LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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CORPUS PAULINUM

Breve introduzione alle Lettere di San Paolo Apostolo

San Paolo è la personalità del NT più importante dopo Gesù; è l’ebreo del I sec. sul quale siamo meglio informati; è sicuramente colui che, dopo il Cristo, maggiormente ha inciso nella formazione del Cristianesimo primitivo, non solo con la vastità della sua azione evangelizzatrice – per cui è chiamato l’Apostolo delle Genti - ma anche per la profondità e l’ampiezza della sua riflessione scritta; l’una e l’altra sono sanzionate dall’ispirazione divina e sono contenute e annoverate tra i Libri sacri. Paolo potè riflettere a lungo sui temi della predicazione di Gesù e degli Apostoli, raffrontarli a quelli del dibattito teologico coevo e aggiungerci di suo, cosa che fu accettata come coerente dai suoi contemporanei, diventando così il Dottore del NT. Chiamato nei primi secoli con Pietro Principe degli Apostoli e considerato, nello stesso periodo, assieme a quegli, il primo dei Vescovi di Roma, ha lasciato una eredità spirituale immensa.

LA VITA DI PAOLO

La nascita di Paolo avvenne a Tarso tra il 5 e il 10. Egli apparteneva ad una famiglia di tradizione farisaica che aveva il privilegio della cittadinanza romana; egli stesso ebbe un nome ebraico, Saulo, e uno romano, Paolo. Studiò alla scuola di Gamaliele (At 22,3) e non conobbe il Cristo. Tuttavia era a Gerusalemme quando iniziarono le persecuzioni del Sinedrio contro i cristiani ellenisti, ostili al culto templare. Egli approvò subito questa linea oltranzista e custodì i mantelli di coloro che lapidarono Stefano (At 7,58b). Indi agì da commissario straordinario del Sinedrio, infierendo in tutta la Palestina sui seguaci di Gesù (At 8,1-3). Proprio durante una missione speciale, mentre doveva recarsi a Damasco per farsi consegnare i cristiani residenti, egli fu disarcionato da cavallo e accecato da una Luce divina, nella quale scorse Gesù. Questi lo invitò a desistere dalla sua persecuzione. Paolo gli chiese chi fosse, non avendolo mai veduto, e Gesù gli palesò la Sua identità. Gli ordinò di recarsi a Damasco in attesa delle istruzioni che gli avrebbe fatto avere per avviarlo alla missione alla quale lo aveva destinato. Gli astanti sentivano la voce ma non vedevano nessuno. Rialzatosi, Paolo si accorse di essere cieco. Giunto a Damasco, stette tre giorni in quello stato, fin quando Anania, cristiano del luogo, giunse a guarirlo per ordine di Gesù; immediatamente dopo fu battezzato (At 9,1-19; 22,6-16; 26,12-18).

Della sua Conversione, l’evento chiave della sua vita, Paolo scrisse nella Lettera ai Galati, presentando una successione di eventi: dopo la Rivelazione, «subito… mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco» (Gal 1,16b.17b); «in seguito, dopo tre anni, andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni» (Gal 1,18); «quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia» (Gal 1,21); «dopo quattordici anni, andai di nuovo a Gerusalemme in compagnia di Barnaba, portando con me anche Tito» (Gal 2,1), quando incontrò le «persone più ragguardevoli» e «colonne» della Chiesa, «Giacomo, Cefa e Giovanni», concludendo con loro l’accordo per la missione presso i gentili e prendendo l’impegno di ricordarsi dei poveri gerosolimitani, cosa che fece in una famosa colletta (Gal 2,2-10); «ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto» (Gal 2,11), contestandogli la sua incoerenza, in quanto sotto la pressione dei giudeo-cristiani che si richiamano all’autorità di Giacomo, abbandonò la comunione di mensa per non dare l’impressione di mangiare cibo impuro nonostante le concessioni del Concilio di Gerusalemme (Gal 2,12-14).

Tuttavia questi eventi non possono essere ricondotti ad una serie di date senza altri elementi. In 2Cor 11,30-33 leggiamo «Se è necessario vantarsi, mi vanterò di quanto si riferisce alla mia debolezza. Dio e Padre del Signore Gesù, Lui Che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. A Damasco, il governatore del re Areta montava la guardia alla città dei Damasceni per catturarmi, ma da una finestra fui calato per il muro in una cesta e così sfuggii dalle sue mani». At 9.24b-25 riferisce che «essi facevano la guardia anche alle porte della città notte e giorno per sopprimerlo: ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta». Questo dovette accadere durante il secondo soggiorno di Paolo a Damasco, perché solo dopo la sua predicazione in Arabia Petrea Areta potè avere motivo di astio verso di lui, evidentemente non approvando la nuova religione. La menzione di questo Re, appunto Areta IV (9-39), che ha un suo «governatore» a Damasco, consente di datare l’episodio della fuga di Paolo prima del 39 d.C. perché in quell’anno morì tale sovrano. Siccome poi il Secondo incontro con gli Apostoli coincise con il Concilio di Gerusalemme, avvenuto nel 48, quattordici anni dopo la Conversione, questa cadde dunque nel 33-34, mentre nel 36-37 si era verificato il Primo incontro con Pietro Giacomo e Giovanni, dopo la fuga da Damasco nel 35-36. (At 15,1-35).

Tra il primo incontro con Pietro e la seconda salita a Gerusalemme Paolo trascorse un anno ad Antiochia di Siria (At 11,25-26), su invito di Barnaba, il levita originario di Cipro (At 4,36) che occupava già una posizione di rilievo nella Chiesa, fondata proprio intorno al 37.

Gli Atti riferiscono di una carestia in Palestina sotto Claudio, che fu soccorsa da una colletta in Siria e inviata «per mezzo di Barnaba e di Saulo», che non va confusa da quella famosa organizzata dopo il Concilio gerosolimitano (At 11,28-30). Paolo e Barnaba, di ritorno ad Antiochia insieme all’evangelista Marco (At 12,25), partirono per il Primo viaggio missionario, in Anatolia (At 13,1-14,28), attorno al 46 e fino al 48. L’itinerario iniziò via mare, da Seleucia – porto della metropoli siriaca – a Cipro (con tappa a Salamina e a Pafo, la capitale dell’isola, dove Paolo guadagnò alla fede il proconsole Sergio Paolo), poi in Asia Minore (Attalia, Perge di Panfilia- dove Marco abbandonò il gruppo per raggiungere Pietro di ritorno in Oriente da Roma- fino ad Antiochia di Pisidia, Iconio e le città della Licaonia, Listra e Derbe, e ancora Attalia), per far ritorno nuovamente ad Antiochia.

Dopo ciò Paolo partecipò al Concilio di Gerusalemme nel 48. Seguì il cosiddetto “incidente di Antiochia”, di cui abbiamo fatto cenno: Paolo rimproverò Pietro di non voler mangiare coi pagani alla presenza dei Giudei.

Il Secondo viaggio missionario di Paolo (At 15,36-21,14) avvenne tra il 49 e il 51, senza Barnaba e Marco, i quali s’imbarcarono da soli per Cipro; esso durò tre lunghi anni di cammino, attraverso le comunità precedentemente fondate di Siria, Cilicia e Licaonia.

A Listra, l’attuale Hatunsaray, Paolo conobbe «Timoteo, figlio di una donna giudea credente e di padre greco [gentile]… assai stimato dai fratelli di Listra e di Iconio… volle che partisse con lui… e lo fece circoncidere per timore dei Giudei che abitavano in quelle regioni: tutti infatti sapevano che suo padre era greco» (At 16,1-3). Questi sarebbe diventato uno dei suoi più intimi collaboratori.

Affiancato da Silvano, detto anche Sila, come lui cittadino romano, Paolo evangelizzò l’Asia Proconsolare, con la sua capitale Efeso, ma una serie di “impedimenti dallo Spirito Santo» (At 16,6-7) spinse il gruppo verso nord, in Galazia, dove Paolo fu costretto a fermarsi a predicare a causa di un’infermità fisica (cf. Gal 4,13). Dopo la comitiva proseguì per Troade, in Misia, dove a causa di una visione ricevuta da Paolo si decise di salpare alla volta della Macedonia (At 16,9-10), raggiungendo Neapolis e Filippi in Tracia. A questo punto la narrazione degli Atti passa alla prima persona plurale, per cui è logico dunque che Luca abbia incontrato Paolo proprio qui. A Filippi Paolo convertì un gruppo di donne, fra le quali spicca Lidia, una commerciante di porpora originaria di Tiatira, definita come “timorata di Dio” (At 16,14). Sempre a Filippi, Paolo e Sila vennero dapprima incarcerati, e successivamente espulsi, con l’accusa di aver “esorcizzato” una giovane schiava che arricchiva i padroni con i propri vaticini. I rapporti dell’apostolo coi Filippesi, tuttavia, risulteranno sempre improntati a una speciale cordialità (cf. 2Cor 8,3-4;11,9 e Fil 4,15-16).

