LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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REVELATIONES DEI

Breve introduzione al genere apocalittico

Il genere letterario apocalittico prolunga ed approfondisce quello profetico, mediante visioni, sogni, architettoniche descrizioni del mondo escatologico e altri complessi simbolismi. Il Giudaismo sviluppò da sé questa letteratura, sin dai tempi del profeta Daniele, che è il padre dell’apocalittica, mentre elementi particolari di essa, come gli angeli interpreti delle visioni, si hanno anche in Ezechiele e in Zaccaria. Forme apocalittiche assumono anche gli oracoli di Isaia (24-27; 34-35). Non si deve cercare quindi, come alcuni fecero, nella letteratura persiana la matrice dell’apocalittica, che sarebbe giunta in Giuda nell’età ellenistica: i Persiani cominciarono a sviluppare la loro apocalittica più tardi degli Ebrei e questi ben prima della dominazione greca. L’apocalittica si interessa dei misteri del mondo invisibile, dell’origine e della fine del mondo, della retribuzione individuale nell’aldilà, del piano divino che regge tutte le cose. Proprio questo senso provvidenziale, sul quale si innesta peraltro il tema della libertà e della responsabilità umana, è una caratteristica unica dell’apocalittica ebraica. Il punto cruciale dell’apocalittica fu senz’altro la persecuzione di Antioco IV Epifane (167-164) verso gli Ebrei osservanti: da questo momento la sua attenzione è focalizzata sulla fine del mondo, che infatti nel linguaggio comune è chiamata “apocalisse”.

In realtà la parola “Apocalisse” significa meramente rivelazione. Ma l’apocalisse non è un oracolo, né un presagio, né tantomeno una forma di divinazione, o una iniziazione esoterica. In essa il veggente traduce o vede tradotti in simboli le idee che Dio gli suggerisce, anche a volte accostati in modo apparentemente incoerente, sempre nell’ambito di una visione. Vi è dunque una differenziazione difficile da definire tra apocalittica e profezia. I primi grandi testi apocalittici furono le parti più antiche del Libro di Enoch e certi passi del Testamento di Levi. Le parti finali del Libro di Enoch, il Testamento di Mosè (tra il 7 e il 20 d.C.), la Regola della Guerra di Qumran e altri testi di quell’ambiente monastico, ai tempi di Gesù, furono importanti espressioni dell’apocalittica. Non a caso Gesù stesso concede ampio spazio all’apocalittica nel Suo messaggio, non solo col Discorso escatologico, ma con la Sua attenzione costante alle realtà escatologiche, comprese quelle che Lo riguardano in prima persona, in ordine alla Sua Morte e Resurrezione e al Giudizio che Egli un giorno pronunzierà. Elementi escatologici sono presenti nelle Lettere paoline – il concetto di anticristo è enunciato nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi – mentre il più perfetto esemplare della letteratura apocalittica è senz’altro l’Apocalisse di Giovanni. Altre apocalissi (di Paolo, Pietro, Baruc greco, Esdra greco) o testi similari (Ascensione di Isaia) manterranno vivo nel Cristianesimo questo filone letterario, che peraltro, già ampiamente praticato nell’ebraismo, sarà utilizzato anche dagli gnostici. Dopo la Caduta di Gerusalemme il Giudaismo rabbinico prescriverà i testi apocalittici e la letteratura di riferimento, dopo gli ultimi guizzi del Baruc siriaco e del IV Libro di Esdra, si spegnerà nel II sec. Solo il III Libro di Enoch tenterà di far rivivere questa tradizione nell’ambito talmudico, e una certa rinascita si avrà nel VII sec. Invece il genere apocalittico, sia direttamente nella produzione dei veggenti, sia indirettamente mediante altre composizioni simboliche di solito poetiche, è ampiamente sopravvissuto nella cultura cristiana sino ai giorni nostri.

IN APOCALYPSIM IOHANNIS

Breve introduzione al Libro dell’Apocalisse di San Giovanni

AUTORE E TITOLO

L’autore di questo libro enigmatico e misterioso è l’apostolo ed evangelista Giovanni, ed è detto appunto “Apocalisse di Giovanni”, ossia rivelazione, conformemente al pullulare di libri di analogo genere che si pubblicavano con tale intitolazione, sempre seguita dal nome del veggente. Giovanni si presenta (1,9) e dichiara di essere in esilio su Patmos. Giustino, Ireneo, Clemente di Alessandria, Tertulliano e il Canone di Muratori confermano l’identificazione di Giovanni Apostolo con il Giovanni dell’Apocalisse. Le Chiese di Siria, Cappadocia e Palestina ebbero forse qualche esitazione nell’inserire nel Canone l’Apocalisse, dubitando evidentemente della paternità giovannea, ma ciò dipese dalle differenze stilistiche di cui diremo e da alcune difficoltà interpretative del testo, che il presbitero romano Caio, ad esempio, attribuì, senza alcun fondamento, all’eretico Cerinto nel III sec., mentre l’Apocalisse è una delle prime opere antignostiche della storia del Cristianesimo. Fu invece Dionigi di Alessandria nel III sec. a sostenere che il Giovanni dell’Apocalisse fosse diverso dall’Apostolo. Ho avuto modo in precedenza di dimostrare peraltro l’identità tra Giovanni Apostolo e Giovanni il Presbitero, a cui spesso si poneva in capo l’Apocalisse. Del resto, l’unico Giovanni di prestigio a cui poter intitolare antonomasticamente il Libro era appunto l’Apostolo. Che ne è, appunto, l’autore.

DATAZIONE

La composizione del Libro si pone di solito sotto il regno di Domiziano, tra l’81 e il 96, quando Giovanni era relegato nell’isola di Patmos. L’imperatore infatti non aveva potuto martirizzare l’Apostolo immergendolo in una caldaia di olio bollente, perché ne era uscito illeso, per cui egli era stato esiliato. In ogni caso è altamente probabile che solo la stesura definitiva dell’Apocalisse sia di quel lasso di tempo, verso il 95, perché una buona parte di esso può risalire all’impero di Nerone (54-68), prima del 68. Secondo l’Edmundson, morto Nerone nel 68 e impostisi i Flavi, Domiziano, reggente a Roma dal gennaio al giugno del 70 mentre il padre Vespasiano (69-79) e il fratello Tito (79-81) assediavano Gerusalemme, avrebbe già da questa data esiliato Giovanni Apostolo a Patmos, dove questi scrisse l’Apocalisse prima ancora che il Tempio fosse distrutto e con una nitida memoria della persecuzione di Nerone (14, 8; 18, 2; 11, 1 ss.; 13; da cfr. per l’Edmundson con Tacito, Hist. 3, 72.83; 4, 1). Avvenuto il rientro di Vespasiano, Giovanni potè lasciare Patmos per dedicarsi alla stesura del Quarto Vangelo. Secondo il Robinson, l’Apocalisse ha riferimenti alla persecuzione neroniana e non a quella domizianea, allude all’incendio di Roma, alla morte di Pietro e Paolo e alla presenza di Galba sul trono, condanna il culto imperiale, è ostile allo Stato, stigmatizza gli errori gnostico-giudaici ma non suppone la rottura tra Chiesa e Sinagoga; è composta da due documenti, uno dell’Asia Minore e uno romano; suppone le Lettere di Pietro e Giuda. Perciò Robinson la data al 68 e la fa nascere a Roma; questa datazione è tuttavia insostenibile. Il contesto generale del Libro rimanda all’età domizianea col suo culto imperiale, con l’isolamento e la persecuzione dei dissidenti e con la denuncia dei nicolaiti che si prestano al compromesso col paganesimo. Rimane fondamentale la testimonianza di Girolamo che scrive: "Giovanni [..] avendo Domiziano decretato la seconda persecuzione nel quattordicesimo anno dopo Nerone [ossia nell’81 n.d.r.], egli fu relegato nell’isola di Patmos; sotto Nerva tornò ad Efeso, ove morì di vecchiaia, sessantotto anni dopo la Passione di Cristo [ossia nel 98-99 n.d.r.]." La datazione dell’Apocalisse più credibile dunque rimane quella tradizionale, sebbene sia aperta la questione della sua stratificazione compositiva.

CONTENUTO

Il Libro, nell’esegesi comune della Chiesa, verte sulle vicende finali del Popolo di Dio, che preludono e culminano al Giudizio Finale e alla Parusia. Tuttavia esso è anche un paradigma di teologia della storia, per cui può riferirsi, almeno in senso tipico, a tutte le altre epoche della storia della Chiesa. San Girolamo scolpì con questa sentenza la natura polisemica della profezia apocalittica: “L’Apocalisse è un libro chiuso, di altissima profezia, dove tanti sono i misteri quante le parole, e ogni parola ha molti sensi”.

STRUTTURA

Il Libro ha un prologo, tre parti e un epilogo. Il Prologo (1,1-8) contiene il titolo, l’intestazione epigrafica, il saluto alle Sette Chiese e la dossologia cristologica.

La prima parte (1,9-3,22) descrive l’apparizione di Cristo, Che dà a Giovanni l’incarico di scrivere il Suo messaggio alle Sette Chiese dell’Asia Minore: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatira, Sardi, Filadelfia, Laodicea; contiene altresì le Lettere indirizzate, a Nome di Gesù, a ciascuna di esse.

La seconda parte (4,1-20,10) contiene cinque serie di visioni immaginative, ossia mentali e simboliche.

