei 'prodigi' della tecnologia". La tecnica non può avere una libertà assoluta. Campo primario "della lotta culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è oggi quello della bioetica". "La ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione della propria onnipotenza". La questione sociale diventa questione antropologica. Si paventa "una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite". Il Papa sottolinea infine che lo sviluppo "ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace". Alla luce di questo insegnamento, l'ultimo documento magisteriale sulla Dottrina Sociale, la Nota per una riforma del sistema finanziario e monetario internazionale nella prospettiva di una autorità pubblica a competenza universale, del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, pubblicata nel 2011, analizza il sistema economico e le sue diseguaglianze, denuncia la matrice liberista degli errori della politica economica e finanziaria alla base della crisi in atto, nonché la stretta connessione tra mancanza di governance nella globalizzazione e l'incremento delle diseguaglianze economiche tra le varie aree del pianeta, in costante incremento proprio per tale motivo; ribadisce perciò la condanna del liberismo economico, dell'utilitarismo, dell'individualismo e del tecnocraticismo. Quest'ultimo pretende che la nuova questione sociale ruoti solo attorno a problemi economici in senso stretto, impostando la presunta soluzione dei problemi in modo tale da alimentare nuovi conflitti sociali. A questa idolatria del mercato e alla pretesa che esistano soluzioni neutre indipendenti dalle valutazioni morali e ineluttabili per i loro effetti, a loro volta postulati della pretesa di aver individuato in modo esatto ogni legge economica, indipendente altresì dall'arbitrio umano, la Chiesa oppone l'etica della solidarietà. Rinnova il forte auspicio alla creazione di un'autorità mondiale competente in materie simili. Tale necessità appare evidente, se si pensa all’agenda delle questioni da trattare a livello globale: pace e sicurezza; disarmo e controllo degli armamenti; promozione e tutela dei diritti fondamentali dell’uomo; governo dell’economia e politiche di sviluppo; gestione dei flussi migratori e sicurezza alimentare; tutela dell’ambiente. In tutti questi ambiti risulta sempre più evidente la crescente interdipendenza tra Stati e regioni del mondo e la necessità di risposte sistematiche e integrate, ispirate dalla solidarietà e dalla sussidiarietà e orientate al bene comune universale. La formazione dell'autorità mondiale dovrà essere graduale, ma inesorabilmente tenderà a sottrarsi ai condizionamenti delle lobbies, la cui influenza è spesso nefasta negli Stati e nel mondo. Perciò dovrà nascere da un impegno sociale a forte connotazione morale, perché non sia imposta ma condivisa e valutata come necessaria e proficua. Essa può scaturire solo dal multilateralismo e garantirebbe sia la governance che lo shared government, ossia la terzietà dell'esercizio dell'autorità stessa. Infatti il grosso dei problemi viene proprio dalla mancanza della riforma del sistema finanziario e monetario internazionale in vista delle esigenze di tutti i popoli. Ciò dipende dalla fine dell'efficienza delle istituzioni come il FMI, che non mantiene più la stabilità del sistema monetario internazionale, e dalla mancanza di un corpo di regole minimo condiviso in materia di gestione del mercato finanziario globale. Sono necessarie quindi istituzioni nuove, in prospettiva di una Banca Centrale Mondiale. E' altresì opportuno riflettere sulle prospettive positive legate alle possibilità di tassare le transazioni finanziarie, sia pure equamente, specie sui mercati secondari, al fine di costituire una riserva mondiale che sostenga le economie deboli; sulla ricapitalizzazione delle banche con fondi pubblici premiando i comportamenti virtuosi; sulla definizione degli ambiti del credito ordinario e dell'investment banking, per controllare i mercati-ombra. Tali cambiamenti potranno affermarsi solo con ampio consenso ma sono assai necessari, per cui è bene formare i nuovi quadri dirigenti in modo favorevole ad essi. L'alternativa è una nuova dispersione babelica dei popoli, non per le lingue, ma per le economie, in contraddizione alla vocazione del Cristianesimo, che invece mira all'unità pentecostale del genere umano, e quindi anche della sua attività economica. ADNEXUM II DE NATURALE IURE Appunti di teologia del diritto naturale “La legge eterna viene partecipata dalla legge naturale secondo la capacità della natura umana” (San Tommaso d'Aquino) Il discorso sul diritto naturale è stato affrontato di sbieco più volte, sia quando abbiamo parlato della teologia politica che di quella sociale che di quella economica della Chiesa. Lo abbiamo accennato nell'introduzione alla morale, distinguendo la sfera giuridica da quella etica propriamente