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IN EPISTULAM AD TITUM Breve introduzione alla Lettera di San Paolo a Tito DESTINATARIO Tito fu discepolo e collaboratore di Paolo, che lo convertì, in quanto egli era un pagano greco, forse nato ad Antiochia, dove appunto conobbe l’Apostolo che lo battezzò, ai tempi del Primo Viaggio Missionario. Gli Atti di Tito, composti in greco tra il V e il VII sec. presumibilmente sulla base di un’opera anteriore attribuita a San Zena (Tt 3,13), contengono la notizia che il nostro fosse di nobilissima famiglia cretese e nato nell’isola, ma poi trasferitosi in Giudea per una chiamata divina intorno ai vent’anni di età. Più credibilmente nacque ad Iconio. Altra località menzionata come sua città natale fu Corinto. Doroteo di Tiro lo annovera tra i Settanta Discepoli di Gesù ma la cosa non ha fondamento. Paolo lo portò con sé sicuramente nel suo Secondo e Terzo Viaggio Missionario; poi Tito visitò Corinto (2 Cor 7,5 a 7; 8,16-24) due volte e Creta. Generalmente questa visita si data dopo la Prima Prigionia a Roma di Paolo, che lo avrebbe lasciato nell’isola a continuare la sua opera di evangelizzazione (Tt 1, 5). Ma come vedremo l’arrivo nell’isola di Tito potrebbe essere molto più antico. Nella stessa lettera Paolo gli chiede di raggiungerlo a Nicopoli nell’Epiro (Tt 3, 12), da dove Tito si spostò in Dalmazia, regione nella quale tuttora il suo culto è molto diffuso (2 Tm 4, 9-10). Secondo Eusebio di Cesarea (Storia ecclesiastica, III, 4, 5), tornato a Creta, Tito ne fu il primo vescovo: «Apprendiamo quindi che Timoteo fu il primo cui toccò l’episcopato della diocesi di Efeso, come Tito, ugualmente per primo, ricevette quello delle Chiese di Creta». Qui sarebbe morto di morte naturale, in età molto avanzata, dopo aver vissuto in perpetua verginità. Venne sepolto a Gortyna, dove il suo corpo fu conservato nella Cattedrale fino a quando i Saraceni distrussero la città nell’823. Delle reliquie di Tito fu salvato solamente il capo; nel 961, quando Niceforo II Foca riconquistò l’isola, venne edificata a Heraklion (Eraclea) una chiesa intitolata a san Tito, dove da allora la reliquia venne conservata. Nel 1669, per sottrarlo alla profanazione dei turchi, il capo di Tito fu portato dai veneziani nella Basilica di San Marco a Venezia. Il 15 maggio del 1966, dopo una serie di contatti avviati nel 1957, fu solennemente restituito – con l’intento ecumenico di concorrere all’auspicata comunione della Chiesa di Roma con le Chiese d’Oriente – alla Chiesa metropolitana di Heraklion, dove è nuovamente tornato nella Cattedrale di San Tito. OGGETTO La Lettera è scritta dall’Apostolo a Tito per dargli istruzioni e dire che lo raggiunga nel luogo da dove scrive. DATAZIONE Secondo il Robinson essa fu scritta tra il 52 e il 57. Si afferma giustamente che la Lettera a Tito sia molto legata alla Prima a Timoteo, per cui sarebbero state scritte nello stesso periodo. Questo assunto vale anche per la cronologia robinsoniana. Il frammento papiraceo 7Q4.11-14 della Prima Lettera a Timoteo è tuttavia datato al 50, per cui anche la Lettera a Tito sarebbe di quel periodo e ascrivibile al soggiorno corinzio di Paolo. In tal caso Paolo avrebbe lasciato Tito a Creta in senso lato, inviandolo colà e non volendo che egli lo seguisse nei suoi spostamenti ulteriori. Inoltre il preannunziato spostamento di Paolo a Nicopoli (3,12) non dovrebbe aver avuto luogo. Il contrordine sarebbe arrivato per bocca di Artema e Tichico. Tale datazione è forse la più probabile. Di solito la Prima Lettera a Timoteo e quella a Tito sono dette scritte dalla Macedonia nel 65, o da Nicopoli capitale dell’Epiro, ossia nei Viaggi paolini successivi alla Prima Prigionia. Non mancano i fautori di una pseudoepigraficità della Lettera a Tito, sulla scorta di una presunta situazione ecclesiale tardiva che emergerebbe dal testo. Ma molti studiosi, tra cui il menzionato Robinson, non scorgono in essa nulla del genere e personalmente concordo con loro. CONTENUTO