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SUPER MACHABAEORUM LIBRIS Breve introduzione al Primo e al Secondo Libro dei Maccabei IL TITOLO Il nome del Primo e del Secondo Libro dei Maccabei viene dal soprannome dato a Giuda, figlio di Mattatia Asmoneo e gran capo della Rivolta contro i Seleucidi. Questo nome passò a indicare tutti i fratelli e i libri che ne narrano le gesta, dei quali il Primo e il Secondo sono riconosciuti come canonici dalla Chiesa Cattolica e da quella Ortodossa, ma non da quella Protestante – che in questo segue il canone ebraico – mentre il Terzo (datato al 100 a.C.) e il Quarto (dell’età di Gesù) – l’uno narrante la persecuzione degli Ebrei in Egitto sotto Tolomeo IV (221-204) e l’altro avente un contenuto sapienziale, in quanto vuol dimostrare la capacità della ragione di controllare le passioni – sono invece ritenuti apocrifi, sebbene siano spesso citati e usati nella letteratura religiosa. IL CONTENUTO Il presupposto comune dei due Libri è rapidamente evocato agli inizi del Primo. Alla morte di Alessandro Magno (323 a.C.) il suo impero è diviso tra i Diadochi. La Palestina toccò all’Egitto dei Lagidi, sotto la cui dominazione prosperò sino al 200 a.C. Poi passò sotto i Seleucidi di Siria. Questi rispettarono i Giudei sino a quando non assurse al trono Antioco IV Epifane (175-164), che per imporre agli Ebrei l’ellenizzazione iniziò una feroce persecuzione contro gli osservanti della Legge mosaica. Antioco ebbe l’appoggio di una fazione ellenizzante di rinnegati, alcuni dei quali giunti persino al fastigio del sommo sacerdozio. I Libri dei Maccabei descrivono la lotta della famiglia del sacerdote Mattatia Asmoneo e dei suoi figli Giuda, detto Maccabeo, Gionata e Simone contro i Seleucidi e i loro fiancheggiatori sino alla vittoria. Le vicende narrate nel Primo Libro abbracciano quarant’anni, dall’avvento al trono di Antioco IV alla morte di Simone (174-134). Quando questi scatena la persecuzione (167-164) allora Mattatia (167-166) bandisce la Guerra santa. Suo figlio Giuda (166-160) riporta una serie di vittorie sui generali di Antioco, purifica il Tempio e ottiene per i Giudei il diritto di vivere secondo le loro tradizione. Sotto Demetrio I (161-150) è ostacolato dal sommo sacerdote Alcimo (162-159), ma continua a riportare vittorie fino a sconfiggere Nicanore che voleva distruggere il Tempio; si allea con Roma e poi muore in battaglia. Gionata (160-143) suo fratello, nel quadro delle lotte intestine del Regno di Siria, riesce a farsi riconoscere sommo sacerdote da Demetrio II (145-140; 129-125) dopo essere stato nominato da Alessandro Balas (150-145), mentre viene confermato da Antioco VI (144-142). Gionata si avvicina a Roma e Sparta, estende e rafforza il suo dominio, ma viene ucciso a tradimento da Diodoro Trifone che elimina con lui anche Antioco VI. Simone Maccabeo (143-134) appoggia Demetrio II che riprende il potere e lo riconosce sommo sacerdote, etnarca e stratego dei Giudei. E’ raggiunta l’autonomia politica. Il popolo gli conferma questi titoli. L’alleanza con Roma è rinnovata. Ma al culmine del prestigio Simone è ucciso dal genero assieme a due figli, per compiacere Antioco VI, ormai ostile al Maccabeo. Le vicende del Secondo Libro sono ad un tempo un complemento ed un prequel del Primo. Si presenta come una epitome dell’opera perduta di Giasone di Cirene, in cinque libri. All’inizio riporta le Lettere dei Giudei di Gerusalemme a quelli Egiziani in cui li esortano a festeggiare il 25 casleu (ossia la festa della Dedicazione), ossia il giorno in cui Giuda Maccabeo sconfisse e uccise Nicanore, profanatore del Tempio. Riprende i fatti dei Maccabei ancor da prima di Antioco IV, iniziando da Seleuco IV (187-175) e giungendo alla sconfitta di Nicanore. Copre un arco di tempo di quindici anni. Contiene l’episodio di Eliodoro ai tempi del sommo sacerdote Onias III (187-175), descrive la profanazione del Tempio come castigo divino sulle infedeltà dei sommi sacerdoti Giasone (174-171) e Menelao (171-162), narra la purificazione dello stesso Tempio da parte di Giuda Maccabeo, l’arrivo di Lisia e la vittoria di Giuda su Nicanore. Possiamo fissare quindi questa cronologia dei fatti che riguardano i Libri dei Maccabei:
LA STRUTTURA Nel Primo Libro distinguiamo:
Nel Secondo Libro abbiamo:
DISAMINA LETTERARIA, STORICA E FILOLOGICA Il Primo Libro è un trattato di storia composto secondo i criteri della storiografia biblica e semitica rappresentata dai Libri dei Giudici, di Samuele e dei Re; è corredato da svariati documenti ufficiali. L’autore mostra il significato teologico dei fatti narrati. Il Secondo Libro è composto da cinque quadri inquadrati tra una introduzione e un congedo. Il tono è oratorio, volendo l’autore commuovere e persuadere. Ha dunque un intento storico velato di propositi edificanti e patetici. Il Primo Libro dei Maccabei è stato scritto in ebraico da un giudeo palestinese ma ci è giunto solo in greco. E’ stato scritto alla fine del regno di Giovanni Ircano o anche dopo la sua morte, intorno al 100, e prima dell’arrivo a Gerusalemme di Pompeo nel 63. Il Secondo Libro dei Maccabei è stato scritto in greco. Ha uno stile ampolloso che imita gli scrittori ellenistici di non grande levatura. Conosce bene le istituzioni greche e i fatti storici, anche meglio dell’autore del Primo Libro dei Maccabei. Sottolinea le apparizioni celesti e l’intervento divino nella guerra. Scrive per i Giudei di Alessandria per spingerli alla solidarietà coi fratelli di Palestina. Essendo l’ultimo episodio narrato quello della morte di Nicanore, il Secondo Libro dei Maccabei è stato scritto dopo il 160; se l’autore ha composto anche le Lettere che allega al suo Libro, allora anche questo potrebbe essere stato scritto nella data indicata in 2 Mac 1,9 b, ossia il 124. Il valore storico del Secondo Libro dei Maccabei non deve essere sottovalutato. L’autore ha conservato i racconti della Lettera 1,10-2,18, ma essi godevano di credito – e potrebbero essere anche autentici, non sapendo di preciso cosa sia accaduto all’Arca dell’Alleanza dopo la Caduta di Gerusalemme – né si deve dubitare della storicità dei fatti di Eliodoro, dei Sette Fratelli Maccabei e del martirio di Eleazaro; inoltre il Secondo Libro ha una generale sintonia col Primo e anzi è da preferirsi ad esso quando data la Purificazione del Tempio dopo la morte di Antioco Epifane piuttosto che prima, come è stato confermato da una tavoletta cronologica babilonese. Il tiranno infatti morì nell’ottobre-novembre del 164 mentre la Dedicazione avvenne alla fine di dicembre. In realtà il Secondo Libro dei Maccabei segue il computo giudaico degli anni, simile a quello babilonese e che parte dal mese di nisan (ossia aprile) del 311, mentre il Primo Libro dei Maccabei segue la cronologia macedone, che parte dall’ottobre del 312. Solo un caso vede un ribaltamento delle cronologie: gli avvenimenti del Tempio che in 1 Mac seguono il calendario giudeo-babilonese e le lettere di 2 Mac 11 che seguono il computo macedone; ma è una eccezione logica in quanto ovviamente le vicende templari seguivano la cronologia in uso nel luogo sacro e quelle diplomatiche la cronologia regia. Non c’è nemmeno motivo di dubitare delle notizie sul Tempio sugli anni anteriori al saccheggio di Antioco e riportate nel Secondo Libro dei Maccabei. Vi sono tuttavia delle sviste notevoli: alla Lettera di Antioco V (11,22-26) aggiunge in 11-12,9 altre Lettere ed eventi che sono del tempo di Antioco IV e che andavano tra i capp. 8 e 9. Evidentemente questi errori non c’erano nell’opera di Giasone di Cirene. Il testo dei Libri dei Maccabei è stato trasmesso da tre codici onciali - sinaitico, alessandrino e veneto - e trenta codici minuscoli; il Sinaitico, che ha una maggiore qualità, è mutilo della parte del Secondo Libro. I minuscoli seguono la recensione lucianea (300 d.C.) e riportano a volte un testo greco più antico di quello degli altri manoscritti; questo testo è seguito da Giuseppe Flavio, il quale segue il Primo Libro e ignora il Secondo. Un testo greco migliore di quelli che conosciamo e ormai perduto è alla base anche della Vetus Latina. Una recensione secondaria è alla base anche della Vulgata, in quanto San Girolamo non considerava i Libri dei Maccabei scrittura sacra. PECULIARITA’ TEOLOGICHE La Legge è al centro del Primo Libro dei Maccabei: la lotta attorno ad essa è tra Ebrei e Seleucidi, ma anche e soprattutto tra Ebrei osservanti e ellenofili. La guerra santa di Mattatia e dei suoi figli è una ripresa ad un tempo dell’Esodo e del Ritorno dall’Esilio. La massima gloria, il martirio per la Legge, è concessa a tutti i protagonisti del Libro. La lotta tra Giudaismo ed Ellenismo è anch’essa al centro del Secondo Libro dei Maccabei. E’ rifiutato ogni compromesso perché sarebbe rovinoso; il Giudaismo, di origine divina, non può modificarsi; la Legge è santa e Santo è il suo Autore, il Signore; la lotta tra bene e male inizia in terra ma si conclude nell’aldilà; il sacrificio dei martiri placa l’ira di Dio come una volontaria espiazione. In 12, 43-46 è esplicitamente rivelata l’immortalità dell’anima e il suffragio per i Defunti, evidentemente in un Regno oltretombale intermedio, quello che sarà chiamato Purgatorio. In 7,14 è rivelato che la Risurrezione dei Corpi sarà per i buoni e per i cattivi, ma che solo i primi avranno la Vita eterna, essendo i secondi destinati alla dannazione. E’ rivelato altresì che i Santi possono intercedere per gli uomini (15,12-16). Questi insegnamenti chiudono questioni ancora controverse in altri testi del NT. I Maccabei sono, ed in particolare