La missione, nonostante le opposizioni dei Giudei, proseguì a Tessalonica, in Berea, ad Atene (ove Paolo tenne il famoso discorso all’Areopago ai Greci i quali inizialmente lo apprezzarono «ma (che) quando sentirono parlare di risurrezione dei morti.. lo canzonarono, ..(e) dicevano: “Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta”»: At 17,32), e finalmente a Corinto, capoluogo della provincia romana dell’Acaia. Paolo vi rimase per un anno e sei mesi (At 18,11), ospite di una coppia di Giudei, Aquila e Priscilla, giunti dall’Italia per effetto dell’editto di espulsione di Claudio. L’Apostolo, secondo gli Atti, venne convocato a giudizio presso il proconsole Lucio Giunio Anneo Gallione, ma questi li allontanò perché non voleva intromettersi in faccende di carattere religioso. Questo episodio va collocato verso la fine di un «anno e mezzo», il tempo di permanenza di Paolo nella capitale dell’Acaia indicato da At 18,11.

La scoperta a Delfì, in Grecia, di un’iscrizione che riproduce il testo di una lettera dell’imperatore Claudio (41-54), pubblicata nel 1905 e integrata da altri nove frammenti e dalle letture successive, negli anni 1967 e 1971, è un’altra pietra miliare della cronologia biografica paolina. La lettera era stata inviata da Roma tra i mesi di aprile e luglio del 52, ossia nel periodo successivo alla ventiseiesima acclamazione imperiale di cui si parla in essa. Questa menziona L. Giunio Gallione, fratello di Seneca e proconsole dell’Acaia, il cui mandato –come tutti quelli proconsolari -durò un anno, dalla primavera-estate del 51 alla primavera 52 (anche se Gallione forse è rientrato prima a Roma per ragioni di salute). Se dunque Paolo è comparso davanti a Gallione alla fine del 51 o inizio del 52, si può ritenere che egli sia arrivato a Corinto nel corso dell’anno 50. Un elemento di riscontro si ha in At 18,2, all’inizio della missione di Paolo a Corinto, dove si riferisce del suo incontro con «un giudeo di nome Aquila oriundo del Ponto, arrivato poco prima dall’Italia con la moglie Priscilla”. Qui si legge che essi erano arrivati “in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i giudei”. Svetonio dice: «I giudei che tumultuavano continuamente per istigazione di un certo Cresto, egli (Claudio) li scacciò da Roma» (Vita Claudii, 25). L’editto si colloca tra il 41 e il 54. Aquila e Priscilla sarebbero giunti quindi a Corinto verso la fine degli anni Quaranta, così da poter incontrare Paolo nel 50.

A Corinto Paolo scrisse la Prima lettera ai Tessalonicesi, e poi la Seconda. Nuovamente costretto dall’opposizione ebraica, Paolo si spostò ad Efeso, ove lasciò Aquila e Priscilla in compagnia di «un giudeo di nome Apollo, nativo di Alessandria, eloquente e ben ferrato nelle Scritture» (At 18,24-26; successivamente Apollo si spinse a Corinto, cf. At 18,27-19,1; 1Cor 1,12; 3,22; 4,6; 16,12). Da lì raggiunse Cesarea di Palestina e fece ritorno ad Antiochia.

Il Terzo viaggio missionario (At 19,1 – 21,14), dal 53 al 58, fece ripercorrere all’Apostolo le regioni dell’altopiano anatolico, raggiungendo Efeso dove si fermò per più di due anni, insegnando «presso la scuola di Tiranno», «di modo che tutti gli abitanti dell’Asia, sia Giudei che Greci, ascoltarono la parola del Signore» (At 19,10). Il contenuto anti-idolatrico della predicazione (At 19,23-40; 17,16) provocò tumulti; l’Apostolo decise quindi di proseguire per la Macedonia e di tornare a Corinto, ove soggiornò per tre mesi (At 20,3), e dove di solito si colloca la composizione della Lettera ai Romani, in cui manifestò il suo profondo desiderio di raggiungere al più presto l’Urbe (At 19,21; Rm 1,11; 15,22-24; 16,1). In questo periodo andrebbero collocate anche la Prima lettera ai Corinzi e forse quella ai Filippesi. Sempre da Efeso avrebbe scritto ai Galati. Ripercorrendo la Macedonia e l’Asia insieme a collaboratori designati (fra cui Luca: At 20,5-6), per raccogliere e portare a destinazione una nuova colletta per Gerusalemme (1Cor 16,1-8; Rm 15,25-28), Paolo fece tappa a Filippi, durante la celebrazione della Pasqua – da dove avrebbe scritto ai Corinzi per la seconda volta- (At 20,6), a Troade (At 20,6-12), ad Asso (At 20,13), e via mare a Mitilene, Chio, Samo, Mileto (dove pronunciò il suo “testamento pastorale” di fronte ai presbiteri di Efeso, contenuto in At 20,17-38),Cos, Rodi, Patara, Tiro, Tolemaide e infine Cesarea Marittima, donde raggiungerà Gerusalemme (in tempo per la festa di Pentecoste, come attesta At 20,16), il luogo in cui lo attendevano «catene e tribolazioni» (At 20,23).

A Gerusalemme Paolo era sgradito a quei fedeli che ricordano il suo passato di persecutore, e a quanti, ancorati alla Legge, lo disprezzavano come apostata. Viene arrestato con l’accusa di aver condotto all’interno del Tempio un gentile (Trofimo di Efeso, nominato in At 20,24; 21,29 e in 2Tim 4,20), in quanto l’accesso al Tempio di Gerusalemme era assolutamente interdetto ai non Ebrei, cui veniva riservata l’area detta appunto “Atrio dei Gentili”. L’accusa era infondata, ma Luca sottolinea le analogie tra quanto subisce l’Apostolo e la Passione di Gesù, come pure la perizia retorica di Paolo, che si rivolse in greco al tribuno che lo scortava (At 21,37) e in «lingua ebraica» al popolo (At 21,40), rivendicando il proprio statuto di cittadino romano (At 22,22-29). Dopo aver sventato una congiura ordita da alcuni oppositori (At 23,12-22), Paolo fu tradotto a Cesarea con una scorta armata (At 23,23), per rispondere delle accuse formulate dal Sinedrio dinanzi a Marco Antonio Felice, procuratore della Giudea (At 24,12-14.21b). Paolo rimase in attesa di una sentenza definitiva per due anni, sino alla successione alla carica di procuratore di Porcio Festo (At 24,27), nel 59, allorquando il precipitare degli eventi gli imporrà la decisione di appellarsi a Cesare (in quel momento Nerone [54-68]), senza la quale, se diamo credito alle reazioni tutto sommato bonarie attribuite a Festo stesso e al re Agrippa II, egli avrebbe potuto essere rilasciato. (At 26,32).

Le date dei mandati dei procuratori romani in Giudea permettono ulteriori puntualizzazioni cronologiche sulla vita dell’Apostolo. Paolo, detenuto a Cesarea, venne convocato spesso dal procuratore con lo speranza di cavarne del denaro. «Trascorsi due anni Felice ebbe come successore Porcio Festo; ma Felice, volendo dimostrare benevolenza verso i giudei, lasciò Paolo in prigione» (At 24,27). Felice fu procuratore dal 52 al 60, Festo dal 60 al 62. Siccome il «biennio» si riferisce alla prigionia di Paolo, come si dice espressamente in Atti 28,30, Paolo potè appellarsi a Cesare nel 60 e la sua prigionia iniziò nel 58.

Il Quarto viaggio dell’Apostolo fu dunque legato al trasferimento sotto scorta alla volta di Roma (At 27,1-28,14). L’imbarco avvenne a Cesarea, si costeggiò Sidone e l’isola di Cipro, con un trasbordo su una nave alessandrina a Mira, in Licia, e uno sbarco a Creta. Paolo era accompagnato, tra gli altri, da Luca, che infatti inserì nel racconto degli Atti sezioni dei suoi diari.

Nonostante l’approssimarsi della stagione invernale, la nave tentò l’approdo della costa meridionale italiana, ma una rovinosa tempesta la sospinse a naufragare a Malta e a sostarvi per tre mesi, fino alla primavera. Da lì, facendo tappa a Siracusa, Reggio e Pozzuoli, Paolo raggiunse a Roma «i fratelli che avevano sentito delle nostre peripezie» (At 28,15), e gli venne concesso di dimorare per conto proprio, fruendo del regime di custodia militaris. Ciò accadde entro il 60: lo si deduce dal fatto che il prefectus praetorio al quale Paolo viene affidato è citato al singolare; probabilmente era Afranio Burro, dato che, a quanto ne riferisce Tacito (Ann. XIV, 51), alla morte di questi invalse l’uso di nominarne due, invece di uno. Burro fu amico di Seneca: elemento per riconsiderare l’ipotesi di una conoscenza tra l’Apostolo e il filosofo, testimoniata dall’epistolario apocrifo (1).