  1. 1. La prima serie mostra i Sette Sigilli (4,1-8,5), che venendo aperti l’uno dopo l’altro schiudono sulla terra: la conquista, la guerra, la fame, la morte, i martiri, il finimondo, il turibolo d’oro. Tra il sesto e il settimo sigillo si colloca l’intermezzo che descrive il Trionfo dei Martiri.
  2. 2. La seconda serie svela le Sette Trombe (8,6-11,19), ognuna delle quali, dopo aver suonato, evoca sulla terra: la grandine e il fuoco, il mare di sangue, l’astro “assenzio”, l’eclissi, le locuste, la cavalleria e l’inno celeste. Tra la visione della cavalleria e quella dell’inno celeste è inserito l’intermezzo del Libriccino.
  3. 3. La terza serie elenca Sette Segni (12,1-15,4): il diavolo, la bestia del mare, la bestia della terra, il segno dei cattivi, il segno dei buoni, i cenni della Fine, quelli del Giudizio.
  4. 4. La quarta serie manifesta Sette Calici (15,5-16,21), ognuno dei quali, versato, prelude a grandi e catastrofici eventi: sulla terra, sul mare, nei fiumi, nel sole, sul trono della bestia, nell’Eufrate, nell’aria. Tra il versamento del calice nell’Eufrate e quello nell’aria è descritto l’intermezzo dei tre demoni.
  5. 5. Nella quinta serie si mostrano i segni della lotta tra Cristo e il demonio (17,1-20,10): la caduta di Babilonia col seguente lamento in terra e tripudio in cielo; la vittoria di Cristo sulla bestia e sul falso profeta; la lotta nei secoli e la vittoria finale contro il demonio.

La terza parte (20,11-22,5) descrive infine il Giudizio Finale, i nuovi cieli e la nuova terra, la Gerusalemme Celeste e la gloria dei Santi in Cielo.

L’epilogo (22,6-21) contiene la conferma di quanto profetizzato, una preghiera finale e una benedizione conclusiva.

DISAMINA CONTENUTISTICA, FILOLOGICA E LETTERARIA

Il Libro dell’Apocalisse è un capolavoro poetico, armonicamente costituito da una foresta di simboli, intessuto razionalmente di una trama di numeri, illustrato icasticamente da innumerevoli immagini; questa densità espressiva che rende assai facile la comprensione della lettera del testo è tuttavia il mezzo denso ed opaco che nasconde il senso recondito della profezia, il cui frutto servirà e serve a coloro i quali vivono e vivranno ai tempi dei fatti annunziati, e che dovranno così rinvigorire e già rinvigoriscono la loro fede.

Solo a titolo di esempio, possiamo sciogliere alcune immagini nel loro significato, per mostrare la ricchezza letteraria, teologica e morale del Libro, attraverso metafore simboli nomi emblematici e numeri: l’Alfa e l’Omega, che simboleggiano Cristo quale causa prima ed ultima del Cosmo; l’Angelo delle Chiese che ne è il Vescovo; l’Albero della Vita, che è Cristo il Quale dà frutti di vita eterna; la morte seconda, che è la dannazione eterna; il trono di satana, che è l’altare di Pergamo in un bronzo rovente a forma di toro, in onore degli idoli; la manna nascosta che è il cibo dell’eterna felicità; la pietra bianca, che simboleggia il segno della vittoria conferita da Cristo; la Stella del mattino, che è ancora Gesù e anche la Vergine Maria; l’oro nel fuoco che significa la fede provata nelle tribolazioni e anche l’amore passato nella stessa prova; le vesti bianche che indicano l’innocenza; il collirio che simboleggia la grazia e il lume soprannaturale; i Ventiquattro Vegliardi che sono i XII Apostoli coi XII Patriarchi; i Quattro Viventi che sono gli Evangelisti; il Leone, il Rampollo e l’Agnello, che simboleggiano Cristo, adombrato anche nel Cavallo bianco; corna occhi e spiriti dell’Agnello indicano potenza, sapienza e ministri di Cristo; il cavallo rosso indica la guerra, quello nero la fame, il verdastro la morte; i venti i castighi divini; il numero di centoquarantaquattromila, per indicare la totalità dei salvati, cifra simbolica che è composto dal quadrato del numero perfetto dodici e dalla moltitudine indicata dal mille (e che invece molti eretici interpretano alla lettera); il Tempio o la Città santa che simboleggiano la Chiesa; la stella che è caduta dal Cielo che indica un angelo decaduto; i tuoni che annunziano i castighi di Dio; i quarantadue mesi – o i milleduecentosessanta giorni o un tempo due tempi e metà di un tempo- che indicano il tempo limitato in cui è concesso al nemico di agire; il cortile esterno del Tempio che simboleggia coloro che non sono battezzati; i Due testimoni che simbolicamente sono Enoc ed Elia e storicamente Pietro e Paolo; la Donna vestita di sole con la luna sotto i piedi e dodici stelle sul capo, che simboleggia l’Immacolata Vergine Maria Madre di Dio e Assunta in Cielo; la terza parte delle stelle del cielo sono gli angeli decaduti; il dragone con sette teste e dieci corna è il diavolo che si esprime nei sette vizi capitali; la bestia che esce dal mare è l’Impero Romano e in genere rappresenta il potere politico che esce dal mare, ossia dalla sedizione e dal tumulto; la bestia che esce dalla terra rappresenta il potere ingannevole e fintamente mite del demonio, assimilato alla falsa scienza; il numero seicentosessantasei è il crittogramma del nome Cesare-Nerone o Cesare-dio che a sua volta antonomasticamente diventa la cifra di satana; il numero ottocentottantotto è il crittogramma del Nome Cristo-Dio e quindi diventa la sua cifra; Babilonia è il simbolo della potenza terrena corrotta e corruttrice, esemplificata su Roma; il vino dell’ira di Dio indica l’asprezza dei Suoi castighi; la vendemmia è il castigo dei peccatori impenitenti, significati nei grappoli; le Sette coppe simboleggiano gli ultimi mali del mondo, divisi in due gruppi di quattro – numero del mondo- e di tre – numero di Dio; chi veglia e custodisce le vesti per non andar nudo è chi compie opere buone, preserva la grazia e compare adorno innanzi al Giudice; Armagheddon è il monte di Meghiddo simbolo di disfatta; il bisso candido è segno di innocenza e santità; il cavallo rappresenta il corpo di ogni anima; i Mille anni, che erroneamente i chiliasti interpretano alla lettera, indicano il tempo corrente tra Cristo Che incatena satana e la sua ultima liberazione alla fine dei tempi; la Prima Resurrezione, che i Santi avranno con l’anima in Cielo dopo la morte; la Seconda che invece avranno coi corpi nell’Ultimo Giudizio; la Seconda Morte che rappresenta la dannazione eterna; Gog e Magog che simboleggiano tutte le nazioni empie che daranno battaglia finale alla Chiesa; l’Acqua della Vita è la beatitudine eterna; il muro grande e alto della Città santa è simbolo della sua fortezza; lo stagno di fuoco è l’Inferno; i cani sono gli infedeli.

Questo testo sublime ha dei legami forti con il Vangelo e le Lettere di Giovanni, fornendo con ciò elementi probanti della paternità apostolica sua propria; vero è che però anche vi sono nette differenze tra l’Apocalisse e gli altri scritti giovannei, per stile lingua e prospettive teologiche (come sulla parusia). Ragion per cui alcuni hanno ritenuto di doverne negare la paternità giovannea, limitandosi a farla afferire al milieu dell’Apostolo. Tuttavia il genere letterario e la sua stessa peculiarità dottrinale giustificano ampiamente le divergenze anche se all’interno della penna di un medesimo autore.

Il Libro si comprende solo nel suo contesto storico, come quello di Daniele a cui si rifà, perché nasce come strumento di conforto per i fedeli nel quadro di una feroce persecuzione. Giovanni riprende il tema del Grande Giorno di Dio (Am 5,18), nel quale Egli libererà il Suo Popolo dall’oppressore. Giovanni scrive dopo la decimazione della Chiesa in una persecuzione sanguinaria (13; 6,10-11; 16,6; 17,6) voluta da Roma per istigazione satanica (12; 13,2-4). Esiliato a Patmos per la sua fedeltà alla Parola di Dio, Giovanni riceve la visione di Cristo in mezzo a Sette candelabri che rappresentano le Sette Chiese dell’Asia Minore (1). Riceve sette lettere per ognuna di esse, contenenti rimproveri, esortazioni e promesse, non senza un linguaggio a volte ironico e tagliente (2-3). Una visione inaugura l’Apocalisse, mostrando al veggente la Maestà di Dio, Che dal Cielo, dove viene adorato dai Quattro Esseri Viventi e dai Ventiquattro Vegliardi, domina i destini umani (4) e Che consegna all’Agnello, dopo averlo intronizzato, il Libro col decreto di sterminio dei persecutori, munito di sette sigilli che solo Lui può aprire (5). La visione prosegue con la profezia dell’invasione dei barbari (ossia i Parti) accompagnata dalla peste, dalla fame e dalla guerra (6). I fedeli vengono tuttavia preservati (7,1-8; cfr. 14,1-5) in attesa del loro trionfo in Cielo (7,9-17; cfr. 15,1-5). Dio, per convertire i peccatori, manda loro una serie di flagelli di avvertimento, come con il Faraone e l’Egitto (8-9; 16), accompagnati da sette suoni di tromba. Il veggente riceve a tal punto una nuova investitura profetica per una missione rivolta a tutti i popoli, poiché il compimento del piano divino è imminente. Egli vede che i Due testimoni sono messi a morte e risuscitano a Gerusalemme. Poi contempla la Donna che partorisce il Bambino ed è perseguitata dal drago e dalla bestia (12-13); come contraltare contempla l’Agnello vincitore sul Monte Sion (14) e gli Eletti che cantano il cantico di Mosè dopo aver varcato il mare di cristallo mescolato col fuoco. I Sette calici sono seguiti dall’annunzio della rovina della grande meretrice, la città che corrompe i popoli, Babilonia, simbolo di Roma (16). Dio infatti dinanzi al loro indurimento distrugge gli empi (17), che vogliono traviare il mondo col culto satanico – ossia con quello imperiale. Seguono un lamento su Babilonia così distrutta (18) accompagnato da canti di trionfo in cielo (19,1-10). Una nuova visione mostra la distruzione della bestia – simbolo di Roma persecutrice – e del suo smisurato esercito da parte di Cristo (19,11-21); segue per la Chiesa un periodo di prosperità millenario (20,1-6), al termine del quale avviene un nuovo assalto satanico (20,7), che però è respinto, così da annientare il nemico e far risorgere i morti e inaugurarne il Giudizio (20,11-15). Si instaura così il Regno dei Cieli, nella gioia perfetta, con l’annientamento della morte stessa (21,1-8). Un’ultima visione descrive lo stato di perfezione della Nuova Gerusalemme durante il suo regno sulla terra (21,9), con un senso evidentemente retrospettivo. Naturalmente a questo senso storico, il testo unisce quello paradigmatico, perché in tutte le epoche i fedeli vengono confortati, nelle prove ricorrenti, dalle promesse del Libro, che dunque descrive la condizione tipica ed escatologica della Chiesa. L’Apocalisse è dunque il grande canto epico della speranza cristiana e del trionfo della Chiesa perseguitata.

