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IN NOVUM TESTAMENTUM Brevissima introduzione al Nuovo Testamento Il Nuovo Testamento è l’eterna Alleanza, quella definitiva nel Sangue versato dall’Agnello di Dio. Esso non verrà mai meno perché il Mediatore dell’Alleanza è perfetto e il Suo Sacrificio non può essere superato. In esso la Rivelazione si compie definitivamente e nulla dev’essere ancora detto da Dio all’Uomo. Esso stabilisce i mezzi indispensabili alla Salvezza. Andiamo a trattare quindi a scopo propedeutico sia la tradizione testuale che le recensioni del testo neotestamentario. Lo facciamo riproducendo qui la parte di una mia ricerca scientifica già edita , vertente sulla datazione dei Vangeli, tenendo presente che quel che vale per essi vale evidentemente anche per il testo del NT in genere. Seguirà una esposizione dell’origine del canone neotestamentario. Per la definizione della successione cronologica dei Libri invece rimando a quanto diremo sui Vangeli e la loro datazione. LA TRADIZIONE TESTUALE DEL NT Anzitutto va detto che, in genere, la distanza tra originali e copie, dette codici, nella letteratura classica, è incomparabilmente più grande di quella che esiste tra gli originali dei Vangeli e i loro codici. Per esempio per Virgilio sono quattrocento anni, per Orazio ottocento, per Cesare novecento, per Nepote milleduecento, per Platone milletrecento, per Sofocle millequattrocento, per Eschilo millecinquecento, per Euripide milleseicento, per Esiodo millecinquecento, per Omero duemila; eppure nessuno dubita dell’autenticità di quelle opere. Non vi è dunque nessun motivo per dubitare dell’autenticità dei Vangeli, i cui originali non solo non sono mai distanti, nelle copie del I sec., più di venticinque anni dagli originali, ma addirittura, con le nuove datazioni di alcuni testimoni indicate nel capitolo precedente, spingono a retrodatare i Vangeli stessi, come abbiamo visto. Analogamente, mentre i codici della letteratura profana, che attestano l’uniformità della tradizione testuale, e quindi la mancanza di differenze di contenuto, sono di numero medio-basso (ad esempio per Orazio duecentocinquanta; per Omero seicentoquarantasette, per Virgilio cento, per Sofocle cento, per Eschilo cinquanta, per Platone undici, per Euripide trecentotrenta, per gli Annali di Tacito uno, in genere non più di una decina per Plinio il Giovane, Tucidide, Svetonio, Erodoto), quelli della letteratura evangelica sono invece, per nostra fortuna, moltissimi: cinquemilasettecentosessantatrè codici greci, senza contare le traduzioni e i codici di esse, che sono diverse decine di migliaia. Esclusi questi ultimi, abbiamo anzitutto centotrentanove frammenti papiracei o papiri interi greci. Di essi diciannove sono del I secolo; nove del II secolo; quarantanove del III secolo; ventisette del IV secolo; sette del V secolo; diciotto del VI secolo; undici del VII secolo; uno dell’VIII secolo. Di questi (mettendo in computo del secolo più antico quelli che oscillano tra due di essi) molti potrebbero presumibilmente essere retrodatati, per svariate ragioni legate alla trasformazione dei metodi comparativi in ragione di nuove scoperte paleografiche. Ma questo esula dal nostro discorso. Dei frammenti papiracei evangelici, i più antichi (esclusi quelli già citati) sono il P 5 del III sec., (che contiene Gv 1, 23-31; 33-40; 16:14-30; 20:11-17, 19-20, 22-25), il Chester Beatty I o P45 del 300 d.C. (che contiene Mt 20-21.25; Mc 4-9.11-12; Lc 6-7.9-14; Gv 4-5.10-11; At 4-17) e il Michigan 1570 o P37, del III sec. (contenente Mt 26, 19-52). Abbiamo poi trecentodiciannove codici pergamenacei in scrittura maiuscola greca, detta onciale, fino all’XI secolo, che ricopiano