E STRUTTURA Si divide in un Prologo, in tre Istruzioni e un Epilogo. Il Prologo (1,1-4) contiene indirizzo e saluto; le Istruzioni vertono su diverse cose: la Prima (1,5-16) riguarda la scelta dei sacri ministri e le loro doti, la Seconda (2,1-15) concerne l’insegnamento ai fedeli in base alle loro condizioni sociali, la Terza (3,1-11) verte sul modo di istruire i Cretesi. L’Epilogo (3,12-15) contiene varie raccomandazioni e i saluti. DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA La somiglianza e la contemporaneità della Lettera a Tito con la Prima a Timoteo si desume dallo stile semplice e naturale, dalle frasi simili e dai medesimi argomenti che trattano, anche se l’ultima motivazione non è di per sé stringente, come non sono certe nemmeno le altre due. Tuttavia è simile il contesto storico. Valga per la Lettera in questione quanto detto per la Prima a Timoteo nel paragrafo analogo; allo stesso rimando per la questione dell’ordinamento ecclesiastico, nonché per il particolare ruolo di Tito, analogo a quello di Timoteo. Anche questa Lettera stigmatizza gli errori dei giudaizzanti. E infine anche per essa, in ordine allo stile regolare e scorrevole, al vocabolario diverso da quello paolino solito, valga l’ipotesi del ruolo del segretario redattore – che per alcuni potè essere Luca- o della differenziazione per registro contenutistico, cosa per me più credibile. La Lettera, citando Epimenide, dà uno scampolo della conoscenza letteraria greca di Paolo e del suo discepolo. IN EPISTULAM AD PHILEMONEM Breve introduzione alla Lettera di San Paolo a Filemone DESTINATARIO Filemone era di Colossi in Frigia e fu discepolo di s. Paolo. A lui l'Apostolo scrisse la più breve delle sue epistole, annoverata tra quelle dette della Prigionia, anche se – come abbiamo visto, tale prigionia può essere sia quella di Cesarea che quella di Roma. Filemone era un facoltoso proprietario di fabbricati e schiavi, che deve aver conosciuto ad Efeso Paolo, o nella provincia d'Asia. Fu convertito e battezzato da Paolo insieme ai suoi, durante il suo ministero efesino. Filemone si distingueva per la sua generosità e la Chiesa si radunava nella sua casa. Aveva almeno cinquant'anni quando Paolo gli scrisse da Roma. Egli chiama Filemone suo collaboratore: egli aveva infatti impiantato e diffuso l'Evangelo a Colossi, insieme ad Archippo suo figlio il quale è menzionato come investito d'importante ministero nella Chiesa colossese. Al tempo di Teodoreto (sec. V) si mostrava ancora in Colosse la casa di Filemone. Appia, fin dall'inizio della lettera, è posta da s. Paolo a fianco di Filemone. S. Giovanni Crisostomo, Teodoreto, ed altri al loro seguito, hanno ritenuto, con buon fondamento, che essa fosse la moglie di Filemone. La loro casa amica era a disposizione dell'Apostolo. I tre, insieme al loro schiavo convertito Onesimo, che è oggetto, e (con Tichico), latore dell'Epistola a Filemone, sono commemorati nei martirologi latini, al seguito dei menologi greci, il 22 nov. ; tutti e quattro martirizzati insieme a Colossi ai tempi di Nerone. OGGETTO Lo schiavo di Filemone, Onesimo, fuggito dal padrone, si era recato da Paolo. Questi però lo convertì e lo persuase a tornare dal suo legittimo signore, esortando quest’ultimo a trattarlo con umanità. Filemone lo affrancò, e Onesimo divenne addirittura vescovo di Berea, anche se ovviamente questo non è oggetto della Lettera. DATAZIONE Secondo il Robinson fu nel 58 che Paolo scrisse le Lettere ai Filippesi, a Filemone, ai Colossesi, agli Efesini e la Seconda a Timoteo, presumibilmente da Cesarea. La cronologia tradizionale pone la Lettera a Filemone da Roma nel 61-63. A mio avviso la Lettera fu scritta a Roma e portata in Oriente da Tichico e da Onesimo con la Lettera ai Colossesi. La menzione di Epafra, come compagno di prigionia, di Marco, Aristarco, Dema e Luca corroborano questa tesi. Anche Timoteo è citato, come coautore, esattamente come nella Lettera ai Colossesi. CONTENUTO E STRUTTURA La Lettera, intima, breve