Giuda, figure tipiche del Redentore, sia perché salvano il Popolo sia perché sono sacerdoti e capi del popolo. Essi, non davidici, preparano l’avvento di un Messia davidico che sarà Re e Sacerdote. La profanazione del Tempio e l’abominio della desolazione sono figura della distruzione definitiva del 70 d.C. e del 130 d.C., oltre che prefigurazione della fine del mondo, mentre Antioco IV è figura dell’Anticristo. Gli Ebrei non considerano questi testi ispirati ma li trattavano con grande rispetto, come attesta Origene. I Padri e gli scrittori ecclesiastici come Clemente Alessandrino, Ippolito, Tertulliano, Cipriano, Eusebio, Afraate, Teodoreto, li citano come Sacra Scrittura. Ancora come Libri sacri sono elencati nella Bolla di Eugenio IV (1431-1447) e nel Canone del Concilio di Trento. COMPLEMENTO: LA STORIA DEGLI EBREI TRA VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO Non è un caso che la storia sacra si fermi a Giovanni Ircano. Questi continuò l’opera di consolidamento dell’Etnarcato iniziata dal padre estendendone i territori e approfittando della crisi irreversibile dei Seleucidi, ma ebbe molti problemi all’interno, dove si appoggiò ai Sadducei e si scontrò coi Farisei, irriducibili difensori della Legge di Mosè. Proprio per sanare la frattura Ircano separò il sommo sacerdozio dall’etnarcato lasciando il primo al figlio Aristobulo e il secondo alla sua vedova. Ma Aristobulo non solo uccise la madre assumendo l’etnarcato ma compì una usurpazione assumendo il titolo regio che spettava solo ai discendenti di David. I Farisei che si opponevano furono severamente puniti. Questi però si ribellarono nuovamente al fratello e successore di Aristobulo, Alessandro Ianneo, i confini del cui regno coincidevano più o meno ormai con quelli del Regno di David. Tra il 90 e l’84 si combattè una guerra civile che vide l’annientamento politico dei Farisei. Questi però tornarono in auge con il governo della vedova di lui, Salome Alessandra, e di suo figlio Ircano II, sommo sacerdote, mentre i Sadducei passarono all’opposizione. Morta Alessandra, l’esercito, che già negli ultimi mesi di vita della Regina si era schierato per il suo secondogenito Aristobulo II, si ribellò ad Ircano. Questi dapprima si arrese e poi, subornato da Antipatro II l’Idumeo, governatore della sua regione di origine per conto degli Asmonei, si rifugiò presso i Nabatei col cui aiuto assediò Gerusalemme. In questo contesto, nel 65, i due fratelli entrarono in contatto con Pompeo Magno, il cui luogotenente Scauro, conosciuti i termini della contesa dinastica, ordinò ai Nabatei di togliere l’assedio. Pompeo decise di arbitrare la questione in Damasco dove, accanto ai fautori di Ircano e Aristobulo, si presentarono anche coloro che volevano la restaurazione del potere politico del Sinedrio e l’abolizione della monarchia illegittima. Il generale romano non aveva ancora preso nessuna decisione quando Aristobulo, disperando della sua approvazione, con un colpo di mano si asserragliò in Alexandreion; di qui Pompeo lo snidò prontamente costringendolo a trincerarsi in Gerusalemme. Questa fu presa dopo tre mesi di assedio, tra il settembre e l’ottobre del 63. Pompeo penetrò nel Santo dei Santi nel Tempio, ma non lo saccheggiò e ordinò che fosse subito purificato perché il culto riprendesse regolarmente. Ircano fu restaurato nel sommo sacerdozio ma gli fu tolta la dignità regale; l’Etnarcato giudaico fu privato di tutte le regioni non ebree; Aristobulo inviato a Roma e Antipatro divenne il braccio destro di Ircano. Di lì a poco Crasso, legato in Siria, per finanziare la sua spedizione contro i Parti, impose al Tempio un tributo pesantissimo e solo la morte del Triumviro (60) a Carre salvò Giuda da altre spoliazioni. Nel 57 Alessandro II, figlio di Aristobulo, tentò di sollevare la Giudea, ma fu sconfitto dal proconsole Gabinio. Nel 56 ci riprovò il padre, fuggito da Roma, ma con esito nuovamente fallimentare, trovandosi nuovamente prigioniero nell’Urbe. Un secondo tentativo del figlio si concluse allo stesso modo. Quando poi Cesare e Pompeo vennero alle armi, il primo liberò Aristobulo e lo spedì in Giudea, ma il secondo riuscì a farlo avvelenare e fece giustiziare suo figlio Alessandro. Ircano e Antipatro dovettero sostenere Pompeo, ma quando questi fu sconfitto a Farsalo decisero di cambiare fronte. Morto il loro protettore, aiutarono Cesare nella campagna d’Egitto nel 48. Poterono rimanere in sella indisturbati solo sino alla morte del dittatore nel 44. Infatti subito dopo non solo Cassio, uno dei cesaricidi, impose un durissimo giogo fiscale alla Giudea, ma anche Antipatro fu avvelenato. Iniziava un nuovo contrasto: tra i figli di Antipatro, Erode e Fasael- fautori nominali di Ircano ma che in realtà miravano a subentrare nella posizione di potere che era stata del padre - e Antigono, figlio di Aristobulo II. Questi potè salire al trono con l’appoggio dei Parti, nel 40; essi imprigionarono Fasael ed Erode, ma questi riuscì a fuggire a Roma, dove Marco Antonio lo fece riconoscere Re di Giudea e fece dichiarare decaduto Antigono, perché si era schierato col nemico. Nel frattempo Fasael era stato ucciso dai Parti e Ircano mutilato per impedirgli di riprendere il sacerdozio. Erode però giunse in Palestina e, aiutato dal proconsole Sosio, nel 38 la conquistò e nel 37 assediò ed espugnò Gerusalemme, che fu saccheggiata spietatamente. Erode, imparentato con gli Asmonei perché sposo di Mariamne, figlia di Alessandro II, si insediò così sul trono. Per la prima volta, Giuda aveva un Re straniero pur essendo uno Stato indipendente. Si creava così una condizione fondamentale per l’attesa del Messia: lo scettro era stato tolto a Giuda, come aveva profetizzato Giacobbe, ma siccome questo sarebbe accaduto solo prima che giungesse Colui al Quale apparteneva di diritto, il fermento messianico divenne grandissimo e fu sempre una minaccia per Erode. Vi era anche la frangia legittimista asmonea che rendeva incandescente il regno erodiano. Costretto a favorire l’ascesa al sommo pontificato di Aristobulo III, figlio di Alessandro II, Erode, quando si avvide che la sua proclamazione a Re era imminente, ordinò di farlo uccidere. Anche in politica internazionale l’usurpatore ebbe molti problemi. Erode si vide dapprima mutilare il Regno da Antonio per compiacere Cleopatra VII e poi dovette affrontare la crisi causata dalla vittoria di Ottaviano ad Azio (31). Preparatosi per tempo al cambio di campo, Erode mise a morte Ircano II per evitare una restaurazione asmonea per mano di Ottaviano (30) ed estinguendone definitivamente la Casa, mentre si mise al servizio del nuovo signore di Roma. Augusto gli restituì i territori sottrattigli da Antonio e il Regno tornò all’estensione dei tempi di Alessandro Ianneo. Nel suo lungo regno Erode si mostrò diplomatico accorto, politico scaltro e abile, buon generale, costruttore infaticabile, amministratore sagace, intelligente protettore del Giudaismo e della casta sacerdotale, ma anche crudelissimo e sospettoso per puntellare il suo trono. Non a caso uno dei suoi ultimi atti fu l’inutile tentativo di sopprimere Gesù con la Strage degli Innocenti. Abbiamo quindi questa cronologia:
ADNEXUM: GESTA DEI PER ISRAELEM. I LIBRI STORICI NEL VT I Libri storici sono tali per il Canone cristiano, mentre nella LXX essi sono chiamati “Legislazione e Storia” e nella Bibbia ebraica sono divisi tra la Torah e i Profeti Anteriori. Il Canone cristiano è: Genesi Esodo Levitico Numeri Deuteronomio Giosuè Giudici Rut Primo e Secondo Libro di Samuele (o Primo e Secondo Libro dei Re) Primo e Secondo Libro dei Re (o Terzo e Quarto Libro dei Re) Primo e Secondo Libro delle Cronache o Paralipomeni Primo e Secondo Libro di Esdra (o Libro di Esdra e Libro di Neemia) Tobia Giuditta Ester Primo e Secondo Libro dei Maccabei. Il Canone greco giudaico prevedeva i Libri ebraici tradotti in greco con varianti, omissioni e aggiunte anche importanti, i Libri greci – spesso con originali ebraici e aramaici - non riconosciuti ispirati dalla Sinagoga ma dalla Chiesa sì (ossia deuterocanonici) e alcuni libri che non sono stati accolti nemmeno nel Canone cristiano. Abbiamo quindi Genesi Esodo Levitico Numeri Deuteronomio Giosuè Giudici Rut Primo Secondo Terzo e Quarto Libro dei Re Primo e Secondo Libro dei Paralipomeni Primo e Secondo Libro di Esdra (l’ultimo corrispondente alla somma di Esdra e Neemia) Ester Giuditta Tobia Primo Secondo Terzo e Quarto Libro dei Maccabei. Infine nel Canone ebraico abbiamo “All’inizio”, “Questi sono i nomi”, “E il Signore chiamò Mosè”, “Nel deserto”, “Queste sono le parole”, Giosuè, Giudici, Libro di Samuele, Libro dei Re. Rut, Ester e il Libro di Esdra (comprensivo anche di quello di Neemia) e il Libro delle Cronache (corrispondente alla somma del Primo e del Secondo Libro delle Cronache) sono invece annoverati tra gli Scritti o Agiografi. I Libri storici hanno alcune caratteristiche schematicamente riassumibili. La prima è che il vero, unico protagonista è Dio, il Quale agisce attraverso ogni cosa e persona, essendo tutto assoggettato al Suo volere sovrano. La seconda è che tutte le azioni che Dio compie, pur avendo una matrice ovviamente sovrannaturale, sono rigorosamente storiche: sia quelle che Egli compie da solo, sia quelle a cui Egli associa i Suoi eletti; esse sono peraltro rigorosamente conoscibili e documentate. La terza è che la storia diviene dunque il luogo in cui Dio si rivela, per cui alcune rivelazioni fondamentali – quelle dei Patriarchi, di Mosè e dei Profeti Anteriori – sono contenute solo nei Libri Storici. La quarta è che proprio coi Libri storici inizia