i testi papiracei. Di questi cinque sono anteriori al IV secolo; quattordici del IV stesso; otto databili tra il IV e il V secolo; trentasei del V secolo e a seguire tutti gli altri. Particolarmente rilevanti sono tra essi il Codice Sinaitico, del IV secolo (che contiene oggi tutto il Nuovo Testamento); quello Alessandrino del V secolo (in cui si trova tutta la Bibbia con delle lacune; per esempio nel NT manca quasi tutto il Vangelo di Matteo); il Vaticano, anch’esso del IV secolo (in cui si legge tutta la Scrittura con delle lacune; nel NT sono mancanti alcune Lettere paoline e l’Apocalisse); quello di Beza del V secolo (greco e latino, contiene i Vangeli di Matteo, Giovanni, Luca e Marco con numerose varianti); quello di Efrem, del V secolo anch’esso; il Claromontano, del V sec. Di tutti gli onciali, cinquantotto comprendono tutto il Nuovo Testamento. Possediamo inoltre duemilaottocentosessantadue codici greci pergamenacei redatti in minuscola, dal X al XVI sec. Sono divisi in vetustissimi (IX-X secc.), vetusti (X-XII secc.), recentiores (XIII-XV secc.) e novelli, scritti a mano dopo l’invenzione della stampa. Abbiamo ancora duemilaquattrocentododici codici incompleti o lezionari, dal V al XVI sec. Infine abbiamo venticinque ostraka, risalenti ad un periodo tra il V e il VII, egiziani, in greco e in copto, tutti dei Vangeli. Tali testi greci erano conosciuti e citati. Ecco alcuni dati sulle citazioni più antiche. Gli scrittori dell’età apostolica citano centoventidue volte Matteo, Marco e Luca: la Didakè (ca. 90 d. C.) settantacinque volte, san Clemente Romano (88 ca.-97 ca.) nella sua Lettera ai Corinzi (datata di solito agli Anni Novanta del I sec. ma che verosimilmente è del 70) diciotto, la Lettera di Barnaba (98 ca) sette, le Lettere di Ignazio di Antiochia (ca.107) tredici, il Pastore di Erma (ca.150) nove. Gli scrittori cristiani del II e del III sec citano NT e Vangeli trentamilasettecentoottantatre volte. Prova che li conoscevano e li consultavano abitualmente. Per esempio sant’Ireneo di Lione (130-202) lo fa milleottocentodiciannove volte, Clemente di Alessandria (150 ca.-215 ca.) duemilaquattrocentosei, Tertulliano, il grande apologeta africano (155ca.-230ca.), settemiladuecentocinquantotto, sant’Ippolito di Roma (170-235) milletrecentosettantotto, Origene (185-254) diciassettemilanovecentoventidue. In genere, gli autori e i testi antichi le cui citazioni sono utili per una edizione critica del testo biblico greco sono centoundici, dal I all’VIII sec. Vanno poi ricordate esplicitamente, per una semplice prova storica della diffusione dei Vangeli, le citazioni dei nemici della Fede, come gli gnostici Basilide (117-138) e Valentino (135-165), Marcione (85 ca.-160), i pagani Celso (II sec.) e Porfirio (233/34-305), oltre a quelle dei Vangeli apocrifi. In quanto alle traduzioni dal greco, citiamo innanzitutto quelle latine. Quelle anteriori alla fine del IV secolo (l’Africana, esistente dal II sec., poi modificata nel III, fu alla base delle libere edizioni della Gallia, della Spagna e dell’Italia, dove la traduzione è detta Itala), sono fiorite nelle varie parti dell’Impero Romano latinofono e sono confluite in quella che viene convenzionalmente chiamata Vetus Latina, il tutto entro il IV sec., con quarantanove codici per il solo Nuovo Testamento, di cui trenta dei Vangeli, dal IV al XV sec. Essa fu poi sostituita dalla Vulgata di San Girolamo (347-420) del 380, copiata oltre trentamila volte fino alle sue riedizioni, tutte nell’età della stampa (la Sisto-Clementina del 1592 e la Neo-Vulgata del 1979, innanzitutto). Di essa, i codici amanuensi più importanti sono quarantatrè, dal VI al X sec., dei quali trentatrè evangelici. Menzioniamo