In merito alla presenza nel Libro di due testi scritti in epoche diverse, è possibile individuarli grosso modo, secondo uno schema che cerca anche di dar ragione degli apparenti doppioni, delle rotture che sembrano interrompere le visioni e dei passi che ad alcuni sembrano fuori contesto (Boismard). Avremmo quindi due testi apocalittici, da 4 a 22, scritti in epoche diverse, e poi fusi in uno, evidentemente con più buon titolo dall’autore di entrambe che da un altro redattore, secondo questo schema:

Testo I.

  1. satana contro la Chiesa (12,1-6.13-17).
  2. Annuncio e prodromi del grande giorno dell’ira (4-9; 10,1-2b.5-7; 11,14-18)
  3. Il gran giorno dell’ira: presentazione di Babilonia (17,1-9.15-18); caduta di Babilonia (18,1-3); lamento su di essa (18,9-13.15-19.21.24); canti di trionfo (19,1-10).
  4. Il Regno messianico (20,1-6).
  5. Il combattimento escatologico (20,7-10).
  6. Il Giudizio (20,13-15).
  7. La Gerusalemme futura (21,9-22.2; 22,6-15).

Testo II.

  1. Prologo: il libro inghiottito (10,1-2 a.3-4.8-11).
  2. satana contro la Chiesa (12,7-12).
  3. La bestia contro la Chiesa (13).
  4. Annuncio e prodromo del gran giorno dell’ira (14-16).
  5. Il gran giorno dell’ira: presentazione di Babilonia (17,10.12-14); la caduta di Babilonia (cfr. 14,8); gli eletti preservati (18,4-8); lamento su Babilonia (18,14.22-23); canti di trionfo (18,20; cfr. 16,5-7).
  6. Il combattimento escatologico (19,11-21).
  7. Il Giudizio (20,11-12).
  8. La Gerusalemme futura (21,1-4; 22,3-5; 21,5-8).
  9. Appendice: i Due testimoni (11,1-13.19).

Sarebbe facile immaginare che il testo I sia stato scritto ai tempi di Nerone e quello II ai tempi di Domiziano. Nulla però vieta di immaginare che siano stati scritti in due momenti diversi dell’esilio di Patmos. In questo senso il II avrebbe completato il I così da costituire subito con esso una sola unità che l’autore nel Libro presenta composta in un solo luogo e in un medesimo tempo. A meno che Giovanni, avendo messo insieme i due testi a Patmos, dopo aver redatto il II nell’isola, nonostante il I fosse stato scritto a Roma, si sentisse, proprio in virtù dell’armonizzazione finale di essi, in diritto di scrivere che l’Apocalisse era stata scritta tutta – nel senso estensivo di scritta e armonizzata – proprio laddove essa assunse la sua forma definitiva. La sezione delle Lettere (1-7) sarebbe poi anch’essa stata distinta e separata, per venire aggiunta al combinato delle due Apocalissi. Le Lettere potrebbero tuttavia essere state dettate da Cristo a Giovanni ai tempi delle rivelazioni a Patmos. E’ degno di nota che anche il Robinson distingue due documenti nell’Apocalisse, ma con una diversa struttura interna, meno convincente: uno dell’Asia Minore (capp.1-3) e uno romano (4-22,5). Un’ultima ipotesi, senz’altro degna di nota ma funzionale a una diversa suddivisione interna del testo, più simile a quella abbozzata dall’Edmundson che a quella da noi riportata, è quella che pone la stesura delle due Apocalissi in due epoche diverse: il 70 circa sotto la reggenza di Domiziano e il periodo dell’impero di costui. La prima stesura potrebbe essersi avvalsa di materiale relativo a visioni avvenute anche prima del 68, come dicevamo all’inizio. Ma entrambe sarebbero state fatte a Patmos. Per cui dovremmo ipotizzare due esili giovannei, entrambi per volontà di Domiziano, ed entrambi dedicati alla composizione dell’Apocalisse. In cui confluirebbero esperienze mistiche iniziate sin dai tempi finali dell’impero di Nerone.

L’interpretazione del testo è senz’altro la cosa più difficile e sempre instabile. Se è sempre esistita una corrente fondamentalista che vuole scorgere nell’Apocalisse la cronaca anticipata degli ultimi eventi, se non addirittura dei tempi in cui vive l’interprete di riferimento, per cui spesso l’esegesi di questo Libro sfocia nella polemica, e se questa lettura è senz’altro importante e persino necessaria onde rendere viva l’attesa che il testo vuole suscitare, la comprensione dello stesso sarebbe mutilata se non si tenesse presente il contesto letterario apocalittico di cui abbiamo detto e la problematica sottesa, legata all’inesplicabile motivo per il quale Dio permette il male. L’apocalittica è una letteratura di crisi, in cui l’autore si esprime attraverso una fitta serie di simbolismi complicati che richiamano i testi profetici precedenti e tentano di individuare il momento in cui Dio interverrà nuovamente. Il riferimento alle mitologie antiche, il confronto tra miti primordiali e miti finali senz’altro aiuta ulteriormente a capire il testo (Scuola di storia delle religioni; Gunkel); il confronto coi dati della Guerra Giudaica, con la Leggenda di Nerone forniscono altri elementi. Ma l’apporto più importante viene dalla teoria della ricapitolazione, inaugurata da Vittorino di Pettau (IV sec.), che legge l’Apocalisse come una grande sintesi del senso cristologico di tutto il NT e come chiave di lettura di tutta la storia della Chiesa, con i suoi schemi tipici ricorrenti e i suoi personaggi paradigmatici. A questa lettura abbiamo fatto cenno sin dall’inizio.

Alla luce di questa esegesi, emerge che l’Agnello è il vero protagonista dell’Apocalisse: il Suo amore redentore illumina anche le ore più buie; Egli vince mediante il Suo Sacrificio e con esso assicura la vittoria a chi persevererà fino alla fine; Egli è il Testimone fedele e verace descritto nel Quarto Vangelo, il Principio della Creazione di Dio e il Suo Logos, come attesta Giovanni nella sua opera maggiore. Gerusalemme è la città di riferimento per l’Apocalisse, così come lo era per il Vangelo di Giovanni. Sebbene la Chiesa sia presentata nel presente e nel mondo come una minoranza di perseguitati, essa non è una setta, né tale diventa per le scene di carneficina che si stagliano nel Libro: il messaggio di Cristo è universale e la folla dei salvati innumerevole, solo simbolicamente espressa dai Centoquarantaquattromila. La luminosità della Celeste Gerusalemme, la sua apertura, l’attrazione che esercita sulle nazioni attestano la vocazione universale alla salvezza. Il fiume che scorre nella Città Santa è lo Spirito Santo che riporterà il Paradiso in terra. Avverrà col Ritorno definitivo del Cristo, annunziato in tutto il Libro, presentato come le Nozze tra Lui e la Chiesa, preconizzato dai diversi flagelli simbolici che spingono alla conversione e anticipato dalle celebrazioni liturgiche. Molti sono i simboli battesimali ed eucaristici, per cui il testo è anche importante per la comprensione della liturgia cristiana primitiva, che quasi rivive dalle sue pagine.

L’Apocalisse, sebbene chiuda la letteratura biblica, ha consegnato a quella patristica alcuni temi, come quelli del combattimento spirituale e della glorificazione dei martiri, e ha inaugurato un filone cristiano apocalittico che, attraverso gli apocrifi e i testi dei veggenti di tutte le epoche, giunge fino a noi.

ADNEXUM I
LOCA SANCTA
I RISCONTRI ARCHEOLOGICI ALLE NARRAZIONI EVANGELICHE
UNA PANORAMICA SULLA SITUAZIONE ATTUALE
(1)

E’ un dato ormai acquisito da tempo tra gli specialisti che i racconti evangelici siano, del pari ad altri racconti storici suscettibili di differenti interpretazioni, abbiano una solida base monumentale, che fornisce riscontri, contestualizzazioni e chiarificazioni agli eventi cui si riferiscono. Quanto segue vuole sintetizzare, per quanto possibile, in un solo saggio di facile consultazione, le scoperte fatte nei tempi più o meno recenti, anche allo scopo di rendere più semplice lo sguardo d’insieme sull’argomento e più concreta la geografia storica della vita di Gesù. Per completezza e complementarietà questa esposizione inizia e termina parlando dei luoghi della vita della Vergine Maria, che è descritta in testi detti apocrifi in quanto al contenuto dottrinale ma senz’altro di rilevanza storica – dato anche il silenzio delle altre fonti e la loro obiettiva antichità, anche se minore di quella dei testi canonici – dotati altresì ai tempi nostri di nuova credibilità proprio per i riscontri monumentali che è possibile esibire. Non mancano poi i tentativi di risolvere questioni controverse alla luce dei dati disponibili.