la religione storica come fenomeno culturale, destinato a continuare nel Cristianesimo e nell’Islamismo. La religione storica in questione è ovviamente quella ebraica, dapprima come monoteismo originario naturale e rivelato, poi come monoteismo abramitico, indi come mosaismo e infine come giudaismo. La quinta è che le norme del culto e della morale, esattamente come quelle del dogma e della preghiera, sono date da Dio in un contesto storicamente definito. La sesta è che attraverso i Libri storici si delinea la fisionomia della comunità politico-religiosa del Popolo eletto, secondo un modello normativo per il quale Dio è il Signore non solo del singolo ma anche della collettività, e che legifera non solo in ambito religioso ma anche politico, sociale ed economico. La settima è che nei Libri Storici si rintracciano alcuni temi chiave di grande valore teologico: la Creazione, la Caduta, la Promessa della Redenzione, l’Alleanza – nelle sue varie forme con Noè, Abramo, Mosè – l’Elezione – anch’essa nelle sue varie forme: del Popolo, della Tribù, della Famiglia e dell’Unto – il Culto, il Tempio, la Legge, il Messianismo, la Colpa e il Castigo, la Virtù e il Premio; essi conservano un valore perenne e sono formativi anche per i Cristiani, oltre a servire per leggere la storia di Israele nei suoi nodi fondamentali. L’ottava è che la narrazione dei Libri storici è una teologia che si nutre di storia, perché vede in essa il Dito di Dio. I Libri storici coprono un lasso di tempo che va nel suo spettro massimo a coprire ventiquattro secoli e sono stati scritti nell’arco massimo di milleseicento anni e in quello minimo di un millennio scarso. Sono dunque assai diversi tra loro ma hanno, nell’imitazione reciproca, creato un genere tipico della cultura semitica. I più antichi sono andati avanti per stratificazioni linguistiche più che contenutistiche, proprio per mantenere viva la tradizione sacrale che essi conservavano. Sono stati concepiti per collezioni completatesi nel tempo. Sono opera di autori di grande prestigio. Inoltre la critica storico-letteraria che verte su di essi presumibilmente deve liberarsi di alcune forme tradizionali che tendono a mortificare l’aspetto propriamente storico a vantaggio di quello testuale e teologico, così da restituire al lettore la freschezza dell’ispirazione religiosa che ha dato vita a questi antichissimi gioielli letterari. SAPIENTIA DEI PER ISRAELEM. Breve introduzione ai Libri Sapienziali. I LIBRI E LA LETTERATURA SAPIENZIALE Sono chiamati sapienziali cinque libri dell’AT: quello di Giobbe, del Qoélet o Ecclesiaste, del Siracide o Ecclesiastico, della Sapienza, a cui si aggiungono, in senso lato, quello dei Salmi e del Cantico dei Cantici, più affini ad uno spirito presente anche nei Libri di Tobia e di Baruc. Tra i Salmi in effetti moltissimi sono didattici e sapienziali. Nella Bibbia ebraica i sapienziali sono catalogati tra gli Scritti o Agiografi, e sono i Salmi (o Inni), Giobbe, Proverbi, Cantico dei Cantici, Ecclesiaste o Qoélet. In quella greca sono inseriti tra i Poeti e Profeti e sono i Salmi, le Odi, i Proverbi di Salomone, l’Ecclesiaste, il Cantico dei Cantici, Giobbe, la Sapienza di Salomone, la Sapienza di Ben Sira o Ecclesiastico e i Salmi di Salomone. Di questi, le Odi e i Salmi di Salomone sono stati considerati apocrifi dai Cristiani. Tutti questi libri hanno in comune la passione per la hokmāh, la sophia greca, ossia, appunto, la sapienza. La letteratura sapienziale ha i suoi modelli in quella egiziana e mesopotamica, avendo entrambe una ininterrotta ed antichissima produzione di tale tipo, utile per datare e comprendere quella biblica. La letteratura sapienziale mesopotamica – iniziata coi Sumeri – entrò anche in Canaan, dove è presente a Ras Shamra con testi accadici. Assira è la Sapienza di Achikar, poi tradotta in aramaico e in altre lingue. Tale letteratura è in fondo di matrice piuttosto profana e spiccatamente internazionale. La riflessione esistenziale non è di tipo filosofico ma pratico, e spesso è una regola del buon vivere che introduce all’armonia cosmica, della buona educazione, della capacità di gestire se stessi, ma anche una amara constatazione della vanità dell’esistenza. Gli Ebrei conobbero questa letteratura e l’ammirarono. A Salomone, il loro maggior sapiente, essi tributarono l’onore di considerarlo più grande dei saggi d’Oriente e d’Egitto (1 Re 5,10), mentre erano apprezzati i saggi arabi ed idumei, tra i quali vi è il mitico Giobbe; Tobia conosceva le Massime di Achikar, i Proverbi echeggiano quelle di Amenemope; i Salmi dei cananei Eman ed Etan sono accettati in 1 Re 5,11; i proverbi di Agur e Lemuel, arabi di Massa, sono ammessi nel Libro omonimo. L’INSEGNAMENTO SAPIENZIALE Le parti più antiche del Libro dei Proverbi sono foriere di sapienza meramente umana. I Libri sapienziali, eccettuati il Siracide e la Sapienza, non trattano nessuno dei grandi temi dell’AT, anche se sono illuminati dalla fede mosaica che sempre più approfondisce la differenza tra la sapienza ebraica e quella pagana. Per essa alla dicotomia sapienza-stoltezza si sovrappone, in ambito giudaico, quella tra giustizia e iniquità come tra pietà ed empietà. Ci troviamo quindi dinanzi ad un umanesimo devoto, mosaico o giudaico che dir si voglia. Il sapiente diventa dunque colui che sa comportarsi in ogni circostanza alla luce della Parola di Dio e che la insegna agli altri inducendola a seguirla. In ragione di ciò egli si istruisce per istruire e praticare e pratica per dare l’esempio. Questa valenza religiosa si è andata sviluppando progressivamente, in conformità al senso stesso della parola ebraica che indica la sapienza: essa originariamente è l’abilità manuale e professionale, il senso politico, il discernimento; ma anche l’astuzia, l’accortezza e persino la magia. Perciò la sapienza di per sé può anche orientarsi al male, come stigmatizzano a volte i Profeti. Ciò giustifica il fatto che, sebbene la sapienza sia un dono di Dio, essa sia stata solo tardivamente attribuita a Lui stesso, o almeno che i Libri di tale argomento siano entrati tardivamente nel canone, se non proprio scritti in epoca recente. Ciò a dispetto del fatto che la sapienza era già da Ugarit l’attributo principale del dio El. Sembra che solo nei Libri postesilici la Sapienza di Dio sia vista come unica ed esclusiva, esplicantesi nella Creazione e nella Provvidenza, pur nella sua imperscrutabilità. Nel prologo dei Proverbi la Sapienza di Dio è ipostatizzata, è coeterna a Dio e a Lui interna, ha collaborato con Lui nella Creazione. In Giobbe Essa è distinta da Dio, Che solo sa dove si nasconda. Nel Siracide Essa si presenta come uscita dalla bocca di Dio, come dimorante nei Cieli e come inviata in Israele. Il Libro della Sapienza parla di Essa come irradiazione della Gloria di Dio e immagine del Suo Splendore. Vi è dunque un crescendo teologico, che da una mera personificazione letteraria conduce ad una ipostatizzazione autentica che prelude alla Rivelazione del Logos nel NT. Storicamente, il Cristo non avrebbe potuto presentarsi né essere presentato come Logos se non avesse potuto riallacciarsi a questo precedente, importante anche per creare un nesso tra la cultura giudaica e quella ellenica. Alla luce del Vangelo la canonicità e l’ispirazione dei Sapienziali appare dunque pienamente. Il tema del destino umano fa sì che i Sapienziali riflettano sul nesso tra virtù e premio, tra castigo e colpa; tale nesso è creato da Dio stesso, il Quale infallibilmente retribuisce. Ciò è attestato sin dal Libro dei Proverbi. Questo tuttavia solleva il drammatico interrogativo su quando questo atto, logicamente necessario per l’ordine della giustizia, realmente avvenga. Tale domanda incupisce Giobbe e il Qoélet. Essi non negano la retribuzione divina anche se ammettono di non comprenderne le vie e sanno di non poterla pretendere. Il Siracide invece sottolinea come il momento decisivo in tal senso sia la morte. Il nesso tra la retribuzione e la vita ultraterrena sarà esplicitato in Daniele e nel Giudaismo alessandrino, forte, questo, dell’incontro con il platonismo e la sua concezione dell’anima immortale scissa dal corpo e capace di sopravvivergli con una esistenza piena ed autonoma. LO STILE SAPIENZIALE La forma letteraria sapienziale di base è il mashal o proverbio. Non a caso i Proverbi sono il titolo del Libro sapienziale con le parti verosimilmente più antiche. Detto popolare o massima, sotto forma di distico retto da un parallelismo, spesso numerico, il mashal colpisce l’immaginazione; le sue antiche collezioni contengono solo brevi sentenze; poi esso diviene parabola, allegoria, discorso, ragionamento. In un certo senso Giobbe e la Sapienza sono un solo, compiuto ed elegantissimo mashal. In ciò si ravvisa anche l’origine patriarcale, tribale, gentilizia, familiare della Sapienza, sia come norma di vita che come legge, anche se poi essa si è raffinata. La brevità delle sentenze permette che esse siano l’insegnamento base del padre per il figlio, del maestro per il discepolo, nel quadro di una tradizione che è all’inizio orale. Del resto, opere sapienziali molto antiche sono anche nei Libri storici, come la Storia di Giuseppe o quella dell’ascesa al trono di Salomone, mentre è certo che gli scribi di Ezechia raccogliessero i proverbi e ne aggiungessero di nuovi. I Libri Sapienziali sono detti anche Poetici per lo stile loro proprio. La poesia ebraica che ci è giunta è essenzialmente religiosa ed è un gioiello della letteratura mondiale; ha stile alto, immaginoso, elegante nelle parole e nella composizione musicale della frase, capace