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IN EVANGELIUM SANCTI MATTHAEI Breve introduzione al Vangelo secondo Matteo Il Vangelo secondo Matteo è il primo dei quattro Vangeli canonici, ossia di quelli che la Chiesa ha riconosciuto come ispirati in quanto di origine apostolica. Nei capitoli precedenti abbiamo trattato della datazione, dell’autore, della lingua di questo Vangelo. Ora daremo indicazioni più specifiche su di esso in particolare. L’AUTORE Matteo era chiamato anche Levi ed esercitava la funzione di pubblicano, ossia di esattore di imposte a Cafarnao, quando Gesù lo chiamò alla sua sequela. Egli, abbandonando tutto immediatamente, lo seguì. Il Signore lo costituì poi tra i suoi Apostoli (cfr. Mt 9,91-3; 10,3; Mc 2,14-17; 3,18; Lc 5, 27-32; 6,15; At 1,13). Queste sono le notizie che abbiamo dalla Scrittura. Le antiche fonti sembrano non essere concordi nell’indicare il luogo della missione di Matteo e quindi del suo martirio. Vengono indicate la Siria, la Persia (1), la Macedonia (2), l’Etiopia (3). Qui viene ambientato il suo supplizio, per quegli autori che si dilungano su di lui abbastanza per parlarne. Solo che per le fonti più antiche – III sec., Martyrium Sancti Matthaei- venate di gnosticismo, l’Evangelista sarebbe stato martirizzato nell’Etiopia tra il Caucaso e il Caspio, mentre quelle successive, rigorosamente ortodosse, gli fanno rendere testimonianza a Cristo nell’Etiopia a sud dell’Egitto (4). A questo dato va aggiunto quello dell’eresiarca Eracleone (145-180), il quale, secondo Clemente Alessandrino (150-215), sosteneva che Matteo fosse morto di vecchiaia. Cerchiamo di sceverare il vero dal falso. L’Apostolo predicò agli Ebrei in Palestina fino al 42. Dispersi gli Apostoli nelle varie regioni toccate loro in sorte per l’evangelizzazione mondiale, Matteo lasciò la Palestina, anche se non definitivamente. Privilegiando le fonti più antiche, ossia le gnostiche, la collocazione del martirio è l’Etiopia caucasica, ossia la Colchide, ai tempi di Polemone II (38-62 [74]), re cliente dei Romani, e dell’annessione neroniana (62), che la inserì nella provincia del Ponto (5). La Colchide era un Regno ellenizzato, ove si parlava greco e presumibilmente aramaico (attestato in Abkhazia, a nord, e in Armenia a sud-est), e dove quindi Matteo avrebbe potuto operare con facilità. E’ ovvio privilegiare la notizia più antica (6), al netto delle sovrapposizioni tra il ciclo matteano e quello di Mattia, facilmente discernibili negli apocrifi. Bisogna inoltre registrare la presenza di Giudei nel Ponto, come attestano gli Atti 2, 9-11, quando enumerano gli Ebrei e i proseliti presenti a Gerusalemme per la Pentecoste del 30; avendo gli Apostoli la prassi di rivolgersi dapprima ai circoncisi della Diaspora, è questo un elemento per preferire una missione matteana in quell’area piuttosto che altrove, in luoghi non elencati nel NT. Altro elemento importante è l’indirizzo della 2 Pt, rivolto anche ai fedeli del Ponto, a prova dell’evangelizzazione della zona. La Lettera contenutisticamente è databile al 61-62, ma paleograficamente risale al 50. E’ logico supporre che questa evangelizzazione pontina sia attribuibile ad uno o più Apostoli, facendo il paio con la tradizione (7). Peraltro nella Colchide la città di Gonio o Nevvader conserva ancora le vestigia dell’antica tomba dell’Apostolo (8), prima che, di traslazione in traslazione, le sue spoglie giungessero a Salerno nel IX sec. (9) Va peraltro aggiunto che il ciclo narrativo dell’apostolato di Matteo, il cui termine non può