A questo punto la narrazione degli Atti s’interrompe: Paolo – si dice – «rimase due anni interi in un ambiente preso a pigione, e riceveva tutti quelli che andavano a visitarlo, annunciando il Vangelo del regno e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo con piena libertà e senza ostacoli» (At 28,30-31). Ciò può datarsi tra il 61e il 63. In questo periodo si collocano solitamente le Lettere ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini. Paolo fu poi prosciolto da tutti i capi d’accusa e continuò la sua infaticabile attività. La Prima Lettera a Timoteo e quella a Tito suppongono la liberazione dalla Prima prigionia romana, un viaggio in Spagna (secondo le intenzioni espresse in Rm 15,24.28) e altri viaggi in Oriente, durante i quali l’Apostolo avrebbe lasciato Timoteo alla guida della comunità di Efeso e Tito alla guida di quella di Creta.

Anche alcune altre testimonianze extrabibliche segnalano un Quinto viaggio dell’Apostolo fino agli estremi confini dell’Occidente (Spagna e forse Gallia): il Canone di Muratori (linee 35-39) e la Lettera di Clemente Romano ai Corinzi (1Clem 5,7); gli Atti di Pietro (fine del II secolo), riferiscono di un imbarco di Paolo tra il pianto e le suppliche dei fratelli, che lo avrebbero accompagnato al porto di Ostia (3,1-2). Tra i personaggi della folla – donne, cavalieri romani, uomini nobili – l’apocrifo inserisce alcuni nomi della “casa di Cesare”, che troviamo menzionata nella lettera ai Filippesi (Fil 4,22). Tradizioni di chiese locali parlano di un approdo di Paolo a Tarragona (il cui primo vescovo, Prospero, sarebbe stato investito della carica dall’Apostolo in persona) o a Cadice, e di un arrivo a Tortosa, con la consacrazione a vescovo di Rufo, forse lo stesso che viene citato da Mc 15,21 come figlio di Simone il Cireneo – quello «che costrinsero… a portare la croce» – e da Rm 16,13 («Salutate Rufo, questo eletto nel Signore, e la madre sua, che è anche mia»).

Rientrato a Roma, potè svolgervi un proficuo ministero, per poi appunto partire per l’Oriente di nuovo, in un Sesto viaggio, per un ulteriore soggiorno a Nicopoli, in Macedonia – da cui avrebbe scritto per la prima volta a Timoteo e a Tito – a Corinto, a Mileto e a Troade in Misia (2Tim 4,13.20). 2Tim 4,13 fa pensare che a Troade l’Apostolo fu arrestato, come un «malfattore» (2Tim 2,9), e di lì condotto ad Efeso per un nuovo processo e successivamente a Roma (2Tim 1,16-18), dove con Pietro fu imprigionato presso il carcere Tulliano, ai piedi del Campidoglio. Il Martirio di san Paolo apostolo comincia dicendo che «Luca, giunto dalla Galazia e Tito dalla Dalmazia, attendevano Paolo a Roma», il che fa pensare non soltanto a 2Tim 4,10 (in cui Crescenzio parte per la Galazia e Tito per la Dalmazia), ma anche ad un secondo soggiorno romano, non essendovi alcuna allusione a scorte militari. Non vi è quindi motivo di ritenere che Paolo, arrestato in Oriente, fosse tradotto prigioniero nella capitale. E’ invece logico dedurre che, dopo tale arresto, l’Apostolo tornasse a Roma dove però, dopo un periodo di libertà durante il quale potè scrivere la Lettera agli Ebrei, incorse nella Persecuzione neroniana, nel 64, scaturita dall’incendio della città attribuito ai cristiani. Siccome la data del Martirio di Paolo è fissata al 67, si deve ritenere che i nuovi viaggi avvenissero tra il 63 (Occidente) e il 65 (Oriente), mentre dopo questa data l’Apostolo tornò nella capitale per trovarvi la morte.

Durante la prigionia Paolo scrisse la Seconda Lettera a Timoteo e saggiò amaramente la fedeltà di pochi (2Tim 1,16: «Onesiforo… non ha arrossito delle mie catene»; 2Tim 4,11: «Luca soltanto è con me. Prendi anche Marco e conducilo con te, perché mi è utile per il ministero») e l’infedeltà di molti (2Tim 1,15: «tutti quelli dell’Asia… mi hanno abbandonato»), in attesa del martirio, secondo 2Tim 4,6-8:«Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede. Per il resto, è già in serbo per me la corona della giustizia, che mi consegnerà in quel giorno il Signore, Lui, il giusto giudice; e non soltanto a me, ma anche a tutti quelli che hanno amato la sua manifestazione».

Abbiamo l’assoluta certezza del martirio di Paolo. Esso è attestato dalla Lettera di Clemente Romano ai Corinzi (5,2), dall’Apocalisse di Giovanni al c.11, da Ignazio di Antiochia nella sua Lettera ai Romani; ulteriori testimonianze significative si hanno in Tertulliano (2), Eusebio (3) e Girolamo (4). La prima narrazione del martirio si ha negli Atti di Paolo (190-200), per la precisione nella parte denominata Martirio di Paolo, che è una delle parti che, autonomamente, ci ha conservato il testo originario, anche se frammentario; le altre sono gli Atti di Paolo e Tecla (Codice G, Papiro Copto di Heidelberg, Papiro Greco di Amburgo e Papiro Copto di Bodmer), la Lettera dei Corinzi a Paolo e la III Lettera di Paolo ai Corinzi. “Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l'uscita di un fiotto d'acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi “Tre Fontane” (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello). L’altro, in consonanza con l'antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo “fuori della città... al secondo miglio sulla Via Ostiense”, ma più precisamente “nel podere di Lucina”, che era una matrona cristiana (Passione di Paolo di Abdia). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale Basilica di San Paolo Fuori le Mura (Benedetto XVI).” Anche di questi eventi l’archeologia ha fornito conferma. Il sepolcro dell’Apostolo è stato riportato alla luce da sotto il pavimento della Basilica a lui dedicata nel corso degli scavi fatti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi. Le ossa di Paolo sono state identificate con quelle rinvenute sotto l’Altare della Confessione della Basilica di San Paolo Fuori le Mura, nel 2008

LE LETTERE

Le Lettere di Paolo sono quattordici (ai Romani, Prima e Seconda ai Corinzi, ai Galati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, Prima e Seconda ai Tessalonicesi, Prima e Seconda a Timoteo, a Tito, a Filemone, agli Ebrei) con l’esclusione di tre lettere “apocrife”, la cui stesura è fatta risalire almeno alla seconda metà del II secolo (5). Di questo ampio corpus epistolare, non vi è motivo di attribuire la paternità in integrum a Paolo stesso. Di scarso peso sono le ragioni che considerano pseudoepigrafiche e di scuola paolina la Seconda ai Tessalonicesi, quella ai Colossesi e quella agli Efesini. I pregiudizi sulle Pastorali (Prima e Seconda a Timoteo, a Tito) sono legati a un fraintendimento delle differenze di stile, funzionali a quelle di contenuto, a loro volta legate agli scopi per cui furono scritte. Analogamente, la presunta discrepanza tra la descrizione della struttura delle comunità cristiane nelle Pastorali e quella che esse realmente avevano ai tempi di Paolo è solo un pregiudizio, in quanto solo affermando la loro pseudoepigrafia possiamo negare che nel I sec. le Chiese avessero la struttura che le Lettere in questione descrivono. Un discorso analogo si può fare per la Lettera agli Ebrei. In genere l’analisi del vocabolario, delle caratteristiche grammaticali e della struttura argomentativo-retorica, il confronto tra i testi, i riferimenti alla situazione storica e dei problemi specifici fanno sì che si possano considerare autentiche tutte le Lettere paoline.

Paolo, per la redazione delle sue lettere, si avvalse di collaboratori, ai quali dettava il testo (Terzo, Silvano, Sostene, Timoteo) e la cui presenza era resa necessaria dalla laboriosità stessa del lavoro; essi poterono essere ben più che semplici redattori. Alcuni di questi appaiono con Paolo nelle intestazioni di certe lettere.

La fissazione del corpus non dovette essere così tarda, se pensiamo che singole lettere, seppure destinate a una precisa comunità, venivano fatte “girare” per espressa volontà di Paolo, e forse anche senza il suo consenso (1Ts 5,27; 1Col 4,16). La Seconda Lettera di Pietro nota che Paolo, il «nostro amato fratello», scrisse «secondo la sapienza che gli era stata data: come in tutte quelle lettere in cui parla di questi argomenti, ci sono dei punti difficili a capire, che persone incompetenti e leggere stravolgono, al pari delle altre parti della Scrittura, a propria rovina personale» (2Pt 3,15-16): indice di un primo processo di “canonizzazione”.

Clemente Romano, che scrive ai Corinzi attorno all’anno 95, dimostra di conoscere la Lettera ai Romani, le due ai Corinzi e quella agli Ebrei, accolta nel canone sulla spinta delle Chiese orientali nel IV sec., anche se Tertulliano, al principio del III secolo, la attribuiva a Barnaba, primo compagno di missione dell’apostolo (De Pud. 20,2).