di suscitare universale ammirazione, di toccare una vasta gamma di espressioni, elevazioni e sentimenti. Senz’altro superiore alla prosa, la poesia ebraica non ha tuttavia né rima né computo sillabico; la sua figura retorica più comune è il parallelismo, inteso sia come sinonimico, che come antitetico e come sintetico-progressivo – ossia atto ad esplicare il concetto. Particolare anche l’accentuazione, considerata per ogni tante sillabe, per cui possono cadere più accenti su di una sola parola o esserci più parole con un solo accento reggente. Infine, a causa dell’uso fattone, questi Libri sono, raramente, detti anche didattici. I LIBRI SAPIENZIALI E IL VT L’ambiente sapienziale è dunque diverso da quello profetico e sacerdotale. Ma nonostante ciò almeno dopo l’Esilio i tre ambienti si incontrano e il Prologo dei Proverbi ha il tono della predicazione profetica, mentre Siracide e Sapienza riflettono sulla storia sacra; il primo venera la Legge e unifica sapienza e legge. Il vertice e l’inizio della Sapienza ebraica è identificato con Salomone, cui si attribuiscono il Cantico dei Cantici, i Proverbi, la Sapienza, il Qoélet e Giobbe. Il percorso, snodatosi come abbiamo descritto, giunge al termine in Cristo, il Quale appunto disse di Sé che “qui vi è più di Salomone” (Mt 12,42). I MODELLI DELLA LETTERATURA SAPIENZIALE Essi si ravvisano nella letteratura egiziana e in quelle mesopotamiche. In Egitto la parola “sapienza” identifica il sapere tramandato di padre in figlio e di maestro in discepolo, cosa a sua volta entrata nella letteratura sapienziale ebraica. Queste opere egizie mirano a tracciare un itinerario di vita per l’uomo che vuole seguire la legge morale e realizzarla in sé e nei rapporti umani. Il saggio è spesso identificato con il silenzioso, perché è riservato e obbediente. Israele potè confrontarsi con la sapienza egiziana sin da quando il patriarca Abramo scese in Egitto, in quanto il più antico libro sapienziale di quel Paese risale al 2770 a.C. ed è di Imhotep, anche se a noi non è giunto. Abbiamo poi estratti della sapienza indirizzata a Kagemni, visir di Snefru (2625-2585) fondatore della IV Dinastia (2625-2510). Sono note anche le Istruzioni di Hordjedef, figlio di Cheope (2585-2523), che passarono alla posterità sotto forma di sentenze proverbiali. Nell’Antico Regno l’opera maggiore sono le Massime di Ptahhotep - vissuto ai tempi di Unas (2490-2460), della V Dinastia (2510-2460) - che insegnano le buone maniere e la fedeltà ai superiori. Vi è poi l’Insegnamento di Merikārē (XXI sec.) in cui l’ammaestramento di un faraone, Khety III (2110-2075), al figlio inculca con chiarezza il timore del giudizio di Dio oltre la morte. Nozione, questa, che potè penetrare quindi in Israele prima di quanto si creda e che in effetti è suggerita nella Storia di Giuseppe che è stata scritta in Ebla sin dal XXI sec. per poi confluire nella Genesi mosaica nel XVII sec. a.C. Lo stesso Insegnamento sviluppa una cosmogonia antropocentrica che potè essere di modello anche per alcune parti analoghe dei Sapienziali biblici. E’ altresì orientata a spingere gli uomini alla conformità con Maat, una sorta di Sapienza divina del pantheon egizio. Idea che quindi potè anch’essa influenzare sin dall’antichità la nozione personalistica, almeno letteraria, della Sapienza di Dio. Gli scritti del Medio Regno sono legati alla propaganda del potere regio. Il Canto dell’Arpista, uno dei testi più originali, datato al Primo Periodo Intermedio (2200-2000), presenta idee edoniste e scettiche diverse dal senso religioso comune e per certi tratti a mio avviso simili a quelli del Qoélet. Esso fu inciso sulla Tomba di uno degli Antef dell’XI Dinastia (2160-1991), tradito dal Papiro Harris 500 e fu molto di moda nel Nuovo Regno. Quelli del Nuovo Regno sono elaborati nel mondo scribale. Lo scritto di Amenemope (993-984) presenta forti analogie coi Proverbi (22,17-23,11) che quindi potè influenzare. Esso, di poco anteriore a Salomone (970-931), fu molto noto in Siria Palestina, la quale del resto sin dall’XI sec. è debitrice alla cultura egizia in tal senso, come attesta il Racconto di Unamon, contemporaneo di Saul e David. Gli ultimi grandi scritti sapienziali egizi sono quelli di Petosiris, sommo sacerdote di Toth ad Ermopoli (IV sec.), assai spirituale, e quello del Papiro Insinger (I sec. d.C.), contenente un testo più antico, in cui Dio è definito Colui Che riconosce nel cuore il giusto e l’ingiusto. In Mesopotamia la sapienza è una cognizione generale ed approfondita della condizione umana, del singolo e della società. Il saggio è in sumerico colui che sa molto, in accadico colui che è abile, efficace, esperto e intelligente. Non ha dunque una connotazione morale, se non raramente. Infatti sembra che la sapienza egizia abbia esercitato maggiore influenza su quella biblica. In ogni caso le letterature mesopotamiche hanno diversi scritti di sapienza, divisibili per generi letterari: proverbi (soprattutto sumerici), favole, racconti popolari, saggi, enigmi – tutti presenti nella Bibbia, specie nei Libri più antichi- scenette (in sumerico), tenzoni, istruzioni, dialoghi satirici e naturalmente istruzioni. Di maggior livello morale, queste hanno tra di esse opere importanti come le Istruzioni di Šuruppak (2500 a.C.) in sumerico e accadico – in cui un padre istruisce il figlio spesso in forma negativa – i Consigli di Saggezza, in accadico – con una morale simile alla nostra- il Ludlul Bēl Nēmeqi (1000 a.C.), simile al Libro di Giobbe che potè influenzare – sul male e l’ingiustizia nel benevolo progetto degli dei – e la Teodicea Babilonese (1400-800 a.C.), un dialogo tra uno scettico e un credente, che ricorda l’Ecclesiaste che potè anticipare. Va infine aggiunto che la hokmāt biblica è una parola fenicia – segno di una ulteriore influenza esterna sulla letteratura sapienziale – e che la dea della sapienza cananea, Dì-a-at (la “Conoscenza”), è stata assorbita non solo teologicamente ma anche linguisticamente già in 1 Sam 2,3, quindi in un’epoca molto remota. IN JOB SCRIPTURAM Breve introduzione al Libro di Giobbe IL TITOLO E IL PROTAGONISTA Il Libro prende il nome dal protagonista, Giobbe. E’ questi un giusto di fama leggendaria, noto già ad Ezechiele che lo cita con Noè e Daniele. La forma letteraria del prologo e il modo della presentazione depongono a favore di una origine particolare del Libro: esso infatti non è una biografia o un resoconto storico, ma una tradizione accolta dall’antichità. Giobbe non appartiene al popolo ebraico, la sua storia potè originarsi in Horan o Edom o Siria settentrionale, e poi penetrò in Palestina, dove divenne uno dei più grandi poemi di tutti i tempi. Giobbe appartiene all’età dei Patriarchi e si comporta come tale: è il capo della sua casa, ha abbondanti beni in greggi e armenti, esercita il sacerdozio, offre i sacrifici, adora il vero Dio, ma è uno straniero, forse discendente di Abramo, forse addirittura completamente straniero. Egli vive tra l’Arabia e Edom, terra celebre per i suoi sapienti. CONTENUTO E STRUTTURA Il poema si divide in tre parti: Prologo (1-2), Dialogo (3-42,6) ed Epilogo (42,7-17). Il Prologo è in prosa alternata a poesia che ne costituisce i tre quarti; presenta i personaggi; contiene il nucleo dell’azione. Giobbe è infatti un giusto che conduce una vita retta e felice, ma in Cielo qualcuno trama contro di lui: è Satana, che si presenta innanzi a Dio e agli angeli, contestando che la virtù del Patriarca sia disinteressata e chiedendo il permesso di metterlo alla prova. Ottenutolo, il diavolo colpisce Giobbe privandolo dei beni e dei figli, avendo Dio ordinato di risparmiare la sua persona. Giobbe rimane fedele. Allora Satana, schiumante vendetta, ancora chiede a Dio di provare il servo fedele nel suo stesso corpo, e Dio lo permette, ponendo come vincolo il rispetto della vita di Giobbe. Questi è coperto da una piaga repellente dalla testa ai piedi, ma accetta da Dio anche questa dura prova, sconfiggendo Satana. Tre amici giungono tuttavia a consolarlo, trascorrendo sette giorni e sette notti di silenzio con lui e poi ascoltando il grido di dolore di Giobbe, che non si ribella né si dispera, ma sfoga la sua sofferenza. Il Dialogo avviene proprio tra Giobbe e i suoi amici. I tre amici non comprendono il dolore di Giobbe e non si mettono sul suo livello, iniziando una sorta di diatriba che culminerà con il trionfo di Giobbe sanzionato da Dio stesso resosi visibile. I tre amici infatti sono legati alla concezione arcaica per la quale colui che soffre è punito per i suoi peccati. E non capiscono perché Giobbe non voglia ammetterlo facendo penitenza. Elifaz, Bildad e Zofar con prove dei padri, della tradizione e dell’esperienza cercano di convincerlo, ma Giobbe oppone a ciò la testimonianza della coscienza e la constatazione che i malvagi spesso prosperano. I tre amici allora diventano esplicitamente ostili con ironia e disprezzo, per cui Giobbe si appella al Vindice supremo, che lo giudicherà alla fine dei tempi, quando il suo corpo tornerà alla vita e sarà mondato dalla piaga che lo deturpa e lo affligge. Allora gli amici ripetono i loro argomenti e ricorrono all’insulto e all’ironia. Segue un intermezzo che altro non è un inno alla Sapienza divina, inaccessibile all’uomo, il quale deve solo sforzarsi di conseguire una sapienza pratica, che consiste nel temere Dio e osservare la Sua Legge. Giobbe prepara la sua abile difesa innanzi al Tribunale di Dio dimostrando di aver conseguito questa sapienza pratica. Deprecando ed esaminando la sua condotta Giobbe chiede a Dio di pronunziarsi, sicuro della sua