essere oltre il 70 (10), è sostanzialmente identico nella struttura essenziale in tutte le fonti. Perciò è storicamente attendibile, con la sua azione alla corte di un Re, la sua predicazione contro l’idolatria, la sua taumaturgia, la predicazione della verginità e il martirio per gelosia (11). Particolare interessante: i nomi propri dei personaggi, nelle fonti ambientate in Nubia, sono persiani o greci; questo però era possibile solo in Colchide e attesta la dipendenza delle fonti ortodosse da quelle venate di gnosticismo e la conservazione quindi di un ciclo narrativo antico. Altro elemento indicativo, Matteo compete con due maghi che sono dualisti, che possono identificarsi con due esponenti del clero zoroastriano, presente in Armenia e nel Caucaso, ma non in Nubia. Peraltro, la collocazione del martirio matteano in Colchide rende ragione delle altre regioni indicate dagli antichi come luoghi dell’apostolato dell’evangelista. Egli, lasciata la Palestina per sfuggire alla persecuzione di Erode Agrippa, dovette avviarsi verso la Siria. Potrebbe avervi indugiato predicando agli Ebrei ivi residenti per arrivare ai quindici anni di apostolato tra i connazionali attribuitigli da Ireneo. Da qui, nel 45, varcato il confine nell’Adiabene, attraversò la regione e raggiunse l’Armenia, fino ad arrivare in Colchide. In questo modo potè evangelizzare anche alcune aree dell’Impero Partico. Potrebbe aver raggiunto la Macedonia via mare in circostanze legate alla predicazione di Andrea, per poi ritornare via terra in Colchide passando per Ierapoli dove risiedeva l’apostolo Filippo. Di certo dovette abbandonare la Colchide almeno intorno al 48 per il Concilio di Gerusalemme, ritornandovi poi definitivamente nei primi anni Cinquanta. La delocalizzazione del ciclo matteano in epoca successiva dovrebbe essere attribuibile sia alla dimenticanza dell’onomastica geografica del I sec.- per i cambiamenti radicali occorsi successivamente (12)- sia per la volontà di depurare il ciclo stesso di elementi gnostici saldandolo alla vicenda, altrimenti senza continuazione, dell’Eunuco di Candace convertito dal diacono Filippo, descritta negli Atti (come fa appunto lo Pseudo-Abdia) (13). Invece ininfluente è la testimonianza di Eracleone, che da buon gnostico voleva svilire il martirio, per cui lo negò ad uno dei principali ministri della Parola scritta, mentre la notizia della morte di Matteo a Gerusalemme sembra alludere alle persecuzioni di Erode Agrippa e alla latitanza alla quale l’apostolo dovette consegnarsi per sfuggirgli; il che nel tempo potrebbe essere stato frainteso e preso alla lettera. Non vi è dubbio alcuno quindi del martirio di Matteo. Egli è festeggiato il 21 settembre.STRUTTURA Il testo matteano è il più lungo dei Sinottici; ha uno schema logico chiaro, omogeneo e proporzionato, anche se non sempre o necessariamente disposto secondo un ordine cronologico. Si può dividere in quattro parti:
Nella seconda invece abbiamo:
DISAMINA CONTENUTISTICA Coloro che – e sono i più – ritengono che il Vangelo di Marco sia anteriore a quello di Matteo – e questo è esatto rispetto alla versione greca ma non a quella aramaica dell’uno e dell’altro testo – stupiscono nel constatare che Matteo riprenda il piano narrativo di Marco in modo diverso, più articolato e completo; ciò è più facilmente comprensibile se consideriamo Matteo come la fonte che Marco ha condensato avendo un occhio al Vangelo primordiale, fermo restando che, nelle sue due stesure greche, Marco è stato a sua volta conosciuto e utilizzato da Matteo