|
|
LIBER IOSUE Brevissima introduzione al libro di Giosuè L’AUTORE L’autore del Libro di Giosuè (Yehoshua= Dio salva) è identificato dal Talmud Babilonese con il suo stesso protagonista (Baba batra 146), ampiamente noto già dal Pentateuco e annoverato tra i Profeti anteriori della Bibbia ebraica. La sua opera sarebbe stata continuata da Eleazaro per la parte nella quale il Condottiero era morto. Tale opinione era comune anche nel Medioevo. La Patristica non si è mai pronunziata in merito, ad eccezione di Lattanzio e di Isidoro di Siviglia, favorevoli all’attribuzione. Questa fu anche la tesi di molti critici del XX sec., che ammettevano altresì l’uso complementare di fonti differenti. Così ad esempio Fernandez, Steinmüller, Kaufmann, Young. Al parere di questi autori mi uniformo anche io, ritenendo che il Libro intitolato al Condottiero non possa aver avuto miglior autore del suo protagonista, almeno nella sua forma originaria. Diversamente il Woudstra sostenne che il testo sia stato scritto da un autore anonimo della generazione successiva, mentre lo Aalders pone la composizione ai tempi dei Giudici. Sulla stessa scia Koorevar, che data il Libro al 1075, quando finì il culto in Silo, e Harrison, che lo pone al 1045, a ridosso del regno di Saul. Da questi rilievi si evince che il testo ebraico ha chiari segni di un lavoro redazionale posteriore all’età dei Giudici, ma essi non provano che tale lavoro corrisponda alla composizione originaria. In effetti, il Keil nota che il libro è stato scritto da una sola mano – come attesta l’unità stilistica – e che l’autore è stato testimone oculare dei fatti. Su questa scia si muove il Goslinga, che lo attribuisce ad uno dei giovani ufficiali di Giosuè menzionati in diversi passi del Libro stesso. ANALISI FILOLOGICA E STRUTTURA Il Wellhausen (1844-1918) pose il problema dell’unità del testo credendo di ravvisare in esso le stesse fonti del Pentateuco (J, E, P, D). Ma la divisione interna del libro tra di esse è difficilissima, come del resto nell’Esodo e nei Numeri. A questa tesi – che fu detta dell’Esateuco, in quanto collegava in una sequenza di sei libri il Pentateuco con il testo di cui ci andiamo occupando – si possono opporre tutte le obiezioni che valgono per la sua applicazione ai Libri mosaici. Però essa rimanda ad una evidenza: lo stretto collegamento tra il Libro di Giosuè e quelli del Pentateuco, che se non è a livello di fonti, è nel campo contenutistico e formale; ciò rispecchia la situazione originale in cui il sesto libro biblico fu composto. Il Noth (1902-1968) mostrò la discontinuità tra Giosuè e il Pentateuco, proponendo come luogo di origine del primo il santuario di Galgala, come epoca di redazione il X sec., ossia prima dei nuovi insediamenti israeliti, che l’autore non conosce, in Ai – che però sono stati retrodatati ai secc. XIII-XII, implicando così un innalzamento della datazione anche del Libro stesso. Noth colloca il Libro di Giosuè nella grande storia deuteronomistica e suggerisce una composizione durante un periodo di monarchia riunita e giudaica, ossia o nei regni di David (1010-970) e Salomone (970-931) o al massimo in quello di Giosia (640-609). Le teorie di Noth sono ancora le più accreditate, ma pochi accettano l’idea di un solo autore. Cross per esempio suppone due edizioni della storia deuteronomistica, una ai tempi di Giosia e una dopo l’Esilio babilonese, mentre lo Smend ne distingue tre tutte durante l’Esilio stesso, l’ultima delle quali avrebbe collegato la storia deuteronomistica al Tetrateuco (Genesi, Esodo, Levitico e Numeri). Queste tesi si basano su un’altra serie di evidenze che a loro volta mostrano il legame compositivo tra il Libro di Giosuè e il Deuteronomio così come fu rivisto ai tempi di Giosia. Evidentemente, anche se non fu composto, il Libro di Giosuè fu almeno rivisto in quell’epoca e in quelli esilici, così com’era stato rivisto nell’epoca dei Giudici. Il Seters sembra fare la sintesi delle varie posizioni: Giosuè è parte originaria della storia deuteronomistica, è stato completato con fonti affini a quelle del Pentateuco e costituì con esso un Esateuco. Per quanto poi concerne le fonti del Libro, lo Hess ha evidenziato la loro origine alla metà del II millennio a.C., specie per i primi dodici capitoli. Ibanez Arana, Kaufman, Long, Golka e Child hanno poi, dal canto loro, dimostrato che la storicità del testo non è inficiata, anzi rafforzata, dalle glosse eziologiche che gli furono aggiunte successivamente. Possiamo distinguere allora tre parti nel Libro: la Conquista della Terra Promessa (1-12), la distribuzione del territorio tra le tribù (13-21), la fine della carriera di Giosuè con il suo ultimo discorso e l’assemblea di Sichem (22-24). Nella prima parte (2-9) Giosuè si accinge alla Conquista di Canaan, attraversa miracolosamente il Giordano, erige due monumenti di dodici pietre, circoncide i Figli di Israele nati nel deserto, celebra la Pasqua. Animato poi da una visione divina, conquista Gerico, Ai, Gabaon; sconfigge cinque Re amorrei coi loro alleati e conquista il sud del Paese; vince trentun Re della Cisgiordania e soggioga il nord. In questa parte si crede di individuare un gruppo di tradizioni anche parallele facenti capo al santuario beniaminita di Galgala. Il fatto che Giosuè, sebbene efraimita, sia esaltato in esse dipenderebbe dal comune ingresso in Canaan delle due tribù di Beniamino ed Efraim. L’aspetto definitivo delle tradizioni ha un valore anche eziologico, ma muove sempre da dati della cui storicità non è necessario dubitare, con forse l’eccezione della Presa di Ai, sulla quale però torneremo. Nei cc. 10-11 abbiamo la narrazione di due battaglie, Gabaon e Merom, alle quali è collegata la Conquista del sud e del nord del Paese. La storia dei Gabaoniti al c. 9, saltando 10, 1-6, collega queste due unità che per la critica che andiamo esponendo erano forse già unite in età monarchica. Nella seconda parte vi è una esposizione geografica e quindi essa ha un genere letterario differente. Comprende la distribuzione dei territori cis e transgiordanici. Il c. 13 descrive il luogo di residenza delle tribù di Ruben, Gad e di mezza di quella di Manasse, ossia la Transgiordania. I cc. 14-19 parlano delle tribù dell’ovest del Giordano mettendo insieme due documenti, ossia una descrizione molto imprecisa e ineguale dei confini di ogni tribù risalente, nel suo nucleo almeno, all’età premonarchica, e una lista di città. In questa particolare precisione è riservata a quelle di Giuda (15), completate con quelle