poi le traduzioni siriache. La prima è la Vetus Syra, attestata già in un codice del IV sec., il Siro-Sinaitico, e poi in uno del V sec., trovato in Egitto da W. Cureton e perciò detto Siro-Curetoniano, ma di molto più antica, sia per la chiara dipendenza da testi giudeo-cristiani e addirittura giudaici per il VT, sia perchè la conversione dell’Adiabene, Stato arameo, al Cristianesimo, risale al 40 e quindi potrebbe essere stata quella l’epoca di una prima traduzione o addirittura stesura dei testi biblici in aramaico. La seconda è il Diatessaron, cioè “(un vangelo) attraverso quattro (vangeli)”, realizzata da Taziano (120-180) nel 165-170. Si tratta del primo testo conosciuto, unico e lineare, che cerca di armonizzare le quattro narrazioni dei singoli Vangeli. Per alcuni secoli tale testo fu il Vangelo ufficiale della Chiesa di Siria, fino a quando nel 423 Teodoreto di Ciro (393-457) ne impose l’abbandono in favore dell’adozione dei Quattro Vangeli come avveniva per tutte le altre Chiese. Teodoreto ordinò la distruzione delle copie esistenti del Diatesseron, che ci è pertanto noto solo in maniera indiretta attraverso un commentario di sant’Efrem (306-373). Segue la Peshitta, attribuita tradizionalmente a san Rabbula di Edessa (411-435), che l’avrebbe realizzata nel 435, ma che in realtà ha avuto più autori, giudei e cristiani, nell’arco di più secoli, evidentemente fino all’epoca di Rabbula stesso. Ha circa trecentocinquanta manoscritti, di cui quattro sono del V sec. e una cinquantina del VI sec. Poi vi sono la Filosseniana (di Filosseno di Mabbug, nel VI sec.), la Harclense (di Tommaso di Harqel, nel 616), la Siro-Palestinese (attestata da un lezionario manoscritto dei secc.XI-XII, ma ovviamente più antica). Sul loro sfondo, vi è il Targum, ossia la versione aramaica dell’AT, nata tra il 60 a.C. e il II sec. d.C., in cinque versioni, di cui due ufficiali, e delle quali una, la gerosolimitana, ha tre testi. Abbiamo inoltre le traduzioni copte, con le sue varietà testuali. La rapida espansione del cristianesimo in Egitto durante i primi secoli, rese urgente una traduzione nella lingua egizia. Conosciamo sei versioni, delle quali quattro sono le maggiori, nei quattro dialetti corrispondenti, la sahidica (della fine del II sec., con sette manoscritti principali, di cui quattro papiracei), la bohairica (dell’inizio del III sec., con più di cento manoscritti, di cui cinque sono molto importanti e tra essi vi è un papiro), la faiunica e la achimimica (conservata solo in frammenti, di cui tre sono più importanti e uno di essi è papiraceo). La più diffusa fu la bohairica. Vi sono poi quarantasei manoscritti greco-copti – di cui sei papiri - e tre manoscritti arabo-copto-greci. La versione armena si attribuisce al patriarca sant’Isacco il Grande (390-440) e a san Mesrope (m. 441), l’inventore della scrittura armena. Le versioni georgiane sono molteplici; le prime versioni parziali risalgono ai secoli VI-VII e manifestano una dipendenza dalla versione armena. Nel sec. X i monaci Iberi (cioè georgiani) del Monte Athos rividero le antiche versioni facendone una nuova per l’intera Bibbia. Le versioni arabe cominciarono nel sec. VIII quando l’Islam e la conquista araba dell’oriente diedero enorme importanza politica e letteraria alla lingua dei conquistatori. La versione etiopica o ge’ez, realizzata in tale lingua verso il VI-VII secolo, dal greco, riveste un interesse particolare perché offre un canone più ampio che annovera il I Libro di Enoc, il Libro dei Giubilei, il IV Libro di Esdra. La versione persiana ha almeno tre forme, basate spesso sulle siriache, attestate già agli inizi del IV sec. Tra le antiche versioni occidentali due meritano