IN EVANGELIUM SANCTI MARCI
Breve introduzione al Vangelo secondo Marco
Il Vangelo di San Marco è il secondo dei Vangeli canonici, scritto dal principale collaboratore dell’Apostolo Pietro. Simboleggiato dal Leone Alato dell’Apocalisse, Marco scrive per tutti i fedeli, in particolare per i convertiti dal paganesimo. I critici lo considerano il primo Vangelo, ma non lo è in senso assoluto: è stato il primo redatto in greco, ma non in aramaico, essendo in tale lingua stato preceduto da quello di Matteo. Della sua complessa storia redazionale, della sua datazione, delle fonti adoperate, del contesto letterario, del contenuto storico e della lingua originaria e dell’identificazione dell’autore ho detto nei contributi precedenti.
L’AUTORE
Marco è ricordato negli Atti degli Apostoli sia col suo nome romano che con quello ebraico, ossia Giovanni (12,12.25; 15,37); altre volte è menzionato solo come Giovanni (13,5); altre volte ancora solo come Marco (15,39), anche in altri testi biblici (Col 4,10; Fm 24; 1 Pt 5,13). I dubbi di alcuni critici moderni sul fatto che in tali contesti si parli sempre dello stesso personaggio sono stati fugati da tempo, sia essendo unanime la identificazione patristica sia essendo chiari in tal senso i luoghi biblici citati. Marco probabilmente apparteneva a famiglia agiata, visto che la casa di sua madre, Maria, sita in Gerusalemme, dove forse nacque l’Evangelista, era tanto grande da accogliere molti fedeli e dove si rifugiò anche Pietro dopo la sua miracolosa fuga dal carcere erodiano (At 12, 11 ss.). Da bambino forse conobbe Gesù, essendo identificato col ragazzino che lo seguiva dopo l’arresto e che poi fuggì via nudo per non essere portato via anche lui (Mc 14,51-52). Cugino germano di Barnaba, levita, e forse potè essere anche lui di famiglia sacerdotale. L’alto prestigio del cugino aiutò il decollo di Marco nella Chiesa nascente. Seguì Pietro a Roma nel 42 e l’Apostolo, nella sua Prima Lettera (5,13), saluta i fedeli della Diaspora a nome suo e di Marco, definito affettuosamente figlio. Questa Lettera può esser datata al 65, ma anche ad un’epoca più antica, quindi può essere dell’epoca in cui Marco e Pietro furono a Roma insieme. Quando l’Apostolo lasciò la città, Marco vi rimase e, come ho già precedentemente spiegato, stese la prima redazione del suo Vangelo nel 44, che non ebbe l’approvazione di Pietro. Nello stesso anno Marco fu ad Antiochia con Barnaba (At 12,25). Tra il 45 e il 46 redasse la seconda stesura del Vangelo, che fu approvato da Pietro. Poi seguì sia Barnaba che Paolo nel Primo Viaggio Apostolico di quest’ultimo attraverso Cipro e Panfilia tra il 46 e il 47 (At 13,5). Separatosi da costoro a Perge, se ne tornò a Gerusalemme, dove incontrò Pietro per il Concilio del 48. Per questo abbandono, quando intraprese il suo Secondo Viaggio Apostolico, nel 49-50, Paolo respinse la proposta di Barnaba di portarlo nuovamente con sé, per cui i due cugini si diressero da soli a Cipro (At 15,37-39). Tuttavia nel 58 Marco fu per un periodo a Roma con Paolo prigioniero, di cui era collaboratore, come attesta l’Apostolo stesso nelle Lettere ai Colossesi e a Filemone, datate dal Robinson a quell’anno. Era stato lo stesso Paolo a chiamarlo in città, scrivendo da Roma a Timoteo nello stesso anno la Seconda Lettera a lui indirizzata e in cui lo invita ad andare nella capitale portando con sé Marco, che poteva essere utile al ministero apostolico (4,11). L’Evangelista fece poi il viaggio di cui parla Paolo nella Lettera ai Colossesi (4,10), in Oriente. Qui avvenne il suo martirio, di cui ci dà notizia Girolamo (347-420)
(1), che lo data all’anno ottavo di Nerone (54-68) in Alessandria d’Egitto, ossia nel 62-63
(2). In quell’anno Aniano (62-82) gli successe nella Sede episcopale alessandrina
(3). Non vi è alcun motivo per ritenere che Marco abbia lasciato la sua Sede senza morire, in quanto nulla nelle fonti lo lascia intendere né vi sono tradizioni in merito
(4). Gli Atti di Marco attribuiscono il suo martiro al trascinamento, dietro un cavallo, lungo le strade della città
(5); resoconto confermato dal Chronicon Paschale. Il silenzio delle antiche fonti greco-latine sulle modalità del martirio è imputabile al fatto che il resoconto più antico degli Atti dell’Evangelista fu redatto in copto nel I sec., per cui rimase nel circuito interno della Chiesa egizia, con un fenomeno simile a quello delle tradizioni della Chiesa Siriaca. Solo dopo, entro il IV sec., furono tradotti in greco e, tra il 360 e il 370, in etiopico.