di Beniamino (18, 25-28), e distribuite in dodici distretti con uno schema che per alcuni rifletterebbe una divisione amministrativa più tardiva, del Regno del Sud, forse ai tempi di Giosafat (870-846). Il c. 20 enumera le città di rifugio, secondo un elenco non più antico dei tempi di Salomone e il 21 verte sulle città levitiche, aggiunte in età postesilica sulla base di fonti monarchiche, evidentemente unitarie. Nella terza parte Giosuè fa rinnovare il Patto di Alleanza e poi muore a 110 anni, per essere sepolto a Tamat Sare, presso l’attuale Kefr-Jeshua. Il c. 22, sul ritorno delle tribù transgiordane e l’erezione di un altare sulla riva del fiume, è considerato di matrice deuteronomistica e sacerdotale, ma ha un’origine di incerta epoca e di senso oscuro. Il c. 24 conserva l’antica tradizione storica dell’assemblea di Sichem. Alla tradizione deuteronomistica sono attribuiti vari ritocchi di dettaglio e passi importanti come il grosso del c. 1; 8, 30-35; 10, 16-43; 11, 10-20; 12; 22, 1-8, 23; la revisione del c. 24. La vicinanza di questo al 23, che ha una comune ispirazione ma sarebbe d’altra mano, fornisce l’indizio di almeno due revisioni del Libro. FORMA LETTERARIA Il Libro di Giosuè idealizza e semplifica il quadro storico, almeno nell’opinione corrente. L’Esodo continua e si compie in esso, mentre Dio interviene miracolosamente a favore del Popolo. Tutti gli episodi sono attribuiti a Giosuè che dirige le guerre dalla Casa di Giuseppe. La Terra di Canaan è il vero argomento del Libro: il Popolo, dopo aver trovato Dio nel Deserto, riceve da Lui la Terra della Promessa come eredità dei Padri. Per i diversi argomenti, il Libro risulta di fatto composto da generi letterari differenti. Cosa che, sia detto per inciso, non osta al fatto che abbia avuto un solo autore. In ordine poi al legame tra Deuteronomio e Giosuè, nell’ambito della citata grande storia deuteronomista, va rilevato che, se il primo giustifica l’elezione di Israele e definisce la teocrazia, il secondo descrive appunto l’insediamento per via della Promessa. Se accettiamo l’ipotesi di una sola redazione o revisione deuteronomistica fino ai Libri dei Re - in cui il Libro dei Giudici sintetizza le apostasie e i ritorni a Dio da parte del Popolo, quelli di Samuele descrivono la crisi e la realizzazione dell’ideale della monarchia teocratica sotto Saul (1030-1010) e David, quelli dei Re narrano la decadenza iniziata con Salomone sino alla rovina finale nonostante qualche Re fedele a Dio – dobbiamo anche accettare che essa si fondasse su tradizioni orali e documenti scritti diversi tra loro per età e carattere e che di solito sono già unità a se’ stanti appositamente ritoccate e usate in modo ineguale. Dobbiamo altresì accettare la pluralità di edizioni della redazione deuteronomista, che sono in effetti almeno due: una sotto Giosia e una durante l’esilio. Ma dobbiamo anche accettare due grandi contraddizioni: una che ci fa giungere come scrittura ispirata e sacra la fase più recente di una tradizione compositiva e l’altra che non ci dà verosimilmente ragione del motivo di tante e diverse edizioni. Ne terremo conto nella teoria olistica che proporrò. Questo però potrà esser fatto solo se consideriamo il contenuto storico del Libro e la sua attendibilità. E’ infatti logico aspettarsi che una composizione testuale, quanto più è fedele ai fatti che narra, tanto più è vicina ad essi cronologicamente, e può quindi più agevolmente essere datata. DISAMINA STORICA L’opinione corrente considera il Libro di Giosuè come la fonte in cui la Conquista è presentata come azione di tutte le tribù insieme sotto un solo Condottiero, contrapponendola al c. 1 dei Giudici che invece mostra ogni tribù in lotta per il suo spazio vitale, a volte con delle sconfitte. In realtà tra i due libri vi sono meno contrapposizioni di quanto sembra, in quanto nel primo si dice esplicitamente che la Conquista doveva ancora continuare e nel secondo non vi sono sovrapposizioni coi fatti narrati da Giosuè. Ma esponendo in via previa la storicità del Libro in modo convenzionale, sottolineiamo che la versione dei Giudici è considerata originaria di Giuda e che molti suoi elementi sono riscontrati nella parte geografica di Giosuè (cosa che già di per sé, data la sua vetusta origine, attesta che la contrapposizione tra i due resoconti è solo apparente). In ogni caso la Conquista si completò sicuramente in modo individuale da parte delle varie Tribu’ (i cui territori furono dunque divisi prima ancora di una acquisizione definitiva come aree di spettanza, evidentemente da Giosuè stesso, sebbene non sappiamo se nella forma tramandataci dal suo Libro), anche se può ricostruirsi spesso per mere congetture. L’insediamento nel sud della Palestina inizierebbe da Kades e dal Negheb, soprattutto dai gruppi che furono inglobati da Giuda, come i calebiti, i kenizziti e Simeone. Costoro sono di solito considerati parte di coloro che fecero l’Esodo con Mosè. La critica odierna tende invece a distinguere da essi il gruppo di Efraim, Manasse e Beniamino, che sotto la guida di Giosuè varcò il Giordano per insediarsi nella Palestina centrale. Nulla in realtà obbliga a distinguere l’itinerario storico di questi gruppi e a creare tra essi soluzione di continuità operativa e temporale, pur in una comprensibile diversificazione tattica ed insediativa, che però ha un senso solo dopo la morte del Condottiero unico, la cui memoria diversamente non avrebbe avuto ragione di costruirsi. Ancora, si considera differente l’insediamento nel nord: Zabulon, Issacar, Aser e Neftali vi si sarebbero stabilite da tempo e non sarebbero mai scese in Egitto (cosa che non ha riscontro alcuno nel testo biblico); a Sichem avrebbero aderito alla fede mosaica importata da Giosuè per poi lottare con i Cananei per la Conquista definitiva del loro territorio e la loro emancipazione. Mescolando diverse euristiche storiche, la critica imperante ritiene che questa Conquista sia avvenuta con le armi, con le alleanze, con l’infiltrazione pacifica; avremo in effetti modo di vedere meglio queste singole ipotesi. Non si può negare il ruolo storico di Giosuè nella Conquista della Palestina centrale, dal passaggio del Giordano all’assemblea di Sichem. Tuttavia si rigetta l’idea che egli abbia diviso la Terra promessa, almeno in modo definitivo. Allacciandoci alla cronologia più comunemente seguita per l’Esodo, dovremmo datare l’invasione da sud nel 1250 ca., quella da est a partire dal 1225; quella nel nord nel 1200 ca. Possono questi dati essere