per la versione greca del suo originale aramaico. Questi non dovette essere molto differente dalla copia greca, visto che la Tradizione ci parla di una traduzione del testo originario e non di un rifacimento; le strutture ancestrali che quindi riscontriamo nel testo matteano a noi giunto potrebbero risalire non alla sua versione aramaica, ma addirittura al Vangelo primordiale. Possiamo infatti distinguere cinque libri, incentrati ognuno su un discorso di Gesù e introdotti da fatti scelti appositamente; presubilmente risalgono alle stenografie e ai resoconti di quando Gesù stesso era in vita; questi cinque libri sono incastrati tra un Vangelo dell’Infanzia e uno della Passione, Morte e Resurrezione, così che lo scheletro del testo greco è di sette parti, anche se, come abbiamo visto, la struttura finale può esemplificarsi in quattro sezioni. La riproposizione in compendio di questo endoscheletro narrativo anche in Marco, l’uso libero e sistematico, nonché pedagogicamente efficace, che Matteo fa di questo materiale già letterariamente definito ma suscettibile di sviluppi, confermano l’ipotesi di una sua origine ancestrale. Anche la centralità che nel Vangelo hanno i Discorsi di Gesù, in numero di cinque (5-7; 9,35-11,1; 13; 23; 24-25), mostra la fedeltà di Matteo alle fonti presinottiche, già fissate, presumibilmente dallo stesso Evangelista in qualità di tachigrafo, in forme letterarie scritte identiche a quelle oralmente adoperate dallo stesso Gesù quando parlava. Nulla peraltro lascia intendere, come a volte si è affermato, che la separazione tra Chiesa e Sinagoga fosse, ai tempi della redazione del Vangelo di Matteo, un fatto compiuto; sebbene l’Apostolo mostri il superamento della lettera mosaica, la sua attenzione al mondo ebraico e lo scopo stesso di convertirlo che sottende il suo Vangelo dimostrano la persistente osmosi tra il mondo semitico e quello pagano nel quadro dell’unica azione evangelizzatrice della Chiesa. DISAMINA LETTERARIA Si è evidenziata la natura drammatica del Vangelo di Matteo, in cui il messaggio di Cristo e il tema del Regno dei Cieli (4,17 ss.)- che poi è il Messia stesso – sono messi in scena in sette atti. Il primo prepara la venuta del Regno nel Messia fanciullo (1-2); il secondo è la promulgazione del programma del Regno davanti ai discepoli e al popolo nel Discorso della Montagna (3-7); il terzo è il mandato missionario ai predicatori che riprenderanno l’insegnamento di Gesù, suffragato soprannaturalmente dai miracoli che Egli opera (8-10); il quarto è l’opposizione che gli uomini fanno al progetto di Dio, mirabilmente esemplificata nelle Parabole, in cui l’ostacolo umano non impedisce, anzi concorre a realizzare, il disegno divino (11,1-13,52); il quinto è lo sviluppo del Regno attraverso la Chiesa, fondata su Pietro e gli Apostoli e le cui regole sono dettate nel Discorso comunitario (13,53-18,35); il sesto è la crisi e la rottura incipiente con i Giudei, il cui esito è la Distruzione di Gerusalemme e, in prospettiva, la Fine del Mondo e il Giudizio escatologico, preconizzati nel grande Discorso omonimo (19-25); il settimo è senz’altro il compimento, la consumazione e l’avvento del Regno, mediante la Passione, la Morte e la Resurrezione di Cristo (26-28). Un altro genere letterario a cui il Vangelo afferisce consapevolmente, in una contaminazione dotta tra letteratura greca ed ebraica, è il midrash, mediante cui l’Evangelista costruisce, attorno alle profezie messianiche, gli episodi della vita di Gesù, capovolgendo però il paradigma operativo della