ed affettuosa, contiene un breve prologo, enuncia il motivo per cui è stata scritta e si chiude con un epilogo. Il Prologo (1-7) è l’indirizzo seguito dal rendimento di grazie. Il corpo del testo enuncia il motivo (8-21), scongiurando il perdono per Onesimo da Filemone e promettendo di restituirgli il denaro che quegli gli aveva rubato. L’Epilogo (22-25) manda i saluti e chiede ospitalità per una prossima visita. DISAMINA FILOLOGICA, CONTENUTISTICA E LETTERARIA Più che una Lettera, questa è una pittura del cuore dell’Apostolo, sublime nella sua brevità. Il sigillo di Paolo è ciò che garantisce l’unicità di questo capolavoro. Peraltro proprio l’illustre paternità permise la conservazione di questo scritto che venne ammirato e divenne regola di vita per tutti, specie nella questione delicatissima della schiavitù. Molto infatti ad essa si deve nella mitigazione della pratica schiavile e per la sua abolizione. Sebbene l’ordine sociale non sia sovvertito, il Cristianesimo muta i cuori dei suoi protagonisti e prepara un radicale cambiamento, facendo vivere come fratelli padrone e schiavo. IN EPISTULAM AD HEBRAEOS Breve introduzione alla Lettera di San Paolo agli Ebrei AUTORE A differenza di tutte le altre Lettere paoline, quella agli Ebrei ha visto messa in discussione sin dall’antichità la sua attribuzione all’Apostolo. Mai nessuno però ha contestato la sua ispirazione. I Padri Greci videro subito l’impronta paolina. Ad esempio Clemente Romano, che scrive ai Corinzi attorno all’anno 95, dimostra di conoscere la Lettera ai Romani, le due ai Corinzi e quella agli Ebrei. Tra i Latini invece Tertulliano, al principio del III secolo, la attribuiva a Barnaba, primo compagno di missione dell’apostolo (De Pud. 20,2). Il Canone Muratoriano, ancora tra i Latini, attesta un epistolario paolino composto da tredici lettere Di nuovo tra i Greci, Eusebio di Cesarea, nella sua Storia Ecclesiastica (VI,14,2-4), cita in proposito l’autorevole opinione di Clemente Alessandrino († prima del 215), che ritenne la Lettera agli Ebrei composta dall’Apostolo «in lingua ebraica», da Luca successivamente tradotta con cura e diffusa presso i Greci. L’assenza del nome di Paolo nell’intestazione si poté giustificare col fatto che l’Apostolo, rivolgendosi agli Ebrei, che erano prevenuti nei suoi confronti e ne diffidavano, molto prudentemente non volle allontanarli già dall’inizio, mettendo il suo nome”. Eusebio riporta pure l’opinione di Origene († 253-254): «Il carattere dello stile della lettera agli Ebrei non ha, nel discorso, la semplicità dell’apostolo, il quale ammette egli stesso di essere inesperto nel linguaggio, cioè nello stile, ma la lettera è certamente greca nella struttura della frase, cosa che può riconoscere ogni persona in grado di distinguere le differenze. Del resto, che i pensieri della lettera siano straordinari e per niente inferiori a quelli delle lettere indiscusse degli apostoli, chiunque legga attentamente (…) ammetterà che ciò è vero. (…) Quanto a me, dovendo esprimere la mia opinione, direi che i pensieri sono dell’apostolo, mentre lo stile e la composizione sono di uno che ricordava la dottrina apostolica, per così dire di un redattore che ha trascritto quant’era del maestro. Se dunque qualche chiesa considera questa lettera veramente di Paolo, essa stessa si rallegri anche di questo: non è un caso, infatti, che gli antichi l’abbiano tramandata come se fosse di Paolo» (ibid., VI, 25,11-12). Aggiunge inoltre sull’autore: «secondo la tradizione che è giunta a noi, alcuni sostengono che l’abbia scritta Clemente, colui che fu vescovo di Roma; secondo altri invece a scriverla fu Luca, l’autore del Vangelo e degli Atti». San Girolamo concordava con quest’ultima sentenza di Origene, facendo di Paolo l’autore ebraico e di Clemente o Luca i traduttori greci. Da Sant’Ilario in poi tutti i Padri, greci e latini, attribuirono la Lettera a Paolo. In effetti il consenso è unanime, almeno nel ritenere che una forte influenza paolina ci sia stata