ulteriormente precisati o anche corretti, onde determinare con maggior acribia la storicità del Libro e datarlo con sicurezza? Per rispondere a questa domanda dobbiamo prendere in considerazione altri elementi. ELEMENTI EXTRABIBLICI PER LA DATAZIONE DEI FATTI E DEL LIBRO DI GIOSUE’ Una questione assilla da tempo gli studiosi: è possibile trovare riscontri archeologici certi alla Conquista di Canaan? Sebbene l’assunto per cui la storia, inclusa la biblica, debba essere per forza supportata dal dato archeologico per essere credibile, sia assolutamente sbagliata, specie per epoche molto remote e circostanze poco chiare, bisogna dire che non mancano ritrovamenti che confermano tale conquista. Anzi, ne abbiamo talmente tanti che possiamo datarlo in epoche diverse. Il che, lungi dallo scompaginare la regolarità dell’indagine biblica, la va a corroborare, in quanto la Scrittura dà indicazioni diverse sulla data dell’evento. Costringendoci ad una scelta. Come ho detto già introducendo il Pentateuco, la cronologia interna della Bibbia che va dalla Distruzione di Sodoma e Gomorra sino al regno davidico fissa in modo preciso tutti gli eventi. Seguendola, nel 1622 a.C. Giosuè successe a Mosè e nel 1557 morì. In questi anni si colloca dunque l’insieme delle gesta del Condottiero. E’ questa una datazione che nessuno prende in considerazione. Vi è poi quella che ho citato sopra. Infine ve n’è una intermedia, che si basa su 1 Re 6,1, che descrive la consacrazione del Tempio, avvenuta nel quarto anno di Salomone, ossia nel 961 a.C., e afferma che essa avvenne quattrocentottanta anni dopo l’Esodo, che quindi cadrebbe nel 1440. Tale data sarebbe riscontrata da Gdc 11, 26, dove si afferma che Israele era da trecento anni ad Hesbon, in un documento epistolare risalente al 1100, per cui l’ingresso in Canaan risalirebbe al 1400. La pluralità di date non è in sé un problema, in quanto come dicevamo per il Pentateuco ci furono probabilmente più migrazioni di Ebrei dall’Egitto in Palestina. Il problema è che quella principale, la mosaica, evidentemente fu seguita dalla Conquista di Giosuè. Che quindi può cadere dal XVII-XVI sec. fino al XIII. Se è vero che la Conquista fu graduale, è altrettanto vero che l’ingresso principale in Canaan può essere avvenuto una volta sola. Un primo dato importante riguarda Gerico, la cui espugnazione avvenne miracolosamente per mano di Giosuè. Watzinger ha sostenuto che nel Bronzo Tardo (XIII sec.) la città era abbandonata e quindi non fortificata. Garstand la fa distruggere nel 1400. Kenyon nel 1550. L’uno si basa sul vasellame, l’altra sulla stratigrafia e il C14. Kenyon, che ignorava l’esistenza della cronologia interna della Bibbia, negava che Gerico fosse stata distrutta da Giosuè, e venne contestata in molte cose da Wood, mentre Caracciolo mise in discussione la stessa rilevanza del riscontro archeologico. Ma è un fatto che la datazione della Kenyon coincida con una cronologia pressoché sconosciuta e quindi le dia vigore. Peraltro la missione archeologica della Sapienza di Roma ha confermato le date indicate dalla Kenyon (risultati degli scavi 1997-2000), anche se non ha potuto asserire con certezza che la distruzione avvenne per vicende belliche. La stessa missione ha evidenziato le tecniche costruttive delle mura ciclopiche nella III fase del Medio Bronzo [2000-1500] (risultati 2009-2011) e ha portato alla luce una doppia cinta di fortificazioni nel Tardo Bronzo [1500-1200] (risultati 2012-2013). La città di Ai (Et Tell) presso Bethel, anch’essa distrutta da Giosuè, era anch’essa abbandonata, dal 2400, e lo fu fino al XIII sec., quando vi si insediarono gli Ebrei. Ma si può supporre che il Re di Bethel regnasse su di essa e ne portasse il titolo. Bethel stessa fu distrutta da un incendio nel XIII sec. Tali dati sembrano confermare la datazione bassa della Conquista. Inoltre, più appropriatamente si potrebbe identificare Ai con Khirbet el-Maqatir (ad un miglio da Et Tell), la quale risulta esistente tra Medio e Tardo Bronzo e distrutta nel primo periodo di quest’ultimo, ossia nel XV sec., forse anche nel XVI (missione di Bryant Wood, ancora in corso). Altri ancora propongono di collocare Ai in Khirbet Nisya, abitata nel Medio Bronzo e invasa tra questo e il Tardo. Debir (Qyriat Sefu, Tell Bet-Mirsim), città anch’essa devastata dagli Israeliti, fu distrutta una prima volta alla fine del XVI sec. a.C., rioccupata alla metà del secolo successivo e nuovamente devastata da un incendio nel 1200 e ripopolata poveramente, presumibilmente dagli Ebrei, meno progrediti dei precedenti occupanti. Hebron (Tell Rumeida), anch’essa data alle fiamme da Giosuè, in effetti fu devastata da un incendio alla fine del Medio Bronzo (XVI sec.), mentre tra il 1500 e il 1200 non è stato possibile determinare se fosse abitata, cosa invece certa dal 1200 in poi, ad opera degli Israeliti. Per quanto riguarda le altre città espugnate da Giosuè, Eglon (Tell el Hesi) fu distrutta allo stesso modo nel XIII sec. e stette deserta per due secoli come Lakish (Tell ed-Duweir). Questa scomparve sin dal Tardo Bronzo assieme a Cazor (Tell el Qedar), città che, nei 2500 anni della sua storia (scomparve nel 150 a.C.) fu costruita e distrutta per ventidue volte e che quindi a quella data era stata già altre volte devastata. Queste distruzioni fanno da riscontro al racconto di Giosuè. Ma va anche detto che la Palestina subì nei secc. XIII-XII l’invasione dei Popoli del Mare, per cui è difficile discernere le distruzioni operate da questi e quelle degli Ebrei. Appare inoltre strano che nel Libro di Giosuè la sorte degli Ebrei e quella degli altri invasori non si incontrino mai. Anche Afek e Meghiddo risultano distrutte nel XIII sec., ma lungo un arco di tempo lungo più di un secolo e – almeno secondo Finkelstein – non in guerra. Inoltre Meghiddo nella sua storia plurisecolare (è attestata dal 1900 a.C.) è stata distrutta e riedificata venti volte, quindi anche prima del 1200. In ogni caso, le città santuario di Gabaon e Sichem non risultano distrutte nel periodo in questione, in quanto i Gabaoniti furono assimilati – come narra il Libro di Giosuè – e i Sichemiti, che forse erano Habiru – ossia di condizione sociale simile agli Ebrei – sebbene non Israeliti e nonostante il loro tempio cananeo, furono annessi e il loro insediamento ospitò addirittura la grande assemblea panisraelita che chiuse l’età di Giosuè. Questo va a confermare il racconto biblico. Analogamente abbiamo un luogo di culto ebreo anche a Meghiddo nel Tardo Bronzo, mentre Tarrach