una speciale menzione, ossia la versione gotica e la paleoslava. La versione gotica fu eseguita da Wulfila (m. 383) vescovo ariano dei visigoti, cui si attribuisce anche la paternità dell’alfabeto gotico. Abbiamo una buona serie di codici della Gotica. La versione paleoslava o slavonica in caratteri glacolitici viene realizzata per i testi liturgici dai due fratelli Cirillo (826-869) e Metodio (815-885), evangelizzatori dei popoli slavi, nel IX sec. L’edizione completa in caratteri cirillici fu realizzata nel secolo XV per ordine di Gennadio metropolita di Novgorod (1484-1504), e per l’occasione si tradussero dalla Vulgata – non essendo disponibili i testi in greco – i libri non resi in paleoslavo. È appena il caso di far notare che, quasi sempre dopo l’invenzione della stampa, secondo dati del 2009 forniti dall’Alleanza Biblica Universale, ad oggi la Bibbia è stata tradotta per intero o parzialmente in duemilacinquecentootto lingue. Le lingue principali del mondo sono tremila, ma se ne contano fino a seimilasettecento. Sempre dal 2009 l’Alleanza Biblica Universale sta coordinando la traduzione in circa altre cinquecento lingue. Molte versioni, antiche e moderne, sono già on line. Cosa dire, alla fine di questa carrellata? Che la concordanza tra i testimoni, pur così numerosi, è pressochè perfetta. Le variazioni riguardanti il senso sono più o meno duecento; quelle di qualche importanza solo una dozzina; nessuna è tale da compromettere alcun dogma della Fede cristiana e di quella cattolica in particolare. Perciò nel corso dei secoli i Vangeli sono rimasti esattamente come sono usciti dalla penna degli Evangelisti. Sulle poche divergenze, diciamo quanto segue per spiegare da dove viene fuori, oggi, un testo critico del NT greco. LA RECENSIONE DEL TESTO GRECO NEOTESTAMENTARIO All’inizio del IV secolo esistevano già due forme o recensioni del testo greco del NT, o almeno erano le principali. Sono la Lucianea, detta anche antiochiena, bizantina o Koinè, e siglata di solito K, e l’Esichiana, denominata anche alessandrina o egiziana, siglata invece con H. La prima prevalse nella Chiesa greca e detenne un lungo primato, attestata in tanti codici maiuscoli, in ancor più minuscoli, e parzialmente nella versione della Peshitta, nella Harclense, nell’Armena e nella Bohairica. La seconda, attestata ovviamente in altri codici, dei quali pochi sono minuscoli, è parzialmente testimoniata dalla versione latina della Vulgata e dalla copta. Abbiamo poi la versione detta Palestinese e siglata con I, in cui confluiscono un’altra serie di famiglie di codici. Essa fu attribuita a san Panfilo (†309), ma forse esisteva già nel III sec.; infatti nella metà di esso era in vigore a Cesarea una versione molto simile, detta appunto Cesariense. Questo testo, con le famiglie codicologiche della I, ha già delle tracce in Egitto e Palestina dal II sec., coi papiri Chester Beatty, e con essi può ulteriormente essere retrodatato. Sono le cosiddette lezioni occidentali, radunate nella recensione Cesariense, detta C. Essa fu nota a Taziano. Queste recensioni, comparate con i metodi della filologia moderna, sono alla base dei testi biblici greci attualmente in uso. Ovviamente, tutte le varianti sono a disposizione dei lettori, negli apparati eruditi dei testi. LA FORMAZIONE DEL CANONE NEOTESTAMENTARIO «Nuovo Testamento» o «Nuovo Patto» (in greco Kainê Diathêkê, in latino Novum Testamentum) è un’espressione tecnica usata dalla LXX e dai più antichi scrittori cristiani, a partire da Paolo (cfr. 1 Cor 11,25); questi ultimi la usano per indicare la nuova alleanza tra Dio e l’uomo che viene instaurata da Gesù Cristo. Con questa espressione, dalla fine del II secolo, si denomina pure la