vittoria. A questo punto interloquisce Eliu, un giovane rimasto in silenzio fino a quel momento che con oratoria enfatica ora ribadisce i motivi tradizionali esposti dagli altri amici e tempera gli ardori oratori di Giobbe. Secondo lui la sofferenza purifica l’uomo e lo preserva da colpe maggiori. Esalta la Sapienza divina e liricamente descrive la Potenza di Dio nella tempesta, preparando la teofania. Ed ecco che compare Dio stesso in mezzo al turbine, luogo ordinario dei divini giudizi. Dinanzi alle domande di Giobbe, l’Onnipotente passa in rassegna i capolavori e le opere della Sua creazione, il suo ordine, il dominio degli elementi e degli esseri viventi anche più indomiti per l’uomo. Giobbe capisce che non può avanzare dubbi e pretese di comprensione sull’ordine morale del cosmo, e si fa piccino piccino sentendosi polvere e cenere. Dio dunque non scioglie gli interrogativi di Giobbe, perché troppo alti per mente umana, ma attesta la sua innocenza. Nell’Epilogo Dio perdona gli amici di Giobbe per riguardo a lui, pur stigmatizzando la loro perfidia; lo riconosce non colpevole e lo reintegra nei beni persi, raddoppiandoli addirittura. L’AUTORE I nomi proposti sono stati tanti e io stesso proporrò una mia identificazione. Di certo è un dotto e sapiente israelita colui che ha scritto il Libro così com’è ora. Diversa è la questione della preistoria del Libro. Il Talmud ha proposto il nome di Mosè. Altri quello di Salomone. A sostegno della prima tesi si adduce la patina arcaica della narrazione, specie prosastica. A riguardo della seconda si può considerare la vastità della cultura letteraria e sapienziale presupposta dal testo e tutta molto antica. Oggi si tende a considerare anonimo l’autore definitivo, che conosceva i Profeti e i Sapienti, dimorava in Palestina ma conosceva l’Egitto. Se consideriamo l’opera come uscita dalla penna di uno solo, possiamo anche porne la composizione tra il 587 e il 538, ossia nel periodo esilico e postesilico; ciò giustificherebbe le relazioni con Geremia ed Ezechiele, oltre che gli aramaismi linguistici. Forse più probabilmente l’autore scrisse all’inizio del V sec. Se invece individuiamo più strati compositivi, allora la data di stesura definitiva si abbassa di molto. Di questo vediamo però in quanto segue. DISAMINA FILOLOGICA Una euristica abbastanza raffinata – che vado ad esporre aggiungendovi le mie personali considerazioni - distingue nel Libro quattro composizioni incastrate l’una nell’altra, di epoche diverse. La prima è la cornice narrativa del Prologo e dell’Epilogo, che per questa teoria erano originariamente unite. Sebbene non esistano testi sapienziali extrabiblici simili a quello di Giobbe, il Ludlul Bēl Nēmeqi dall’XI sec. in Mesopotamia e, sotto certi aspetti, il Dialogo di un disperato col proprio Ba in Egitto durante il Medio Regno attestano la presenza dell’angosciante domanda del senso della sofferenza nel Medio Oriente in un arco di tempo molto ampio. Del resto il tema della sofferenza del giusto era trattato nella letteratura sumerica sin dal XX sec. a.C., quindi molto prima della nascita di Israele come popolo. La storia di Giobbe, dunque, nasce fuori di Israele, in Edom o nell’Horan, come dicevamo, forse già per mano di Mosè in lingua egiziana durante l’Esodo, ma la sua stesura letteraria ebraica avviene all’interno del popolo ebreo. E’ appunto originariamente e brevemente in prosa. Potè accadere tra il X e il IX sec., proprio nell’epoca e quindi per mano di Salomone, tanto che nel VII sec. Ezechiele conosceva Giobbe e le sue vicende. Un importante innovazione potrebbe essere stata introdotta dopo l’Esilio, quando fu introdotto il personaggio di Satana. Di certo, essendo il suo nome ancora un sostantivo e non proprio, come attesta l’articolo, tale aggiunta è anteriore al periodo in cui furono scritte le Cronache, dove appunto Satana è nome proprio. Per cui la presenza di Satana potrebbe essere anche anteriore all’Esilio stesso e successiva all’epoca di Samuele, nei cui Libri il diavolo non svolge le parti che gli vengono attribuite nelle Cronache. Ossia sarebbe un ulteriore indizio della sua origine in età monarchica. La seconda composizione sarebbe la parte dialogata. Nella prima metà del V sec., ossia nell’epoca di Esdra, un israelita dotto e ingegnoso avrebbe separato in due il racconto in prosa, creando prologo ed epilogo, e introducendovi dei dialoghi forieri di una teologia nuova, alcuni con tre amici, altri con Dio stesso. Due monologhi di Giobbe (3 e 29-31) fanno da cornice ai dialoghi con gli amici, mentre Elifaz, Bildad e Zofar prendono per tre volte di seguito e sempre in quest’ordine la parola, ricevendo ognuno da Giobbe una risposta. Si creano così tre cicli di discorsi (4-14; 15-21; 22-27). I temi sono quelli che abbiamo accennato nella trattazione del contenuto, compresa l’allusione al Vindice e alla Resurrezione, come almeno l’intese la LXX rendendo la traduzione del go’el, il Redentore, in modo allusivo a tale dottrina. All’ultima sfida di Giobbe risponde Dio stesso (38,1-42,6) Che, nei modi che abbiamo visto, mostra a Giobbe l’amore che porta a tutte le creature, per cui anche l’uomo non può esservi escluso, così che il protagonista riconosce di avere avuto torto nel pretendere di capire ciò che è un postulato della contemplazione del cosmo (40,3 e 42, 2-6). Questa parte poetica che è senz’altro la più perspicua del Libro poteva forse essere la caratteristica saliente anche della narrazione in prosa, per cui magari essa venne a supplire una parte di quest’ultima mettendola in versi, o addirittura ad integrare e ammodernare una poesia preesistente. Di certo, nonostante la diversità di stile e di tono, la parte prosastica dell’attuale Libro di Giobbe fu sempre il presupposto logico e narrativo di quella poetica. La terza composizione sono i discorsi di Eliu (32-37), che sono datati all’epoca di Malachia (metà del V sec.), con la loro tesi sul valore educativo della sofferenza. Anche questa parte però potrebbe essere di molto più antica, sia in una eventuale versione in prosa sia in una arcaica forma poetica. Albright sosteneva che il Libro di Giobbe fosse ascrivibile, per lingua e riferimenti, alla Siria settentrionale. Gb 36, 4, che può essere tradotto sia con “un uomo di perfetta scienza è qui con te” sia con “il Perfetto di scienza è con te”, può essere una prova dell’origine eblaita del testo. Infatti la seconda espressione potrebbe essere stata usata da Eliu riferendosi a se stesso come a colui che è indefettibilmente illuminato da Dio. In questo caso il “Perfetto” sarebbe un appellativo divino, riscontrabile solo nell’eblaita (ta-mi-nu), ossia nella lingua semitica occidentale a cavallo del III e del II millennio. La quarta sarebbe il poema del cap. 28 sulla Sapienza, datato al III sec. In esso si nega all’uomo ogni capacità di accesso alla Sapienza stessa e si prepara la lezione sulla trascendenza. Tuttavia sin dall’Insegnamento di Merikārē nel XXI sec. in Egitto la Sapienza appare come una ipostasi divina distinguibile da Dio in quanto tale e sin dal Primo Libro di Samuele e dai fatti che lo riguardano (XI sec.) Dio è considerato il Signore della Sapienza. Per cui anche la lezione di questo quarto segmento potrebbe essere plausibilmente di molto più antica, stesa magari anch’essa in prosa o in una lingua poetica più arcaica. Molti dubbi sono stati sollevati dalla critica testuale sull’autenticità di alcuni passi, dubbi che possono essere tuttavia facilmente fugati. Ad esempio il discorso sulla Sapienza non potrebbe essere pronunziato da Giobbe essendo affine alla logica dei discorsi di Dio stesso. Sarebbero quindi considerati prodotti letterari del medesimo ambiente, ma apparirebbe incomprensibile la sua posizione in quel punto del Libro. In realtà questo poema esprime la consapevolezza del fatto che i piani di Dio sono incomprensibili e al tempo stesso, nel contesto, la volontà umana di riuscire ad avere una risposta. Si è tentato di sezionare i discorsi di Dio, considerandoli avulsi dal contesto perché si spostano sul piano trascendente, non comprendendo che essi danno proprio così il loro apporto al dibattito chiudendo la questione. Il tentativo di enucleare da essi le descrizioni dell’ippopotamo e del leviatano nonché il passo sullo struzzo è altrettanto funesto, non lasciando nulla di veramente artistico in questa composizione. Allettante ma infondata l’ipotesi di unificare i discorsi di Dio espungendo una breve risposta di Giobbe (41,3-5). Altri dubbi vertono sul terzo ciclo di discorsi dei cc. 24-27, il cui disordine potrebbe imputarsi ad incidenti della tradizione testuale o a rimaneggiamenti redazionali. Una menzione particolare meritano i dubbi sui discorsi di Eliu: il personaggio sembra apparire senza essere stato presentato ed è scavalcato da Dio. Ciò può essere tuttavia spiegato dal fatto che Eliu anticipa i temi dei discorsi di Dio e che Questi ovviamente compare inaspettatamente. Vocabolario e stile sono diversi e hanno frequenti aramaismi. Ciò, come dicevamo, potrebbe addebitarsi al fatto che l’autore di questa composizione è diverso da quella precedente. DISAMINA STORICA Il Libro di Giobbe non è un libro storico ma pretende di raccontare una storia che la Scrittura ritiene vera. Alcuni moderni considerano Giobbe un personaggio completamente inventato e altri un personaggio leggendario, ma non vi è motivo di dubitare della sua esistenza. La sua vicenda è drammatica ma perfettamente plausibile. Anche l’esperienza mistica del colloquio con Dio è possibile e credibile. Ovviamente la forma narrativa non è storica ma poetica. La Bibbia