STRUTTURA
Il Vangelo di Marco si può dividere in una Introduzione e Tre Parti.
- L’Introduzione (1,1-13) verte sulla
- preparazione al ministero pubblico di Gesù mediante la predicazione di Giovanni il Battista. Segue il
- Battesimo di Gesù e
- le Tentazioni nel Deserto.
- Prima Parte (1,14-9,48): il ministero di Gesù in Galilea. Vi distinguiamo
- l’Inizio della Predicazione
- l’Elezione degli Apostoli
- Vari Miracoli
- le Parabole
- Conflitto con gli Scribi e i Farisei
- Ministero nelle regioni di Tiro e Sidone, della Decapoli, di Cesarea di Filippo
- Trasfigurazione
- Seconda Parte (10,1-13,37): il viaggio a Gerusalemme. Vi possiamo distinguere:
- Ritorno a Gerusalemme
- Ingresso nella Domenica delle Palme
- Cacciata dei profanatori dal Tempio
- Discorso escatologico
- Terza Parte (14,1-16,20): Passione, Morte e Resurrezione. Distinguiamo:
- Passione e Morte di Gesù
- Resurrezione di Gesù
- Apparizioni del Risorto
- Missione degli Apostoli
- Ascensione di Gesù.
DISAMINA CONTENUTISTICA
Tutti i Padri Apostolici attestano che il contenuto del Vangelo marciano è la predicazione di Pietro ai Romani. San Giustino proprio per questo motivo chiama il Vangelo di Marco con l’espressione “Memorie di Pietro” nei suoi Dialoghi (CVI, 3). Marco in effetti indulge su molti particolari relativi al Principe degli Apostoli, peraltro poco lusinghieri per lui, come i Tre Rinnegamenti, che evidenziano la volontà di Pietro di non nascondere nulla su di sé; specularmente, manca il conferimento del Primato: tutto ciò denota che l’Apostolo volesse evitare di glorificare se stesso. Se Marco avesse rielaborato i dati senza rimanere fedele alla catechesi petrina, avrebbe senz’altro tracciato un ritratto più equilibrato di Pietro, né avrebbe scelto dettagli che, di per sé, potevano sembrare denigratori.
Il Secondo Vangelo è il meno sistematico. Dopo l’Introduzione di cui si è detto, solo poche ma precise indicazioni geografiche ci fanno discernere il periodo di predicazione galilaica di Gesù (1,14-7,23); seguono le peregrinazioni di Cristo in Tiro e Sidone, nella Decapoli e nella regione di Cesarea di Filippo, fino al ritorno in Galilea (7,24-9,50); infine è narrato il viaggio a Gerusalemme con gli eventi pasquali (10,1-16,8). Questo schema è, al netto di altri dettagli, molto convenzionale, visto che Gesù andò più volte a Gerusalemme, come precisò Giovanni nel suo Vangelo. Ciò prova sia l’origine catechetica del Vangelo di Marco sia il fatto che esso non fu il primo, essendo troppo breve per costituire, peraltro agli occhi di un pubblico contemporaneo a buona parte dei protagonisti degli eventi narrati, una buona iniziazione al mistero e alla storia di Gesù. In effetti Matteo, come dicevamo, ha una struttura più articolata; tuttavia in tutti i Sinottici il viaggio a Gerusalemme è sempre uno solo e il ministero galilaico ha unità temporale: ciò attesta che la semplificazione del racconto della Vita Pubblica attorno a questi due elementi era un pilastro della catechesi a cui gli Evangelisti, che a essa si riallacciavano, si mantennero fedeli allo scopo di mantenere anche nei loro scritti la vocazione predicatoria.