raccolta degli scritti sacri cristiani, per distinguerli e metterli alla pari a quelli dell’AT. Un testo che documenta il nuovo uso è di un anonimo scrittore antimontanista citato da Eusebio di Cesarea (Historia Ecclesiastica V,16,3) e che scrisse intorno al 190. Oggi la denominazione di AT in contrapposizione a NT viene contestata negli ambienti che promuovono il dialogo tra Cristiani ed Ebrei, e c’è chi cerca di diffondere un’altra forma: «Primo Testamento» e «Secondo Testamento». Ma le forme «Antico» e «Nuovo» Testamento erano usate già dai primi cristiani, che si rifacevano a loro volta ad espressioni usate nel NT. Il NT è costituito da 27 libri, divisi in Storici, Didattici e Profetici, di cui diamo a seguire i nomi e le abbreviazioni per le citazioni tecniche in capitoli e versetti. I Libri Storici sono i Quattro Vangeli, secondo San Matteo (Mt), San Marco (Mc), San Luca (Lc) e San Giovanni (Gv), nonché gli Atti degli Apostoli (At). I Libri Didattici sono le Lettere, divisi in Lettere Paoline e Lettere Cattoliche. Le Lettere di San Paolo sono quattordici: ai Romani (Rm), I e II ai Corinzi (1 e 2 Cor), ai Galati (Gal), agli Efesini (Ef), ai Filippesi (Fil), ai Colossesi (Col), I e II ai Tessalonicesi (1 e 2 Ts), I e II a Timoteo (1 e 2 Tm), a Tito (Tt), a Filemone (Fm), agli Ebrei (Eb) - la cui attribuzione a Paolo è stata contestata fin dall’antichità e oggi è omessa nel titolo. Le Lettere Cattoliche sono invece di diversi Apostoli e non sono indirizzate a comunità specifiche, per cui sono appunto così dette, in quanto il termine traduce un corrispondente greco che vuol dire “universali”. Sono sette: di Giacomo (Gc), I e II di Pietro (1 e 2 Pt), I, II e III di Giovanni (1, 2 e 3 Gv), di Giuda (Gd). Segue un Libro profetico di tipo apocalittico, l’Apocalisse (Ap) di Giovanni. Per quanto riguarda il numero degli scritti, è possibile rilevare l’importanza simbolica del numero sette: le lettere cattoliche, le comunità a cui Paolo scrive; quattordici, ossia due volte sette, sono le lettere complessivamente attribuite a Paolo, compresa la lettera agli Ebrei. All’interno dell’Apocalisse sono riportate sette lettere alle Chiese. Già nel Frammento Muratoriano (II sec.) si rileva un rapporto tra le sette chiese a cui scrive Paolo e le sette chiese dell’Apocalisse. Al numero quattro dei Vangeli attribuisce molta importanza Ireneo di Lione (Adversus Haereses III,11,8), per cui i Vangeli possono essere solo quattro, come i punti cardinali e i venti, come i Viventi dell’Apocalisse (cfr. Ap 4,29). E con ciascuno dei Viventi trova una precisa corrispondenza prendendo spunto dall’inizio di ciascuno dei Vangeli. Queste corrispondenze, almeno per quanto riguarda Mc e Gv, cambieranno con Gerolamo (fine del IV sec.- inizio del V): egli mette Mc in rapporto con il leone alato perché pone all’inizio la predicazione di Giovanni il Battista nel deserto; Mt in rapporto con l’uomo, perché parte dalla genealogia umana di Gesù; Lc in rapporto col toro o vitello, perché incomincia con il sacrificio di Zaccaria nel tempio; Gv in rapporto con l’aquila, per il prologo che scruta le profondità del Logos.: il simbolo del leone sarà attribuito a Mc, l’aquila a Gv. Di qui deriverà il simbolismo iconografico della tradizione successiva.. Gli scritti del NT sono presentati per genere letterario e secondo una successione di valore: al primo posto i Vangeli, sentiti come un tutto unitario, tanto che si parla comunemente di “Vangelo”; poi gli Atti, che descrivono la missione degli Apostoli e gli inizi della storia della Chiesa; poi le lettere degli Apostoli, che forniscono insegnamenti; quindi l’Apocalisse, l’unico libro profetico e «apocalittico» del NT. Questa ripartizione