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SALOMONICAE SCRIPTURAE Breve introduzione ai Proverbi, al Qoèlet, al Cantico dei Cantici e alla Sapienza In quel che segue andiamo ad introdurre quattro Libri sapienziali che la tradizione o la pseduoepigrafia attribuiscono nientemeno che al re Salomone (970-931). Essi sono appunto accomunati dal fatto di attingere alla sorgente ancestrale della sapienza biblica, identificata col grande sovrano che, da questo punto di vista, rappresenta il maestro per eccellenza ed è la figura simbolica del Verbo Incarnato, Gesù Cristo, al Quale sono orientati i testi dei quali andiamo a dire. IL LIBRO DEI PROVERBI IL TITOLO Il nome del Libro viene dai Proverbi di Salomone (1,1) contenuti nel Libro. Il Re infatti pronunziò tremila proverbi (1 Re 5, 12). Ma come vedremo non tutti i proverbi del Libro sono stati pronunziati dal Re. Il Proverbio in quanto tale è, nella letteratura ebraica, un genere comprensivo di poemi religiosi e morali, di satire, di discorsi comparativi, oracoli, sentenze popolari, massime ecc. Ha dunque una estensione semantica più vasta del termine italiano, che traduce solo approssimativo la parola meshalim. CONTENUTO Il magistero dei Proverbi concerne il retto vivere ampiamente inteso: saggezza e follia, onestà e disonestà, amore e odio, ira e mitezza, ricchezza e povertà, laboriosità e ozio, rapporti tra Dio e uomo, genitori e figli, re e sudditi, uomo e donna, padroni e servi, amici e nemici. Vi si raccomandano timor di Dio, amor del prossimo, carità, veridicità, temperanza, accortezza, parlar sagace e silenzio discreto. STRUTTURA Distinguiamo nove parti nella redazione definitiva:
DISAMINA FILOLOGICA Il Libro dei Proverbi è il paradigma della letteratura sapienziale biblica. Il suo nucleo storico è autenticamente salomonico ed è costituito da una raccolta di trecentosettantacinque proverbi pronunziati da Salomone stesso (10-22,16), a cui ai tempi del re Ezechia (716-687) i pii scribi di corte aggiunsero una seconda silloge di centoventotto proverbi anch’essi di Salomone (25-29) e della quale evidentemente si era conservata memoria per vie differenti. A questo Libro dei Proverbi di Salomone furono annesse due appendici, presumibilmente in tempi differenti, così da giustificare la loro dislocazione nel testo: le Parole dei Sapienti (22,17-24,22) e le altre Parole dei Saggi (24,23-34) alla prima raccolta; le Parole di Agur (30,1-14), i proverbi numerici (30,15-33) e le Parole di Lemuel (31,1-9) alla seconda raccolta. Il tutto è incorniciato tra una lunga introduzione in cui un padre dà raccomandazioni ad un figlio e in cui parla la Sapienza stessa (1-9) e un poema alfabetico che loda la donna perfetta (31,10-31). L’ordine delle sezioni appare differente: non solo è diverso nella Bibbia greca ma al suo interno le massime si susseguono senza ordine e con ripetizioni. E’ evidente l’origine differente delle sezioni, di cui il Libro è di fatto una antologia, mediante le modificazioni del gusto e dello stile. I proverbi salomonici sono infatti brevi sentenze di un solo distico. Nelle appendici le formule sono più ampie. Le formule proverbiali numeriche hanno una presentazione enigmatica che è attestata dai tempi del profeta Amos (750 a.C.). Il prologo è una raccolta di istruzioni interrotte da due arringhe della Sapienza personificata; l’epilogo è una composizione erudita. Il libro fu scritto in ebraico. Il Testo Masoretico non è in buone condizioni. Le traduzioni antiche sono quelle greca della LXX, la siriaca della Peshitta, il Targum, i frammenti della versione greca di Simmaco, Aquila e Teodozione, la Vulgata di Girolamo. GLI AUTORI E LA DATAZIONE Non c’è motivo, a mio avviso, di dubitare dell’autenticità dei proverbi attribuiti a Salomone, dei quali peraltro nessuno mette in discussione l’attribuzione all’età monarchica. All’antica raccolta dei proverbi regi, editi evidentemente sotto il suo regno, dovette seguire una edizione delle parole dei sapienti e dei saggi. Questi sono anonimi e tali devono essere giunti magari sino ai tempi di Ezechia, quando i suoi scribi li aggiunsero a quelli di Salomone. Essi sono molto antichi in quanto si ispirano alle massime egiziane di Amenemope, potendo quindi risalire sino agli inizi del I millennio a. C. In ragione di ciò poterono essere uniti ai Proverbi salomonici anche prima di Ezechia, il che giustificherebbe che sono inframmezzati alle due collezioni dello stesso Salomone. La seconda collezione salomonica è appunto dell’età di Ezechia, ma i suoi scribi dovettero attingere ad una serie di tradizioni scritte e orali chiaramente risalenti all’età di Salomone stesso. Queste tradizioni, magari anche riunite in uno o più testi, potevano circolare anche prima della nascita della seconda collezione. Agur e Lemuel sono due sapienti arabi i cui nomi sono forse fittizi. I discorsi dei capitoli 1-9 sono modellati sulle Istruzioni, un genere classico della sapienza egiziana, e sui Consigli di un padre a suo figlio di Ugarit. La personificazione della Sapienza è, come abbiamo detto, un artifizio letterario e un teologumeno molto antico, che nel Libro è ripresa senza servilismi e con originalità. In sintesi, il nucleo del Libro dei Proverbi (10-29) è anteriore all’Esilio e spalmabile sull’arco cronologico