Marco non sviluppa molto l’insegnamento di Cristo e riferisce poche Sue parole. Egli preferisce descrivere la manifestazione del Messia Crocifisso. Gesù è il Figlio di Dio riconosciuto dal Padre (1,11; 9,7), temuto dai demoni (1,24; 3,11; 5,7) e dagli uomini (15,39). Gesù è il Messia Che rivendica la Divinità (14,62), superiore agli Angeli (13,32), Che perdona i peccati (2,10), Che compie miracoli probatori della Sua potenza (1,31; 4,41; ecc.), Che esorcizza con forza (1,27; 3,23 ss.). Tuttavia questo Messia inequivocabilmente divino è motteggiato dalle folle che si scandalizzano di Lui (5,40; 6,2 ss.); è osteggiato dai capi giudei (2,1-3,6; ecc.); è incompreso dai discepoli (4,13). Questo contrasto è senz’altro uno scandalo, ma voluto da Dio per giungere a quella Morte redentrice del Messia che salva il mondo e che ne manifesta definitivamente la Natura celeste mediante la Resurrezione. Marco registra l’adempimento delle Scritture nelle sofferenze del Messia per la salvezza dell’umanità (10,45; 14,24), ravvisa esplicitamente questi adempimenti (9,12; 14,21.49) e narra come Gesù in Persona abbia proclamato la necessità di una via di umiltà e sofferenza per Sé stesso (8,31; 9,31; 10,33 ss.) e per i Suoi seguaci (8,34 ss.; 9,35; 10,15.24 ss.29ss.39; 13, 9-13). Il fatto che i Giudei non fossero pronti a questa concezione messianica ha fatto sì che Gesù circondasse di silenzio i Suoi miracoli (5,43; ecc.) e la Sua Persona (7,24; 9,30), nonché il Suo stesso segreto messianico – inteso come esplicita confessione della Sua duplice Natura umana e divina (1,34) - mentre condensava nell’unico, pregnante titolo di Figlio dell’Uomo (2,10; ecc.) la Divinità e la Messianicità della Sua identità, la Sua funzione salvifica, rivelatrice e giudicatrice, riallacciandosi alla tradizione profetica, apocalittica e spirituale giudaica da Ezechiele sino a quei tempi.
Si può anche dire che Marco concepisce il suo Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio come una proclamazione di fede sotto la forma di una catechesi narrata storicamente; il Battesimo di Gesù (Mc 1,11), la Sua Trasfigurazione (9,7) e la confessione del Centurione sotto la Croce (15,39) sono i tre momenti topici di questo insegnamento. Il mistero di Cristo viene posto nel racconto del ministero galilaico mediante gesti e parole di Gesù (1,16-8,26), mentre viene svelato nel viaggio a Cesarea di Filippo e il concetto viene ribadito sino all’arrivo a Gerusalemme (8,27-13,23). In queste sequenze si collocano i Tre Annunzi della Passione di Gesù stesso (8,31; 9,31; 10,33). Dinanzi al Sinedrio lo svelamento del Segreto messianico avviene in modo solenne (14,53-65) e il gran tema dell’identità di Cristo viene esaurito in modo completo. Il Cristo di Marco conserva lo stigma della Croce anche nella Resurrezione; solo la Croce infatti permette di aprire i cuori dei predestinati e conduce al riconoscimento della Signoria di Gesù. Non a caso Marco non Lo chiama mai Signore, lasciando questo titolo alla professione di fede cui vuole condurre il lettore.
DISAMINA LETTERARIA
Nonostante il fortissimo debito con Pietro per il contenuto, il Vangelo è autenticamente marciano, come del resto sempre affermato da tutti, sia Padri che eretici, e ancora oggi ritenuto dai critici. Ciò si vede nell’impronta letteraria inconfondibile di Marco, ossia di uno scrittore inequivocabilmente contemporaneo degli Apostoli, di un autore senz’altro giudeo che però scrive per i gentili, ai quali deve spiegare, con numerosi incisi, il significato di termini ebraici altrimenti incomprensibili ai lettori. Interrotto, evidentemente per fedeltà alla predicazione petrina, con la fuga delle Donne dal Sepolcro, il Vangelo appare di per sé incompleto, nonostante poi prosegua con altri versetti stilisticamente diversi dal resto del Libro. E’ degno di nota che la Finale Lunga, ossia la parte attualmente concludente il Vangelo e quindi canonica, può essere ragionevolmente attribuita a Marco in un momento di maggiore maturazione letteraria o senza lo scrupolo di una ripresa pedissequa delle fonti ma solo di una loro agile epitome (onde armonizzare il testo con i racconti delle Apparizioni pasquali degli altri Evangeli), avendo soltanto l’autore il potere di modificare il suo Vangelo. La tesi di una sua aggiunta tardiva (II sec.) non appartiene agli studiosi più seri, che la considerano della prima generazione cristiana. Esiste una Finale Breve – non canonica- alternativa alla lunga ma che potè cadere per essere soppiantata da questa attuale, per cui anch’essa potrebbe essere uscita dalla penna dell’Evangelista. A questa Finale Breve, che è data con la Lunga in alcuni manoscritti, appartiene una interessante variante di sapore giovanneo in cui gli Apostoli giustificano la loro miscredenza al Risorto e che potrebbe essere storica, anche se non è canonica.