e Tirza hanno dei resti archeologici significativi. In genere nel XII sec. palestinese vi è una crisi palpabile. Le cause sono ravvisate nell’urto degli invasori, ossia i citati Popoli del Mare (Achei, Lici, Teresh, Shekelesh, Sherdana, Filistei) e i Nomadi (presumibilmente gli Ebrei), che si sommarono ai seminomadi in perenne movimento, con conseguenti guerre, crisi demografica e produttiva, deportazioni, spopolamento, iniziate peraltro già dal XIV sec. per ragioni interne (che potrebbero avallare una retrodatazione dell’invasione nomadica ebraica). In ragione di ciò avvennero, dapprima e in concomitanza delle invasioni stesse, fughe verso spazi esterni da parte di persone e gruppi sfruttati nel sistema sociale cananeo incentrato sul predominio palatino; tra steppe e monti questi emarginati divennero Habiru e si mescolarono ai pastori transumanti, presumibilmente agli stessi Ebrei. Questo fenomeno investe a volte intere comunità. Il sistema palatino cananeo così crollò e vi fu una fase ulteriore di regresso, di riconversione agro-pastorale e una facilitazione di ulteriori invasioni da nord. Furono conquistate all’insediamento umano le zone che risultano essere state i quartier generali degli Ebrei, ossia le collinari e montane. Un elemento da tenere in considerazione è che l’uso della metallurgia del ferro, spesso associato alle vittorie dei Popoli del Mare provenienti da ovest, in realtà giunse da est e in modo più ridotto di quanto si creda. In tale sconquasso il crollo dei centri scribali favorì la diffusione dell’alfabeto, cosa che servirà per la formulazione della teoria olistica sull’origine del Libro di Giosuè. Il punto di arrivo di questo rimescolamento fu la nascita di un modello di Stato nazionale assai diverso da quello cittadino dei Cananei, come effetto della sedentarizzazione dei nomadi e seminomadi. Esso aveva un codice non più palatino ma parentale, esattamente come attesta la Bibbia, in cui era fondamentale l’uso della genealogia, con gerarchie complesse di eponimi (confederali come Israele, tribali come i Dodici Patriarchi, intermedi e familiari) che rintracciamo anche nell’Esateuco. In tale codice era altresì fondamentale l’eziologia per le realtà politiche – come nel Libro di Giosuè – mentre la denominazione corrente del popolo era quello di “Casa di” e “Figli di”, esattamente come avviene per Israele. Con questi dati, non solo non vi è ragione di dubitare della collocazione della Conquista nel XIII sec., ma anche vi sono motivi per porvi la composizione del Libro di Giosuè. Se dovessimo retrodatare la Conquista al XVI sec., dovremmo accettare che Israele abbia avuto questo ordinamento sin da quattrocento anni prima. Cosa che ovviamente è perfettamente possibile. Ma vi sono altri dati che suffragano questa operazione? Al netto del fatto che nel XV sec. a.C. non vi è traccia alcuna di invasione straniera, per cui l’esodo che potè avervi luogo non fu quello principale né seguito dalla Conquista armata, essendo la Palestina dell’epoca solo sistematicamente percorsa dagli eserciti egiziani dei Thuthmosidi, dobbiamo invece dire che nel secolo precedente è possibile ravvisare tracce di una distruzione radicale. Innanzitutto va segnalato che il XVI sec. è chiamato “Età oscura”, in quanto gli strati archeologici, per esempio di Alakah VI-V, sono senza testi, forse per la fase di assestamento dei nuovi Stati in costruzione. La spiegazione corrente è che siano giunti popoli dei monti, indoeuropei (Hittiti) e indoiranici (Hurriti e Cassiti), a cui evidentemente potremmo aggiungere gli Ebrei. Considerando poi che per alcuni i popoli tradizionalmente accusati delle distruzioni erano già presenti in Canaan, rimangono come nuovi imputati gli Ebrei soli. Non sono tuttavia evidenti tracce di fatti migratori, sembra esserci continuità culturale, mentre la frattura è evidente nel XIII sec. tra popoli precedenti e antecedenti alle invasioni. Di certo però nel XVI i nomadi c’erano ed erano disprezzati, anche per le loro pratiche guerresche, spesso basate sull’astuzia, come attestato dal Libro di Giosuè. Inoltre, tra Medio e Tardo Bronzo si ha senz’altro una ritrazione dell’area insediativa verso le coste e le vallate, con l’abbandono del tavolato interno della Palestina e della Siria, come per sfuggire ad una minaccia. Il Tardo Bronzo è il periodo di massimo restringimento. Zone abitate da secoli sono abbandonate. Aree collinari e montane non sono ancora colonizzate. Aree agricole secche estensive vanno a pascolo. Ebla e Qatna sono disabitate. Tutto questo significa aumento dei nomadi pastori, riduzione degli abitati, acquisto di nuovo spazio per la componente pastorale e sua sottrazione al controllo palatino. Gli spazi tra città e città, tra cantoni e cantoni, sono esterni e pericolosi, luoghi di sbandati e fuggiaschi. La tendenza demografica è bassa sia per le guerre che per questioni socioeconomiche che, come abbiamo visto, porteranno al crollo della civiltà palatina cananea nel XII sec. Tutte cose che rendono plausibile una invasione sin dal XVI sec., con un effetto domino per la civiltà palestinese che si prolunga fino al XIII sec., che sarebbe Età dei Giudici. Un riscontro decisivo potrebbe venire dall’archeologia se esplorasse gli strati di questo periodo delle città nominate dal Libro di Giosuè, anche se moltissime cose sono state già scoperte, come abbiamo visto. La distruzione di Gerico è già un segnale forte in tal senso. In ogni caso, Ai Gerico Bethel e Gabaon non sono citate nelle Tavolette di Amarna, nel XIV sec., quasi che queste città in quel periodo non esistessero più o fossero in mano ad una potenza estranea al circuito diplomatico dell’Egitto, in un lasso di tempo che ragionevolmente può risalire sino al XVI sec. Ricerche recenti hanno dimostrato che sugli altipiani palestinesi vi furono tre ondate di insediamenti: 3500-2200; 2000-1550; 1150-900; le prime due furono seguite da regressioni: 2200-2000 e 1550-1150; dopo quest’ultima data vi fu un arresto del fenomeno e dal 900 al 586 un incremento. In questo l’Aharoni ha visto la prova degli spostamenti e chi scrive vede la prova del fatto che già dal XVI sec. vi potè essere una invasione ebraica e una ondata di nuovi insediamenti. E’ perciò importante ora determinare da quando gli Ebrei sono attestati in Palestina. Ripeterò quanto già detto a proposito del Pentateuco, schematizzando. Sotto Thuthmosis II (1493-1478) in Palestina sono attestati gli Shosu, nomadi nei quali alcuni riconoscono gli Ebrei; Thuthmosis III (1479-1425) combatte