che va da Salomone ad Ezechia; i capitoli 30-31 sono di incerta datazione; il Prologo, per le sue relazioni con scritti postesilici e nonostante la sua figurazione della Sapienza e altri artifici letterari antichi, è databile al V sec., quando forse una sua forma più arcaica potè essere riscritta (nulla vieta infatti, concettualmente parlando, che anch’esso potè essere scritto da Salomone); l’edizione definitiva del testo, ossia quando esso entrò nel novero dei testi considerati sacri e quindi immodificabili, è anch’essa del V sec. PECULIARITA’ TEOLOGICHE Le due raccolte antiche hanno un tono di sapienza umana e profana molto arcaico. Dio vi appare come remuneratore di vizi e virtù, l’epitome delle quali è la Sapienza, intesa come Timore di Dio e confidenza in Lui. La parte più recente dà i medesimi consigli e li amplia, biasimando l’adulterio e la frequentazione della donna straniera. L’Epilogo mostra grande rispetto per la donna. Il Prologo dà una dottrina completa sulla Sapienza, disegnandone ruolo e valore sino a metterle in bocca un elogio di Se’ che la presenta quale coeterna a Dio e Suo strumento nella Creazione del mondo. E’ qui evidente l’anticipazione in figura non solo della multipersonalità di Dio ma dei caratteri precipui del Logos, che saranno rivelati nel Vangelo di Giovanni. La Sapienza porta la Parola di Dio, attende gli uomini sulle piazze, agli incroci, alle porte della città. Invita tutti al suo banchetto in una sala appositamente costruita. E’ palese il riferimento alla predicazione di Cristo, mentre il banchetto è la mensa della Parola imbandita nella Chiesa. Non a caso l’invito della Sapienza è rivolto a tutti e i beni che essa promette sono i soli importanti, mentre trova la sua delizia tra i figli degli uomini ed è capitale che questi le aderiscano, per salvarsi. Tutte prefigurazioni dell’Incarnazione e della Redenzione. Un senso accomodatizio fa sì che la Sapienza sia identificabile non solo con il Verbo, ma anche con la Vergine Maria, Sapienza creata e predestinata eternamente ad essere Madre del Cristo. L’insegnamento dei Proverbi, citato spesso nel NT, è integrato e completato in esso ma sempre meritevole di rispetto. Il Sapiente è colui che conosce e teme il Signore, mettendo in pratica rettitudine ed equità. L’empio e il peccatore sono invece dei folli. La religione è la base della moralità e la fonte della felicità. L’uomo può resistere alla Sapienza e non è immune dal peccato, essendo libero. IL LIBRO DEL QOÈLET O DELL’ECCLESIASTE IL TITOLO Il Qoèlet è il sesto dei Ketubim della Bibbia ebraica; fa parte dei Megillot che si leggono nella Festa dei Tabernacoli. Nella LXX e nella Vulgata è il quarto degli Agiografi col nome di Ekklesiastes o Ecclesiastes. Qoèlet è lo pseudonimo dell’autore, forma participiale femminile del verbo qahal, che si costruisce col maschile e che vuol dire convocare e radunare. Tradotto con Ekklesiastes in greco, anfibologicamente inteso come convocatore, presidente e membro della assemblea, il Libro ha conservato quindi sia il nome ebraico che il greco, appositamente traslitterato in latino. Indica dunque colui che, in ragione dei quesiti che si pone, in seno all’assemblea del Popolo, svolge la funzione critica e censoria mediante cui le convinzioni tradizionali sulla felicità sono demolite al suono del ritornello: “anche questo è vanità”. STRUTTURA E CONTENUTO Premesso che il Qoèlet è un libro difficile da dividere in parti, in quanto manca lo sviluppo di piani prestabiliti, mentre i soggetti si succedono senza legame logico alcuno al di fuori della conclusione che tutto è vanità, peraltro sviluppati diversamente e alcuni appena accennati, possiamo identificare essenzialmente un Prologo (1,2-11), una Parte centrale (1,12-12,8) e un Epilogo (12,9-14). Nel Prologo si enunciano diversi concetti. La vita e la morte si alternano ritmicamente sullo sfondo della Terra sempre uguale a se stessa nella successione dei tempi e dei fenomeni naturali. L’uomo deve capire la propria insufficienza e la ragione e la natura dei fenomeni. In contrasto alla mutevolezza delle cose rimane l’immutabilità di Dio. Nella Parte centrale possiamo distinguere sette sezioni. La Prima (1,12-2,26) imposta la tesi di Qoèlet, ossia che tutto è vanità. Parla il re Salomone, la cui fama è leggendaria per la sapienza – che pure è molestia e dolore – e per il piacere – che è illusorio – e per la potenza – che è vanità. La Seconda (3,1-15) afferma che tutto è determinato e coordinato da Dio, nel momento e nel tempo opportuni. L’uomo può cogliere il senso parziale dell’azione di Dio nel momento, ma non mai quello complessivo in tutta la durata del tempo stesso. Ogni azione è dunque pervasa da delusione e tristezza. Dio agisce così perché tutti Lo temano. La Terza (3,16-22) evidenzia che l’ordine sociale è sconvolto dalla legge del più forte. Afferma che Dio giudicherà giusti e ingiusti, ma non si sa quando. Dio permette la cattiveria dell’uomo perché sia palese la sua natura corrotta. Non resta che godersi i beni che Dio ha concesso. La Quarta (4,1-16) descrive la condizione del cittadino che, sotto la tirannia, privato di valori, orbo della libertà, preferisce la morte o vorrebbe non essere mai nato. E’ tuttavia folle abbandonarsi all’inerzia e far buon viso a