I LUOGHI DELL’INFANZIA DI CRISTO E DI MARIA

Anche se non rientra nella narrazione evangelica, è importante il riscontro archeologico al luogo della Nascita della Vergine. I testi ci dicono che Maria è nata a Betlemme, a Nazareth e a Gerusalemme. Ovviamente solo una di queste località è quella giusta (2). Se Betlemme è un postulato della dottrina che faceva della Vergine un membro della Casa di David, per cui non è dato storicamente attendibile di per sè (3), e se l’origine nazaretana è basata su documenti tardivi a loro volta influenzati dall’ambientazione lucana dell’Annunciazione, la tradizione gerosolimitana del Protovangelo di Giacomo del II sec. appare più solida, nonché suffragata dai ricordi dei primi pellegrini. E’ infatti nella capitale che si è conservato il ricordo monumentale della Nascita della Vergine. Presso la Porta Probatica, nella Valle es-Sahireh, ai tempi dei Maccabei fu costruita una piscina gemellare trapezoidale, con ad oriente uno stabilimento terapeutico detto di Bezeta. Ad esso si accedeva da un canale che sfociava in una grotta originaria naturale; a nord-est vi era una cisterna centrale circondata da bagni, da sale pitturate e, pare, da una abitazione con grotte, che ora è sotto le absidi della Chiesa crociata di Sant’Anna. Questo ambiente fu frequentato da infermi (Gv 5,3) e da donne superstizione desiderose di fecondità (4). Vi veniva invocato Salomone, quale guaritore per eccellenza in tutte le sorgenti termali palestinesi; vi era praticata la magia bianca con l’anello del Re, le sue medaglie raffiguranti la triade della salute – ossia il santo cavaliere che trafigge Lilith e l’Arcangelo Raffaele che lo protegge – e il suo sigillo. Nonostante la polemica rabbinica contro questo culto, esseni e terapeuti lo praticarono (5). Il rituale confluì poi nel Testamento di Salomone del III sec., pubblicato dai Giudeo-cristiani, che così lo fecero proprio. Proprio nel Protovangelo di Giacomo, al capitolo VI, leggiamo che Anna fu guarita dalla sterilità meritata per qualche peccato occulto recandosi alla Piscina, e che generò Maria. Questa visse nella sua cameretta, trasformata in una domus ecclesia, che si trova ancora nella Grotta sotto il coro della chiesa crociata e che risale appunto al I sec. Anche il Vangelo dell’Infanzia dello Pseudo-Matteo nel IV-V sec. suppone che Anna avesse una casa nella zona di cui parliamo (6). Il Rotolo di Rame di Qumran attesta che presso la Piscina vi erano alcuni nascondigli dei tesori esseni – con una asserzione che per alcuni è simbolica e per altri reale – e una struttura residenziale, che con buona probabilità era collegata al quartiere dove viveva la famiglia della Vergine (7). Con la distruzione di Gerusalemme nel 70 lo stabilimento fu diroccato ma il culto continuò ad esservi esercitato. Il nome della Piscina cambiò in Bet Hesdatain, popolarmente reso come Bet Hesda – la Casa delle Misericordie – e il culto divenne sincretico, a partire dal 135, con le costruzioni pagane ivi volute da Adriano proprio per sradicare la memoria giudeo-cristiana. Il culto salomonico fu ereditato dai Parenti della Vergine, che lo cristianizzarono sostituendo Gesù medico a Salomone e all’Angelo, ai quali Egli è superiore (Mt 12,42 b; Gv 5,1.5-9): nelle medaglie compare allora il suo busto assieme al cavaliere con una lancia crociata o in atteggiamenti cristiani; Maria, non più oggetto di miracolo, è associata al Figlio guaritore; Lilith sostituita da varie diavolesse; l’Angelo di Dio affiancato da vari altri angeli della salute. Le cerimonie erano celebrate nelle costruzioni visibili ad est, dopo gli scavi presso la Piscina settentrionale: cisterne, un’ampia sala mosaicata con croci floreali, fiori e frutti simbolici, la base di un probabile altare e armadi incassati nel muro, oltre ad una grotta intagliata nella roccia lunga 10 m. e larga 2,50. In quanto al culto pagano adrianeo, si incentrò nel Serapeîon edificato sul luogo, sul modello dei tanti altri edifici simili sparsi nell’Impero. Era un complesso quadrato, poi smantellato dai Bizantini, ad est del portico trasversale e del grande bacino meridionale. In esso vi erano cisterne riadattate, gallerie intagliate nella roccia, un ampio edificio però non completamente scavato, una favissa con ancora i resti dei sacrifici. In questo complesso vi era un Serapide, ormai in frammenti, venerato nel naós dello stabilimento, ossia la grotta naturale originaria; una donna che si spoglia e una sdraiata su un divano, inchinata sotto una mano benedicente; due navi da carico che si armonizzano col culto di Iside; due piedi votivi. Il luogo era infatti consacrato alla triade pagana della salute, formata da Serapide/Esculapio, Iside/Igea, Arpocrate/Telesforo, e dovevano soppiantare le triadi giudaica e giudeo-cristiana. In suo onore si praticava la magia nera, l’oroscopo, il lunario e l’idromanzia.

Costantino (306-337) proscrisse, nel 319, la magia nera pagana, ma tollerò quella bianca dei Giudeo-cristiani (8). La Grande Chiesa tuttavia polemizzò sia contro il culto pagano che contro quello giudeo-cristiano (9), facendo smantellare prima l’edificio adrianeo e poi quello giudeo-cristiano, nel primo quarto del V sec. (10); li rimpiazzò con la grande Basilica del Paralitico, di recente riscoperta, e con quella di Santa Maria, le cui navate laterali sporgevano oltre i limiti del quinto portico della Piscina, poggiando su colonne di sostegno che affondavano nelle vasche, e che è da identificarsi, evidentemente, con gli edifici e le grotte scoperte sotto la cripta della chiesa crociata (11). Le idrie e l’anello salomonico furono invece trasportati e venerati nella Basilica del Santo Sepolcro.

Giovanni Damasceno è il primo a parlare nel VII sec. chiaramente della Casa dove nacque Maria presso la Piscina di Bethesda (12). Ma già Teodosio (379-395) aveva, nel 530, fatto riferimento ad una chiesa dedicata alla Vergine in quel luogo (13). In età crociata le due vasche della Piscina furono riempite e la Chiesa di Santa Maria trasformata in monastero, mentre venne edificata un po’ più a est la Chiesa crociata di Sant’Anna, che come dicevamo conserva sotto di se’ la Casa della Vergine.

Collegata a questa memoria è anche la tradizione dell’educazione della Vergine al Tempio. Il Protovangelo di Giacomo attesta la consacrazione di Maria Bambina e la sua vita nel luogo sacro (14). La veridicità di quanto desunto dai racconti antichi è stata confermata da D.Flusser e S.Safrai (15). Giustiniano, sul luogo ove si riteneva che la Vergine fosse stata educata, elevò la Basilica detta Néa, poi distrutta dai Persiani nel 614. Gli scavi hanno permesso di precisare che l’edificio, di ottantadue per sessantacinque metri, con aggiunto un ospizio ed altre dipendenze, era uno dei più riguardevoli di età bizantina in Palestina (16).

Seguendo ora il filo dei racconti evangelici, ci spostiamo a Nazareth. Già la cittadina è di per sé una acquisizione archeologica, visto che a lungo se ne mise in discussione l’esistenza. Ai tempi di Gesù essa era un piccolissimo villaggio, con una popolazione al massimo di centocinquanta unità, ai piedi delle colline della Bassa Galilea. Mai in precedenza era stata nominata nella Bibbia (17). Gli abitanti erano tutti discendenti di David (1000-961) e si facevano chiamare Nazorei (Ναζωϱαϊοι; נןצדים), per adempiere Is 1,1, in cui si dice che un virgulto (nezer נצר) germoglierà dalle radici del tronco di Iesse. I davidici erano tornati a scaglioni in Palestina sin dal 520 a.C. con Zorobabele (18), proseguendo con Esdra nel 457 a.C. (19) e continuando a giungere sin nel II sec. a.C. Proprio alla fine di quest’epoca si ripopolò Nazareth, il cui nome originario ci è sconosciuto, essendo stato abbandonato nel 733 a.C. ai tempi dell’invasione degli Assiri. Gli immigrati erano provenienti da Babilonia; essi approfittarono della conquista asmonea della Galilea per un più massiccio esodo. Gli scavi infatti attestano che vi è soluzione di continuità insediativa proprio prima di quest’epoca. I clan davidici giunti da Babilonia in corrispondenza dell’indipendenza asmonea si stanziarono prima in Batanea (ossia il Basan) (20) per poi spostarsi a Nazareth. Giulio Africano (220 d.C. ca.), nativo di Emmaus, ci informa che i discendenti di David vivevano in villaggi con nomi messianici, come appunto Nazara (“villaggio del Germoglio”) e Kochaba (“villaggio della Stella”) (21). Due villaggi – uno a nord di Nazareth e uno nel Basan – portavano quest’ultimo nome. Lo stesso autore ci informa che i davidici conservavano le genealogie delle loro discendenze. Essi attendevano devotamente che il Messia sorgesse dalle loro fila (22). Giuseppe, nativo di Betlemme e ancora lì residente (come dimostra il viaggio da lui fatto per essere censito in quella città e non a Nazareth), e Maria erano dunque nazorei.