Eusebio di Cesarea, nella sua Storia Ecclesiastica (VI,14,2-4), cita in proposito l’autorevole opinione di Clemente Alessandrino († prima del 215), che ritenne la Lettera agli Ebrei composta dall’Apostolo «in lingua ebraica», da Luca successivamente tradotta con cura e diffusa presso i Greci. L’assenza del nome di Paolo nell’intestazione si poté giustificare col fatto che l’Apostolo, rivolgendosi agli Ebrei, che erano prevenuti nei suoi confronti e ne diffidavano, molto prudentemente non volle allontanarli già dall’inizio, mettendo il suo nome”. Eusebio riporta pure l’opinione di Origene († 253-254): «Il carattere dello stile della lettera agli Ebrei non ha, nel discorso, la semplicità dell’apostolo, il quale ammette egli stesso di essere inesperto nel linguaggio, cioè nello stile, ma la lettera è certamente greca nella struttura della frase, cosa che può riconoscere ogni persona in grado di distinguere le differenze. Del resto, che i pensieri della lettera siano straordinari e per niente inferiori a quelli delle lettere indiscusse degli apostoli, chiunque legga attentamente (…) ammetterà che ciò è vero. (…) Quanto a me, dovendo esprimere la mia opinione, direi che i pensieri sono dell’apostolo, mentre lo stile e la composizione sono di uno che ricordava la dottrina apostolica, per così dire di un redattore che ha trascritto quant’era del maestro. Se dunque qualche chiesa considera questa lettera veramente di Paolo, essa stessa si rallegri anche di questo: non è un caso, infatti, che gli antichi l’abbiano tramandata come se fosse di Paolo» (ibid., VI, 25,11-12). Aggiunge inoltre sull’autore: «secondo la tradizione che è giunta a noi, alcuni sostengono che l’abbia scritta Clemente, colui che fu vescovo di Roma; secondo altri invece a scriverla fu Luca, l’autore del Vangelo e degli Atti». Il già citato Canone Muratoriano, da par suo, attesta un epistolario paolino composto da tredici lettere, mentre dichiara non autentiche due lettere all’epoca ancora in circolazione, indirizzate a Laodicesi e Alessandrini: «Per quanto concerne le lettere di Paolo, ciò che esse sono, da quale località e per quale ragione siano state inviate, esse lo fanno sapere di per se stesse a quanti vogliono comprendere. Egli ha scritto in primo luogo ai Corinzi, condannando gli scismi eretici; poi ai Galati, sulla circoncisione; ai Romani nell’ordine delle Scritture, esponendo loro che Cristo ne costituiva il principio. Su ciascuna [delle lettere] non è necessario discutere. Il beato apostolo Paolo in persona, seguendo l’esempio del suo predecessore Giovanni, ha inviato lettere nominative soltanto a sette chiese, in quest’ordine: ai Corinzi la prima, agli Efesini la seconda, ai Filippesi la terza, ai Colossesi la quarta, ai Galati la quinta, ai Tessalonicesi la sesta, ai Romani la settima; per ammonirli ha scritto due volte ai Corinzi e ai Tessalonicesi perché fosse riconosciuto che la Chiesa su tutta la terra è una. E così pure Giovanni, nell’Apocalisse, benché scriva a sette chiese, parla a tutte. Altre sono state scritte: a Filemone una, a Tito una, a Timoteo due, per affetto e amicizia; ma esse sono state considerate da tutta la Chiesa come riguardanti l’organizzazione della disciplina ecclesiastica. Ne circola altresì una ai Laodicesi, un’altra agli Alessandrini, fabbricate con il nome di Paolo per sostenere l’eresia di Marcione, e parecchie altre, che non possono essere riconosciute dalla Chiesa cattolica, perché il fiele non va mescolato al miele».

Dei circa cinquemila manoscritti contenenti l’epistolario paolino (un patrimonio eccezionalmente ricco), il più antico risulta essere il papiro p46, collezione Chester Beatty n.2, ritrovato in Egitto e conservato a Dublino, datato di solito alla fine del II secolo ma che il Kim ha proposto di retrodatare al 90. Esso contiene frammenti di Rm, 1-2Cor, Gal, Ef, Col, 1-2Ts ed Eb. Prima dei grandi codici unciali completi (il Vaticano e il Sinaitico, datati al IV sec.), spiccano una decina di frammenti papiracei risalenti al III secolo.

CRONOLOGIA DELLE LETTERE

Per le Lettere di Paolo, nonostante abbia indicato nella vita le date di una collocazione temporale tradizionale, seguo la cronologia proposta dal Robinson che ne riconosce la piena autenticità: La Prima ai Tessalonicesi all’inizio 50, la Seconda ai Tessalonicesi tra il 50 e il 51, da Corinto; tra il 52 e il 57 la Prima ai Corinzi, la Prima a Timoteo, la Seconda ai Corinzi, quella ai Galati, quella ai Romani e quella a Tito, dopo il Secondo Viaggio. Faccio notare che queste datazioni delle Lettere coincidono grosso modo coi frammenti qumranici del 50 7Q4.11-14 e 7Q9 della Prima Lettera a Timoteo e della Lettera ai Romani, datati al 50. In ragione di ciò entrambe le Lettere e quella ai Galati, legata alla missiva ai Romani, vanno ascritte al soggiorno corinzio di Paolo. Robinson non scorge nella Prima Lettera a Timoteo e in quella a Tito un ordinamento tardivo della Chiesa, diverso da quello delle altre lettere. Nel 58 Paolo scrisse le Lettere ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini e la Seconda a Timoteo, durante il suo terzo soggiorno corinzio; esse suppongono l’esistenza del Tempio e sono ricche di particolari che solo l’Apostolo poteva conoscere. La Lettera agli Ebrei è un’omelia poi adattata ad epistola, per i giudeo-cristiani di Roma, che suppone che il Tempio sia ancora in piedi; essa teme una persecuzione neroniana, ma questa ancora non è in atto. È quindi datata al 65, anche se il Robinson non l’attribuisce a Paolo, come invece credo sia prudente fare.

Una ulteriore cronologia, generalmente più seguita oggi, mette le Lettere ai Tessalonicesi nel 51 da Corinto, forse quella ai Filippesi nel 56, la Prima ai Corinzi e quella ai Galati nel 57 da Efeso, la Seconda ai Corinzi nello stesso anno dalla Macedonia, quella ai Romani (e forse anche quella ai Galati) nel 57-58 da Corinto, quelle ai Colossesi, agli Efesini e a Filemone da Roma nel 61-63, la Prima a Timoteo e quella a Tito dalla Macedonia nel 65, la Seconda a Timoteo e quella agli Ebrei da Roma nel 67. Ma il fatto che tale cronologia sia la più quotata non significa che sia la vera. A monte di molte cronologie vi è la convinzione che il pensiero paolino si sia sviluppato progressivamente ed omogeneamente, secondo una linea tendenziale che raggiunge l’apice nella Lettera agli Efesini. Questa convinzione è tuttavia come un’arma a doppio taglio: in effetti nessuna cosa al di fuori dei testi può far ricostruire lo sviluppo del pensiero di un teologo o un filosofo, ma pretendere che certi stadi dell’elaborazione concettuale siano più o meno recenti sulla base di una produzione occasionale come le Lettere di Paolo può condurre a risultati fuorvianti. Molte lettere di grande contenuto e maturità possono essere tra le prime semplicemente perché ci fu l’occasione per esprimere in quella maniera la profondità del pensiero dell’Apostolo.

CARATTERISTICHE DELLE LETTERE

Esse non sono dei trattati ma scritti occasionali che presuppongono in chi le scrive e in chi le legge una più ampia e articolata dottrina dogmatica, liturgica, etica e spirituale, nonché una soddisfacente conoscenza delle Scritture e della letteratura giudaica. Non sono quindi la sola fonte della predicazione paolina nel suo complesso ma sicuramente la sua testimonianza più importante, in cui le linee portanti del magistero dell’Apostolo sono chiaramente rintracciabili. Da tali Lettere si vede che Paolo fu il più grande scrittore del NT sia per quantità che qualità degli scritti. Esse sono una apologetica specialissima perché scritte da un persecutore convertito e non hanno eguali in nessuna letteratura per la celeste ed ineguagliabile dottrina, per la dialettica irresistibile e la forma originalissima. Hanno potenza sovrumana che emerge dalle parole maestosamente semplici che sono spoglie di retorica come sdegnose di eleganza, ma che conquistano il cuore. Esse entusiasmarono il Crisostomo, convertirono Agostino, erano ammirate dai pagani che si chiedevano se posporle o meno alle opere di Platone. In tali Lettere Paolo forgia il lessico teologico cristiano, a volte desumendo le parole dal linguaggio profano. Tale lessico assai nuovo e la profondità del pensiero erano oscuri a volte ai contemporanei, intimiditi dall’altezza dei concetti, dall’incalzare dei pensieri, a volte espressi con incisi, parentesi, digressioni, anacoluti, per il vigore con cui si affacciavano alla mente. Di certo Paolo non era quindi un classico. Egli aveva stile duro e ineguale, non elegante ma di irraggiungibile efficacia, per cui è senz’altro maggiore dei classici, tanto quanto il contenuto di questi è inferiore, per origine e scopo, a quello delle Lettere dell’Apostolo. Il greco paolino non ha i semitismi dei Vangeli, è maneggiato benissimo ed è indiscutibilmente quello della koinè, con espressioni peraltro a volte scorrette ed incompiute, faticando il pensiero ad esprimersi in un linguaggio normale nella piena delle sue elaborazioni e avendo il sentimento difficoltà ad incanalare in esso la piena emotiva. In alcuni brani si vede una elaborazione lenta e meditata, ma di solito si percepisce un dettato emotivo e di prima mano ai suoi segretari, non scrivendo di suo pugno Paolo se non pochissime parole, come i saluti. Questo stile impetuoso è straordinariamente denso, con una potenza senza eguali nella storia della letteratura.