cattivo gioco, in quanto nell’unione c’è la forza e la vita associata può arginare il male. Gli intrighi e le sommosse possono sovvertire i governi, un re vecchio e demente può essere sbalzato da un giovane pretendente e il popolo lo può seguire. Ma questo è un ennesimo inganno perché ogni nuovo governo sarà ad un certo punto deludente. In quei frangenti bisogna sinceramente rivolgersi a Dio. Se si formulano dei voti vanno adempiuti subito. L’oppressione del povero spesso è spacciata come interesse nazionale e ossequio al re. La Quinta (5,9-7,12) contiene una satira delle ricchezze. La cupidigia del ricco non ha limiti e la crescita dei beni moltiplica i parassiti. Non vi è dunque alcun vantaggio nella ricchezza, mentre l’onesto lavoratore dorme sereno. Il parsimonioso accumula, ma ad un certo punto si rovina per un cattivo affare, i suoi figli diventano poveri ed egli muore. Dio concede beni ad alcuni ma altri ne godono. Famose le sentenze per cui l’uomo muore nudo come è nato e per cui è meglio la condizione dell’aborto che mai vide la luce. Seguono altre sentenze, forse di altro autore, staccate e non collegate a questi temi. La Sesta (7,13-9,10) dichiara che la Sapienza divina è inaccessibile e la luce che Dio ne dà agli uomini mostra proprio questa sua irraggiungibilità. Non si può spiegare come mai Dio permetta che i deboli e i buoni soffrano e i cattivi trionfino, nonostante la dottrina tradizionale insegni il contrario. Eppure sa che il Signore regge ogni cosa. La Settima (9,11-12,8) dice che la vita è un rischio che esige prudenza e una gioia che va goduta con timor di Dio, memori del Suo giudizio. Il giovane ricordi che l’attende la vecchiaia e il suo tedio; si ricordi di Dio finchè è in tempo, prima della polverizzazione del corpo e la chiamata del suo spirito nell’aldilà. L’Epilogo elogia Qoèlet e richiama al timor di Dio, all’obbedienza dei Suoi precetti in vista del Giudizio. L’AUTORE La tradizione attribuiva a Salomone il Libro, in quanto l’autore si firma Qoèlet figlio di David e Re di Gerusalemme e in quanto molti sono i riferimenti a lui nel testo, ma oggi non è più seguita da alcuno, perché lingua e dottrina sarebbero diverse da quelle del X sec. e perché non avrebbe senso che il Re avesse fatto la critica di se stesso. Si considera dunque Qoèlet una pseudoepigrafia che mise sotto l’autorità, almeno implicita, di Salomone questo testo sapienziale. In ogni caso gli influssi del Canto dell’Arpista o il Dialogo del Disperato con il suo Ba, opere egizie, e della letteratura sapienziale mesopotamica e dell’epopea di Ghilgamesh non sono dimostrabili direttamente, in quanto i temi evocati, pur essendo assai antichi, erano topici di certa riflessione sapienziale in cui Qoèlet si colloca. Alcuni hanno immaginato che il Qoèlet fosse opera di almeno otto o nove correttori e chiosatori, alla luce di alcune pretese divergenze dottrinali riscontrabili nel testo. Ciò nonostante la brevità del Libro. Altri hanno scorto quattro autori che si sarebbero integrati nel tempo: quello del testo base che si firma Qoèlet, quello temperato da un pio asideo nei punti sulle sanzioni morali, quello di un sapiente che aggiunse sentenze nei punti apparentemente più bassi, quello dell’epilogista che oltre alla parte sua propria avrebbe rivisto il tutto elogiando il Qoèlet come suo maestro e citandone alcune sentenze. Altri hanno rilevato l’unità linguistica e stilistica di tutto il Libro, prova dell’esistenza di un solo autore. Costoro sono oggi la quasi unanimità degli esegeti. L’autore sarebbe dunque un discepolo del maestro anonimo chiamato Qoèlet. Sarebbe un giudeo di Gerusalemme o almeno palestinese, che scrive in un ebraico tardivo e pieno di aramaismi, con anche due parole persiane. La datazione che costoro propongono è circa la fine del III sec. a.C., in quanto il Siracide cita il Libro all’inizio del II sec.; frammenti del Qoèlet databili paleograficamente al 150 a.C. furono ritrovati a Qumran. TEORIA OLISTICA SULLA FORMAZIONE DEL QOÈLET Sebbene i testi egizi e mesopotamici che abbiamo citato non possono essere considerati con certezza come modelli immediati del Qoèlet, e sebbene le idee che essi condividono col Libro siano parte integrante di una tradizione sapienziale consolidata e quindi virtualmente indipendente da reciproco influssi, non si può non rilevare che la datazione di quei testi pagani è tale da permettere sia una influenza di essi su Salomone sia la nascita di una tradizione sapienziale già abbastanza antica ai tempi di quel Re. Il Canto dell’Arpista, datato al Primo Periodo Intermedio (2200-2000), presenta idee edoniste e scettiche diverse dal senso religioso comune e per certi tratti appunto simili a quelli del Qoélet. Questo, come il Dialogo del Disperato, datato al Medio Regno, era senz’altro conosciuto nella Palestina del X sec., e Salomone, imparentato col Faraone, poteva consultarlo probabilmente persino nella lingua originaria. Il Ludlul Bēl Nēmeqi simile al Libro di Giobbe che potè influenzare – sul male e l’ingiustizia nel benevolo progetto degli dei – è del 1000 a.C.; la Teodicea Babilonese un dialogo tra uno scettico e un credente, che ricorda l’Ecclesiaste che potè anticipare, è del 1400-800 a.C. Anche questi testi poterono dunque agevolmente diffondersi sino