A Nazareth la tradizione della Casa di Maria, dove avvenne l’Annunciazione e attestata dal Vangelo di Luca (1,26-38) e conservata dai “Parenti della Vergine” (23), è stata riscontrata dagli scavi fatti tra il 1950 e il 1960. Il culto iniziò con una domus ecclesia, in cui erano inseriti i resti di una casa, ossia grotte, sili, vasche, scale originali tutti abbelliti nei primi due secoli con pitture, graffiti e mosaici; nel II sec. il tutto divenne un ambiente battesimale (24). Un frammento di targum di Is 55,1.3, paleograficamente datato a quest’epoca, attesta il culto per il “pozzo di Maria”, da cui è sgorgato il rivolo salutare del Verbo Incarnato (25). Nel III sec. sulla domus ecclesia i Nazareni edificarono una sinagoga giudeo-cristiana, di cui è rimasta tutta la parete sud e l’attacco della est, che andava verso nord per conglobare il dato roccioso tagliato della grotta tradizionale. Nella riempitura sono rimasti parecchi elementi architettonici come stipiti, cornici, archi, capitelli, basi con scanalature per transenne, basi di colonne d’altare, simboli e graffiti mariani, tra i quali spiccano le iscrizioni del XĒ MAPIA e della pellegrina che afferma di aver scritto il suo nome sotto il “luogo sacro di M” e di averne venerato l’immagine (26). Verso il 430 arrivarono a Nazareth i Bizantini che, probabilmente sostenuti dall’Imperatore, tolsero la sinagoga ai Giudeo-cristiani, l’abbatterono e la sostituirono con la loro Basilica. Essa ebbe come piattaforma gli elementi della vecchia costruzione. Le Grotte sacre furono preservate, il muro sud usato come stilobate dopo averlo decapitato, l’abside fu attaccato ad est e due navate furono erette in più, conglobando in quella settentrionale la Grotta tradizionale. Questa Basilica fu visitata dai pellegrini come la Casa di Maria trasformata in chiesa, dall’Anonimo piacentino sino ad Arculfo e Beda il Venerabile e altri. Un dato significativo è che le fondamenta dell’ambiente di questa Casa di Maria in cui presumibilmente avvenne l’Annunciazione corrispondono perfettamente alle Mura conservate nel Santuario della Santa Casa di Loreto (27).

Sempre a Nazareth Epifanio di Salamina ci parla della Casa di Giuseppe, il luogo dove Gesù è stato allevato (28). La tradizione fu tramandata dai “Parenti di Giuseppe”, i quali difesero strenuamente i loro diritti di possesso sul luogo a dispetto dei Cristiani ex gentibus, ai quali proibirono per secoli l’accesso. Solo nel 670 Arculfo potè visitarlo e descriverlo come un edificio parzialmente costruito su archi, che nella cripta conservava un pozzo e una grotta “lucidissima” – come la definisce un Anonimo citato da Pietro Diacono – e tutto un ambiente battesimale secondo il rituale giudeo-cristiano (29). Gli scavi del 1970, diretti da Bellarmino Bagatti, hanno confermato le notizie tradizionali e hanno datato l’ambiente al I sec. (30). E’ questa la dimora in cui Gesù trascorse la sua vita nascosta.

Seguendo il filo degli eventi evangelici, dobbiamo considerare ‘Ain Karem, il luogo della nascita di Giovanni il Battista, visitato da Maria, come attesta Luca (1,39-56). I fatti narrati nel Vangelo e nel Protovangelo di Giacomo sono ambientati nella regione di Giuda chiamata Orini, un triangolo montagnoso tra Gerusalemme e i wadi di es-Sarar ed es-Sikka, con ‘Ain Karem al centro. Era una regione vergine ed ospitale, dove Elisabetta ebbe a metà costa una casa di ritiro, dove si nascose per cinque mesi per ringraziare Dio di averla liberata dalla sterilità (Lc 1,25). Vi possedette anche una grotta, che nel racconto del Protovangelo (22,3) si aprì miracolosamente per ospitare Elisabetta e Giovanni braccati dai soldati di Erode (37-4 a.C.) durante la Strage degli Innocenti. Ai piedi del colle vi era invece la Casa di Zaccaria, dove giunse Maria quando andò a visitare la cugina. Questi luoghi sono stati identificati archeologicamente. Nel 1973 il p. Bagatti, sotto la cripta della moderna Visitazione, ritrovò una casa romana, con pressoio, un pozzo scavato nella roccia, tombe ellenistiche, varie monete romane dai tempi di Nerone a quelli di Costantino, e molta ceramica romana. Il pozzo si trova nella grotta che si sarebbe illuminata per dare rifugio ai fuggitivi (31). Scavi occasionali del 1885 e poi sistematici del 1941-1942 diretti da S. Saller nella tradizionale Casa di Zaccaria hanno riportato alla luce una domus ecclesia, posta in una grotta, luogo tradizionale della Nascita di Giovanni il Battista, e parecchi accessori di una casa romana, sotto l’attuale portico, ossia un pressoio, cisterne e tombe romane, tra cui una doppia (32). Questi luoghi furono sacralizzati dalla commemorazione giudeo-cristiana di Elisabetta, Giovanni e Maria, uniti in una vera e propria triade cultuale. Una prova di rincalzo è data dalla solita profanazione adrianea, che soppiantò i tre personaggi cristiani con altrettanti pagani legati da nessi egualmente solidi, ossia Smirna, Adone e Venere pudica. Smirna, concepito irregolarmente un figlio, si rifugia nel giardino di Venere, rimanendo cinque mesi dietro un albero di mirra che piange amare lacrime. Protetta da Venere genitrice, genera Adone, che Proserpina vorrebbe uccidere servendosi di un cinghiale. Tra Venere e Proserpina si giunge però ad un compromesso: Adone sarà negli inferi d’inverno e il resto dell’anno con la Dea dell’amore, che ne piange nel frattempo la scomparsa. Durante queste lamentazioni, per tre giorni si celebrano le Adonie: il primo giorno fiorisce il giardino nella Casa di Adone, e poi è gettato dentro una cisterna con pezzi della statua del dio; il secondo giorno si aspettano, nella grotta di Adone, le membra squarciate del dio e la sua testa decollata, mentre le tiasiditi, vicino al simulacro di Venere pudica, fanno le lamentazioni; il terzo giorno tutti si recano nel cortile dell’apoteosi e si festeggia la resurrezione del dio della vegetazione. In vista di tale culto – in cui la narrazione neotestamentaria è consapevolmente ed evidentemente trasfigurata e contaminata in senso polemico – Adriano piantò un boschetto sacro sull’Orini, costruì la Casa di Adone, scavò la duplice grotta ed eresse il cortile dell’apoteosi sopra i vecchi muri degli accessori della Casa di Zaccaria. Infatti p. Saller vi ha trovato elementi romani numerosi, risalenti ai secc. III e IV, resti riadattati dell’opera di Adriano.

Costantino distrusse gli edifici pagani e tornarono in auge i motivi cultuali dei Giudeo-cristiani: sulla montagna di Orini i boschetti di Venere e Proserpina furono sradicati e la Casa di campagna di Elisabetta fu ripristinata. La Grotta fu rivestita con pietre, pitturata e riempita di graffiti; il pozzo fu regolarizzato con muratura e collegato ad una cisterna fuori della cripta con un canale; avanti alla Grotta, per custodire la Casa romana, fu eretta una chiesetta, per venerarvi la pietra detta del Nascondimento, che ricordava la Roccia del Rifugio, da cui si prendevano eulogie e terra per avere benedizioni. Laddove, presso la Casa di Zaccaria, sorgeva la Casa di Adone e il suo boschetto, essi furono completamente distrutti; alla vegetazione adonica si sostituì il Giardino di Giovanni che “cresce in ogni luogo ove egli battezza”, secondo la felice espressione di Enon di Scitopoli nella citazione di Eteria. La camera funeraria di Adone, la sua grotta e nel cortile della sua apoteosi furono costruite due cappelle, una dedicata ai Martiri – con un magnifico mosaico in onore del Capo del Battista – e una a sud – arricchita di mosaici con simboli di glorificazione. In esse si celebravano tre Messe, in onore di Giovanni e di Maria, fecondatrice delle messi, dei semi e delle vigne. Così avveniva il capovolgimento definitivo: Smirna era soppiantata da Elisabetta, Adone da Giovanni e Venere con Maria. Ciò nel luogo in cui quest’ultima visitò la cugina e stette con lei fino al parto.