Teologo edotto in tutte le scienze dell’epoca, tanto profondamente scandaglia il mistero con la sua luce intellettuale da farne riverberare i raggi in modo accecante su chi legge. Il simbolo dell’Apostolo non a caso è la spada a doppio taglio che, se non è lirica come la cetra di David e se non è sublime come l’aquila di Giovanni, ha la potenza di penetrare nell’anima. Le sue Lettere, come dicevamo, furono subito riconosciute come ispirate e sono il maggior commento del Vangelo.

LA PERSONALITA’ DELL’APOSTOLO NELLE SUE LETTERE

Paolo ha una personalità ardente che mette al servizio di Dio, dapprima quando perseguita i Cristiani considerandoli eretici e poi quando si converte al Cristianesimo per aver sperimentato la Divinità di Gesù. Questo lo porta ad uno zelo insuperabile che gli fa sopportare fatiche e sofferenze e prove di ogni genere, sapendo che nulla di ciò lo separerà mai dall’amore di Cristo e che anzi gli permetterà di conformarsi alla Passione del Signore (1 Cor 4,9-13; 2 Cor 4,8 s.; 6,4-10; 11,23-27; Rm 8,35-39; 2 Cor 4,10 s.; Fil 3,10 s.). Tormentato da una non ben identificata spina nella carne (Rm 9,3) che potrebbero essere tanto i suoi connazionali implacabilmente ostili che le tentazioni contro la virtù, Paolo non ne è inibito né bloccato. Alla luce della consapevolezza di essere eletto da Cristo per l’apostolato, egli elabora ampi piani di evangelizzazione mondiale e, pur sapendo di essere infimo per il suo passato di persecutore tra gli Apostoli, con chiarezza riconosce le grandi cose che la Grazia ha operato in lui (1 Cor 15,9; Ef 3,8; 1 Cor 15,10; 2 Cor 4,7; Fil 4,13; Col 1,29; Ef 3,7). Egli ama profondamente i suoi fedeli e mostra a seconda dei casi abbandono fiducioso (Fil 1,7 s.; 4,10-20), commossa tenerezza ma anche sdegno quando sa che alcuni si apprestano all’apostasia (Gal 1,6; 3,1-3) e imbarazzo dinanzi ai credenti incostanti e vanitosi (2 Cor 12,11-13,10). Con costoro sa essere ironico e sa rimproverare, pur temperando le ammonizioni con la giusta tenerezza (2 Cor 7,8-13; 2 Cor 11,1-2; 12,14 s.). Sa che i veri colpevoli delle loro devianze sono i suoi avversari, i giudaizzanti che vogliono far seguire anche ai pagani convertiti la Legge di Mosè e ne stigmatizza la perversione intellettuale (1 Ts 2,15 s.; Gal 5,12; Fil 3,2). Questi giudaizzanti non sono, come si è preteso, gli Apostoli di Gesù, anche se essi si rifacevano all’insegnamento di Pietro e di Giacomo (1 Cor 1,12; Gal 2,12) in chiave antipaolina. In effetti l’Apostolo rispettò sempre i XII e Pietro (Gal 1,18; 2,2), sebbene sappia di avere la loro stessa missione e dignità (Gal 1,11 s.; 1 Cor 9,1; 15,8-11). Pieno di carità per i poveri come attestano le collette da lui organizzate (2 Cor 8,14; 9,12-13; Rm 15, 26 s.), Paolo predica il kerygma degli Apostoli ed è solidale con le tradizioni apostoliche (1 Cor 11, 23-25; 15,3-7). Beneficiato da esperienze mistiche che gli hanno permesso di vedere il Cristo anche dopo la Conversione (2 Cor 12,1-4), conoscitore del suo autentico insegnamento (1 Ts 4,15; 1 Cor 7,10 s.) e depositario di quanto direttamente rivelatogli (Gal 1,12; 1 Cor 11, 23), non fu, come i denigratori anticlericali pretesero, uno psicopatico, in quanto il suo temperamento non è immaginativo ma un cerebrale che eccelle non nelle immagini ma nelle elucubrazioni, nutrite della metodologia rabbinica (Gal 3,16; 4,21-31) ma sviluppate secondo il genio suo proprio che traccia le nuove coordinate della mappa mentale del Cristianesimo. Come abbiamo avuto modo di scrivere, Paolo ha, accanto alla cultura giudaica vasta e profonda, anche una conoscenza ampia di quella greca, che si palesa nelle citazioni dei classici (1 Cor 15,33; Tt 1,12) e nei riferimenti alla filosofia stoica (2 Cor 5,6-8; Col; Ef; 1 Cor 8,6; Rm 11,36; Ef 4,6), nonché all’uso delle argomentazioni concise, con brevi domande e risposte, e delle accumulazioni retoriche con frasi lunghe e sovraccariche in cui le proposizioni si susseguono ad ondate successive, tutte cose che vengono dalla diatriba stoico-cinica e dai testi della letteratura religiosa ellenistica (Ef 1, 3-14; Col 1,9-20; Rm 3,1-9.27-31).

IN EPISTULAM AD ROMANOS

Breve introduzione alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Romani

La Lettera ai Romani è uno dei testi più importanti della Bibbia e sicuramente il saggio più complesso che Paolo ci ha lasciato della sua teologia. Universalmente e variamente commentata da Agostino, Lutero, Calvino, Giansenio e tanti altri, ha dato la stura ad un dibattito, assai vivo già all’epoca, le cui interpretazioni eterodosse hanno causato numerose eresie e scismi, che paradossalmente attestano la inesauribile ricchezza del magistero apostolico in esso contenuto. Il grande tema soteriologico, con le sue implicazioni antropologiche e teologiche, era uno di quelli che animavano il dibattito delle scuole giudaiche del I sec. I documenti di Qumran ci hanno restituito una letteratura angosciosamente ripiegata su domande sulla predestinazione, sulla giustificazione, sulla decadenza della natura umana e sul modo che Dio adopera per restaurarla. Questa ampia contestualizzazione ci permette oggi di mettere due punti fermi: il primo è che la posizione originale sull’argomento fu presa certamente da Gesù in quanto Maestro eponimo della Cristianità e da Lui tramandata agli Apostoli, in quanto solo Lui avrebbe avuto l’autorità per dirimere in modo vincolante per i Suoi seguaci una questione tanto scottante; il secondo è che Paolo non ha elaborato di scienza propria – e tantomeno ha colto spunti in ambienti extracristiani o addirittura extragiudaici, magari di matrice esoterica e misteriosofica- le complesse architetture concettuali della Lettera ai Romani- che altrimenti non sarebbero state accettate senza contrasti nella Chiesa nascente, anche per le implicazioni che avevano in relazione al rapporto tra cristiani ex gentibus e cristiani ex circumcisione- ma senz’altro ha contribuito a svilupparle - sempre nell’ambito di quel dibattito soteriologico in voga nel mondo giudaico del I sec. e sul quale egli era sicuramente ferratissimo- anche alla luce dei problemi dottrinali connessi all’annuncio del Vangelo ai pagani.

DESTINATARI

La Lettera ai Romani è scritta alla Chiesa di Roma, che Paolo non aveva fondato. La capitale aveva una colonia giudaica sin da prima di Cristo ed essa era sita in Trastevere, dove aveva quartiere proprio, sinagoga e libertà di culto. I primi cristiani di Roma furono quegli anonimi ebrei e proseliti quiriti che erano a Gerusalemme nella Pentecoste del 30 ed ebbero la grazia di udire Pietro che annunciava al mondo per la prima volta il Santo Vangelo del Signore. Tuttavia fu proprio questo Apostolo che fondò la Chiesa capitolina vera e propria, soggiornando nell’Urbe dal 42 al 48, quando, bandito da Claudio, tornò in Oriente e presiedette a Gerusalemme il Concilio apostolico. La data precisa dell’editto di espulsione dei Giudei che tumultuavano a causa di Cristo non ci è nota, ma certo non fu anteriore al 44 né posteriore al 48, proprio perché allora Pietro si trovava in Oriente. Molto probabilmente Pietro già nel 46 era rientrato in Palestina, perché in quell’anno Marco, che l’aveva accompagnato a Roma ma era tornato in Siria prima di lui, lasciò la compagnia di Paolo e Barnaba, verosimilmente per incontrare il Principe degli Apostoli. Pietro, che dopo il Concilio di Gerusalemme dimorò in Antiochia per sette anni, morto Claudio riportò la sua sede in Roma che perciò divenne la Sede primaziale del mondo cristiano. Fu proprio qui infatti che il Principe degli Apostoli trovò il martirio, lasciando ai Romani e alla loro Chiesa non solo il suo corpo, ma anche la posizione preminente che egli aveva avuto in vita. A quell’epoca, come abbiamo visto, anche Paolo era ormai di casa nell’Urbe, dove anche egli versò il suo sangue in libagione al Cristo.