alla Corte di Salomone. Probabilmente ai tempi di questi, come dicevamo, il Libro di Giobbe subì un primo significativo rimaneggiamento. Già da quest’epoca dunque poteva crearsi una interconnessione tra quel Libro e il Qoèlet. Ghilgamesh, re di Uruk, divinizzato sin dall’epoca di Fara, è protagonista di cinque poemi in sumerico. In accadico poi è al centro di una epopea differente e ancor più vasta (2350-2200). Anche gli influssi di questa epopea potevano dunque diffondersi sin dall’epoca di Salomone. Il pensiero teologico del X sec. non è necessariamente in contrasto con quello del Qoèlet. Esso esprime dubbi e angosce che qualunque credente, in qualunque epoca, può nutrire. L’opera può benissimo nascere come meramente letteraria e non con intenti religiosi strettamente detti. In questo senso anche l’attribuzione a Salomone non sarebbe una pseudoepigrafe, ma un riferimento autentico, e il nome Qoèlet sarebbe un termine che indicherebbe la particolare funzione del Re nella comunità religiosa. Potremmo dunque avere una redazione del Qoèlet sin dal X sec. Il testo sarebbe poi stato rivisto linguisticamente sino all’epoca della redazione definitiva, per cui non apparirebbero peregrine le otto versioni individuate da alcuni: oltre alla salomonica di base, potremmo avere una dell’epoca di Giosia nel quadro del recupero dei classici religiosi di Israele, una ai tempi di Ezechia nel novero della revisione sapienziale, una esilica per la conservazione del patrimonio letterario nazionale, una immediatamente postesilica per la restaurazione della stessa, una asidea, una sapienziale propriamente detta e una definitiva dell’epilogista. A queste revisioni si addebiterebbero le revisioni linguistiche sino a quella definitiva, coeva alla canonizzazione del Libro, mentre gli aramaismi potrebbero addebitarsi benissimo ad epoche differenti, in quanto una fascia linguistica aramaica in Siria Palestina si formò sin dal periodo a cavallo tra II e I millennio, mentre l’aramaico divenne lingua franca nell’epoca dei grandi Imperi mesopotamici, e venendo usato anche sotto Persiani e Greci. Lo stesso può dirsi dei persianismi. L’autore certo aveva amore per una lingua abbastanza ricercata. Un riscontro a questa ipotesi potrebbe aversi in una retroversione del Qoèlet dall’ebraico tardo a quello del X sec. PECULIARITA’ TEOLOGICHE La tradizione ebraica non ha mai dubitato della canonicità del Qoèlet, confermata dal Sinodo rabbinico di Iamnia del 90-100 d.C. La stessa sentenza è venuta dalla Tradizione cristiana, con la sola eccezione di Teodoro di Mopsuestia che attribuiva al Libro una ispirazione inferiore. In effetti la dottrina del Qoèlet, nonostante la sua composizione definitiva sia posta in età ellenistica, è rigorosamente ortodossa e non ha nulla a che vedere con epicureismo, stoicismo e cinismo, in quanto posa su trascendenza, unità, giustizia e provvidenza di Dio. Il Libro nega che Dio agisca ciecamente, come che l’uomo possa comprenderne i disegni; rigetta il fatalismo con energia; ma registra lo sconcerto proprio di uno stadio antico della Rivelazione in cui non è ancora chiara la dottrina di una remunerazione oltretombale. Da questo punto di vista Qoèlet appare simile al Libro di Giobbe, pur avendo l’autore un diverso stato d’animo. Ciò lascia chiaramente intendere che il Libro risale ad un’epoca più arcaica di quanto si creda di solito, almeno a mio avviso. La dottrina del Libro, con il suo rifiuto dell’effimero, attende il completamento del Vangelo e delle Beatitudini. IL LIBRO DEL CANTICO DEI CANTICI IL TITOLO Il Cantico dei Cantici indica il Cantico per eccellenza; è un superlativo assoluto che vuole esaltare, tra i tanti cantici contenuti nella Bibbia, questo che in effetti è il capolavoro del genere. In ebraico il nome è Shir Hashshirim. Nel canone ebraico il Cantico dei Cantico è uno dei megillot, fa parte degli Scritti e si legge a Pasqua, mentre nella Bibbia cristiana è, appunto, il quinto dei Libri sapienziali. CONTENUTO Il Cantico dei Cantici è uno stupendo idillio amoroso tra un giovane sposo e una giovane sposa, sotto le sembianze di un pastore e di una pastorella. Le espressioni di reciproco affetto sono tolte dal linguaggio comune. La forma talvolta è a monologo, altre a dialogo, spesso drammatica e sempre puramente lirica. Lo sfondo è bucolico. I personaggi sono anonimi e quindi universali. Solo la Sposa è detta Sulamita, non tanto dal luogo d’origine ma dal fatto che ha trovato lavoro. STRUTTURA Il Cantico può essere variamente diviso. Quanto segue è una possibile schematizzazione in una introduzione e sette episodi. L’introduzione (1,2-4) esprime il desiderio della Sposa di incontrarsi con lo Sposo. Il Primo episodio (1,5-2,7) narra la richiesta della Sposa di sapere dove abita lo Sposo; segue l’invito di questi a seguirlo nella campagna, dove egli pascola il gregge. E’ un dialogo amoroso che esprime l’intensità dell’affetto con umili simboli che rendono più efficaci le descrizioni. Il Secondo episodio (2,8-3,5) esprime, in un monologo pieno di vita e leggiadria, come la Sposa riferisca l’invito dello Sposo a seguirlo. Ella si è messa sulle sue tracce ma non l’ha trovato. Segue una grande ansia che trapassa nella gioia dell’incontro. Il Terzo episodio (3,6-5,1) descrive un corteo maestoso