anch’egli gli Shosu, ma sotto di lui compaiono in Egitto gli Habiru (traslitterando dall’egizio Apiru, mentre il termine adoperato è semitico, ossia la denominazione originaria), il tipo etnico-sociale dei seminomadi ai quali si possono ascrivere, più appropriatamente e distinguendoli dagli Shosu, gli Ebrei (il cui nome ne è una possibile derivazione). Fino a quel momento gli Habiru erano stati attestati, come dicevamo, nel XIX sec. in Cappadocia, nel XVIII a Mari (dove si parla dei Maru Yamina, seminomadi amorrei la cui intitolatura può tradursi letteralmente “Figli della Destra”, ossia Beniamino, come l’eponimo dell’ultima Tribu’ di Israele) e poi ad Alakah. Mercenari o servi di cui si parla anche nella Presa di Joppe, sono seminomadi integrati, in questo periodo, nelle società ai cui margini si muovono. Sotto Amenhotep II (1425-1401) altri Habiru sono fatti prigionieri in Palestina durante la guerra contro Retenu, segno che sono presenti nella regione. Nelle Tavolette di Amarna, dei tempi di Akhenathon, si parla dei Sa.gaz, ossia gli Habiru, come presenti in Palestina. In ogni caso, essi sono molto irrequieti e fomentati da Shuppiluliumah, re degli Hittiti (1375-1340), contro i Re cananei, vassalli del Faraone. Sethi I (1309-1290) soggioga la Palestina del Nord, combatte gli Habiru e nella sua Stele (1289) enumera tra i popoli assoggettati la Tribu’ di Abu Rahm (Abramo), che definisce nomade. Ramses II (1290-1224) si deve un frammento alla base di una colonna in cui sono citati diversi popoli palestinesi e forse anche Israele, che quindi sotto di lui sarebbero già in quel Paese. Tale testo ricopierebbe una lista più antica risalente ai tempi del summenzionato Amenothep II. Sempre Ramses II combatte in Palestina contro gli Shosu, i Moabiti, gli Edomiti e gli Hittiti. Merneptah (1224-1210) combatte in Palestina e nella sua Stele del 1220 rammenta la guerra contro Israele, a sua volta nemico di Gezer, ossia Canaan, suo vassallo. Sotto di lui i Popoli del Mare (1220) invadono la Palestina e minacciano l’Egitto stesso, il cui dominio nella zona viene meno. La presenza degli Ebrei in Palestina può dunque ragionevolmente essere datata a partire dal XV sec., e quindi postula una invasione dal XVI sec. e un Esodo in quello precedente. Alla meno peggio i clan attestati prima del XIII sec. sarebbero parenti di quelli che, organizzati sotto Mosè e Giosuè, sarebbero usciti dall’Egitto e arrivati in Canaan. Anche i dati etnografici di Canaan contribuiscono a datare e confermare la conquista. Lungi dall’essere popoli immaginari, come sostengono senza prove alcuni critici come Liverani, quelli che Israele distrusse entrando nel paese furono reali e molto antichi. La Palestina era popolata dai Cananei, semiti (anche se la Bibbia fa di Canaan il figlio di Cam, in quanto quei popoli erano fortemente egizianizzati) nordoccidentali stanziati lungo la costa, e dagli Amorrei, semiti anch’essi nordoccidentali, che vivevano tra le montagne, parenti dei clan patriarcali, oramai imbevuti dei costumi cananei. Di questi popoli nessuno mette in dubbio la storicità. I Cananei entrarono nel paese che portava il loro nome nel XVIII sec., e vi rimasero almeno fino al XII sec., quando il loro sterminio da parte degli Ebrei era terminato. Gli Amorrei erano in Siria Palestina dal XX sec. e fino al XIV sec. ebbero anche un loro regno in Siria; all’apice della potenza sino al XIX sec., diedero il nome alla regione nella geografia babilonese (Amurru); non vi è perciò motivo di dubitare dell’esistenza di regni amorrei in Transgiordania (quello di Seon e quello di Basan), anche se non vi sono evidenze archeologiche. Gli Hurriti erano molto numerosi e risalevano ai tempi degli Hyksos (XVII-XVI secc.). Il loro nome significa “abitanti delle caverne”; di matrice indoariana, diedero il nome (Hurru) all’antica provincia egiziana di Canaan, cosa che già di per sé attesta la loro sia pur remota esistenza come popolo. Al loro gruppo appartenevano presumibilmente anche i Perizziti (“abitanti dei villaggi”) e gli Hittiti, stanziati ad Ebron. Sia nel XVI sec. che nel XIII esistevano degli Stati hittiti (l’antico regno e l’impero) che esercitavano una influenza sulla Siria Palestina e da cui poterono uscire gruppi di coloni che si stanziarono in Canaan. La rilevanza dell’insediamento e dell’influenza hittita in Palestina è attestata dall’uso imperiale assiro di chiamare la regione Khatti, ossia Paese degli Hittiti. Sugli altri popoli di Palestina sterminati dagli Ebrei, ossia Evei, Gergesei e Gebusei, non abbiamo notizia alcuna, ma questo non vuol dire che la Bibbia nell’attestarne l’esistenza non sia fededegna. Del resto, quand’anche dovessimo accettare l’ipotesi di Liverani, che dichiara tutti questi popoli (tranne Cananei, Perizziti e Hurriti) inesistenti nel XIII sec., possiamo ritenerli più antichi e datarli contemporaneamente alla Conquista posta nel XVI sec. L’idea che avanza l’illustre studioso, ossia che tali etnie siano state inventate sulla scorta dell’erudizione mesopotamica, dopo l’Esilio, dagli eruditi giudei per giustificare, nel quadro di un’epica fondativa legata al ciclo immaginario della conquista, i diritti al ritorno in patria dei deportati, è assolutamente priva di senso. Infatti tali diritti scaturivano dalla volontà del Gran Re e dal fatto che sino a un settantennio prima i Giudei vivevano in Palestina, con uno stanziamento vecchio di almeno settecento anni. Analoghi dubbi possono essere fugati su quei popoli che Israele non distrusse ma con cui ebbe a che fare: Edomiti e Moabiti - le cui vestigia storiche iniziano col XIII sec. ma che non per questo non esistevano in precedenza – nonché gli Ammoniti nomadi. In ogni caso, tra XX e XIII sec. la Transgiordania non ha fortificazioni, cosa che rese facile il transito degli invasori. Una nota particolare meritano i popoli precananei che già i Cananei avrebbero sterminato e che gli Ebrei avrebbero incontrato in gruppi sparuti (gli Anakiti): sono i Refaim, i cosiddetti giganti. Nella Bibbia entrano come retaggio della storia dei popoli sconfitti; senza entrare in merito alla sua verosimiglianza, non si può negare l’esistenza di culture megalitiche nella Palestina preistorica, di cui sono considerati fondatori proprio i leggendari popoli in questione. Un’ultima questione va impostata per concludere il discorso sulla storicità della conquista, ossia quello delle teorie che la negano del tutto. Esse hanno ampio credito, ma sono contraddittorie tra loro e non sufficienti a scalzare quella dominante