letteratura giudaica coeva: non parte dal dato veterotestamentario per esemplificarlo mediante una amplificazione fittizia, ma dal dato storico per agganciarlo alla profezia, tanto che in alcuni casi i riferimenti profetici (per il Ritorno dall’Egitto o per il Tradimento di Giuda) sono piuttosto vaghi. Di certo il Primo Vangelo consapevolmente vuol essere una biografia di Gesù, capace di fornire ai lettori una iniziazione soda, solida, autonoma al Mistero storico del Redentore, sintetica rispetto alle fonti della predicazione, atta ad essere letta e studiata anche in assenza dell’Apostolo. Non a caso fu il Vangelo preferito dell’antichità. Anche come biografia ricalca i gusti e la sensibilità ebraiche, essendo gli Ebrei i primi veri destinatari di questa opera. Biografia teologica, mostra che Gesù è il Cristo, Figlio di David e di Abramo, ma soprattutto Figlio di Dio e Agnello di Dio. Teologicamente impegnata nel confronto letterario, l’opera riprende con decisa descrizione temi e momenti della letteratura giudaica coeva, appropriandosene per Gesù Cristo dopo averne constatato la somiglianza e il compimento coi fatti della vita di Lui (ad es. la Concezione verginale o la Discesa agli Inferi). DISAMINA STILISTICA Matteo ha una lingua greca più corretta, anche se meno gustosa, di quella che sarà di Marco. In effetti l’Evangelista era padrone verosimilmente di diverse lingue, e il greco era tra queste. Il testo aramaico non c’è giunto, ma doveva essere sicuramente molto fine e attento ai modelli dell’epoca e alle fonti. L’Evangelista rimane consapevolmente fedele all’originale semitico pur nella correttezza del greco, mediante la sopravvivenza dei semitismi linguistici, fraseologici e concettuali. Frequenti sono anche i riferimenti agli usi e ai costumi giudaici, nei quali visse il Cristo e in considerazione della destinazione del Vangelo ai Giudei stessi. Matteo è anche l’inventore di quella forma veloce tipica dei passaggi chiave dei Vangeli in genere, tra cui i racconti cosiddetti kerygmatici. In ragione di ciò, i testi sono sapientemente composti secondo la forma narrativa veloce, che omette particolari inutili, quasi travolgendoli nel fluire patetico degli eventi principali. Questo accorgimento retorico è usato, per esempio, da Petronio Arbitro nel Satyricon, per esempio quando Encolpio, Gitone ed Ascilto sono invitati da Agamennone alla Cena di Trimalchione. L'interconnessione tra le letterature, gli scambi culturali in seno all'Impero e i contatti intellettuali giustificano la ripresa di questo stile tra diversi testi e pone l’interessante problema della sua origine. Il problema è di solito dibattuto attorno ad una questione, ossia se i Vangeli hanno imitato Petronio o viceversa. Oggi si propende per la seconda ipotesi. Essendo tuttavia, per quanto a mia conoscenza, la forma veloce presente solo nel NT nella letteratura greca, si pone la questione della sua origine e del suo modello. La questione filologica sull’origine del Pentateuco sembrerebbe offrire un interessante spunto, ma solo apparentemente (14). In verità nell’AT esistono libri che sembrano l’assemblaggio di fonti separate, ma non libri che si completano a vicenda nella misura in cui avviene nei Vangeli per i racconti kerygmatici. Per cui la ratio della scelta degli Evangelisti è teologica prima che letteraria. Sembra che nella forma veloce si realizzi una narrazione pasquale che con quella dell’AT ha in comune il desiderio della velocità negli eventi, più che nello stile: “Mangiatelo in fretta: è la Pasqua del Signore” (Es 