che avanza dal deserto verso Gerusalemme. Lo Sposo è antonomasticamente il re Salomone. Viene descritta la bellezza della Sposa con immagini ardite tipiche della cultura orientale. Il Quarto episodio (5,2-6,3) contiene una nuova poetica variazione sul tema d’amore, basata sulla necessità che l’Amato si nasconda per suscitare un più intenso amore nell’Amata. Convinta della partenza dello Sposo, la Sposa cade in una temporanea indolenza. Ella cerca l’Amato dolorosamente e umilmente, e ne descrive alle figlie di Gerusalemme la bellezza e la grazia. Egli era vicino a lei, era sceso nel suo giardino fra le aiuole di balsamo a cogliere gigli. Il Quinto episodio (6,4-6,12) è un inno che esalta la bellezza ideale della Sposa, con un crescendo di moto e di concetto, in cui aurora, sole e luna prestano i termini di confronto, per cui lo Sposo ne è rapito. Il Sesto episodio (7,1-7,14) descrive una danza della Sulamita al centro dei coinvitati, mentre il coro, diviso in due schiere, ne esalta la bellezza in canti alternati. Allo Sposo che brama l’unione la Sposa risponde che il desiderio è reciproco. Il Settimo episodio (8,1-8,14) vede la Sposa fare un tentativo di esprimere il suo amore per lo Sposo nei modi consueti, ma avverte la sua incapacità. Tuttavia l’amore è scambievole, inscindibile, eterno. La Sposa rifiuta la tutela dei fratelli perché l’Amato l’ha resa perfetta e in lui ha trovato la pace. Disprezza perciò ogni altro amore, essendo il suo di valore inestimabile. Il Cantico dei Cantici si chiude con un’armonia che sembra trasportare il lettore in un ambiente ultraterreno. L’AUTORE E LA DATA DI COMPOSIZIONE L’iscrizione del Cantico dei Cantici l’attribuisce a Salomone e tale fu il parere dei critici per secoli. Salomone aveva composto dei cantici (1 Re 5, 12) e la Sulamita compare nella sua storia ed è accostabile alla Sunamita, presente anch’ella nella vicenda del Re e di suo padre (1 Re 1,3; 2, 21-22). Oggi tutti considerano l’iscrizione una pseudoepigrafia la cui ragion d’essere sta nel fatto che Salomone era considerato la fonte da cui scaturiva tutta la sapienza di Israele. L’esame interno del testo lo fa attribuire al periodo persiano da molti studiosi, verso la metà del IV sec., o tra il V e il IV sec. Molti sono gli aramaismi e le parole persiane nel testo che giustificano questa datazione, mentre la serenità d’ambientazione sembra suggerire un periodo di pace. Vi è anche una parola greca. Ovviamente l’autore, in tale contesto di attribuzione, è ignoto. La risolutezza con cui il Concilio di Iamnia (90-100) ribadì la natura ispirata del Cantico vieta di prendere in considerazione l’ipotesi che il Libro sia la raccolta di canti volti meramente ad esaltare il matrimonio e che sia stata fatta addirittura dopo la Caduta di Gerusalemme nel 70 d.C. Il Cantico dei Cantici era all’epoca già considerato da sempre scrittura ispirata ed era già composto unitariamente. Il poeta è abile e originale. DISAMINA FILOLOGICA Sono state cercate analogie tra il Cantico dei Cantici e altri testi delle antiche letterature orientali, evidentemente nel quadro di una critica che lo consideri relativamente antico. I testi di raffronto sono quelli amorosi egizi, quelli ierogamici sumeri, babilonesi, assiri e di Ugarit. Il raffronto più interessante è possibile con i Canti della grande gioia del Cuore (Papiro Chester Beatty I) e col Papiro 500, entrambi databili al 1300 a.C. Il paragone evidenzia tuttavia la marcata matrice palestinese del Cantico dei Cantici. Esso, proprio per salvaguardare l’arcaicità di certi possibili raffronti, potrebbe essere la risultante – non antologica – di una raccolta se non di una composizione, come dicevamo, d’età persiana; nell’uno e nell’altro caso si potè partire da poemi di età monarchica (X-VI sec.). DISAMINA LETTERARIA Differenti sono le catalogazioni letterarie di questo Libro. Origene lo considerò un dramma amoroso per nozze. Basilio Magno un epitalamio in forma drammatica. La teoria drammatica vede nel cantico un dramma classico con atti e scene, senza però che si riesca a individuarli concordemente. Per alcuni il nucleo del dramma sarebbe il contrasto tra lo Sposo e Salomone per la Sulamita. Ma i collegamenti delle azioni sarebbero arbitrari e le didascalie ridicole. Del resto il dramma è un genere inesistente nella letteratura ebraica e in quelle semitiche in genere. Altri danno credito alla teoria dei frammenti, considerando il Cantico come una antologia di altri cantici. Questo non darebbe però ragione del fatto che il Cantico nel suo complesso ha unità di stile e di lingua, oltre che coerenza nella presenza di personaggi e nello sviluppo d’azione. Rimane assodato che il Cantico dei Cantici è un carme puramente lirico. Colpisce che il testo sia d’amore quando non erotico addirittura. I fautori di una esegesi naturalistica lo rilevano senza mezzi termini ma non problematizzano il fatto che il Libro, pur avendo innegabilmente tale caratteristica, sia stato inserito tra le Sacre Scritture, peraltro come un unicum. Del resto sin dal I-II sec. rabbi Aqiba il Grande fulminò l’anatema su chi usava il Cantico dei Cantici nelle feste matrimoniali, segno che al magistero rabbinico ripugnava la pur normale tendenza a leggere naturalisticamente il Cantico. Per giustificare