DATAZIONE

E’ dunque a questa Chiesa che Paolo scrive, in un momento in cui vi è contesa tra giudei e pagani convertiti a causa dei giudaizzanti, ossia di chi voleva assoggettare anche i Gentili alle pratiche mosaiche. Stando al frammento 7Q9, la Lettera era stata già scritta nel 50 ed era parte integrante dei testi cristiani provenienti da Roma per la Biblioteca qumranica. E’ a mio avviso assai probabile che Paolo già dopo il Concilio di Gerusalemme scrivesse ai Romani, toccando gli argomenti scottanti della soteriologia connessi ai decreti del Sinodo e ammaestrando quella Chiesa tanto vivace e temporaneamente priva della guida di qualsiasi Apostolo. Mi sembra questo contesto molto più motivante e plausibile di quello degli anni successivi, quando di solito si pensa che Paolo potesse scrivere ai Romani proprio in vista di un suo viaggio nella Capitale. Paolo scrisse da Corinto, dalla Casa di Gaio (16,22), nel 50/51, dettando a Terzo il testo e affidandolo poi a Febe, diaconessa di Cencre (16,1).

OGGETTO

Paolo nella Lettera ai Romani giustifica il suo apostolato tra i Gentili e insiste sul punto cruciale della sua soteriologia, adottata anche dal Concilio di Gerusalemme e sviluppata dall’insegnamento di Cristo, e cioè che la Grazia di Costui e null’altro, nemmeno le pratiche della Legge mosaica, può procacciarci la salvezza, estesa peraltro a tutti gli uomini i quali, mediante la fede, rendono efficace in se stessi la giustificazione meritata dal Redentore sulla Croce e la arricchiscono di frutti attraverso le opere.

CONTENUTO E STRUTTURA

Distinguiamo nella Lettera un Esordio, una Prima Parte, una Seconda Parte e un Epilogo.

L’Esordio (1,1-5) contiene l’indirizzo, l’azione di grazie, l’elogio della Chiesa di Roma, esprime il desiderio dell’Apostolo di visitarla ed enuncia la tesi per cui Cristo, Figlio di Dio, preannunziato dai Profeti, umiliatoSi, assumendo la Natura Umana, ha ricevuto da Dio i pieni poteri, per santificare e riunire a Lui l’umanità tutta.

La Prima Parte (1,16-11,36) è essenzialmente dogmatica ed enuncia la grandiosa dottrina per cui la Fede è la sorgente della giustificazione, passando per quattro sezioni.

Nella prima (2,1-3,20) Paolo insegna la necessità della giustificazione per i Gentili, i quali sono colpevoli di aver disconosciuto Dio, scopribile per via di ragione, di essersi dati all’idolatria e di aver pervertito la loro coscienza; ma insegna anche che la stessa necessità esiste per i Giudei, i quali, sebbene abbiano la Legge e si glorino di essa, hanno peccato in modo eguale ai Gentili. In ragione di ciò né la Legge stessa, né la circoncisione o le promesse fatte ai Patriarchi potranno stornare da loro il castigo divino. Dunque tutti gli uomini sono peccatori, colpevoli e bisognosi della misericordia divina, sulla quale però essi non possono accampare alcun diritto.

Nella seconda (3,21-4,25) Paolo mostra il grande mezzo che Dio ha adoperato per giustificare tutti gli uomini: il Cristo, morto in Croce. E’ mediante la Fede in Lui che si viene giustificati. A prova di ciò, Paolo esibisce la fede di Abramo, il quale fu giustificato per essa – implicitamente rivolta a Cristo – e non per la Legge, che ancora non veniva data, e tantomeno per la circoncisione, che gli fu data dopo che egli ebbe avuto fede in Dio e nelle Sue promesse.

Nella terza (5,1-8,39) Paolo elenca i frutti della giustificazione, ossia la riconciliazione con Dio, la Speranza teologale di salvezza eterna, la liberazione dalla schiavitù del Peccato e della morte, nonché da quella della Legge che addita la colpa ma non dà i mezzi per evitarla inchiodando l’uomo alla responsabilità della propria consapevole disobbedienza, la Filiazione divina e l’eredità della gloria celeste. In questa terza sezione, Paolo enuncia in modo scultoreo il Peccato originale e la Redenzione di Cristo: Adamo ha peccato contaminando la natura di ogni uomo contenuta in lui come in potenza in virtù della generazione futura; ragion per cui ogni uomo nasce nella colpa e in forza di essa moltiplica i peccati suoi propri, per cui merita la rovina; Cristo, con la Sua obbedienza, ha riparato la disobbedienza di Adamo acquistando i meriti per la restaurazione della natura di ogni uomo che si innesta in Lui mediante il Battesimo e la Fede, così da ricevere quella Grazia che cancella la Colpa d’Origine e aiuta a compiere le buone opere che manifestano la nuova vita concessa al cristiano. Essa è possibile solo per Grazia, in quanto per essa l’uomo è capace di fare quel bene che di per sé vuole ma non sa compiere, e di non fare quel male che invece con tanta facilità sa commettere. La Legge dunque è praticabile solo per la Grazia, sebbene serva a sapere ciò che è giusto fare e non fare; da sola non vince la concupiscenza, ma con la Grazia traccia la strada al cristiano. Questi non vive più secondo la carne, ossia secondo una vita meramente umana e quindi corrotta, ma secondo lo spirito, ossia secondo una vita soprannaturale e rinnovata, mentre ospita in sé lo stesso Spirito Santo, il Quale dapprima ci santificherà unendoci a Cristo e facendoci figli di Dio e poi risusciterà i nostri corpi nell’ultimo giorno quando saremo pienamente glorificati. Quelli a cui Dio ha concesso ciò sono i predestinati, chiamati giustificati e glorificati nella Redenzione, per cui possiamo giustamente sperare la Salvezza eterna, in quanto nulla ci può separare da Cristo, nemmeno la sofferenza e la persecuzione.

Nella quarta sezione (9,1-11,36) Paolo mostra come l’economia salvifica in Cristo non si oppone alle Promesse fatte a Israele da Dio, anche se quello si è reso colpevole col suo rifiuto volontario di Gesù. La salvezza è una scelta libera e gratuita di Dio, Che in effetti salva chi vuole, giudeo o greco. Israele ha conosciuto la salvezza annunziata nel Vecchio Testamento e aveva tutti i mezzi per riconoscere Gesù, perciò non può essere scusato (9,14-10,21). Ma l’infedeltà di Israele è parziale e provvisoria: Dio Si è riservato un Resto da subito (11,1-10) e alla fine dei tempi il Popolo ebraico entrerà nella Chiesa (11,25-36); nel frattempo anche il Giudeo infedele rimane erede delle Promesse.

La conclusione di questa Prima Parte è che Dio ha racchiuso tutti nella disobbedienza per poter e voler usare misericordia con tutti.

La Seconda Parte (12,1-15,21) è una grande parenesi al compimento dei doveri verso Dio (12,1-2), verso la comunità (12,3-8), alla carità verso tutti e persino verso i nemici (12,9-21); esorta altresì ai doveri verso le autorità (13,1-7), rammentando che l’amore è il compimento della Legge (13,8-14) e che bisogna avere carità verso i deboli (14,1-15,21).

L’Epilogo (15,22-16,27) contiene il progetto di un viaggio a Roma, svariate raccomandazioni, numerosi saluti e una dossologia.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Nessuno dubita dell’autenticità di questa Lettera, nonostante qualcuno abbia ipotizzato che l’Apostolo abbia solo supervisionato la scrittura curata da Terzo, il quale evidentemente sarebbe stato un genio misconosciuto ! Di solito la Lettera ai Romani è considerata successiva alla Lettera ai Galati, ma con la datazione della prima al 50 si deve dedurre che la seconda sia successiva o anch’essa di quell’anno se non di poco anteriore. Nulla osta né alla prima né alla seconda ipotesi, sebbene quest’ultima salverebbe anche l’interdipendenza delle due Epistole e permetterebbe di puntellare il primato cronologico di quella ai Galati, che peraltro sembra essere stata scritta prima del Concilio di Gerusalemme. Ma di questo diremo parlando della Lettera ai Galati di per sé. Tornando a quella ai Romani, essa tratta i temi della Lettera ai Galati in modo più ordinato e sfumato. In essa l’elemento emotivo dell’apologia personale (1,11-2,21) è affiancato e soverchiato da quello intellettuale della dogmatica enunciata (3,1-4,31) e da quello volitivo delle esortazioni (5,1-6,18), confluendo in una armoniosa ed articolata continuità. Qualcuno ha sostenuto che i cc. 15 e 16 siano stati aggiunti in seguito, identificando il secondo con un biglietto destinato agli Efesini, ma non vi è motivo alcuno di dubitare che Paolo potesse, nell’ancor piccolo mondo cristiano, conoscere tanti fratelli in Roma né che avesse interesse ad elencarli per avvalorare la sua influenza sui destinatari. In quanto al c.15, sebbene mancante in qualche manoscritto, è visibilmente parte integrante della Lettera. Qualche sospetto sulla dossologia ha fatto ipotizzare, a causa dello stile particolare, una sua aggiunta più tardiva da parte di Paolo stesso, ma è una ipotesi che non si rende di per sé necessaria nella disamina del testo.