della invasione armata. Appare impossibile dubitare della storicità della conquista. Essa non avrebbe avuto luogo né rilevanza senza la sua ispirazione religiosa monoteista. La religione ebraica è una teocrazia, la Conquista una guerra santa, il Popolo è una Lega sacra e il loro Dio è completamente differente da quelli cananei, essendo trascendente e soprannaturale. Tali concetti sono sufficienti per capire e motivare la conquista. Ma vediamo brevemente le ipotesi che negano la conquista. La prima è quella dell’endogenesi di Israele, sostenuta dal Finkelstein. Per essa, Israele nasce sul collasso della civiltà cananea, ma appartiene allo stesso popolo. Ciò dovrebbe supporre una continuità della cultura materiale tra Cananei e Israeliti, che però non esiste, essendo attestata stratigraficamente la soluzione di continuità. Non si capirebbe poi come, in seguito a tale endogenesi, sarebbe nato il monoteismo e il mito dell’Esodo. La seconda è quella dell’infiltrazione pacifica, che minimizza la portata dei fatti guerreschi inserendo i contrasti descritti nella Bibbia nel quadro delle lotte cicliche tra sedentari e nomadi, ignorando del tutto la specificità dell’insediamento ebraico, sia da un punto di vista culturale-religioso che etnico. La terza è una variante, quello della simbiosi (formulata dal Fritz) per cui Israeliti e Cananei vissero parallelamente nei sec. XIII-XII, cosa senz’altro esatta per un certo periodo, ma che non spiega la fase di acuta conflittualità che pure esistette né la completa sparizione della cultura cananea. Il Mendenhall formulò la quarta, per cui i Cananei di ceto più basso avrebbero realizzato una rivoluzione egualitaria, fino a che non sarebbero divenuti Ebrei, non dando però ragione della matrice religiosa che giustificherebbe la trasformazione. Simile la quinta, della riforma agraria di frontiera (fatta dal Dever) con schiavi fuggiti dall’Egitto e usati dai Cananei per lavori agricoli, che si sarebbero trasformati appunto in Israeliti elaborando una loro identità, senza che però si possa spiegare tale processo né il nesso causale tra esso e la questione della proprietà terriera. La sesta è del Gottwald, che suppone una rivoluzione prodotta dall’incontro tra gli Habiru cananei e alcuni intellettuali egiziani fuggiti in Palestina, molto suggestiva ma incapace di mostrare le ragioni di questa fuga di cervelli egiziani e del loro influsso sui Cananei. In effetti molte di queste teorie sono solo dei surrogati del racconto biblico dell’Esodo e una negazione preconcetta della Conquista armata. Possiamo fissare dunque alcuni punti fermi. Il primo è che la convergenza tra la cronologia interna della Bibbia, le condizioni generali della Palestina dei secc. XVII-XVI e i dati archeologici principali attesta che la Conquista potè accadere sin da quell’epoca. Il secondo è che la Conquista accadde dopo l’Esodo e non vi è soluzione di continuità tra i due eventi, essendo essi strettamente complementari. Il terzo è che non vi furono, prima della conquista, altri insediamenti in Palestina di Ebrei provenienti dall’Egitto. Il quarto è che non vi è ragione reale di dubitare che tutte le Tribu’ di Israele siano entrate con Giosuè in Palestina, ossia quelle di Ruben, Simeone (Levi), Giuda, Issacar, Zabulon, Gad, Aser, Dan, Neftali, Manasse, Efraim e Beniamino. Anche se infatti i Maru Yamina sono attestati in Medio Oriente nel XVIII sec. questo non vuol dire che tutta la Tribu’ fosse già fuori dall’Egitto e che quindi la notizia che la mette al seguito di Mosè nell’Esodo sia infondata. Il quinto è che il processo di assoggettamento si prolungò per almeno ottant’anni. Il sesto è che altri esodi ebraici dall’Egitto andarono a rafforzare gli stanziamenti israeliti in Palestina e contribuirono alla Conquista. Il settimo è che altri gruppi ebraici, sparsisi nel Medio Oriente in uscite dall’Egitto anteriori all’oppressione egiziana (a dimostrazione della relativa libertà di cui godettero per parecchio tempo e della connessione etnica dei vari Habiru riscontrati qua e là sin dal XIX sec. a.C.), poterono unirsi agli Ebrei stanziatisi in Palestina sotto Giosuè e aver partecipato anche alle imprese belliche. L’ottavo è che la Conquista proseguì anche nel periodo dei Giudici in modo anarchico, ma che nel corso di questa fase non mancarono forme di pacifica convivenza tra Ebrei e Cananei, nonché interscambi culturali. Il nono è che la Conquista fu una guerra ispirata dalla Fede mosaica, segnata da manifestazioni indiscutibili della Divina Potenza atte a galvanizzare le forze coinvolte in questa impresa altrimenti inconcepibile. Fissate le linee portanti della storia narrata nel Libro di Giosuè, possiamo anche proporre una teoria sulla sua origine, non senza aver premesso una nota sulla situazione culturale e scrittoria della Palestina tra il Medio e il Tardo Bronzo. UNA TEORIA OLISTICA SULLA REDAZIONE DEL LIBRO DI GIOSUE’ Datando la Conquista sia al XII che al XV che ai XVII-XVI secc., porre la composizione della sua narrazione tra un periodo tra il X e il VI sec. è palesemente assurdo. Un resoconto storico dovette circolare da molto prima. Mettendo insieme tutti i dati storici e filologici a disposizione, ritengo che si possano ipotizzare diverse fasi di scrittura. Giosuè stesso, conformemente alla tradizione e alla logica, fu l’autore del resoconto delle sue esperienze. Lo fece in protoebraico utilizzando le forme alfabetiche all’epoca in uso in Palestina tra i ceti e i popoli meno colti. Qui è giusto spiegare quale fosse la situazione culturale della Palestina ai tempi dell’invasione. Nella cultura tardo palestinese non solo circolavano i classici epico-mitologici babilonesi ed egiziani, ma erano usate come lingue colte l’accadico e il sumerico, mentre si parlavano l’hurrita e il cananaico. Le tecniche di scrittura erano molteplici: ad Ugarit sono attestati geroglifici hittiti, caratteri cuneiformi della stessa lingua, geroglifici egiziani, varie lingue ulteriori come appunto l’accadico, il sumerico, l’hurrita, il cipro-minoico e ovviamente l’ugaritico. Si sviluppa una scrittura sillabico-logografica e sillabico-geroglifica, l’una di matrice mesopotamica e l’altra egizia. Dal sistema monoconsonantico egiziano potè evolversi una forma puramente consonantica e quindi alfabetica, come per il protosinaitico e il protocananeo, affermandosi con la scrittura alfabetica ugaritica, mentre in tutti gli altri casi la tradizione scribale babilonese respinse ai margini le nuove scritture, tra gli usi popolari extrapalatini. Verso