il rivestimento letterario amoroso, una corrente esegetica ha riconosciuto nel Cantico dei Cantici un componimento nato originariamente per il matrimonio di Salomone con una principessa straniera. Altri considerano il Cantico come un testo liturgico, nato per influenza dei poemi ierogamici di Tammuz e di Ishtar. Questo per alcuni postula che anche nell’antico culto templare israelitico il Re praticasse la ierogamia a nome di Dio stesso, il che è assolutamente falso. In questo senso la somiglianza tra Cantico dei Cantici e poemi ierogamici palestinesi può essere solo estrinseca per l’uso comune delle metafore d’amore. Appare difficile anche che questi canti pagani siano stati purgati della loro mitologia dagli Ebrei, usati profanamente, trasformati nel Cantico dei Cantici e poi canonizzati con una lettura allegorica. Il Targum (VII-VIII sec.) inizia una tradizione che considera il Cantico dei Cantici come un testo in cui si allude all’Esodo e alla storia tutta di Israele. Ed è dall’VIII sec. appunto che si legge il Cantico dei Cantici a Pasqua, annoverandolo tra i megillot. Lo Zohar lo considera invece un poema che racchiude la fede di Israele e la sua attesa escatologica. La domanda chiave della ricerca letteraria e storica è ancora questa: il Cantico dei Cantici nacque o divenne allegoria spirituale? Ad essa non si può dare ancora risposta. Parere comune è che potè nascere come opera profana. Del resto il Cantico non fornisce alcuna chiave di lettura per la decodificazione dell’allegoria, come fa la letteratura profetica. Si pensa che proprio per espellere il sesso dall’ambito sacrale, in un’epoca evidentemente remota in cui l’influenza cananea era ancora forte, fu composto il Cantico dei Cantici – o quell’insieme di poemi che confluirono in esso – per mostrare la reale natura della sessualità, lecita, ma umana. In questo senso non sarebbe diverso dalla Genesi, dai Libri dei Re, dai Proverbi e dal Qoèlet. Avrebbe dunque una base di antropologia teologica che poi sarebbe slittata verso la mistica. TEORIA OLISTICA SULLA FORMAZIONE DEL CANTICO DEI CANTICI Credo che sia possibile armonizzare i dati tradizionali con quelli più recenti partendo proprio da quest’ultima asserzione: che il Cantico dei Cantici sia stato originariamente un poema ispirato all’antropologia teologica, ossia che abbia avuto lo scopo di esprimere l’idea ebraica del matrimonio, benedetto da Dio ma umano, in contrasto con quella cananea. Questo avrebbe giustificato il fatto che per secoli esso rimanesse nell’ambito della letteratura religiosa, anche se non fosse propriamente sacro. Se tuttavia il Cantico dei Cantici nacque per questo, dev’essere per forza di epoca monarchica. A parte i riferimenti a Salomone e il fatto che certa critica ravvisa in esso poemi che potrebbero risalire sin al X sec., non è possibile che i canti, composti con lo scopo che dicevamo, possano essere datati ad un’epoca più bassa, quando l’influenza cananea si era estesa alla società ebrea intaccando la purezza dell’età della monarchia unita. In questo contesto non appare peregrino che l’autore del Cantico – o dei suoi elementi originari – potesse essere lo stesso Salomone. I canti originari potrebbero essere stati composti per le nozze con la principessa egiziana, il che giustificherebbe la ripresa di modelli egizi, già disponibili dal X sec. Questa raccolta poetica potè subire rifacimenti, legati all’uso comune. La distruzione della società ebraica tradizionale potè giustificare uno slittamento esegetico: da una interpretazione in chiave di antropologia teologica si potè passare, sotto l’influsso del profetismo, ad una interpretazione mistica, in cui le nozze sono quelle tra Dio e l’anima, o tra Dio e il popolo. In questo caso Dio prenderebbe il posto di Salomone. Quando questo avvenne, magari anche in corrispondenza di una redazione definitiva, nelle date che abbiamo preso in considerazione, il testo divenne intangibile e potè migrare nel canone ispirato. La presenza di aramaismi non è necessariamente spia di una composizione postesilica, essendo l’aramaico lingua franca sin dall’età assiro-babilonese; l’inserzione di persianismi e persino di grecismi rimanda a un lavoro di restyling linguistico che, compiuto per più generazioni, altro non è che la prova dell’uso costante di questa poesia nella vita comune, anche religiosa, di Israele. PECULIARITA’ TEOLOGICHE Sotto l’allegoria della relazione d’amore, presente a tale scopo anche nel Deuteronomio, in Geremia, Isaia, Ezechiele ed Osea, si nasconde il rapporto tra Dio e Israele, che dunque va decodificato attraverso la mistica nuziale. In tal senso il Cantico dei Cantici potrebbe essere l’antesignano di un genere letterario tipicamente semitico ed usato dai Sufi nell’Islam, che celebra le nozze spirituali con una terminologia squisitamente umana, così che le opere che si ascrivono ad esso, lette senza contestualizzazione, sembrano mera poesia erotica. In tal senso il Concilio di Iamnia, dinanzi evidentemente ad una serie di dubbi sorti dopo la Distruzione del Tempio, ribadì con forza la natura ispirata del Libro, rifacendosi ad una ininterrotta tradizione che non avrebbe potuto sussistere senza una lettura allegorica del testo. Questa lettura è ovviamente l’unica possibile anche per la Chiesa, la