Vi sono sicuri riscontri alla narrazione di Matteo (cc.1-2) e di Luca (2,1-40) sulla Nascita di Gesù a Betlemme, confermata dal Protovangelo di Giacomo e dall’Ascensione di Isaia, entrambi testi del II sec. In queste fonti si parla del luogo della Nascita come di una casa, di una greppia e di una grotta. Matteo parla di una casa dove viveva la Sacra Famiglia prima dell’Adorazione dei Magi e della conseguente Fuga in Egitto. Luca puntualizza che la Sacra Famiglia si trovò in Betlemme solo in ragione del Censimento di Quirino e vi partorì il suo Primogenito in una greppia, non essendovi posto nel divano per gli ospiti. Se ne evince che la casa in cui essi alloggiavano era dei parenti e che, a causa del Censimento stesso, aveva anche altri ospiti, che evidentemente andarono via subito dopo aver espletato le pratiche censitarie, mentre la Sacra Famiglia rimase in città per la Presentazione del Bambino al Tempio e per la Purificazione della Puerpera, sino poi a ricevere l’inaspettata visita dei Magi a cui seguì la Fuga per l’inopinata persecuzione di Erode. Ciò collima con la notizia dell’origine betlemita della Casa di Giuseppe, essendo egli davidico di nascita. E’ anche coincidente con quanto attesta Gv 1,11 e 7,5, in cui si legge che le persone più vicine a Cristo, evidentemente per vincoli di sangue – i “suoi” – non lo riconobbero, assegnando alla Madre di Lui come luogo per partorire il più marginale della già povera dimora, nonostante le premure che lo stato interessante avrebbe meritato. La notizia della mangiatoia è sottolineata da Luca in quanto egli vi ravvisa il compimento di due profezie messianiche veterotestamentarie: Is 1,3 e Ab 3,2 secondo la LXX. Nel Protovangelo di Giacomo, fonte storica molto interessante anche se apocrifa e non priva di sovrastrutture leggendarie, leggiamo poi che la Sacra Famiglia, recandosi a Betlemme per il Censimento, a metà strada, al quinto miglio da Gerusalemme, tra i territori della tribù di Giuda e di quella di Beniamino, presso la Tomba di Rachele, in luogo deserto, nella zona di Efrata, dovette fermarsi perché Maria era giunta al momento del Parto. Esso avvenne in una grotta, definita sotterranea e tenebrosa. Se deve evincere che la casa dei davidici in Betlemme era un po’ fuori dell’abitato e che alcuni suoi ambienti erano adattati in antri naturali. I Padri palestinesi armonizzarono i dati e Giustino congiunge la greppia con la grotta (33); sulla sua scia si muove Origene (34); Eusebio armonizza Betlemme con Efrata (35). L’archeologia ha fornito i giusti riscontri, come del resto sanno già i lettori addentrati nelle questioni neotestamentarie.

Anzitutto va detto che, sia pure a Nazareth, sono state rinvenute case che ci informano benissimo sul loro piano ai tempi di Cristo. La celebre “Casa dei capitelli”, scoperta dal Padre Viaud, ha quattro vani, separati tra loro da un corridoio centrale che divide la zona degli ospiti da quella del padrone. Qui vi è il talamo familiare e il magazzino; nell’altra parte una cameretta di ingresso e il divano, a cui sono annessi un forno e una grotta, adibita a stalla degli animali (36). Evidentemente la casa, la grotta e la greppia si identificano facilmente e addirittura gli ultimi due termini indicano un vano naturale con una duplice funzione d’uso. Luca in effetti parla del katályma, ossia del divano degli ospiti, e non dell’albergo pubblico, per il quale in 10,34 usa il termine appropriato. Appunto questo divano era legato alla grotta fungente da stalla (37).

Questa casa-grotta-stalla era luogo di culto per i Giudeo-cristiani, che vi instaurarono una domus ecclesia. Di questo culto fa menzione Giustino. Essa fu profanata da Adriano, il quale, nel quadro dell’estirpazione del culto giudaico, infierì anche sui Giudeo-cristiani, sostituendo in situ la commemorazione di un mistero pagano al posto di quello cristiano. Egli eresse un tempio in onore delle lamentazioni di Venere e dell’apoteosi di Tammuz-Adone, con annesso un boschetto sacro. Ciò è attestato nelle fonti letterarie da Origene (38), Girolamo (39) e Cirillo (40). Tuttavia, come attesta lo stesso Origene, la venerazione per la Grotta della Nascita continuò. La stessa notizia è data da Eusebio, prima ancora che il luogo fosse ricristianizzato (41).

Dopo centottant’anni di profanazione il luogo fu poi recuperato da Costantino, il quale – dopo la ricognizione fatta in luogo dalla madre Elena (248-329) nel 326 (42) - vi costruì una basilica con abside poligonale, con altare al centro sormontato da baldacchino, con colonne che separano le navate e con una piattaforma dinanzi al presbiterio, da cui si scendeva nella grotta, la cui mangiatoia era stata rivestita con materiali preziosi. Il massimo splendore si raggiunse con Giustiniano, che, dopo i danneggiamenti inflitti agli edifici costantiniani dalla ribellione samaritana del 529, costruì una basilica che, nelle linee essenziali, ancora oggi esiste. Sopravvissuta alla devastazione persiana del 614 a causa della raffigurazione dei Magi loro connazionali nel mosaico all’entrata e alla furia di El –Hakim perché adoperata come moschea per venerarvi la nascita del profeta Isa Ben Iusuf (Gesù Figlio di Giuseppe), Betlemme evitò anche il saccheggio crociato con una saggia resa a Tancredi in marcia verso Gerusalemme. I Crociati abbellirono la chiesa e vi annessero un convento agostiniano. La Basilica della Natività assunse dunque la fisionomia da fortilizio che ancora oggi conserva. Vi si entra per una sola porticina bassa essendo murati i tre portali, onde evitare profanazioni con ingressi a cavallo di infedeli. Dopo il buio nartece ed oltre una porta cadente, si entra nella maestosa basilica, in cui quattro fila di colonne monolitiche di calcare rossastro, ravvicinate a due a due, suddividono le navate laterali dalla centrale, sostenendo le alte pareti di essa e le trabeazioni della capriata del tetto, oggi a vista. Il coro ad est è sopraelevato e con due scale ai suoi lati, accessibili tramite due portali crociati con porte bronzee del VI sec., si scende nella Grotta della Natività. Sul pavimento di questa, in una nicchia, una stella di argento dorato e una iscrizione latina su marmo bianco indicano il luogo della Nascita di Gesù. In un’altra nicchia vi è la mangiatoia scavata nella roccia e oggi rivestita di marmo, in cui fu deposto il Bambino. La greppia di argento donata da Elena per esservi riposta è oggi in Santa Maria Maggiore a Roma. L’altare dirimpetto è dedicato ai Magi. Le pareti rocciose sono rivestite di cuoio e stoffe preziose. Dal soffitto pendono cinquantatrè lampade.

A nord, attigui alla Basilica della Natività, si trovano la Chiesa di Santa Caterina (1881) e il convento francescano, costruiti sulle rovine del convento agostiniano. Dalla navata laterale destra della Chiesa di Santa Caterina una scala scende in un dedalo di grotte, nicchie funerarie e passaggi sotterranei che di fatto rendono il luogo simile ad una Catacomba. Tra di esse vi sono quelle che ospitano il sepolcro di San Girolamo, che a Betlemme giunse nel 384 e vi tradusse la Vulgata, e delle sue discepole Paola ed Eustochio (43). Una porta chiusa a chiave separa il complesso dalla Grotta della Natività (44). La planimetria del p. Bagatti (45) permette dunque di tracciare questa mappa dei luoghi originali della Nascita di Cristo: sotto l’altare della Natività, alle spalle, abbiamo la Grotta della Mangiatoia; invece scendendo verticalmente abbiamo la Grotta della Natività; questa è collegata, attraverso un piano inclinato che era l’ingresso ad essa nel XII sec., all’Altare di San Giuseppe, ancora più in profondità, sul cui pavimento vi sono quattro sepolcri, mentre altre due tombe giacciono in altrettante nicchie laterali ad arcosolio, in quanto sin dall’età precostantiniana i cristiani amavano farsi seppellire in questo luogo, a testimonianza della loro devozione. Ulteriormente innanzi si scende nella Grande Grotta, con l’ingresso originario al complesso sotterraneo e contenente cinque tombe. A sinistra della Grande Grotta, guardando dall’Altare di San Giuseppe, abbiamo la Grotta dei Santi Innocenti, anche se non vi sono prove che qui fossero seppelliti i piccoli Martiri della persecuzione erodiana. A fianco di essa vi è un altro altare con tombe ad arcosolio e l’altare dei Santi Innocenti. Di fronte alla Grande Grotta vi è un arco precostantiniano e le fondamenta costantiniane della Basilica; oltre essi, una scala porta all’ingresso del XII sec. A lato destro, sempre guardando dall’Altare di San Giuseppe, vi sono dapprima la Grotta dei Santi Eusebio, Paola ed Eustochio (sul cui lato destro vi è la Grotta della Fontana con altre due tombe nella roccia), e a seguire quella di San Gerolamo con un cenotafio e due tombe sotterranee. Questa grotta comunica con la Cella di San Girolamo verso nord, contenente ancora altre due tombe sotto il pavimento. A est della Grotta della Natività vi sono la Cisterna detta dei Magi e la Grotta per la riserva d’acqua. A ovest invece vi è una ulteriore Grotta con varie tombe. A sud-est della Basilica della Natività, sotto una cappella francescana, si trova la Grotta del Latte, in cui una tradizione del VI sec. individuò alcune gocce del latte della Vergine. Alla pietra bianca della grotta si attribuisce un potere taumaturgico.

Per giungere a Betlemme, la Sacra Famiglia, lasciandosi alle spalle Gerusalemme, giunse a Beth-Hakerem, dove oggi sorge il kibbutz Ramat Rachel. Qui riposò ad una Fontana, poco prima di raggiungere il crinale di Mar Elias (46), dove oggi sorge un monastero ortodosso. Tale Fontana è oggi purtroppo sigillata da una lastra di cemento, su cui passa una grossa tubazione di un acquedotto. Qui fu costruita l’antica Chiesa del Kathisma, ossia del posto dove la Vergine si fermò a riposare nel viaggio verso Betlemme, ritrovata nel 1992 (47). A questo luogo di antichissima venerazione si associò anche una tappa della Sacra Famiglia durante la Fuga in Egitto (48) e una sosta dei Magi nel loro viaggio verso il Bambino; qui infatti avrebbero rivisto la Stella una volta abbandonata la corte di Erode (49). La chiesa fu costruita tra il Concilio di Efeso (431) e quello di Calcedonia (451), evidentemente sulla reliquia già venerata, da Ikelia, pia donna di Gerusalemme, ai tempi dell’arcivescovo Giovenale (422-458). Essa fu distrutta dai Persiani nel 614, ma il luogo fu visitato dai fedeli anche nei secoli successivi.