il XIV sec. c’erano testi cananei cuneiformi, accadici cuneiformi sillabici, egiziani sillabici nonché l’alfabeto lineare che poi arriverà allo Ionio greco. In questo contesto gli Israeliti, sin dal XVII-XVI secc., poterono disporre non solo di un sistema scrittorio semplice per la loro condizione di popolo seminomade, ma anche di un background linguistico e letterario significativo (le lingue mesopotamiche delle origini e l’egiziano della recente schiavitù), a cui attingere per la nascita di una lingua se non letteraria, abbastanza espressiva per essere usata per una composizione storica. In effetti non vi è popolo barbaro che, invadendo una regione molto più civile, non ne abbia assunto in tempi relativamente brevi almeno una parte della civiltà. Forse l’originale del Libro fu in una delle lingue dotte dell’epoca (egiziano, accadico) o nelle lingue del paese invaso (cananeo, hurrita), ma di certo fu subito tradotto. Composto da Giosuè sulla falsariga dei libri mosaici, il Libro che porta il suo nome conservò quella ispirazione stilistica che fece parlare di Esateuco. Il centro di irradiazione di questa opera letteraria potè essere Galgala. Quando l’età dei Giudici volse al suo termine (XI sec.), nel mentre in cui fu messa per iscritto la loro storia, l’autore di questa impresa letteraria – presumibilmente Samuele- rivide e aggiornò anche il Libro di Giosuè, in paleoebraico, con una patina stilistica che fece parlare di Eptateuco e con un intervento attestato da quei passi che paragonano il passato della Conquista ai tempi in questione. In questo periodo forse alcune imprese belliche che furono ordinate ma non realizzate da Giosuè furono inserite nel suo Libro; ciò giustificherebbe, al momento, il fatto che alcune città risultano espugnate nel XIII sec. e altre già dal XVI sec. Ai tempi di David e Salomone (X sec.) il Libro fu ulteriormente rivisto nell’ebraico dell’epoca, nel fervore cultural nazionale dell’epoca, nei modi che giustificarono la nascita della teoria dell’Ottateuco nei secoli dopo. La spia sta nella presenza dei confronti tra quell’età monarchica e quella della Conquista, nonché in notazioni geopolitiche rimandanti ad un assetto definitivo che probabilmente si ebbe solo in quest’epoca. Queste fasi di scrittura e di riscrittura sono perfettamente coerenti con il fiorire di una ricca letteratura ebraica arcaica, attestata nello stesso Libro di Giosuè, composta da testi come il Libro del Giusto, che però non si sono conservati perché non sono stati riconosciuti come sacri. Ai tempi di Giosia (VII sec.), con la riedizione del Deuteronomio, anche il Libro di Giosuè fu rivisto letterariamente e linguisticamente secondo la lingua ebraica dell’epoca, con ulteriori confronti col presente, attualizzati sino al ritorno dall’Esilio babilonese, quando Neemia rivide il Pentateuco e anche i Libri successivi (VI sec.). E’ questo il Libro di Giosuè che noi abbiamo. Adattato linguisticamente in tutti gli snodi storici significativi della religione di Israele, onde fosse sempre vivo e non un fossile linguistico. Un riscontro alla mia teoria potrebbe venire dalle retroversioni del testo attuale in forme ebraiche via via più antiche e nelle possibili lingue originali: se ne risultasse un testo letterario sarebbe corroborata la tesi. PECULIARITA’ TEOLOGICHE Il Libro di Giosuè, la cui ispirazione è unanimemente accettata nella tradizione giudaico-cristiana e nella stessa Bibbia (Siracide, Lettera agli Ebrei, Atti) ha numerose immagini tipiche e simboliche. Giosuè stesso è tipo del Cristo, di Cui porta il Nome anche se in una traduzione diversa in greco e latino, perché guida il suo popolo nella Terra Promessa, a sua volta simbolo della Salvezza e del Paradiso, mentre Israele, così condotto, simboleggia la Chiesa e le guerre di sterminio sono ad un tempo il simbolo della lotta del Redentore Che distrugge completamente il potere del diavolo, di quella della Chiesa che prevale sempre sui suoi nemici e nella quale tutti i popoli sono destinati ad entrare e del singolo fedele che sostituisce progressivamente l’uomo nuovo al vecchio. L’intera Conquista, come apice del pellegrinaggio in armi iniziato con l’Esodo, è metafora della vita umana e della storia della salvezza, in cui si combatte per giungere alla meta celeste. Il Passaggio del Giordano è simbolo del Battesimo, che introduce nella vita eterna tramite l’acqua in modo miracoloso. La fede di Rahab simboleggia la fede dei pagani che avrebbero abbracciato la Verità e la stessa donna è una figura della Chiesa per molti Padri, perché da lei nasce la stirpe eletta, nella fattispecie quella di David. La Rosa di Gerico è poi una figura simbolica della Vergine Maria. La divisione della Terra tra XII Tribù simboleggia la divisione della Chiesa tra le successioni apostoliche iniziate da ognuno degli Apostoli e la divisione del mondo in aree missionarie per ciascuno di essi. Anche agli Apostoli alludono le XII Pietre nel fondo del Giordano e sulle sue rive, fondamento dell’amministrazione del Battesimo e della vita spirituale sacramentale che la segue. In ordine all’economia veterotestamentaria, il Libro attesta e avalla un culto multipolare, all’interno del quale c’è sempre un centro egemone, preludio della centralizzazione davidica e salomonica, ossia Galgala, Gabaon e poi Sichem. Il Libro di Giosuè è importante anche per i temi etici che pone. Il primo è quello della guerra. Così com’è descritta, essendo di sterminio e di aggressione, peraltro nelle forme tipiche dei nomadi dell’epoca invise anche agli stanziali, appare riprovevole al senso cristiano e umano moderno. In realtà vanno considerati alcuni aspetti della questione. Il primo è il motivo della guerra: la Conquista avviene per impossessarsi di un bene, la Terra di Canaan, che Dio aveva concesso alla discendenza di Abramo; è dunque una guerra di difesa di un diritto, anche se materialmente ancora non acquisito. E’ una situazione non diversa di tante che avvengono ancora oggi nei conflitti internazionali, compresi quelli che sono considerati legali e morali. Non è dunque una guerra di molto diversa dal bellum iustum che la Chiesa ha predicato per secoli. Il secondo è che la morale naturale razionale, che pure ripudia le azioni di violenza indiscriminate, all’epoca – e non solo all’epoca ma anche oggi – faticava ad individuare questi principi, perché la ragione, già ottusa dal peccato, fatica a slegarsi dalle condizioni storiche in cui opera; la prassi sterminatrice in guerra all’epoca era molto comune; la Legge