non avrebbe accolto questa vicenda al suo interno se non fosse possibile ascrivere Giobbe tra i personaggi storici, anche se arcaici, di cui essa parla. E’ stata proposta una identificazione, a mio avviso certa per la ragione appena esposta, tra Giobbe, il cui nome ebraico è Job, e Jobab, re di Edom. Job è il diminutivo di Jobab, e la prassi dell’uso del nome e del suo diminutivo è attestata altrove nella Bibbia. Job vive nella Terra di Hus, che è parte di Edom (Lam 4, 21). Jobab viene dalla città di Bosra, è un eminente membro del popolo idumeo e in ragione di ciò è discendente di Isacco e di Abramo. Esaù infatti generò Reuel, questi Zerach e costui Jobab. In un’epoca arcaica – come quella in cui fu scritta la Genesi – quando ancora steccati molto rigidi non erano stati eretti tra Israele e gli altri popoli di ceppo affine, Giobbe potè essere sentito come un consanguineo e la sua storia accolta nel patrimonio letterario biblico. Anche i suoi amici hanno una plausibile collocazione negli alberi genealogici della Bibbia: Elifaz è anch’egli figlio di Esaù; Bildad è figlio di Shuah che è a sua volta figlio di Abramo; Zofar è figlio di Naaman, generato da Bela, figlio di Beniamino a sua volta figlio di Giacobbe; Eliu è figlio di Barachiel, a sua volta nato da Rem, generato da Chezron, figlio di Peres, figlio di Giuda, quartogenito di Israele. E’ dunque la storia di Giobbe una storia abramitica: il protagonista è idumeo mentre i suoi amici sono un suo connazionale – che è suo prozio – un abramita e due israeliti, di cui uno è beniaminita e uno giudeo. A un dipresso, tra la storia di Giobbe e il Diluvio universale nella cronologia biblica vi sono più o meno settecento anni di distanza. Per cui essa è grosso modo ambientata nel XXI sec. a.C. TEORIA OLISTICA SULLA FORMAZIONE DEL LIBRO DI GIOBBE Mettendo insieme tutti i dati, potremmo proporre questa formazione del Libro di Giobbe. Molto probabilmente, come attestano i fossili linguistici eblaiti, una storia di Giobbe fu scritta verso il crepuscolo della storia di Ebla e dell’uso della sua lingua, appunto verso il XXI sec. a.C., quando potè addirittura avere un modello sapienziale di alto lignaggio, l’Insegnamento di Merikārē, appunto di quel secolo. L’interscambio culturale tra la Siria Palestina e l’Egitto potè permettere questa influenza letteraria. Questa storia aveva presumibilmente tutti i personaggi, canonizzati sin da allora come saggi, e comprendeva una concezione tendente all’ipostatizzazione della Sapienza sulla scorta non di un sapere filosofico ma religioso, di matrice irenistica, forte sia dell’influsso di Maat egizia sia della visione mesopotamica dell’imperscrutabilità dell’agire degli dei. Non possiamo dire se l’opera fosse in prosa o in poesia o mista, ma sappiamo che i prosimetri esistevano anche da allora. In un secondo momento questa storia entra nella letteratura d’Israele. Ciò avviene in corrispondenza della nascita del Pentateuco, quando la figura di Giobbe viene assimilata a quella di Jobab re di Edom e i suoi antagonisti incasellati nelle geneaologie ancestrali. Nulla vieta che l’opera eblaita sia stata tradotta o rielaborata da Mosè in egiziano, la lingua in cui egli, come ho avuto modo di ipotizzare, scrisse il Pentateuco, nel XVII sec. a.C. Per queste fasi preebraiche della storia testuale le retroversioni del Libro in egiziano e in eblaita potrebbero fornire dei riscontri: se emergessero delle opere letterarie potremmo considerare dimostrate queste ipotesi. Un indizio a favore dell’identificazione dell’epoca mosaica con quella di origine del testo base di Giobbe – anche se non ancora in ebraico, non essendo questo all’epoca lingua letteraria – sta nel fatto che sia il Libro di Giobbe che l’Esateuco sembrano seguire lo stesso calendario e avere una cronologia simile. Tale calendario, sia detto per inciso, sembrerebbe essere basato su sei e non su dodici mesi, per cui le mirabolanti età mitiche dei protagonisti di queste storie lontane dovrebbero tutte essere dimezzate, ma è discorso che non ci interessa in questa sede e che appare poco convincente. Mosè potè conoscere la storia eblaita di Giobbe non solo per il fatto che afferiva all’ambito etnico semitico – faceva presumibilmente parte di quelle fonti storiche di età patriarcale di cui egli potè disporre anche per la composizione del Pentateuco – ma perché essa, avendo addentellati con la letteratura egiziana, era probabilmente nota anche sul Nilo, e infine perché egli stesso soggiornò nel Sinai prima e dopo l’Esodo, in luogo vicino a quello di Edom, dove la vicenda è ambientata, e passò col suo popolo nei pressi di tale regione. Il Libro entrò tuttavia nella letteratura ebraica ai tempi della monarchia. Sicuramente traduzioni dell’opera mosaica furono fatte subito, ma la prima grande traduzione letteraria, le cui tracce sono evidenti nella lingua del Prologo e dell’Epilogo, fu di epoca monarchica e nulla vieta di attribuirla a Salomone, re sapiente, imparentato col Faraone, probabilmente conoscitore dell’egiziano e quindi in grado di lavorare sulle fonti. Già dai suoi tempi il testo doveva essere prosimetrico, ma oggi solo la parte in prosa conserva le vestigia del X sec. In ogni caso, non solo Salomone aveva, nel Ludlul Bēl Nēmeqi, un modello letterario più recente da tenere presente per una riscrittura, ma già poteva inserire nel testo i riferimenti alla Sapienza divina, identificata col Signore stesso, avendo già Samuele compiuto questa operazione nel suo Primo Libro (2,3). Di certo, tra il Libro di Giobbe e il Salmo 104, davidico, vi sono significative convergenze che permettono di porre il primo nel X sec.; ulteriori convergenze abbiamo anche tra il nostro Libro e un altro Salmo davidico, il 22, oltre che con Prov 8, 27. Inoltre vi è un uso arcaico delle parole ebraiche nel Libro. Significativo anche l’uso di satana come sostantivo e non come nome proprio. Se è vero che nei Libri preesilici – come quelli dei Re – ogni azione è attribuita direttamente a Dio – per cui la presenza del diavolo sembrerebbe abbassare i tempi della composizione, pur senza renderli posteriori all’età di Esdra, visto che le Cronache usano Satana come nome proprio – è altrettanto vero che nella Bibbia la presenza ostile del diavolo è attestata e presupposta sin da quell’epoca, anzi sembra essere più fortemente creduta in epoche ancestrali, anteriori a quella salomonica e quasi coeve alle stesure della storia di Giobbe in lingua non ebraica. E’ il caso del serpente nel Genesi e di Azazel nel rituale dell’Espiazione. La presenza di satana come avversario potrebbe dunque essere spia di una origine talmente antica da scavalcare lo yahwismo monarchico e arrivare al monoteismo patriarcale seminomadico. Il Libro di Giobbe entrò così nella letteratura biblica grazie a Salomone, ma non tra i libri religiosi. Cio’ permise altri interventi su di esso. A mio avviso tali interventi sono via via più recenti quanto antiche sono le parti che andavano rese accessibili al pubblico, proprio per l’uso didattico del testo ancora non ingessato nel canone biblico. Innanzitutto appare evidente che il Libro fu conosciuto da Geremia ed Ezechiele. L’ambientazione geografica trova riscontro nelle Lamentazioni. La personificazione tendenziale della Sapienza è coeva del Libro di Baruc datato al VI sec. E’ plausibile che la revisione del V sec. sulla parte dei Tre Amici e dei discorsi di Dio sia avvenuta sulla scorta di una parte del profetismo, sebbene la teologia soggiacente sia più antica. Poco dopo potè essere ammodernata linguisticamente la parte di Eliu, forse da Malachia, che potè esserne influenzato, più che influenzarlo. La teologia di Eliu, in effetti, più che essere moderna, sembra invece rispecchiare una concezione piuttosto ovvia in un animo religioso, come del resto quella della parte precedente: in ogni epoca – anche la più remota – il giusto si interroga sulla sua cattiva sorte e trova risposte nel castigo, nella purificazione, nel miglioramento o trova pace nella contemplazione del mistero. Infine nel III sec. la parte più antica, quella sulla Sapienza, fu ammodernata linguisticamente così da sembrare la più recente sebbene concettualmente sia la più antica. In quest’epoca si andò costituendo il canone sapienziale e quindi anche il rimaneggiamento del Libro di Giobbe cessò, facendogli assumere le fattezze che ora possiede. PECULIARITA’ TEOLOGICHE Il Libro non ha una tesi da esporre, ma attesta una esperienza. Il problema chiave è la sofferenza del giusto, che non può essere risolto né dalla dottrina dei Padri, né dalla tradizione, né dall’esperienza. Nemmeno le risposte di Eliu sono sufficienti. La domanda è senza risposta e il problema senza soluzione. Il dolore rientra nei misteriosi disegni di Dio e l’uomo vi è votato per la sua stessa condizione creaturale. Va accettato e persino amato, perché tra dolore e giustificazione vi è un nesso di causa ed effetto, che sarà esplicitato soprattutto nel NT quando l’umanità sarà redenta da Cristo, il Giusto, sulla Croce e quando gli altri giusti saranno uniti a Lui nella sofferenza a vantaggio di tutto il Corpo mistico che è la Chiesa, in attesa del premio eterno. Nel frattempo il Libro mostra come il giusto si rassegna ai disegni divini fino a giungere alla pienezza della santità che è, appunto, il riconoscimento della propria radicale dipendenza da Dio, Che dona la giustizia stessa, per cui nessuno può vantarsi né di essa né dei meriti che possono derivarne e quindi dei premi connessi. L’uomo deve perseverare nela Fede anche quando il suo spirito non ne è appagato. Il Libro è ricco di insegnamenti