sull’Epistola, mentre si registra che l’annotazione sulla liberazione di Timoteo può essere stata fatta solo da Paolo. Coloro i quali poi considerano Paolo autore indiretto, si sbizzarriscono sull’identità del redattore traduttore: oltre ai citati, Sila, Aristione e in particolare Apollo. A quest’ultimo la si attribuisce perché era un giudeo alessandrino a cui si addicono l’eloquenza, lo zelo apostolico e la scienza biblica della Lettera, intrisa anche di lingua e pensieri filoniani. Tuttavia va detto con grande onestà che nessuna di queste ragioni è valida di per sé, in quanto non solo non abbiamo alcun altro scritto di Apollo, ma l’influsso alessandrino è presente anche in autori che non ebbero certo formazione egiziana, come Giovanni, che tanto deve a Filone. Analogamente dobbiamo dire di Aristione e di Barnaba. Aggiungo che Sila fu segretario di Paolo e che le somiglianze che alcuni credono evidentemente di scorgere tra la Lettera agli Ebrei e quelle altre epistole paoline alla cui stesura egli collaborò possono benissimo mettersi in capo all’azione di Paolo medesimo, e in ogni caso non sono tali da marcare chiaramente la differenza e permettere una identificazione chiara. C’è da domandarsi peraltro su cosa dovette fondarsi l’identificazione con Paolo dell’autore della Lettera agli Ebrei nell’antichità, date le patenti differenze stilistiche e il fatto che erano accettate nel canone neotestamentario anche testi di autori molto secondari, come Giuda o Giacomo. Forse non proprio sul fatto che Paolo realmente la scrisse e che le spiegazioni erudite di Eusebio erano le sole che dessero ragione delle anomalie di questa Lettera? Paolo potè benissimo comporre non una missiva, ma una sorta di trattato, quella che Robinson chiamò una omelia. L’idea poi che la Lettera sia stata scritta in ebraico è tutt’altro che improbabile: i Vangeli e gli Atti vennero scritti in lingua semitica e poi tradotti; i temi della Lettera sono strettamente connessi alla letteratura religiosa giudaica e il grosso di essa è incentrato sullo sforzo di interpretarli in chiave cristica, assimilando a Gesù, per esempio, quel Melchisedec che contendeva ad Enoc il ruolo di rivelatore e messia sovrumano in certa letteratura teologica, o superando il culto angelico focalizzandolo attorno al Cristo stesso. C’è dunque da dire che Paolo non può non essere considerato autore del testo, e che qualcuno dei suoi collaboratori tradusse in greco la Lettera, forse perché giunse agli Ebrei residenti in una località ellenizzata dopo una sua diffusione in Palestina. DESTINATARI Il titolo della Lettera parla degli Ebrei, a partire dal II sec. Generico ma esatto, in quanto i lettori conoscono l’Antica Alleanza, la letteratura giudaica, si sono convertiti al Cristianesimo dal Giudaismo; possono essere sacerdoti, magari quei sacerdoti di At 6,7, che alcuni considerano vicini alla spiritualità essena – termine generico per indicare il fatto che subivano l’influenza di sette non farisaiche e sadducee- ma legate al culto templare. Forse questi sacerdoti hanno dovuto lasciare il Tempio per sfuggire alla persecuzione, forse sono in esilio a Cesarea o ad Antiochia. Forse sono Giudeo-cristiani di Roma, come ipotizza il Robinson. Essi sono parzialmente delusi dalla nuova fede e nostalgici del culto mosaico. OGGETTO Paolo scrive loro per salvarli dall’apostasia. Al loro scoraggiamento oppone la dimostrazione compiuta del fatto che in Cristo acquistano senso e compimento le norme cultuali, le profezie, l’apocalittica. DATAZIONE La Lettera agli Ebrei secondo il Robinson è un’omelia poi adattata ad epistola, che suppone che il Tempio sia ancora in piedi; essa teme una persecuzione neroniana, ma questa ancora non è in atto. È quindi datata al 65, anche se il Robinson non l’attribuisce a Paolo, ma a Barnaba. La datazione genericamente accolta la pone da Roma nel 67. In ogni caso, è l’unica Lettera che ragionevolmente può collocarsi solo dopo la Prima Prigionia di Paolo, a causa del riferimento a una non bene