mosaica, pur evidenziando la necessità di non uccidere, aveva dato norme che disciplinavano la guerra e aveva recepito anche pratiche molto dure, in quanto il processo di illuminazione della ragione da parte di Dio era iniziato ma non ancora finito. Il terzo è che la Legge della Carità cristiana, soprannaturale, era da venire e non può essere invocata per giudicare i Santi dell’AT. Il quarto è che lo herem, il voto di sterminio che consacra a Dio tutti i viventi di Canaan, è ordinato da Dio stesso, il Quale, prevedendo una deroga alla Legge data da Lui stesso e alla quale non è ovviamente sottomesso, lo fa per esercitare la Sua giustizia verso popoli i cui peccati sono ormai al culmine. E’ dunque un divino castigo di cui l’esecutore è Israele, al momento l’unico Popolo eletto. E’ un castigo che non si ripeterà più, basato sulla provvisorietà della Legge di Mosè, sull’unicità della Conquista, sulla mentalità semitica che fa di Dio la causa prima di ogni cosa sia buona che cattiva. Considerando che dopo la morte ai Cananei pervertiti empi e assassini toccò l’inferno, non è da considerare tanto severo il loro sterminio, che forse può essere servito a molti di essi, facendoli espiare in terra, ad evitare la dannazione senza fine. Un secondo tema è l’adesione in massa alla Fede nell’Assemblea di Sichem – e al Sinai- che sembra non prevedere quella individuale e che implicitamente comporta la morte per chi non crede, come stabilito nel Pentateuco. Anche qui ci troviamo di fronte a qualcosa che contraddice la mentalità moderna, per la quale la libera e individuale accettazione della Fede è fondamentale e non può essere oggetto di coazione o punizione. Ma anche qui vanno fatte alcune puntualizzazioni. La prima verte proprio sul fatto che nella Rivelazione non vi è nulla che condanni l’uso della coazione o della punizione verso chi non abbraccia la vera Fede; cosa, questa, ricordata ancora dal Concilio Vaticano II nella Nostra Aetate dove pure insegna che è più conforme alla Fede la mancanza dell’una e dell’altra in materia di coscienza, chiudendo definitivamente la questione sulla quale nella stessa storia del Cristianesimo ci sono state prassi e posizioni molto differenti da quelle dello stesso Concilio, come l’Inquisizione. Non si possono quindi giudicare le istituzioni della religione ebraica, in uno stadio ancora incompleto della Rivelazione, coi criteri dati dal magistero supremo ordinario della Chiesa, che ha a disposizione tutto il Deposito della Fede. Né si possono applicare all’Età del Bronzo le riflessioni critiche dell’Età moderna e contemporanea sulla libertà e la sua fondazione antropologica. La seconda verte sul fatto che l’adesione collettiva alla Vera Fede è assiologicamente più importante di quella del singolo, in quanto questo può conoscere il Vero Dio solo tramite coloro ai quali Egli si è rivelato storicamente o che custodiscono la memoria di quell’evento. L’insieme di tutti costoro è il Popolo di Dio. Nel NT è la Chiesa, che comprende intere nazioni o è trasversale ad esse. Ma nel VT è Israele, che ha una identità etnica e politica distinta dagli altri popoli, per cui l’adesione alla Fede è per i suoi membri un fatto religioso ma anche politico e sociale, con nessi di reciproca implicazione che non sono più essenziali nel Cristianesimo, anche se possono continuare ad esistere. Nella fase arcaica della Rivelazione su cui verte il Libro di Giosuè tale adesione collettiva è pressoché esclusiva e quella individuale un mero postulato. La terza puntualizzazione scaturisce da questa. Tale adesione collettiva è vincolante per tutti perché Dio ha dato segni straordinari per ottenerla: a Mosè diede il potere di chiamare le Piaghe sull’Egitto e di aprire il Mare, per poi scendere sul Sinai e dare la Legge, ottenendo così l’Alleanza e mostrandosi come Santo di Israele; a Giosuè diede il potere di aprire il Giordano, di abbattere le mura di Gerico, di fermare il Sole, concedendogli la Terra Promessa in possesso effettivo e rinnovando l’Alleanza a Sichem. Con queste credenziali chi può negare l’adesione a Dio? E coloro che discendono da questi, sulla testimonianza di costoro devono darla anch’essi, molto di più di quanto qualsiasi cittadino moderno debba dare la sua fedeltà alla Costituzione del Paese in cui è nato, pur se questa sia stata scritta molto prima di lui. La quarta è collegata alle due precedenti: Israele è una teocrazia e Dio ne è il sovrano; la legge religiosa ha dunque implicazioni penali. La quinta verte su questa implicazione. Morire per eresia, scisma, apostasia, ateismo, incredulità, empietà, bestemmia sembra disumano, ma è solo contrario all’idea che noi abbiamo di umanità. Dio è il Creatore e ha il diritto ad essere adorato; l’uomo ha il dovere di adorarlo. Chi non ottempera a questo dovere commette il peggior crimine e quindi merita la morte più di chiunque, anche se oggi riteniamo giustamente che non sia opportuno infliggerla e che anzi possa essere controproducente farlo, specie in una società pluralista. Ma va sempre ricordato che dopo la morte naturale l’infedele precipiterà all’inferno, pena ben più dura di qualunque morte. La terza questione, che tocca incidentalmente il Libro di Giosuè, è la pena capitale inflitta in esso ai sensi della Legge di Mosè e rimasta in vigore sempre nell’AT. Anche questa questione si può dirimere considerando che nella Rivelazione la pena di morte non è condannata né esclusa, anche se spetta al magistero della Chiesa valutare le condizioni morali della sua applicazioni, essendo suscettibili di modifica e sviluppo nel corso della storia vari fattori culturali differenti di cui si deve tenere conto. Va poi ricordato che le pene inflitte nella Vecchia Alleanza non sono valide nella Nuova, perché decadute col Sacrificio di Cristo, per cui sono state date solo per la durezza di cuore degli antichi. Ciò non significa che non possono essere più inflitte, ma che non sono più vincolanti. Infine va detto che ogni pena capitale della Legge è inflitta per altrettanti peccati mortali, i quali sono di per sé sempre meritevoli di morte addirittura eterna, e quindi anche di morte temporale, anche se per misericordia non avviene sempre così (e nella Nuova Alleanza ancor meno, perché Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva); perciò molte di queste colpe, proprio per evidenziarne la malizia, furono sanzionate con la pena estrema, la cui icasticità ammaestra anche oggi, ponendo un principio morale e non instaurando una prassi pastorale. Theorèin - Febbraio 2014 |