12,11).In realtà, la narrazione kerygmatica in forma veloce di Matteo, unita a quella in forma veloce di Marco e a quella analoga di Luca, sembra restituire, dalle nebbie del tempo, un originale archetipo evangelico greco che racchiuse in sé tutti i fatti centrali della Pasqua ultima di Cristo. Se poi a questi racconti uniamo anche quelli in forma veloce, non sinottici, di Giovanni, ci troviamo dinanzi ad un testo completo che raccontava i giorni della Pasqua di Gesù. Tali fatti sono attualmente suddivisi in Matteo, Marco, Luca, Giovanni e negli Atti. Da questo punto di vista si forma così una sorta di Pentateuco neotestamentario incentrato sull’Esodo di Cristo dalla morte alla vita, con un procedimento letterario inverso a quello comunemente accettato per la formazione del Pentateuco classico. Di questo testo colpisce che sarebbe stato scritto uniformemente in greco. Considerato che è possibile dedurre l’esistenza di un Vangelo primitivo da cui derivano i Quattro che abbiamo, ma scritto in ebraico e in aramaico per le esigenze della predicazione nell’ambiente siro-palestinese dovremmo dedurre o che la traduzione fattane dagli Evangelisti, all’atto della cernita degli argomenti, fosse assai puntuale e fedele all’originale di lingua semitica, o che questo stesso originale fosse stato tradotto anche in greco, per esigenze analoghe tra Ebrei di lingua greca e pagani. DISAMINA TEOLOGICA Matteo puntualizza per i suoi connazionali come le profezie si siano adempiute in Cristo una per una, si siano perfezionate, compiute e superate nel Mistero di Gesù. La discendenza davidica (1,1-17), la nascita verginale (1,23), quella a Betlemme (2,6), il soggiorno in Egitto e a Nazareth segnato dalla persecuzione (2,13-23), la Strage degli Innocenti (2,17), la vita nascosta (2,23), il trasferimento a Cafarnao (4,14-16), l’ingresso messianico a Gerusalemme (21,5-16), le guarigioni miracolose (11,4-5), l’insegnamento che adempie e supera la Legge (5,17.21-48; 19,3-9.16-21), l’incredulità giudaica (13,13-15) e il conseguente attaccamento a tradizioni meramente umane (15,7-9), l’insegnamento velato in Parabole (13,14-15,35), la mansuetudine dell’Agnello/Servo di Dio (12,17-21; 8,17; 11,29; 12,7), l’abbandono dei discepoli (26,31), il prezzo irrisorio del tradimento (27,9-10), l’arresto (26,54), la sepoltura per tre giorni (12,40) sono tutti riscontrati con testi veterotestamentari, almeno implicitamente. Questa puntuale disamina fatta dal dotto esattore delle imposte giudeo passò anche negli altri Vangeli, ma non con la stessa acribia. Forse lui stesso l’aveva fatta sin dal Vangelo primordiale, che pure doveva contenerla per ragioni di efficacia predicatoria. Matteo insiste vigorosamente su alcuni punti: Gesù è il Figlio di Dio (14,33; 16,16; 22,2; 27,40.43); Egli completa l’Antica Legge; La Chiesa è la comunità messianica che ha come pietra angolare Cristo (21,42) e fondamento Pietro (16,18); essa è estesa a tutte le genti e il rifiuto del Cristo da parte dei Giudei e il conseguente ripudio dei chiamati per primi ha permesso l’ingresso di tutti gli altri popoli (8,11-12; 10,5-6.23; 12,18.21; 15,24; 21,33-46; 22, 1-10; 23,34-38; 28,19). Sono degne di ulteriore menzione altre particolarità teologiche del Primo Vangelo. Iniziando con una genealogia e terminando con un mandato missionario destinato a compiersi alla fine dei tempi, Matteo mette il Cristo al centro della Storia totale della Salvezza, perché Egli è l’Emmanuele che compie il disegno salvifico di Dio (1,23; cfr. Is 7,14). Gesù appare