comporta che gli Atti, scritti da Luca, vengono separati dal suo Vangelo, con cui costituivano, nel progetto originario dell’autore, un’unica opera. L’ordine attuale dei Vangeli, che risale al periodo più antico - come testimonia l’importante documento costituito dal Canone o Frammento Muratoriano, la prima lista di libri «canonici», databile verso il 180 - dipende dalla successione cronologica. Essa è attestata da Origene (in Eusebio, Historia Ecclesiastica VI,25,3-5), nella metà del III sec. Ma un diverso ordine dei Vangeli compare in alcuni manoscritti appartenenti all’ambiente occidentale, e databili al V-VI sec. (D, W): Mt, Gv, Lc, Mc. Forse questo ordine dipende da un criterio di importanza: in effetti i Vangeli di Matteo e Giovanni erano attribuiti ad Apostoli e furono fin dagli inizi i più diffusi nella Chiesa e i più commentati. L’ordine delle lettere di Paolo corrisponde probabilmente a criteri di lunghezza e di importanza, mentre Eb è all’ultimo posto in quanto la sua paternità fu discussa vivacemente già in tempi antichi con propensione ad escludere che fosse stata davvero scritta in greco da lui e fu definitivamente inserita nel canone solo tardi. Però nella tradizione manoscritta più antica viene spesso riportata tra le lettere di Paolo, e talora tra le più importanti: in un papiro (P46) tra Rm e 1 Cor; nei manoscritti onciali, cioè scritti in maiuscolo (i più antichi documenti, dopo i papiri), tra 2 Ts e 1 Tm; fu collocata alla fine, dopo Fm, soprattutto nei manoscritti bizantini e nella Vulgata. Nel NT della Chiesa greca le lettere cattoliche precedono quelle paoline, nella Chiesa latina seguono. L’Apocalisse è alla fine forse perché anch’essa stentò a entrare nel canone: per questo motivo fu anche trascritta meno rispetto a Vangeli e lettere paoline. Per la Chiesa Cattolica il canone biblico si può dire definitivamente stabilito in maniera dogmatica al Concilio di Trento l’8 aprile 1546, con il decreto De canonicis Scripturis; tale decreto fu la ripetizione dell’elenco dei libri canonici contenuto nel Decretum pro Iacobitis del precedente Concilio di Firenze (4 febbraio 1441). Tuttavia, le prime decisioni sul canone biblico che ci sono pervenute risalgono agli antichi Concili africani di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419), cui prese parte Agostino, i quali riportano un canone identico a quello tridentino. Nella definizione tridentina furono riconosciute canoniche anche parti da alcuni allora contestate, come la finale lunga del Vangelo di Marco (Mc 16,9-20) e l’episodio dell’adultera (Gv 7,53-8,11), che invece i Protestanti o omettono o inseriscono tra parentesi. In generale però il NT si presenta oggi sostanzialmente identico nelle Bibbie protestanti e in quelle cattoliche. Gli scritti dei Padri Apostolici testimoniano che essi riconoscevano tutti gli scritti che oggi fanno parte del canone, che essi citano eccetto la III Lettera di Giovanni, non menzionata mai per la sua estrema brevità. Marcione verso il 144 rifiutò l’AT e accettò di Paolo (solo dieci lettere e il Vangelo di Luca. Anche per reazione a questo eretico, la Chiesa ha accelerato la fissazione di un canone ufficiale. Quello palestinese dell’AT fu accettato forse con reciproche influenze. Per quanto riguarda i libri cosiddetti deuterocanonici, ovvero Ebr, Gc, 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd e Ap, anch’essi sono citati nelle opere dei Padri Apostolici, ma dalla fine del II secolo, le fonti ci mostrano alcune incertezze. Ireneo di Lione, verso il 180, riconosce come Scrittura il Vangelo tetramorfo, tredici lettere di Paolo (compresa Eb, ma esclusa Fm), gli Atti, 1 Pt (non 2 Pt), 1 e 2 Gv (non 3 Gv, non Gc e non Gd), l’Ap; inoltre