dottrinali: non solo Giobbe è figura tipica di Cristo, ma insegna l’esistenza degli angeli, del diavolo, il suo influsso sulla vita umana e la sua soggezione a Dio, la Resurrezione della carne, il Giudizio finale e la vita eterna. IN PSALMOS Breve introduzione al Libro dei Salmi IL NOME Il Libro dei Salmi prende ovviamente il nome dal tipo di composizione poetica di cui forma una raccolta. Questa raccolta è chiamata anche Salterio. In ebraico è chiamato Libro delle Lodi (Sepher thehillim) o semplicemente “Lodi” o “Inni” (thehillim). La LXX tradusse mizmòr, la parola ebraica che indica il canto da eseguirsi sopra strumenti a corda, e che troviamo all’inizio di molte di queste lodi, con il termine “salmo”. Da qui il nome che si estese a tutta la raccolta. Molti dei salmi sono chiamati anche cantici. Il salterio fu alla base della liturgia israelitica e ora è alla base di quella cristiana, essendo la preghiera ufficiale della Chiesa Cattolica e di quelle di Oriente. IL LIBRO DEI SALMI NEL CONTESTO LETTERARIO Israele ha praticato la poesia sin dalle sue origini, come Canaan, l’Egitto e i popoli mesopotamici. Nella Bibbia vi sono molti brani lirici: il Cantico di Mosè in Es 15, il Canto del Pozzo in Nm 21, l’Inno di Debora in Gdc 5, l’elegia di David su Saul e Gionata in 2 Sam 1, gli elogi di Giuda e Simone Maccabeo in 1 Mac 3 e 14, i brani lirici dei Profeti fino ai cantici del NT, come il Magnificat, il Benedictus, il Nunc Dimittis e altri sparsi nelle Lettere degli apostoli. Esistevano altresì antiche raccolte oramai perse, come il Libro delle Guerre del Signore citato in Nm 21, 14 e quello del Giusto menzionato in Gs 10, 13 e 2 Sam 1, 18. Sono da ricordare i Salmi e le Odi di Salomone, apocrifi, e le Hodayot di Qumran. Ma il capolavoro della lirica ebraica sono i salmi del Salterio. IL NUMERO DEI SALMI Essi sono centocinquanta, tanto nel testo masoretico che nella LXX e nelle versioni latine della Bibbia. Tuttavia il salmo IX della LXX e della Vulgata comprende il IX e il X del testo ebraico, per cui queste versioni hanno una numerazione inferiore di un numero rispetto a quella ebraica, fino al salmo CXLVII, che riunisce il CXLVI e il CXLVII della LXX e della Vulgata. La differenza di numero sale poi a due unità nel salmo CXIII, che ne forma due nel testo masoretico, ossia il CXIV e il CXV; l’equilibrio si riforma quando però, subito dopo, il salmo CXVI del masoretico si scinde nel CXIV e CXV della LXX e della Vulgata. STRUTTURA Nel testo ebraico i Salmi sono divisi in cinque libri: dal I al XLI, dal XLII al LXXII, dal LXXIII all’LXXXIX, dal XC al CVI, dal CVII al CL. Ogni libro termina con una dossologia, sempre uguale, che però all’inizio non faceva parte del carme ed è stata aggiunta posteriormente. Questa struttura risale ai tempi di Neemia, come attesta 1 Cron 16,36. Nella preistoria del Salterio esistettero tre collezioni più ampie, dette jahwistica ed elohistica, a seconda del Nome usato per il Signore. La prima collezione (sal I-XLI) e la terza (sal LXXXIV-CL) sono jahwistiche, la seconda (sal XLII-LXXXIII) è elohistica. Questa seconda collezione nacque quando in buona parte dei salmi che la compongono il Nome Sacro fu sostituito da Elohim, sebbene il primo fosse necessario per stile e grammatica. Questa sezione dovette quindi dapprima essere distinta dalle altre due e poi emendata, magari ai tempi della dominazione persiana. Per altri invece la più recente collezione è la seconda jahwista. L’appartenenza alle tre sezioni non implica però una diversa datazione per i singoli salmi che le compongono. Accanto a queste collezioni generali ne esistettero di altre parziali: il primo libro è una raccolta di salmi davidici, almeno nella maggior parte; i salmi XLII-XLIX sono dei Figli di Core; i LXXIII-LXXXIII sono di Asaf; i LI-LXXII sono di David, come i CVIII-CX e i CXXXVIII-CXLV; i salmi CXI-CXVIII sono alleluiatici, come i CXLV-CL; i salmi CXX-CXXXIV sono graduali e sono detti anche cantici delle ascensioni; i salmi XCIII-C sono detti del Regno di Dio. Da queste collezioni – o da parte di queste – nacquero dunque le tre collezioni maggiori che a loro volta confluirono nel Salterio. I salmi erano già centocinquanta quando gli Alessandrini ne curarono la versione greca, per cui l’opinione di datare all’epoca dei Maccabei alcuni di essi appare senza fondamento, oltre che di appigli testuali. Questa forma ufficiale del Salterio ebbe delle versioni leggermente diverse in concorrenza: lo stesso Salterio greco ha, come abbiamo visto, CLI salmi, mentre quello siriaco ne ha CLV. A Qumran c’era una raccolta con un ordine diverso che, oltre a conservare l’originale ebraico del centocinquantunesimo salmo greco e i due ultimi salmi siriaci, aveva un ordine diverso e annoverava al suo interno almeno tre altri salmi sconosciuti. Praticamente sin al ridosso del NT in alcuni ambienti il Salterio aveva forma fluida. I TITOLI I titoli o brevi introduzioni che troviamo all’incipit di molti salmi e ci danno ragguagli sull’autore, sul tempo e le circostanze della composizione di essi, oltre che dell’uso liturgico o sulla melodia su cui eseguire il salmo stesso, hanno una grande importanza per la loro antichità. Per alcuni, essi non necessariamente indicano l’autore in senso stretto, ma possono riferire ad un certo personaggio una situazione tipica della sua vita o rammentare che il salmo in questione apparteneva ad una raccolta che andava sotto il suo nome. Altri titoli indicano che i salmi in questione appartenevano al repertorio di un esecutore, come il maestro del coro. La LXX non comprendeva più il significato letterale dei titoli e li tradusse come potè. Nell’opinione comune dei teologi questi titoli non sono scrittura ispirata. GLI AUTORI David è l’autore principale dei salmi, dei quali il testo masoretico gliene attribuisce settantatre e ottantacinque la LXX. In quanto poeta, musicista e organizzatore del culto tale attribuzione è perfettamente logica. I critici moderni, tenendo conto di quanto dicevamo sull’ambivalenza dei titoli, ritengono che non tutti i salmi attribuiti al Re siano i suoi, ma riconoscono che la raccolta davidica non può essersi formata senza un nucleo autentico. Dodici sono attribuiti ad Asaf, undici ai Figli di Core, due a Salomone, uno a Mosè e uno ciascuno ai due ezrachiti, Eman ed Ethan. I quarantanove salmi rimanenti sono anonimi o, come dicono gli Ebrei, orfani. In tempi relativamente recenti la critica credeva di non poter dire altro, per molti salmi, che se erano anteriori o posteriori all’Esilio. Oggi questi estremismi sono stati abbandonati. I salmi messianici sono datati all’età monarchica, e quindi nulla vieta di seguire le indicazioni epigrafiche dei titoli. I salmi del Regno di Dio sono considerati esilici per i riferimenti ad altri salmi più antichi e al Deutero-Isaia. Questo criterio può essere valido se datiamo con certezza sia i salmi considerati più antichi sia il Deutero-Isaia. Naturalmente salmi come il CXXXVII e il CXXVI sono da collocarsi nell’Esilio e nel Ritorno, perché il contenuto è parlante e non vi sono autori suggeriti. E’ molto probabile che il periodo postesilico sia stato fecondo di composizioni di salmi, per la ripresa del culto, la fioritura della letteratura sapienziale e l’equiparazione dei cantori ai leviti. Ma ciò non vuol dire in senso stretto che tanti salmi siano stati scritti in questo periodo e inseriti nel Libro del Salterio. A mio avviso bisogna conservare per quanto è possibile la paternità poetica all’autore indicato nel titolo. Un salmo può essere stato opportunamente adattato all’uso pratico nel corso del tempo, come avviene con qualsiasi innario liturgico; ma dietro gli ammodernamenti linguistici e persino dietro qualche modifica si può scorgere sempre la mano che originariamente scrisse la poesia. I TEMI L’argomento dei salmi è vario e una mappa concettuale che lo illustri è destinata ad essere sempre parziale ed incompleta. Possiamo distinguere tuttavia tra i salmi storici, quelli didattici o sapienziali, quelli di lamentazione collettiva o individuale, quelli penitenziali. Una menzione particolare meritano i salmi messianici, ossia riferiti al Messia, detti anche regali. Da tali salmi si evince che Egli è promesso a David (LXXXVIII, CXXXII), che avrà determinate caratteristiche storiche (II [gloria], XVI [fiducia nelle persecuzioni], XXII [la Passione], XLV [le nozze spirituali con la Chiesa], LXXII [il Suo Regno], CX [Resurrezione, Ascensione, Regalità e Sacerdozio del Messia]), che avrà un regno universale (XLVII, LXVII, LXXXIII, LXXXVII, XCVI, XCIX, CXVII). Da essi altresì si evince che il Re Messia sarà Figlio di Dio, che il Suo Regno sarà senza fine, che farà trionfare giustizia e potenza, che sarà il Salvatore del Suo Popolo. Per questo tali salmi sono detti anche profetici, in quanto preannunziano l’Incarnazione, la Nascita, la Morte e la Resurrezione di Cristo, le Sue Due Nature e la Sua unica Persona. Sono citati frequentemente nel NT. Sia la tradizione giudaica che quella cristiana ha sempre riconosciuto che alcuni salmi fossero messianici e questo è stato ribadito dalla Pontificia Commissione Biblica nell’agosto 1910. Tuttavia alcuni salmi sono messianici in senso pieno, altri solo in senso tipico, riferendosi a persone che sono modelli del Messia. Altri ancora sono messianici per estensione, in quanto convengono ad ogni giusto e quindi anche e soprattutto a Cristo. Accanto ai salmi messianici, e all’interno di essi, spicca il tema profetico mariano, attraverso delle squisite figure, come nel CXXXII, in cui l’Arca dell’Alleanza prefigura la Vergine