L’ordine spaziotemporale degli eventi narrati, nonostante sia sufficiente a garantire l’unità del testo, certo non fa sì che esso sia annoverabile tra le biografie, non solo in senso moderno, ma nemmeno in quello neotestamentario, di Gesù, a cui si avvicinano di più i Vangeli di Matteo e Luca. Il testo marciano fu utilizzabile anche liturgicamente, grazie ai racconti e ai Discorsi, dei quali due sono i più significativi: quello Parabolico (4,1-34) e quello Escatologico (13,1-7). Altre schegge discorsive sono sulla Missione (6,6-11) e sulla vita comunitaria (9,33-50). I racconti completi sono alternati con più piccole unità narrative che raccolgono attorno a motivi comuni elementi topici della vita di Gesù: e così la Giornata di Cafarnao, pure nella sua storicità, è una giornata tipo del Maestro – 1,21-38- mentre in cinque racconti – 2,1-3,6- abbiamo scontri paradigmatici tra Gesù e i Farisei e in 4,35 -5,43 troviamo cinque racconti di miracoli attorno al Lago di Galilea; segnaliamo anche le regole di vita del cristiano in 10,1-31. Per alcuni, questi piccoli quadri non hanno necessariamente ordine cronologico.
DISAMINA STILISTICA
Lo stile è ad un tempo scultoreo e negletto, vivo e pieno di ripetizioni, che riflette evidentemente la forma della predicazione petrina, oltre che il travaglio linguistico di un autore che, per fedeltà alle fonti, pur conoscendo bene il greco, ricalca all’occorrenza le forme linguistiche degli originali semitici già circonfusi dell’aura della sacralità. Il vocabolario marciano spesso è povero e prosaico, ma la lingua, le cui caratteristiche sono spesso state erroneamente messe in capo alla koinè dialèktos ma che invece afferiscono alla stratificazione linguistica di cui si è detto, rimane sempre viva e concreta, affine allo stile popolare, vicina alla lingua comune e piena di semitismi, la cui abbondanza non è giustificata solo dal fatto che anche a Roma il greco usato dagli Ebrei era semitizzato, ma anche appunto al processo di composizione che avvenne dall’ebraico all’aramaico al greco. La paratassi marciana sembra giustapporre, in greco, le frasi, ma il kai greco è la resa letterale del waw tipico della sintassi ebraica. Non a caso, a dispetto di ciò, Marco mostra sorprendente capacità narrativa. Egli conserva i presenti storici che probabilmente risalivano alle stenografie dei detti di Gesù in centocinquantuno casi, rendendo l’idea di un Cristo Che ancora fosse vivo e presente.
DISAMINA TEOLOGICA
Scopo del Vangelo, scritto per i pagani di Roma convertiti ma subito diffuso in tutto l’Impero e letto anche dagli Ebrei, è dimostrare che Cristo è il Figlio di Dio. In questo Vangelo è degno di nota l’interpretazione teologica di un drammatico e fondamentale dato storico, ossia che Gesù fu dapprima ricevuto dalle folle con trasporto, salvo poi raffreddarle con la Sua concezione messianica spirituale e complessa, per cui Egli si dedica alla formazione, in Galilea, del Piccolo Gregge incentrato sugli Apostoli. Quando questi aderiscono a Lui incondizionatamente, presso Cesarea di Filippo, Gesù può recarsi a Gerusalemme per consumare la Redenzione e manifestare la Sua Gloria. Appare così il paradosso del Cristo, incompreso e respinto dagli uomini ma inviato ed esaltato da Dio.
1.De Viris Illustribus, VIII.
2. Il ruolo centrale di Marco nell’evangelizzazione dell’Egitto potrebbe dipendere anche dal fatto che egli fosse nativo di Cirene, come crede la Chiesa Copta. Alcuni critici ipotizzano che Pietro, intorno al 61, sia passato per l’Egitto, datando topicamente la sua Seconda Lettera da Babilonia, sobborgo di Alessandria, e non quindi crittogramma di Roma.
3. EUSEBIO, Historia Ecclesiastica, II, 24.
4. Durante i suoi viaggi col Principe degli Apostoli si colloca il suo passaggio nelle Venezie, in particolare ad Aquileia, presumibilmente entro il 50, quando inizierebbe il pontificato di Ermagora (50-70). L’evangelizzazione della città è infatti da attribuirsi a giudeo-cristiani e quindi risale ad un’epoca anteriore al 70, dando vigore alle tradizioni sulla presenza di Marco in città, come del resto fanno le provate e stabili relazioni tra la Chiesa aquileiense e quella alessandrina, quasi che, a distanza di tanti chilometri, avessero un denominatore comune, quello petrino, riconosciuto dagli antichi documenti ecclesiastici e veicolato a suo tempo da Marco, collaboratore di Pietro.
5. Nell’828 il corpo del Santo fu poi oggetto di un “sacro furto” da parte dei Veneziani e portato nella loro città.
Theorèin - Febbraio 2015
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