Il cuore di esso è, come dicevamo, il Cristo, Giustizia di Dio, opposta alla giustizia meramente umana che si pretendeva di far scaturire dalle pratiche mosaiche. Senza svalutare queste ultime, Paolo le considera una tappa oramai superata nel piano divino della salvezza, che quindi non deve essere percorsa da chi vi arriva per altra strada, quella del paganesimo. La Legge mosaica, come dicevamo, buona di per sé ma incapace di dare la forza per adempiere a quei Comandi divini che pure essa manifesta, così da far si che l’uomo prenda coscienza del bisogno assoluto che ha dell’aiuto di Dio (3,20; 7,7-13). Questo dono è concesso solo in Cristo secondo la Promessa fatta prima ancora della Legge ad Abramo (4); la Morte e la Resurrezione hanno distrutto l’uomo vecchio e hanno creato una nuova umanità il cui prototipo è il Redentore (5,12-21). Perciò, unito a Cristo e animato dallo Spirito, l’uomo può ora vivere secondo la volontà di Dio (8,1-4), compiendo quelle opere buone che non sono quelle della Legge ma dello Spirito (8,5-13; 4,11). Quei Giudei che si ostinano nelle loro convinzioni, fondando su di esse la loro speranza, si pongono fuori della salvezza di Dio. Egli ha tuttavia permesso il loro accecamento per la salvezza dei pagani, in attesa di convertirli tutti alla fine del mondo, mentre da ora già vi è una piccola parte di Ebrei che hanno accettato il Cristo (9-11) e che sono tutt’uno coi Gentili nella Chiesa dove devono vivere uniti dalla carità (12,1-15,13). Vi sono peraltro sezioni stupende che si diversificano da questo flusso argomentativo primario: il passato peccaminoso dell’umanità (1,18-3,20), la lotta interiore di ogni uomo (7,14-25), la gratuità della salvezza (3,24 e passim), l’efficacia della Morte e Resurrezione di Cristo (4,24 s., 5,6-11) e la loro partecipazione ai fedeli mediante la Fede e il Battesimo (6,3-11), la chiamata universale a diventare figli di Dio (8,14-17), l’amore infinitamente sapiente di Dio che dirige il piano salvifico nelle sue varie tappe con giustizia e fedeltà (3,21-26; 8,31-39), l’ampia prospettiva escatologica della salvezza nella Speranza (5,1-11; 8,24). Degno di nota è che l’Apostolo insegna che la salvezza è già iniziata ed operante, perché lo Spirito è posseduto a titolo di primizia, per cui il cristiano vive nel Cristo e Questi in lui (6,11; 8,23).

Come ho accennato all’inizio, la Lettera ai Romani si contestualizza ampiamente nella letteratura giudaica del I sec. e non meraviglia di trovarla a Qumran con concetti solo apparentemente precoci nella loro complessità, visto che proprio in quell’ambiente si riscontrano somiglianze teologiche. Gli Inni (1,27) descrivono l’uomo come un essere che ha perduto la beatitudine originaria, definita Gloria di Adamo, e che ha acquistato un’indole che lo porta al male, tanto da essere assoggettata allo Spirito della Tenebra e da rischiare di essere annientata dopo la morte; solo se si comporta bene viene assegnata allo Spirito della Luce e sopravvive. La Gloria adamitica è lo stato della giustizia perduto nella Lettera ai Romani, mentre l’indole corrotta è quella che ormai anche nel testo paolino non può che fare il male ed è schiava di satana. Si noti invece che nel NT le anime prave vanno all’Inferno. Ancora, la Regola della Comunità (4, 23), quella di Damasco (3, 20), sempre gli Inni (17, 16) e il Commento al Salmo XXXVII (3,1-2) affermano che la vita eterna si conquista con fatica – certo più di quanto si evinca dalla Lettera ai Romani, dove pure si parla di lotta ascetica- e che l’uomo deve riconquistare la Gloria di Adamo – che è quanto Paolo fa ottenere in Cristo, al Quale attribuisce la nuova e vera Gloria. Molti altri esempi si potrebbero fare, ma bastino questi per mostrare come il Cristianesimo e Paolo abbiano saputo interfacciarsi con perizia con le teologie dell’epoca costruendo un edificio concettuale duraturo.

IN EPISTULAS AD CORINTHOS

Breve introduzione alle Lettere di San Paolo Apostolo ai Corinti

LA PRIMA LETTERA AI CORINTI

DESTINATARI

Corinto era il capoluogo dell’Acaia, una delle maggiori città greche, nota per la vita opulenta e corrotta degli abitanti, per i commerci e per la devozione ad Afrodite. Paolo la evangelizzò per diciotto mesi con abbondanti frutti specie tra i pagani poveri (At 18,1-18). Partito Paolo per Efeso i Corinti furono ulteriormente evangelizzati da altri, come il dotto e santo Apollo, e finirono per dividersi in partiti, tra i quali i giudaizzanti sembravano pronti a prendere il sopravvento in ogni momento, mentre i costumi pagani potevano risorgere dalle loro ceneri. Paolo, ricevute queste notizie in Efeso, mentre era ospite di Aquila, prima a voce e poi per iscritto, scrisse la Prima Lettera ai Corinzi per rispondere a determinati quesiti e per correggere gli abusi.

DATAZIONE

Si colloca, come dicevo, tra il 52 e il 57, con una certa propensione per una datazione bassa (57). Fu dettata ad Efeso, prima della Pentecoste di quell’anno. Ebbe come latore Timoteo.

STRUTTURA E CONTENUTO

La Lettera, come tutte quelle di Paolo, ha un prologo, un corpo ed un epilogo.

Il Prologo è 1,1-9 e contiene l’indirizzo e i saluti con una serie di felicitazioni.

Il corpo della Lettera ha due parti: nella Prima (1-6) Paolo rimprovera i Corinti per i partiti in cui si sono divisi, per le loro disonestà scandalose e per la sfiducia reciproca. Qui Paolo afferma rigorosamente che i cristiani devono essere uniti, che vi è inconciliabilità tra Vangelo e sapienza umana, che la vera sapienza è il Vangelo, che essa è riservata a chi ha ricevuto lo Spirito Santo e che l’uomo spirituale così conformato tutto giudica e da nessuno è giudicato. Spiega altresì qual è la dignità e quali sono i doveri degli Apostoli e dei sacri ministri, che i fedeli non devono giudicare. Condanna la presenza di un incestuoso e lo scomunica, ordina di evitare i cattivi cristiani e proibisce di portare le loro liti innanzi ai tribunali del secolo e di avere di per sé delle divisioni, marcando a fuoco la malizia della disonestà, specie nel cristiano.

Nella Seconda (7-15) risponde alle cinque questioni che gli erano state sottoposte: matrimonio e celibato; carni immolate agli idoli; ordine nelle adunanze religiose e decoro del culto; importanza valore ed uso dei doni soprannaturali; resurrezione futura. E’ questa l’occasione per impartire insegnamenti importanti: la superiorità del celibato virtuoso sullo stato matrimoniale; l’indissolubilità del Matrimonio sacramentale, modellato sull’unione di Cristo e della Chiesa; la possibilità del convertito di risposarsi qualora il coniuge pagano voglia abbandonarlo; la costituzione dell’ordine virtuoso delle vedove che non si risposano; la mancanza alcuna di contaminazione negli idolotiti e nel contempo l’opportunità di evitarle; il diritto dei sacri ministri ad essere sostentato per la propria missione (che però Paolo non esercita vivendo del suo lavoro); il contegno degli uomini e delle donne nelle adunanze sacre, gli uni a capo scoperto e le altre a capo coperto; il primato d’onore dell’uomo sulla donna e l’uguaglianza di entrambi nella natura umana e dinanzi a Dio; il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia e l’istituzione del digiuno eucaristico; la dottrina della Chiesa quale Corpo Mistico del Cristo e la conseguente divisione delle funzioni tra le membra; il primato della carità su qualsiasi carisma anche straordinario; l’elogio innico della carità stessa e la gerarchia dei carismi; la fondatezza storica della Resurrezione di Cristo con le testimonianze di coloro che Lo videro, fino a Paolo stesso; la centralità di questo evento nella Fede come suggello dell’avvenuta e valida Redenzione e come causa e pegno della nostra; il modo della Resurrezione della Carne, la sorte di chi sarà vivo al Ritorno di Cristo e la natura del corpo glorioso degli eletti.

L’Epilogo è il c.16, in cui organizza la colletta per la Chiesa di Gerusalemme, annunzia il suo viaggio in città, fa raccomandazioni, manda saluti e benedice, firmando di sua mano.