quale distingue nel libro sia una allegoria dei rapporti tra Cristo e la Chiesa stessa sia una delle relazioni tra Cristo medesimo e l’anima fedele, mentre non mancano passi che in figura si possono adoperare alle relazioni tra Cristo e la Beata Vergine. In queste letture si sono distinti rispettivamente: Cipriano; Origene, Bernardo, Giovanni della Croce; Efrem, Ambrogio, Ruperto di Deutz. Troviamo allusioni profetiche importanti nel Cantico dei Cantici: 2,8-17 descrive l’apparizione del Risorto alla Madre; 3,6-11 l’Assunzione di Maria; 4,12 la Sua Verginità Perpetua. Il Cantico dei Cantici è posto tra il Qoèlet e la Sapienza nella Vulgata e dopo il Qoèlet nella greca, prima di Giobbe e raramente dopo la Sapienza; l’ordine vigente, attestato innumerevoli volte, è stato confermato dal Concilio di Trento. IL LIBRO DELLA SAPIENZA IL TITOLO La Bibbia ebraica non comprende questo Libro. Esso è chiamato “Sapienza di Salomone” dalla LXX e “Libro della Sapienza” dalla Vulgata. CONTENUTO E STRUTTURA Il Libro è diviso in tre parti: 1) La via della Sapienza opposta a quella degli empi (1-5); 2) La vera Sapienza (6-9); 3) Le opere della Sapienza nel corso della storia (10-19). Nei capp. 13-15 vi è una digressione, con una critica serrata dell’idolatria. AUTORE E DATAZIONE Il Libro è stato scritto in greco e, siccome fino ad ora la ricerca di un originale ebraico è stata vana, l’attribuzione a Salomone è fittizia, nonostante egli sia chiaramente indicato anche senza il nome e nonostante l’autore si esprima come un re e parli ai sovrani come colleghi. Il vero autore è sconosciuto e i riferimenti a quanto riguarda l’Egitto (Esodo mosaico, antitesi tra Egiziani e Israeliti, critica della zoolatria) fanno pensare ad un giudeo della comunità di Alessandria. Paolo adopera la Sapienza nella Lettera ai Romani, mentre Giovanni la usa in modo personalissimo nel Vangelo, per cui la datazione più bassa possibile è quella del II sec. a.C., verso la metà. Sarebbe così il più recente dei Libri del VT. DISAMINA LETTERARIA E FILOLOGICA L’unità di composizione è confermata dall’unità della lingua, flessibile, ricca, scorrevole nelle varie forme retoriche. L’autore cita la LXX e quindi le è posteriore. Non conosce l’opera di Filone (20 a.C.-45 d.C.) che dunque è successiva. Tuttavia la Sapienza e le opere filoniane sembrano uscire dallo stesso ambiente e non sarebbero molto lontane nel tempo l’una dalle altre. Sebbene vi siano punti di contatto con il pensiero greco, la loro rilevanza non va esagerata. Il vocabolario e il ragionamento sono greci, con la ricchezza loro propri superiore alle capacità espressive dell’ebraico, ma sono al servizio di un pensiero veterotestamentario. L’autore conosce filosofia e astrologia, ma non le fa proprie; usa il platonismo per asserire quanto già sapeva il pio israelita, ossia che l’anima è immortale e l’uomo è creato per l’incorruttibilità e che essa è presso Dio. Si può leggere in filigrana la possibilità di una resurrezione dei corpi, in forma spiritualizzata, che sarebbe la prova dell’irriducibilità del pensiero della Sapienza ad ogni filosofia greca propriamente detta. La Sapienza usa il passato di Israele per una riflessione teologica, imitando alcuni Salmi e il Siracide, ma con maggior maestria e acume, strutturandosi come esegesi midrashica. Il testo del Libro è contenuto nei quattro grandi codici manoscritti: Vaticano (IV sec.), Sinaitico (IV sec.), Alessandrino (V sec.) e di Efrem (V sec.); è presente anche in molti manoscritti secondari. Il migliore è il Vaticano che funge da textus receptus. Nella Vulgata è adoperata la versione dell’Itala, non rivista da Girolamo. NOTA SULL’ORIGINE SALOMONICA Se non esiste un testo semitico che, almeno parzialmente, contenga – in ebraico o aramaico – parte di questo Libro attribuito a Salomone, non si può escludere una tradizione antica sulla preghiera di Salomone stesso per ottenere la Sapienza, presente anche nel Libro dei Re, e di una polemica di questi sul politeismo egiziano. Queste antiche tradizioni, rielaborate in greco in modo assolutamente autonomo, potrebbero essere alla base della pseudoepigrafia del Libro. Interessante sarebbe una retroversione in ebraico o aramaico del testo greco. PECULIARITA’ TEOLOGICHE La Sapienza è una sorta di energia spirituale che emana da Dio e diventa all’uomo più intima di se stesso. Essa conduce a Dio condannando chi la respinga. Dietro la parvenza della vita sensibile avviene un processo di nascita e morte spirituale in base all’accoglienza o meno della Sapienza. Un giorno, quello del Giudizio, i giusti saranno ricompensati e gli empi invano riconosceranno il loro errore. I giusti regneranno per sempre e gli empi saranno puniti. La Sapienza inoltre ammonisce i regnanti e sveglia nei cuori il nobile desiderio di possederla. Essa è dono di Dio; non delude nelle sue promesse; svela il mistero della Creazione; rivela la bellezza e la luminosità di Dio; rende amabile ogni essere; può essere ottenuta solo con la preghiera. Ha dato salvezza ai Patriarchi; ha punito chi da lei si è separato; ha salvato Israele e punito i suoi nemici. Dio è stato misericordioso coi pagani, ma essi, facendo delle creature i loro dei, sono responsabili della propria rovina. Nel Libro della Sapienza l’ipostatizzazione