detta. Ne abbiamo fatto menzione considerando come il nucleo etico del monoteismo sia rimasto immutato attraverso le differenti concezioni giuridiche e culturali della libertà di coscienza, o a proposito del diritto di difesa esplicato attraverso fasi storiche più o meno violente, o anche in relazione alla concezione dei diritti umani nei periodi storici in cui si applicava la tortura o in base alle oscillazioni del comune sentire più o meno favorevoli alla prassi della pena di morte, fino al problema della schiavitù. In ragione di ciò, al termine della trattazione dei Comandamenti IV, V e VII e dei temi annessi di politica, società ed economia, diamo una sintesi dei principi, sistemati soprattutto da San Tommaso d'Aquino (1221-1274), su cui si regge la concezione giusnaturalistica. Anzitutto va detto che l'uomo è natura razionale, capace di conoscere. Perciò conosce il suo fine supremo, ossia Dio, inteso come Summum Bonum. Siccome però l'uomo conosce solo questo sommo bene ma non ne fruisce, anche se sa che una cosa non è conforme ad esso, può arrivare a compierla. E' per questo che la ratio est causa libertatis. Perciò l'uomo pecca quando deliberatamente si distacca da quei principi etici che pur comprende per una inclinazione naturale, la sinderesi. Tommaso distingue tre tipi di legge: l'aeterna, la naturalis e la humana. La prima è il piano razionale di Dio, l'ordine della Provvidenza, noto solo a Lui e a pochi eletti. Una parte di essa è partecipata all'uomo, in quanto razionale. Tale partecipazione è la legge naturale. Il suo nucleo sta nel fatto che si deve fare il bene e fuggire il male. Bene è, per ogni ente, la propria conservazione, seguire l'insegnamento universale della natura – come l'unione di maschio e femmina e l'educazione della prole; in genere, la legge naturale è la forma stessa della razionalità. Legata alla legge naturale è la legge umana. Questa è giuridica, ossia è diritto positivo, posto dall'uomo stesso. Gli uomini, animali sociali, pongono le leggi per dissuadersi dal male. Come ogni legge è qualcosa che è pertinente alla ragione, giacchè quest'ultima stabilisce i mezzi per i fini e ne vede l'ordine, così la legge umana è l'ordine promulgato dalla collettività o da chi ne ha cura, in vista del bene comune. La legge umana deriva dalla naturale in due modi: per deduzione – ossia per conclusioni – o per specificazioni di leggi generali – ossia per determinazioni. Nel primo caso abbiamo lo ius gentium, il diritto delle genti, nel secondo lo ius civile, il diritto civile. Così lo ius gentium proibisce l'omicidio, il furto, l'adulterio, la calunnia; quale pena però debba essere inflitta a chi compie queste azioni è stabilito dallo ius civile, ed è applicazione storica e sociale di una legge naturale specificata e fissata nello ius gentium. Essendo derivati logicamente dalla legge naturale, i precetti dello ius gentium possono essere conosciuti a prescindere da una indagine storica sui diversi tipi di società, mentre ciò non vale per i principi dello ius civile. Se i precetti della legge umana o positiva sono derivati dalla legge naturale, essi sono conosciuti dalla ragione e presenti alla conoscenza; quindi la società potrebbe anche non fissarli nella legge umana e giuridica, e tuttavia noi li troviamo stabiliti nel diritto. Ciò avviene perché vi sono dei protervi e dei proni al vizio che si dissuadono difficilmente con la persuasione, per cui essi sono indotti dal timore a evitare il male, onde poi trarne l'abitudine al bene. La potestà coattiva della legge ha dunque come suo fine quello di rendere possibile la convivenza tra gli uomini, ma anche una funzione educativa. Qualora poi la legge umana, che deriva dalla naturale, la contraddica, essa di fatto non esiste e giuridicamente non ha valore, né lo ha moralmente. La legge o è giusta o non lo è e non deve essere eseguita. Tali leggi possono essere obbligatorie solo per evitare scandalo o disordine, e solo fino a quando sussistono tali condizioni, che bisogna attivamente cercare di rimuovere, onde adattare la legge umana a quella naturale. Sempre però bisogna disubbidire alla legge umana ingiusta quando va contro la legge divina positiva, imponendo ad esempio l'idolatria, o prescrivendo il genocidio, il furto, l'impudicizia, ecc. In tal caso è lecito ribellarsi alla tirannia, ed è lecito anche uccidere il tiranno, purchè dalla rivolta non scaturiscano mali peggiori della tirannia stessa. Essa è la peggiore di tutte le forme di governo, perché è una forza attiva e unita per il compimento del male. Le leggi umane possono indirizzare l'uomo al bene comune e promuovere alcune virtù, ma non serve ai fini soprannaturali. Per essi non vale neanche la legge naturale, ma solo la legge divina positiva, che troviamo nel Vangelo e che è la guida al cielo e ciò che colma le imperfezioni delle leggi degli uomini. Theorèin - Aprile 2012 |