viene accolto anche il Pastore di Erma. Nella seconda metà del II sec., il Frammento o Canone Muratoriano enumera ventidue o ventitrè scritti del NT (l’incertezza sul numero deriva dal carattere frammentario del testo): i Vangeli, gli Atti, tredici Lettere di Paolo (esclusa Eb), tre Lettere cattoliche (Gd e due di Gv, non Gc, non 1 Pt), l’Ap, ma anche l’Apocalisse di Pietro. Contesta esplicitamente la canonicità del Pastore di Erma, che invece il contemporaneo Ireneo accoglie. Appare particolarmente strana l’omissione di 1 Pt, riconosciuta invece, oltre che da Ireneo, da quasi tutti i Padri del tempo. Tenuto conto delle testimonianze dei Padri, si può constatare che verso il 200 in Occidente è ormai solido il nucleo costituito dai Quattro Vangeli, dagli Atti, da tredici lettere di Paolo, dall’Apocalisse di Giovanni. Per le Lettere cattoliche vi è incertezza da parte di alcuni, e la Lettera agli Ebrei sarà riconosciuta unanimemente solo verso il 380, perché non era attribuita generalmente a Paolo ed era abusata dagli eretici, specie montanisti e novaziani. La Lettera di Giacomo entrerà definitivamente solo verso il 350. In Egitto Clemente di Alessandria (150-215 circa) mostra di conoscere ed accettare come canoniche tutte le Scritture, a parte forse Gc, 2 Pt e 3 Gv. Origene (185-254 circa), che con i suoi numerosi viaggi poté accertarsi con esattezza delle tradizioni in uso nelle varie regioni, ci restituisce un quadro preciso della situazione. Egli divide il canone in scritti accettati da tutti e dovunque e scritti discussi (2 Pt, 2 e 3 Gv, Ebr e Gc). Nella sua Storia ecclesiastica, composta tra la fine del III sec. e l’inizio del IV, Eusebio di Cesarea riporta in proposito le opinioni dei più importanti Padri precedenti e delinea sistematicamente la situazione al suo tempo (III,25). Sappiamo così che nel III secolo venivano usati tutti i ventisette libri del nostro canone, mentre molti altri altri sono definiti apocrifi: Lettera dello Pseudo-Barnaba, Apocalisse di Pietro, Didachè, Pastore di Erma, Atti di Paolo, ecc. Eusebio eredita la distinzione origeniana tra scritti homologoúmena («sui quali vi è accordo»), antilegómena («discussi»), ed eretici. Un uso più estensivo di libri canonici, in Oriente, è testimoniato anche da alcuni codici biblici antichi, come il Sinaitico (S o ‘alef), del IV sec., e l’Alessandrino (A), del V sec.: contengono, insieme ai libri che oggi appartengono al NT, scritti come la Lettera dello Pseudo-Barnaba, il Pastore di Erma (in S), le due lettere attribuite a Clemente Romano (in A). Il primo a portare il canone a conclusione in Oriente fu Atanasio di Alessandria in una lettera pasquale del 367: egli per primo enumera i ventisette scritti del NT come i soli canonici. Tuttavia alcune lettere cattoliche e l’Apocalisse continuarono ad essere rifiutate in alcune parti dell’Oriente: tra le lettere cattoliche 2 Pt, 2 e 3 Gv, Gd furono accolte in Siria solo nel V-VI sec.; lunga fu l’emarginazione dell’Ap, che durò fino al VI-VII sec. e oltre, ma si tratta di casi isolati. Le cause di dubbio sono la mancanza di consenso universale, la brevità eccessiva ed il non rilevante valore dottrinale di alcuni scritti (2 e 3 Gv, Gd); l’uso che alcune sette ereticali facevano della lettera agli Ebrei e dell’Apocalisse. Dalla II metà del V secolo c’è un consenso unanime sui libri del NT. La Chiesa sira raggiunse l’accordo più tardi, con la versione filosseniana della Bibbia (secolo VI). I criteri che prevalsero per l’inserzione nel canone furono principalmente tre:
In tempi moderni il criterio di apostolicità si è modificato, perché si deve tener conto delle acquisizioni di carattere filologico-storico. Theorèin - Ottobre 2014 |