della stessa è l’anticamera della rivelazione della Trinità nel NT. Peraltro ciò che si attribuisce alla Sapienza dal cap. 11 in poi si predica di Dio stesso. La Sapienza, distinta da Dio personalmente in modo più incisivo di quanto si facesse con un semplice topos letterario, è considerata coessenziale con Lui. Il testo di 18,15 sull’onnipotente Parola di Dio preannunzia il Prologo di Giovanni. Ci troviamo dinanzi ad una tappa significativa della Rivelazione della Multipersonalità di Dio, dai Proverbi sino al NT, passando proprio per questo Libro. Esso è stato usato dai Padri e riconosciuto come ispirato nonostante alcune esitazioni ed opposizioni, come quella di San Girolamo. IN SIRACIDIS SCRIPTURAM Breve introduzione al Libro del Siracide IL TITOLO Il titolo latino, Ecclesiasticus Liber, Libro dell’Ecclesiastico, è un appellativo che risale a Cipriano di Cartagine e sottolinea probabilmente il fatto che la Chiesa lo usava ufficialmente mentre la Sinagoga no. Serviva altresì per la catechesi dei catecumeni, In greco il Libro, sulla base di 51,30 e di 50,27, si chiama “Sapienza di Gesù figlio di Sira”. Proprio in virtù di questo patronimico il Libro è chiamato di Ben Sirach o Siracide. L’AUTORE E LA DATAZIONE Nel Prologo (1-35) il nipote dell’autore attesta il nome di quest’ultimo, ossia Gesù figlio di Sira. Questi dovette scrivere in ebraico tra il 190-180 a.C., in quanto il nipote dichiara di aver tradotto in greco il testo originale nel XXXVIII anno di Tolomeo VII Evergete, ossia nel 132, ad Alessandria. Ben Sira fa in effetti un elogio del sommo sacerdote Simone II, e questi morì nel 200. Il testo ebraico era conosciuto da Girolamo e fu in circolazione fino al X sec., quando disparve per essere riscoperto solo nel 1896, almeno in parte, al Cairo. STRUTTURA E CONTENUTO Il Libro si apre con l’Introduzione. Essa è composta dall’Inno alla Sapienza (1,1-7), seguito da sentenze sul timor di Dio e la sapienza (1,8-18). Seguono i rudimenti per acquistare la Sapienza: pazienza, costanza, pietà filiale, umiltà, opere di misericordia (1,19-4,10). Vi è poi l’elogio della Sapienza (4,11-19). Vi è poi l’insegnamento per discernere i veri valori: buona e cattiva vergogna, confidenza e presunzione, coraggio e modestia (4,20-6,17). Dopo un nuovo invito allo studio della Sapienza (6,18-37), il discepolo è introdotto nella vita sociale secondo le norme della saggezza (7-16,21). Ciò termina con un inno al Creatore (16,22-18,14). Seguono i precetti contro la loquacità e la cupidigia (18,15-23,27), a cui segue l’elogio della Sapienza (24). Ci sono poi due appendici: la prima riprende alcuni argomenti già trattati (25,1-33,18) e la seconda che è come il testamento del Maestro (33,19-42,14). Il Libro termina con un inno di lode a Dio (42,15-43,33) e l’elogio di chi ne continua l’opera (44-50). DISAMINA LETTERARIA E FILOLOGICA Ben Sira è uno scriba che ama la sapienza e la Legge e si oppone all’ellenizzazione incipiente. Formalmente il suo Libro è in linea con la Tradizione sapienziale. Eccettuate le parti che celebrano Dio nel Creato (42,15-43,33) e nella Storia (44,1-50,29), il Libro ha una struttura semplice che somiglia a quella dei Proverbi e del Qoèlet. I temi sono assai diversi, disordinati e ripetitivi, secondo piccoli quadri disorganici di brevi massime. Potrebbero essere, questi, i resti di composizioni più antiche. Infatti, delle due appendici che chiudono il Libro, un inno di ringraziamento (51,1-12) e un poema sulla ricerca della Sapienza 851,13-30), il secondo esistette a parte e fu inserito, almeno a Qumran, nel Salterio. Il testo greco è più lungo dell’ebraico e quello latino, non revisionato da Girolamo, lo è ancor di più. Alcune aggiunte sono glosse precristiane, altre cristiane. Il testo greco ha inoltre trasferito i capitoli 30,26-36,18 fuori dall’ordine originario. In ogni caso, il testo normativo ed ispirato per la Chiesa Latina è quello della Vulgata. PECULIARITA’ TEOLOGICHE Il principio della Sapienza sta nel Timor di Dio, fatto di rispetto obbedienza e fiducia. Essa forma la gioventù e procura felicità. I nemici dell’uomo sono debolezza, doppiezza, ignavia. La fede si deve manifestare nelle opere di giustizia e misericordia; essa è il fondamento di tutto. Dio dev’essere pregato come Padre e non ci perdona se non perdoniamo. Riguardo al destino dell’uomo riprende Giobbe e i Proverbi. Il Siracide sa che tutti saremo giudicati, ma non ancora conosce bene i modi della retribuzione. La natura della Sapienza è nel Siracide simile a quella di Giobbe. Identifica tuttavia la Sapienza con la Legge, riprendendo il poema sapienziale di Baruch. Integra dunque la prassi sapienziale con quella legalista, ed esprime quest’ultima nella pratica perfetta del culto. Ben Sira riflette sulla storia sacra a differenza degli altri autori sapienziali ed è fiero delle grandi figure bibliche, in attesa che ne nascano di nuove. Ben Sira è l’ultimo grande testimone canonico della sapienza ebraica palestinese. Rappresenta quegli hasidim che preserveranno la fede dagli ellenisti e che la tramanderanno all’età di Cristo. Il Siracide non è nel canone ebraico, ma è citato dai rabbini, mentre è ripreso nel Vangelo di Matteo e nella Lettera di Giacomo. Ispira inoltre ampiamente la liturgia. Theorèin - Giugno 2014 |