Nella vicina Beit Sahur, a est di Betlemme, le chiese e numerose cappelle commemorano i Pastori ai quali, vegliando di notte, comparvero gli Angeli che annunziavano la Nascita di Cristo. Attorno alla cittadina vi sono i Campi dei Pastori, ancora oggi coltivati e adibiti a pascoli come ai tempi di Rut e Noemi. Qui Girolamo (50) individuava la Torre del Gregge, nominata da Michea (51), sul luogo dell’Annuncio ai Pastori, dove in effetti sono stati rinvenuti i resti di un modesto insediamento pastorale dell’epoca di Gesù (52).

Com’è noto, la Sacra Famiglia dovette fuggire in Egitto, dove esistono antichissime attestazioni della sua presenza, risalenti al I sec. (53)

I LUOGHI DI GIOVANNI BATTISTA

Gesù fu battezzato da Giovanni Battista (54) al Wadi el-Charrar (55). Il luogo era stato identificato già dal Pellegrino di Bordeaux nel 333 (56), sulla riva orientale del Giordano, a nord di Gerico, vicino al colle su cui Elia fu rapito in cielo (57). Il luogo della commemorazione fu poi spostato sulla sponda occidentale del Giordano, presso il monastero di San Giovanni. Con la pace israelo-giordana del 1995 il Wadi el-Charrar tornò accessibile.

Dopo il suo battesimo, Gesù si ritirò a nord est di Tell es-Sultan (il sito dell’antica Gerico, mentre a sud ovest della città moderna c’era quella ellenistica, che lo stesso Gesù visitava quando andava a Gerusalemme e dove Erode aveva il suo palazzo d’inverno), nel Deserto di Giuda, presso quel Monte della Tentazione o di Qarantal, dove sin dall’epoca bizantina si venera il ricordo di quei quaranta giorni in cui, trionfando sul diavolo, Egli si preparò alla vita pubblica. Su di esso si ergeva la Fortezza di Dok, di epoca maccabea.

Giovanni Battista battezzava in Ennon, presso Salìm (58). La zona era conosciuta sia da Eusebio (59) che da Egeria (60). Essa fa parte del Tell Shalem, a dodici chilometri a sud di Beth Shean (Scitopoli) (61), dove c’è un’abbondante sorgente (ejnon in ebraico), ora usata per l’allevamento pesci (62). Vicino vi è Abel-Mehula, il luogo dove Eliseo divenne discepolo di Elia. Questi riferimenti sono importanti per collocare con maggior precisione i luoghi del Battista, che Gesù chiamò “l’Elia che deve venire”. Le identificazioni alternative di Ennon (Salem presso Nablus) non sono altrettanto convincenti e anzi appaiono non corrispondenti alle descrizioni fatte nei Vangeli.

Il Battista operò anche a Bethania al di là del Giordano (63). Il luogo è di difficile identificazione (64). Non si può tuttavia dubitare della sua storicità, essendovi ambientati diversi episodi evangelici rilevanti, come la chiamata dei primi discepoli da parte di Gesù, che li accolse dal gruppo del Battista stesso, o la fuga di Gesù che sfuggiva al tentativo di linciaggio fatto contro di lui a Gerusalemme, o ancora l’accoglienza di altri sostenitori del Battista tra i suoi fedeli (65). Perciò la pregiudiziale di N. Krieger non può essere accolta e la tesi del luogo fittizio non può essere accettata (66). Origene identifica il luogo con lo stesso in cui Gesù fu battezzato e questa è l’opinione comune, ma dovette correggere Bethania in Bethabara nel testo giovanneo, sebbene oggi la filologia abbia dimostrato che tale correzione è insostenibile. A causa poi della distanza che separa questa “Bethania oltre il Giordano” da quella presso Gerusalemme (quattro giorni di cammino), percorsa da Gesù per recarsi dall’una all’altra alla morte di Lazzaro, è logico porre questa cittadina transgiordanica a nord del Lago di Galilea. Bargil Pixner, anche in base agli spostamenti di Gesù e dei suoi discepoli in Gv 1,19-2,11, sostiene che la città si trovava in Batanea, nei pressi del Lago di Gennesareth. Riprendendo la tesi di C.R. Conder (67), Pixner la perfeziona sottolineando che in Batanea vi era Tisbe, luogo natale di Elia, e la Valle di Cherit, dove il profeta si nascose da Acab (68), per cui essa poteva esercitare un fascino mistico sul Battista e spingerlo ad operarvi. La zona fu peraltro molto permeata dall’insegnamento del Battista, essendo ben disposta nei suoi confronti per la presenza di esseni e protomandei, oltre che di altri gruppi battesimali. I Mandei ancora oggi venerano il Battista e non Gesù Cristo. Inoltre, è attestata una antica prassi annuale di pellegrinaggio a Ramathain, da parte di giudeo-cristiani. Accanto alla collina di questa città vi è uno stagno con acqua abbondante che potè servire al battesimo penitenziale di Giovanni. Questa località dunque potrebbe essere Bethania al di là del Giordano.

Macheronte, oggi Khirbet el-Mukawer, è il luogo del martirio del Battista. Fortezza ubicata sulla cima di una montagna ad est del Mar Morto, costruita da Alessandro Ianneo nel 57 a.C., distrutta da Gabinio nel 56 e ricostruita da Erode il Grande, fu appunto il carcere del Precursore e il luogo del suo supplizio nel 26 d.C. Occupata dai ribelli nella Guerra Giudaica, sarebbe stata espugnata da Roma nel 73.

Il corpo del Battista fu sepolto a Sebaste, presso Samaria. Oggi Sebastijeh, la città fu costruita da Erode nel 25 a.C. sulle rovine della colonia che i Macedoni avevano fondato sui resti di Samaria. I fasti dei tempi di Gesù sono testimoniati dai resti del Tempio di Augusto – al cui nome, sebastos in greco, fu intitolata – del teatro e del foro romano. Le tombe di Giovanni, Eliseo e Abdia oggi sono nella cripta di una moschea eretta a sua volta su di una chiesa, dedicata appunto al Battista, che fu la più grande costruzione crociata della Terra Santa dopo la Basilica del Santo Sepolcro. La chiesa crociata si ergeva sulle rovine di una basilica bizantina. Gli archeologi rinvennero infatti una basilica civile, nella quale trovarono due absidi: una grande con pavimento alto ed un’altra più piccola, dislocate su due livelli. Ritennero più antica quella più piccola, posta più in basso, e per metterla bene in luce abbatterono la più grande ed elevata. Il Crowfoot, facendo nuovi scavi in città, riesaminò le rovine e si convinse che la grande abside era stata di una chiesa. Di questa aveva ritrovato, presso l’angolo nord ovest della moschea, due capitelli ed un altro era stato rinvenuto presso una casa vicina, di stile corinzio con le foglie d’acanto. Perciò egli riteneva che la chiesa fosse stata costruita verso il V secolo. Essa sarebbe stata la più grande del periodo bizantino in Palestina. Crowfoot faceva notare anche che, non essendo orientata, la basilica evidentemente aveva riutilizzato una costruzione precedente. Hamilton riuscì a vedere i ricorsi primitivi, ancora esistenti, nel muro di nord presso l’angolo di est. La costatazione l’indusse a credere che realmente sotto la chiesa crociata vi fosse la “cattedrale” bizantina che, dal canto suo, inglobava il sepolcro del Battista, attestato come luogo di venerazione ininterrottamente dal IV sec., ma di molto più antico. La prima menzione della tomba del Battista è infatti di Rufino di Aquileia, che narra che nel 361-362, sotto Giuliano l’Apostata, i pagani dettero fuoco alla tomba e cercarono di disperdere le ceneri. Però un monaco riuscì a salvarle, così che esse tornarono agli onori del culto alla morte del persecutore rinnegato. Che la tomba fosse poi di molto più antica lo attestano tre elementi: che i discepoli del Battista, col corpo del maestro, dovettero partire da Macheronte, per uscire dalla giurisdizione di Antipa (4 a.C.-39 d.C.) che non ne avrebbe permesso la venerazione; che il corpo non fu ritrovato per una visione come in altri casi e perciò si suppone che sia stato venerato sin dalla morte del Precursore; che i pagani di Sebaste non si sarebbero mai accaniti contro una tomba recente. Era ovvio poi seppellire Giovanni in una tomba di profeti, perché egli stesso era un profeta, tanto più che le tombe ebraiche di Sebaste erano poche, avendo la città preso l’aspetto pagano, e non essendoci quindi altri sepolcri facilmente disponibili. D’altra parte nei primi secoli del Cristianesimo, disseminati per la Samaria, i Battisti - discepoli di Giovanni - avevano conservato gelosa e precisa memoria della tomba del maestro. Attualmente la sua cripta è coperta a volta, molto trasformata a causa delle chiese sovrastanti, tanto da impedire di vederne la struttura primitiva. Comunque una porta di pietra, simile a quelle delle Tombe dei Re a Gerusalemme, giace a sinistra dell’entrata e ci testimonia la disposizione di un periodo più antico del bizantino. Di quest’ultimo rimane il pavimento fatto a piastrelle di marmo, ancora in buone condizioni, e, sembra, un ingresso nella parete di est che la metteva in comunicazione con la cattedrale. Secondo antiche testimonianze, il luogo era una cappella particolare del tempio originario, protetta da inferriate, contenente due telai ricoperti di oro e di argento, davanti ai quali brillavano sempre due lampade: una per san Giovanni, l’altra per Eliseo; nel posto vi era pure un trono ricoperto di un tappeto sul quale nessuno sedeva. Era appunto il trono simbolico della potenza del Battista. Eliseo ed Abdia, secondo questi antichi testi, sarebbero stati sepolti nella stessa grotta sotterranea in tempi molto più antichi (69).