chiaramente, come dicevamo, come un Nuovo Mosè e nel contempo come qualcosa di più grande di lui e in genere di qualsiasi altro personaggio dell’AT, in ordine alla legislazione, alla profezia, alla sapienza e alle gesta. Egli è Colui Che adempie ogni giustizia (3,15), termine onnicomprensivo che riassume tutte le esigenze religiose e morali, per cui esige dai Suoi discepoli una giustizia non solo formale come quella farisaica e scribale (5,20). Cristo è l’artefice di una esigente morale dell’intenzione e dell’interiorità, della perfezione e dell’universalità (5,28.43-48) che supera l’Antica Legge, ma il Suo Vangelo, e quindi quello di Matteo, non è un testo moralistico, sia per la pietà del Protagonista nei confronti dei miseri – Gesù guarisce i malati prima del Discorso della Montagna – sia perché Egli invita i discepoli ad andare da Lui e prendere il Suo giogo dolce e leggero sulle loro spalle, imparando la Sua mitezza e umiltà (11,28-30). Al centro del Vangelo di Matteo da questo punto di vista vi è dunque Cristo, sia perché senza il Suo aiuto nulla, nemmeno la vita morale, è possibile – ma col Suo aiuto tutto lo diventa – sia perché senza una relazione personale con Lui nessuna vita cristiana ha senso e compimento. Matteo è inoltre l’Evangelista della Chiesa (16,18; 18,17); egli usa per primo e da solo tra gli Evangelisti questo termine; la Chiesa è il Nuovo Israele in cui deve entrare sia quello Vecchio che i pagani; lungi però dall’essere compiuta nel suo orizzonte terreno, tale Chiesa vedrà i suoi membri giudicati da Gesù alla fine della vita e del mondo. Il tema del Giudizio è infatti l’ultimo degno di nota, in questa sommaria carrellata, tra quelli matteani: esso è la prospettiva della Salvezza collettiva e individuale (cfr. le Parabole della Zizzania e dell’Invito a Nozze); esso avverrà sulla base della carità fatta ai bisognosi, vero e proprio segno consacrato del Fi 1. Ambrogio, Isidoro, nonché il Martirologio Geronimiano, che lo dà martire lì, ma sbaglia la collocazione della città di Tarrium che invece sarebbe nell’Etiopia caucasica, elemento utile all’identificazione del reale luogo del supplizio.
2. Memorie Apostoliche di Abdia (VI-VII sec.). Nella prefazione di quest’opera, che spesso citeremo, un autore latino identificato di solito con Giulio Africano (160/170-240), contemporaneo di Origene, dice di aver reso latina la versione greca, di Eutropio, dell'originale ebraico di Abdia, vescovo di Babilonia ordinato dagli apostoli Giuda e Simone. Ma Giulio Africano è anteriore a Eutropio (IV sec.); inoltre lo scritto è occidentale perchè l'autore conosce la Vulgata, e utilizza come fonte Rufino e Gregorio di Tours, accanto ad Atti apocrifi più antichi, ripuliti dalle tendenze ereticali e spesso di origine orientale. La compilazione è probabilmente opera di un ecclesiastico franco della fine del VI sec., mentre gli originali possono risalire almeno al III-IV sec., identificando l’Africano con un altro autore ignoto ed Eutropio col segretario di Costantino (IV sec.).
3. Socrate nella sua Historia Ecclesiastica (V sec.); Rufino (IV sec.); Martirologio Romano.
4. In senso proprio l’Etiopia è Put o la Nubia. Ma da Erodoto la regione georgiana era detta anche Etiopia, in quanto ai Persiani si attribuiva la colonizzazione della regione con deportati dell’Alto Egitto.
5. Nel 395 questo lembo di Impero assunse addirittura la denominazione di Pontus Polemoniacus.
6. Suffragata anche dalla testimonianza del Martirologio Geronimiano (dopo il 431) anche se in una cornice geografica inesatta.