DISAMINA FILOLOGICA, CONTENUTISTICA E LETTERARIA

L’autenticità della Lettera è indiscussa. Non è un trattato come quella ai Romani, ma un insieme di avvisi, risposte, riflessioni occasionali che servono a conoscere bene Paolo e i primi cristiani. Si sostiene che 1 Cor 5,9-13 attesti l’esistenza di una Lettera non conservatasi e precanonica, seguita da una Lettera che sarebbe la Prima ai Corinzi come la conosciamo. Nulla tuttavia lo attesta, anzi apparirebbe strano che una missiva antica dell’Apostolo non fosse stata conservata. Come abbiamo visto, la Lettera è importantissima fonte sul Cristianesimo primitivo: la purezza dei costumi (5,1-13; 6,12-20), il matrimonio e la verginità (7,1-40), le celebrazioni liturgiche ed eucaristiche (11-12), l’uso dei carismi (12,1-14,40), le relazioni con il mondo pagano nei tribunali (6,1-11) e nell’uso degli idolotiti (8-10) sono ampiamente descritte. E’ sempre presente l’orizzonte escatologico e sottende l’esposizione della dottrina della Resurrezione della Carne (15), sebbene questa, a dispetto della contrapposizione esplicita tra follia della Croce e sapienza pagana umana, sia esposta in un modo più consono alla sensibilità greca con una particolare attenzione ai doveri cristiani della vita presente, adempiuti nell’unione di fede col Cristo, mentre senza appello sono respinte le tendenze alla parcellizzazione e partitizzazione della Fede sull’esempio delle scuole pagane, perché solo il Redentore è la Verità e la salvezza (1,10-4,13).

LA SECONDA LETTERA AI CORINTI

DATAZIONE E CIRCOSTANZE DELLA SPEDIZIONE

Inviata la Prima Lettera, Paolo mandò a Corinto Tito con un altro discepolo per essere informato sull’esito della missiva. L’Apostolo avrebbe dovuto attendere a Troade il resoconto titino, ma l’inviato era partito prima che Paolo raggiungesse la città e lui stesso vi si recò prima che Tito tornasse, in quanto costretto a lasciar Efeso per il tumulto di Demetrio. Così, impaziente e preoccupato, si recò incontro a Tito in Macedonia e lo incontrò a Filippi, sapendo da lui quanto i Corinti lo amassero e quanto fosse stata utile la sua Lettera prima. Saputo poi della persistente opposizione di alcuni che lo accusavano di aver usurpato la denominazione di Apostolo – evidentemente giudaizzanti – scrisse la Seconda Lettera per difendere se stesso. Fu scritta nel 57, forse da Filippi, certo dalla Macedonia. Ebbe come latore Tito accompagnato da altri due discepoli, in preparazione dell’imminente ritorno di Paolo in città.

STRUTTURA E CONTENUTO

La Lettera ha un Prologo, tre Parti e un Epilogo.

Il Prologo è 1,1-11 e contiene l’indirizzo, il saluto e una benedizione di Dio per le sofferenze patite dall’Apostolo.

La Prima Parte è una apologia velata, in cui confuta le calunnie mostrando che non fu né leggero, né incostante, né arrogante, né superbo e difendendo il suo operato (1,12-7,16). In essa, oltre a mostrare la sua sincerità e lealtà, Paolo spiega perché ancora non si è recato a Corinto, assolve l’incestuoso mostrando il fine pastorale della scomunica e attesta che l’Apostolo predica sempre con purezza di dottrina essendo mandato da Dio. Si difende dall’accusa di arroganza e superbia; insegna che il ministero cristiano è superiore al mosaico e che l’Apostolo ha il diritto di parlare con autorità, è sincero e franco, deve patire e spera nella Resurrezione e nella Vita eterna, tanto da desiderare di morire e di piacere, nel frattempo, solo a Dio. E’ dunque l’amore di Cristo che stimola lo zelo apostolico. Inoltre Paolo dimostra di essersi comportato da vero ministro di Dio, esorta i Corinzi a corrispondere al suo amore con la santità e manifesta loro il suo affetto e la gioia per i risultati della Lettera precedente.

La Seconda Parte è una digressione sulla colletta per la Chiesa di Gerusalemme (8-9), insegnando che i ricchi con l’elemosina partecipano ai beni spirituali dei poveri, attestando i numerosi beni materiali e spirituali che l’elemosina porta con sé e testimoniando l’esistenza del Vangelo di Luca alla data della composizione della Lettera.

La Terza Parte è una apologia manifesta in cui rivendica la sua dignità di apostolo, mostrandosi non solo non inferiore ma superiore ai suoi avversari (10, 1-12,18). Egli difende il suo apostolato, annunzia che userà la sua autorità, afferma di non usurpare alcun potere come invece fanno gli eretici, si scusa di dover parlar di sé, si presenta disinteressato e descrive le sue fatiche, i suoi patimenti e i doni ricevuti da Dio, sebbene egli si glori solo della sua debolezza, mentre mostra la sua abnegazione.

L’Epilogo è 12,19-13,13. In esso ancora Paolo esorta i Corinzi ad essere migliori perché egli teme che non siano come egli vuole e non vorrebbe doverli correggere, come di sicuro severamente farà se non gli daranno retta. Conclude con raccomandazioni e saluti.

DISAMINA FILOLOGICA, CONTENUTISTICA E LETTERARIA

La Lettera è una apologia , lunga, prima velata e poi manifesta. Secondo alcuni, dopo la Prima ai Corinzi si verificò nella città una crisi simile a quella che aveva determinato la spedizione della Lettera, anzi secondo questi la vera crisi corinzia si ebbe in questi frangenti. Perciò Paolo sarebbe andato rapidamente nella città e avrebbe promesso di ritornare in essa il prima possibile (1, 15-16; 1,23-2,1; 12,14; 13,1-2). Un nuovo incidente sarebbe occorso a un rappresentante di Paolo che sarebbe stato ingiuriato, per cui l’Apostolo decise di scrivere prima ancora di recarsi in città una Lettera tra le lacrime (2,3-10; 7,12). Tale Lettera sarebbe stata quella il cui esito positivo Paolo avrebbe appreso da Tito in Macedonia, e dopo questo avrebbe scritto la Seconda ai Corinzi, per poi recarsi in città. La conseguenza di ciò sarebbe che le Lettere ai Corinzi sarebbero quattro, con la precanonica di cui dicevamo parlando della Prima. 2 Cor 6,14-7,1 sarebbe un frammento della Lettera precanonica e 2 Cor 10-13 una sezione della Lettera “tra le lacrime”, ma non vi sono prove serie in tal senso e la ricostruzione appare a mio avviso macchinosa. Incomprensibile sarebbe la mutilazione e la ricomposizione delle Lettere originali. Si afferma che 7,2 sarebbe la continuazione di 6,13 ma che 6,14-7,1 sarebbe visibilmente inserito a posteriori e che tale innesto sarebbe più plausibile per la somiglianza con certi passi di letteratura qumranica. Ma nemmeno questi rilievi hanno caratteristica probante né la somiglianza interletteraria rilevata può servire in alcun modo a dirimere la questione. Ci si meraviglia per il tono violento dei cc.10-13 dopo la tenerezza dei primi capitoli, come 9,1 sorprende dopo il c.8 tanto che si pensa a due biglietti diversi sulla colletta. Tutte queste parti verrebbero tutte da Paolo ma sarebbero state raggruppate tardi in modo disparato. Rimane però fermo che si tratta di congetture e che nulla nel testo giustifica in modo assoluto tale vivisezione.

Le pagine più riuscite della Seconda ai Corinzi forse sono quelle sulla difesa del ministero apostolico di Paolo (2,12-6,10), mentre molto ispirate dalla carità sono quelle sulla colletta (8-9).


1.La corrispondenza tra Paolo e il filosofo Seneca godette di enorme fortuna fino all’epoca moderna: la possibile autenticità di questo scambio epistolare, o almeno di una parte di esso, è stata sostenuta di recente, con argomenti controversi.

2.De Praescriptione Haereticorum, 36.

3.Historia Ecclesiastica 2, 25, 5.6-7.

4.De Vir. Ill., 5,8.

5.Esse sono le seguenti. Una terza lettera ai Corinzi (3Cor), che conosciamo in due versione diverse: la prima si trova nel papiro copto di Heidelberg, all’interno di una corrispondenza (immaginaria) tra Paolo e le guide della comunità di Corinto, riportata dagli Atti apocrifi di Paolo; la seconda in vari manoscritti latini e armeni (ad esempio in un commentario all’epistolario paolino attribuito a Efrem Siro, e giuntoci in una traduzione armena ora conservata a Venezia), e in un papiro greco proprietà della Fondation Bodmer di Cologny (Ginevra), il che proverebbe una circolazione separata e indipendente dello scritto, almeno a partire dal III secolo. Una lettera ai Laodicesi (o Laodiceni), forse composta sulla scia di un passaggio della lettera ai Colossesi (4,16): il Canone Muratori, un importantissimo documento risalente al II secolo, ritrovato e pubblicato da Ludovico Antonio Muratori nella prima metà del XVIII secolo, ne parla come di un falso approntato dall’“eretico” Marcione. Una lettera indirizzata agli Alessandrini, della quale non ci resta che il titolo, riferito sempre dal citato Canone Muratori.


Theorèin - Maggio 2015