identificata detenzione di Timoteo. Se non fu scritta dalla Capitale, lo fu dall’Italia. La persecuzione palestinese a cui sembra alludere rimanda a quella voluta da Anano in cui morirono Giacomo il Minore e Mattia, nel 62-63. Sembrano scorgersi nella missiva i prodromi della Guerra Giudaica del 70. CONTENUTO E STRUTTURA La Lettera, per i suoi addentellati con la letteratura giudaica extrabiblica e le sue questioni soteriologiche, è assimilabile alla Lettera ai Romani, ed è singolare che il canone paolino inizi con una missiva che vuole conquistare Roma ai tempi del Concilio di Gerusalemme e termini con una che vuole conquistare Gerusalemme quando sia Pietro che Paolo risiedono a Roma stessa. Essa ha il Prologo, l’Epilogo e in mezzo due grandi parti, una dogmatica e una morale. Il Prologo (1,1-4) contiene una potente ed icastica sintesi della Rivelazione e della cristologia. La Prima Parte, dogmatica appunto, (1,5-10,18), pur non condannando le pratiche delle antiche osservanze, mostra l’insensatezza del crederle obbligatorie, mostrando la superiorità di Cristo sugli Angeli, mediatori della Legge, su Mosè suo artefice e sullo stesso sacerdozio aronitico, assimilando quello di Gesù al ben più antico sacerdozio di Melchisedec, che assume così carattere puramente simbolico e profetico. La conclusione è che l’AT era l’ombra e il NT è la realtà. La Seconda Parte, morale come dicevamo, (10,19-13,7), sussume dalla prima la necessità della Fede (10,19-11,41) e delle opere buone (12,1-13,7). L’Epilogo (13,8-25) esorta ad affrancarsi dalla Sinagoga, dà notizie di Timoteo e dell’imminente viaggio di Paolo a Gerusalemme e conclude coi saluti. DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA La lingua e lo stile hanno una purezza elegante che non si riscontra nelle altre Lettere, il che può essere attribuito sia al fatto che non fu Paolo a scriverla, sia al fatto che egli con tale testo volle comporre un trattato, e non una Lettera propriamente detta, e che lo fece nella sua lingua madre. Peraltro in modo non occasionale, come invece accade spesso per le altre Lettere. Cita peraltro l’AT in modo diverso dal solito, argomentando in modo differente, evidentemente per i medesimi motivi. La peculiarità dottrinale, laddove pur riecheggia le altre Lettere, ha una originalità che si può imputare alle questioni dogmatiche che l’Apostolo decide di commentare trovandole già impostate nel dibattito teologico a lui coevo. Abbiamo segnalato l’influsso alessandrino filoniano, riscontriamo ora l’apologetica vivamente oratoria e l’argomentazione tutta basata sull’esegesi dell’AT. Allo scoraggiamento dei destinatari Paolo offre il conforto della vita cristiana, concepita come un pellegrinaggio, una via verso il riposo promesso, un cammino verso la patria celeste, con la guida di Cristo, condottiero superiore a Mosè (3,1-6); offre la luce e la speranza che guidò i Patriarchi e l’Esodo e i Santi dell’AT (3,7-4,11; 11); offre altresì la sovraeminenza del sacerdozio di Cristo, secondo l’ordine di Melchisedec e superiore ad Aronne come dicevamo (4,14-5,10; 7), la natura definitiva e infallibile del suo sacrificio opposto alla molteplicità delle inefficaci vittime mosaiche (8,1-10,18); dimostra la Divinità di Cristo, la Sua Figliolanza divina, la Sua consostanzialità col Padre e la Sua Incarnazione, con la conseguente superiorità agli Angeli (1-2). Queste densissime esposizioni teologiche, ricche di precisazioni dottrinali, sono interrotte da ardenti esortazioni; la logica che lega gli argomenti è sottile, la citazione della Bibbia sorprendente, l’esemplificazione del modo in cui i cristiani compresero alla luce di Gesù l’AT unica. Non stupisce dire che la Lettera è uno dei testi più importanti del NT, sotto certi aspetti unico, sia dottrinalmente che storicamente. Peraltro, essa fa menzione di circostanze e situazioni della Passione di Gesù mentre ancora erano vivi i crocifissori, suscitando evidentemente una vivissima impressione. Theorèin - Settembre 2015 |