Maria Assunta in Cielo, o nel XLV, dove la si contempla Regina. I GENERI Possiamo distinguere i salmi sulla base delle forme letterarie. Abbiamo tre forme base: inni, suppliche e ringraziamenti, a cui si aggiungono forme secondarie ed aberranti. Peraltro non sempre la catalogazione dei salmi all’interno di esse è semplice ed univoca. Gli Inni (VIII, XIX, XXIX, XXXIII, XLVI-XLVIII, LXXVI, LXXXIV, LXXXVII, XCIII, XCVI-C, CIII-CVI, CXIII, CXIV, CXXII, CXXXV, CXXXVI, CXLV-CL) hanno una composizione costante, che inizia con un invito a lodare Dio, motivata poi nel corpo della poesia, con la Sua opera creatrice e salvifica, e che termina con la ripresa della formula di introduzione o con una preghiera. In questo insieme distinguiamo i cantici di Sion (XLVI, XLVIII, LXXVI, LXXXVII) che esaltano la città santa in chiave escatologica; i salmi del Regno di Dio (in partic. XLVII, XCIII, XCVI-XCVIII), che celebrano con uno stile profetico il Regno universale del Signore. Alcuni li hanno legati ad una festa di intronizzazione del Signore che sarebbe stata celebrata in Israele ogni anno, come quella di Marduk a Babilonia, ma non vi è nessun riscontro a questa ipotesi. Le Suppliche sono salmi di sofferenza o lamenti. Iniziano con una invocazione che si divide in un grido di aiuto, in una preghiera o in una invocazione; nel corpo della poesia si cerca di commuovere Dio descrivendoGli la triste condizione del supplice con metafore tradizionali che non aiutano a datare il testo, del tipo delle acque dell’abisso che sommergono, degli agguati della morte e dello Sheol, di minacce di nemici e bestie, di ossa inaridite o spezzate, del cuore che palpita e si spaventa. Vi sono dichiarazioni di innocenza (VII, XVIII, XXVI) e drammatiche confessioni (come nel LI, il Miserere). Si ricordano a Dio i Suoi benefici passati e Lo si rimprovera di essere assente e distratto (IX-X, XXII, XLIV). Si conferma la fiducia verso di Lui (III, V, XLII-XLIII, LV-LVII, LXIII, CXXX). A volte si fa un lungo appello pieno di fiducia (IV, XI, XVI, XXIII, LXII, XCI, CXXI, CXXV, CXXXI). Spesso la supplica finisce bruscamente con la certezza di essere stati esauditi e con un ringraziamento (VI, XXII, LXIX, CXL). Distinguiamo suppliche collettive e individuali. Le collettive sono i salmi XII, XLIV, LX, LXXIV, LXXIX, LXXX, LXXXIII, LXXXV, CVI, CXXIII, CXXIX, CXXXVII. Hanno come occasione una disgrazia nazionale e raccomandano la salvezza del popolo. Da menzionare il LXXIV e il CXXXVII che fanno riferimento alla rovina di Gerusalemme. Le individuali sono i salmi III, V-VII, XIII, XVII, XXII, XXV, XXVI, XXVIII, XXXI, XXXV, XXXVIII, XLII-XLIII, LI, LIV-LVII, LIX, LXIII, LXIV, LXIX-LXXI, LXXVII, LXXXVI, CII, CXX, CXXX, CXL-CXLIII. Hanno contenuti vari. Di solito chiedono la liberazione da malattie, calunnie e peccati. I nemici in essi hanno contorni vaghi. Sono invocazioni fiduciose ed espressioni di fede. Scaturiscono da esperienze individuali e alcuni sono stati adattati come lamenti nazionali. In ogni caso tutti sono stati considerati atti ad esprimere la preghiera, almeno di casi umani tipici. I Ringraziamenti hanno appunto nell’atto del rendere grazie la parte essenziale della loro struttura. Sono collettivi ed individuali. Servono per rendere lode a Dio che ha ascoltato la preghiera, dopo un particolare tormento che può essere descritto. A volte il ringraziamento introduce un insegnamento, dopo una esortazione a tutti di lodare Dio. Hanno una struttura letteraria simile a quella degli inni. Non sono particolarmente numerosi: XVIII, XXI, XXX, XXXIII, XXXIV, XL, LXV-LXVIII, XCII, CXVI, CXVIII, CXXIV, CXXIX, CXXXVIII, CXLIV. I salmi di genere aberrante prevedono singolari contaminazioni: lamenti che seguono a preghiere di fiducia (XXVII, XXXI) o che sono seguiti da ringraziamenti (XXVIII, LVII); altri che iniziano come un inno, continuano con un oracolo e terminano con un lamento (LXXXIX); altri che inneggiano alla Legge ma sono fatti come un lamento individuale ed esprimono una dottrina sapienziale (CIX). I salmi sapienziali possono essi stessi essere considerati un genere aberrante. Alcuni di questi sono lirici e altri ancora ringraziamenti. Alcuni salmi sono oracoli sviluppati o ne hanno alcuni dentro di sé (II, L, LXXV, LXXXI, LXXXII, LXXXV, XCV, CX). Ciò imposta il problema dei rapporti tra profezia e salmodia, ossia se esso si risolva con una semplice sovrapposizione di stili o se era una precisa azione profetica all’interno del culto, anche se occasionale. In ogni caso molti salmi sono leggibili profeticamente. Una menzione particolare merita la composizione dei Salmi messianici o regali, che pur non essendo un genere a sé hanno caratteristiche particolari. Sono poemi antichi che riflettono il cerimoniale di corte e il linguaggio dell’epoca monarchica. Le loro espressioni encomiastiche non sono superiori a quelle usate nei poemi celebrativi dei Re dei popoli vicini, di cui riprendono la fraseologia, nonostante il sovrano ebreo sia l’Unto del Signore, il Suo vassallo, e non un dio egli stesso o un rappresentante plenipotenziario degli dei in terra. USO LITURGICO Nelle Sinagoghe si eseguivano canti, inni e cantici; dopo la Cena pasquale si cantavano inni e salmi; vi era un salmo per ogni giorno della settimana e di specifici per le varie feste; siamo informati bene sull’uso della poesia e della musica nel culto templare e sacrificale; possiamo agevolmente identificare gli autori dei salmi con cantori preesilici; esistono altresì i salmi graduali che si cantavano quando si saliva il monte del Tempio e quando si percorrevano i suoi scalini. Non si sa però se i salmi siano stati composti per la liturgia o se siano entrati nell’uso di essa dopo una pratica personale. In genere alcuni ebbero un’origine extraliturgica – come il Miserere, composto da David per il suo peccato contro Uria e con Bethsabea- e per la loro bellezza entrarono nell’uso comunitario. Altri invece sarebbero stati come una sorta di catechismo popolare, composti di brani edificanti e formule di preghiera, atti a conservare nel popolo la conoscenza e il culto di Dio; anch’essi passarono dall’uso privato a quello pubblico, compresi i salmi didattici. Un piccolo numero di salmi fu infine composto direttamente per la liturgia. Molti salmi fanno trasparire preoccupazioni assai gravi. Provengono evidentemente dagli ambienti dei sapienti preoccupati, di volta in volta, della crisi del sacerdozio, dell’isterilirsi della profezia, della diffusione del paganesimo e simili. Oggi nel culto della Chiesa servono per la Liturgia delle Ore – Lodi, Ore Terza Sesta Nona, Vespri, Compieta; del Tempo Ordinario o Proprio – e sono conclusi tutti con la dossologia del Gloria Patri. PECULIARITA’ TEOLOGICHE I Salmi contengono in sunto tutta la dottrina del VT. Perciò attestano innanzitutto un rigoroso monoteismo, con la fede in Dio Creatore, Signore e Giudice dell’Universo, Che, non avendo alcuno al di sopra di Sé, opera solo per la Sua Gloria. E’ un Dio invisibile Che manifesta le Sue virtù attraverso le Sue opere. Tra tali virtù spicca la Misericordia, menzionata nel Salterio più di cento volte e associata alla fedeltà che Dio ha alle Sue promesse. Dio è poi presentato quale Padre, Sposo, Re, Pastore di Israele, Suo popolo eletto, scelto e formato. Nel Salterio si parla poi diffusamente del Messia: sarà Uomo dei Dolori (XXII), Figlio di Dio (II), Re e Sacerdote (II e CX), mentre molte altre cose sono accennate in diversi salmi e si realizzano solo in Cristo. Il tema messianico è tenuto vivo nel Salterio in chiave regale, sviluppando la profezia di Nathan in 2 Sam 7. Se infatti il messianismo regale viene inteso non come l’attesa di un ultimo Re che instauri il Regno di Dio sulla terra – chè in tal senso nessuno dei salmi messianici sarebbe più tale – ma come l’aspettativa di un discendente di David che, dopo la fine della dinastia, restaurasse la sovranità teocratica, allora i salmi regali, usati anche dopo la caduta della monarchia con opportuni ritocchi, hanno mantenuto viva la fede nell’antica profezia. I Salmi si diffondono sugli Angeli, che lodano e servono Dio, di Cui sono la Corte e l’Esercito e per conto del Quale proteggono i giusti. Sono spesso chiamati Santi e Figli di Dio. Il Salterio attesta che l’uomo è superiore a tutte le creature e inferiore agli Angeli; egli domina il creato ma ha una vita fragile e breve; è incline alla colpa ma Dio gli perdona ogniqualvolta si pente, per cui solo il peccatore ostinato si perderà. I Salmi attestano che Dio giudicherà infallibilmente ogni uomo e che userà la Sua giustizia per far trionfare i buoni perseguitati e punire i cattivi che saranno testimoni della vittoria finale delle loro vittime. Il valore spirituale dei Salmi è altissimo. Sono stati ispirati da Dio perché l’uomo potesse pregarlo convenientemente. In essi si rispecchia ogni situazione psicologica, fisica, morale e spirituale che possa toccare all’uomo sia da solo che in comunità coi propri simili. Essi sono una preghiera viva, intensa, toccante, fremente, calda, appassionata, profonda in ogni circostanza, atti a esortare, consolare, educare e formare l’anima di tutti i fedeli. Il pio ebreo vedeva nei Salmi la meditazione sulla sua storia passata e sulla promessa futura, il cristiano vi scorge il compimento delle promesse mediante l’Incarnazione del Verbo e la Sua Morte e Resurrezione. I Salmi sono stati ampiamente commentati dai Padri della Chiesa, come Origene, Eusebio, Didimo il Cieco, Atanasio, Cirillo di Alessandria, Teodoreto di Ciro, Giovanni Crisostomo, Ippolito, Ilario, Ambrogio, Girolamo. Theorèin - Maggio 2014 |