7. Eusebio attribuisce l’evangelizzazione del Ponto a Pietro.
8. La fortezza di Gonio (anticamente chiamata Apsaros, o Apsaruntos), è un forte romano nella regione dell'Agiaria, parte della Colchide, nella odierna Georgia occidentale. Si trova sulla costa del Mar Nero, 15 km a sud di Batumi, alla foce del fiume Chorokhi, e a 4 km a nord del confine turco. Il più antico riferimento alla fortezza è di Plinio il Vecchio, nella Naturalis Historia 6.4. C'è anche un riferimento all'antico nome del sito in Appiano, nel De bello Mithridatico 15.101. Nel II secolo era una città romana ben fortificata all'interno della Colchide. La città era conosciuta anche per il suo teatro e l'ippodromo. La tomba di San Matteo si crede essere all'interno della fortezza di Gonio. Tuttavia il governo georgiano vieta attualmente ogni scavo nei pressi della presunta tomba. Altri scavi archeologici sono comunque in corso sulla base della fortezza. Le mura della fortezza hanno una lunghezza totale di 900 metri.
9. Ignota è l’occasione in cui il corpo di Matteo venne traslato in Occidente: una tradizione leggendaria pone questo avvenimento verso il 370 a opera di marinai che lo avrebbero portato dalle coste etiopiche a Velia. Di qui, dopo che la cittadina fu conquistata dai barbari nel 412, sarebbe stato trasferito e nascosto in Lucania, in una località detta ad duo flumina presso Casalvelino. Il Martirologio Romano ricorda il 6 di maggio l’arrivo del corpo di Matteo a Salerno dalla Lucania: ve lo avrebbe portato, in quel giorno dell’anno 954, il re longobardo Gisulfo I (946-977). Questa tradizione risale al Chronicon Salernitanum, redatto da un anonimo cronista nel monastero di San Benedetto a Salerno nel 978, e ad altri due testi medievali che con esso concordano. A Salerno le reliquie, di cui si era persa notizia per più di un secolo, furono nuovamente ritrovate nel 1080 e poste nella cripta della Cattedrale consacrata da papa Gregorio VII, dove tuttora riposano. La data del 1080 è storicamente attestata dalla lettera che il 18 settembre di quell’anno il Papa scrisse all’arcivescovo di Salerno Alfano, in cui viene menzionato il ritrovamento.
10. La data convenzionale del martirio di Matteo è il 70. Ma se accettiamo la notizia degli Atti di Matteo e delle Memorie Apostoliche di Abdia per cui egli morì sotto il Re del paese ove evangelizzava, il suo martirio va retrodatato almeno al 62, l’ultimo anno utile, quello in cui la Colchide divenne provincia romana sotto Nerone, il quale tolse a Polemone II la regione in questione lasciandogli solo il resto del suo Stato. Francamente mi sembra la soluzione più logica, in quanto se Matteo fosse stato martirizzato dai Romani sotto Nerone, l’agiografia non avrebbe fatto cadere un particolare tanto significativo. Se prendiamo per buona l’indicazione apocrifa di ventitrè anni di ministero matteano in Etiopia, allora dobbiamo collocare il martirio non prima del 65. Il 70 è data a cui si arriva facendo arrivare in Etiopia Matteo nel 45 e scalcolando dal computo dei ventitrè anni gli anni del Concilio di Gerusalemme (48-49)
11. Probabilmente di spada, anche se non mancano versioni più cruente, come la lapidazione, la decapitazione, il rogo. Alle condizioni summenzionate non credo sia giusto destituire di ogni fondamento storico il Martyrium pontino di Matteo, come affermava il Lipsius. Dobbiamo discernere la possibile amplificazione mitica dal nucleo storico, assai visibile ancora oggi.
12. La regione fu denominate Iberia.
13.Una volontà analoga potrebbe aver spinto chi dipende da Clemente di Alessandria (come Ippolito di Roma [170 ca-235]) a negare il martirio di Matteo, per screditarne la notizia, venata di gnosticismo nella Passio del III sec.
14.Cfr. V.SIBILIO, Pentateuchus Liber. Breve intr
Theorèin - Gennaio 2015
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