I LUOGHI DELLA VITA PUBBLICA

In Galilea i luoghi maggiormente legati al ministero di Cristo sono Cafarnao, Tabgha – dove Egli amava ritirarsi in solitudine – Bethsaida Julia e Corazin. E’ il cosiddetto triangolo evangelico – secondo la famosa definizione di F. Mußner- nel mezzo della cui base vi è Cafarnao, e i cui vertici sono: ad ovest, lungo la sponda del Lago di Genesaret (70), Tabgha; ad est Bethsaida Julia oltre le foci del Giordano; a nord, Corazin , sulla collina (71).

La zona era innervata di strade, che furono percorse da Gesù e costituiscono il riscontro primo della sua attività di predicatore itinerante attraverso i luoghi indicati dal Vangelo. La principale era la Via Maris, che univa l’Egitto con la Siria. Partiva dal Delta nilotico, costeggiava il Mare fino a Cesarea, deviava per Scitopoli a sud di Meghiddo, si divideva in due a sud del Lago di Galilea. Un tratto infatti puntava a nord lungo la sponda occidentale verso Tiberiade (72), Magdala (73) e Cafarnao, attraversando il Giordano a Bethsaida Julia e puntando su Damasco attraverso la Gaulanitide. Un altro verso sud attraversava il Giordano anch’esso, costeggiava la sponda orientale del Lago, saliva il Golan a sud di Hippos e giungeva a Damasco toccando appena la Batanea presso Caspin. L’una via di pellegrinaggio per gli Ebrei babilonesi, l’altra di origine antichissima ma che aveva conosciuto alcune diversificazioni di percorso durante le Età del Bronzo e del Ferro, erano entrambe importanti. Il guado del Giordano a Bethsaida del primo ramo viario è attestato da una pietra miliare di Adriano, oltre che da un mausoleo del I-II sec. contenente almeno cinque grandi sarcofagi (74). Su tale guado era presente un ponte le cui basi di sostegno sono state rinvenute da B.Pixner e R.Riesner; esso sorgeva maestoso ai tempi di Gesù, presso ed-Dikke, all’epoca sobborgo di Bethsaida Julia.

Un’altra strada collegava Bethsaida Julia con Cesarea di Filippo (75), fiancheggiando il Lago di Hule e passando per Seleucia. La strada di pellegrinaggio che passava per Hippos nella Decapoli sino a Damasco e che abbiamo menzionato prima si intersecava con un’altra arteria romana all’altezza di Caspin, che a sua volta conduceva, mediante il Golan, alla Batanea. Verosimilmente il villaggio di Kursi, dipendente da Hippos, era unita a Bethsaida Julia da una strada che passava per una zona disabitata a nord est del Lago di Genesareth.

Tra Corazin e Bethsaida Julia correva una strada ancora oggi chiaramente visibile. Giungendo al Wadi Turki lo attraversava a Khirbet Umm el-Marra, arrivando a Wadi el-Musallaka, a ovest di Almagor. Giungeva al Giordano laddove sbocca il Wadi Qil’ai, essendoci un guado. Ebbe però anche un altro percorso, dietro il Tell el-Mutilla a NE di Almagor, verso il Giordano, attraversandolo su di un ponte romano.

Una ulteriore strada conduceva da Corazin a Tabgha, congiungendosi con la Via Maris; sempre da Corazin verso nord una strada portava a Giscala, fino a Tiro. Da qui un’altra portava a Cydasa, nei pressi di Giscala stessa.

Quando Gesù lasciò Nazareth per trasferirsi nella più popolosa città di Cafarnao (Mt 4,13), presumibilmente percorse la strada che passava per la Valle delle Colombe, oggi Wadi Hamam, toccava Arbela e giungeva al Lago, nei pressi di Magdala. Da qui prese la Via Maris per raggiungere Cafarnao. E’ presso le rovine di Sheik Kilal che – per inciso – che B. Pixner colloca il theloneum – ossia il banco delle imposte – dell’apostolo Matteo (77), lungo la strada pubblica. Secondo il Vangelo di Marco Gesù fece tre viaggi a partire da Cafarnao e ritornando sempre in essa. Un primo viaggio toccò le strade principali solo in un angolo della Decapoli, il Paese dei Geraseni (Mc 5,1), girando attorno al Lago. Durante questo viaggio Gesù esorcizza l’indemoniato di Gerasa (Mc 4,35) e placa la tempesta mentre attraversa il Lago su una barca. E proprio una imbarcazione dei tempi di Gesù è stata rinvenuta nel 1987, presso Magdala nel kibbutz Ginnosar. Era capace di accogliere proprio tredici uomini (78). Il secondo viaggio inizia da Tabgha, navigando tocca Genesareth – all’epoca alla base di Tell el –‘Oreimeh, a Ain et-Tine (79) – per via di terra giunge a Giscala, attraversa il territorio di Tiro, quello di Sidone, la Decapoli e infine raggiunge un luogo desertico sulla riva orientale del Lago di Genesareth, Tell Hadar, presso il Wadi Semach (Mc 5,21-8,10). Qui, secondo l’identificazione topografica di Pixner, moltiplica i pani per quattromila persone (Mc 8,1-20) (80). Poi riparte per Tabgha. Il terzo viaggio, narrato anche da Matteo, parte sempre da Cafarnao. In esso Gesù via lago raggiunge Bethsaida, per poi proseguire a piedi sulla strada che porta a Cesarea di Filippo, attraversando molti villaggi. Giunge alle sorgenti del Giordano camminando lungo la strada sul suo pendio orientale. Qui conferisce a Pietro il Primato e annunzia per la prima volta la sua Passione (Mc 8,27-9,1; Mt 16,13-28). Impone il segreto messianico perché si trova dalle parti di Gamla, roccaforte degli Zeloti, e non vuole essere strumentalizzato a fini politici. Dopo sei giorni si trasfigura su di un alto monte (81). Secondo Pixner e altri studiosi si tratta dell’Hermon, vicino a Cesarea di Filippo. Tale identificazione è possibile, tenendo conto del fatto che anche Eusebio di Cesarea non sapeva se la Trasfigurazione fosse avvenuta su quel monte o sul Tabor (82). Inoltre il monte Hermon si inserisce meglio nel circuito del secondo viaggio di quanto possa fare il monte Tabor, posto in Galilea, mentre la dizione “alto monte” con cui i Sinottici chiamano il luogo dove Gesù si trasfigurò senz’altro si addice di più ai duemilaottocentoquattordici metri dell’Hermon che ai seicento del Tabor. Tuttavia l’obiezione che Pixner fa all’identificazione del Tabor col Monte della Trasfigurazione non è a mio avviso convincente. L’archeologo benedettino sostiene che, essendo il Tabor fortificato e abitato dai Romani, non era sufficientemente defilato per essere teatro della Trasfigurazione. Ma anche Tabgha, l’eremo di Gesù di cui diremo, aveva un fortino romano nei suoi pressi e ciò non impedì a Gesù di viverci i suoi momenti più intimi. Proprio il misterioso silenzio sotto cui i Vangeli sinottici passano il nome del luogo della Trasfigurazione impedisce oggi una assoluta certezza nella sua identificazione (83). In ogni caso, dopo la Trasfigurazione, Gesù tornò in Galilea attraversando il Giordano; passò per Corazin e infine arrivò a Cafarnao. Ripartì infine per la regione della Giudea oltre il Giordano – che alcuni identificano con la Perea e altri con la Batanea- passò per Gerico e giunse a Gerusalemme, per viverci i suoi ultimi drammatici momenti.

Consideriamo ora i luoghi galilaici legati alle vicende terrene di Gesù. Il primo è Cana. Tre località si contendevano l’onore dell’identificazione col sito evangelico di Gv 2,1-12: Khirbet Qana, Khirber Kenna e Kefr Kenna. La critica recente ha individuato Cana con Kefr Kenna (84). Gli studi degli elementi architettonici ancora in superficie, gli scavi occasionali, le campagne regolari archeologiche, le ceramiche, la numismatica, i mosaici ritrovati e la letteratura bizantina concorrono a questa identificazione. La Cana evangelica risale all’Età del Bronzo e arriva sino ai giorni nostri, essendo ancora abitata e sita sulla strada tra Nazareth e Tiberiade. Il periodo di Gesù è testimoniato in situ con una moneta di Erode I e con una di Tito dell’80-81; vi è inoltre un orciolo col corpo sferico e le pareti ben cotte. Il periodo meglio testimoniato è quello del III-IV sec. Vi sono infatti due vasti edifici, separati da un corridoio che conduce al cortile, lastricato con pietre di diversa grandezza. I muri sono costruiti con pietre belle con una bozza liscia sporgente come quelle erodiane, probabilmente riusate. Probabilmente questi edifici furono visibili sino al XVIII sec. (85) Bellarmino Bagatti datò l’edificio principale al III sec., comparandolo con gli elementi riusati nella chiesa francescana o con altri scoperti occasionalmente. Per lo studioso si tratta di una sinagoga giudeo-cristiana parallela a quella di Nazareth. Vi erano evidentemente tre tipi di colonne, grandi medie e piccole, che servirono per il matroneo e per ornamento. Vi furono due tipi di cornici e tre porte nella facciata. Vi furono infine mosaici con motivi floreali a croce, comuni nei locali giudeo-cristiani, e un frammento marmoreo di una mensa d’altare con la sua colonnina di sostegno che ne indica la natura cristiana (86). In esso probabilmente si conservò la Mensa Domini, come a Nazareth e – come vedremo – a Tabgha; presso essa Cristo partecipò alle Nozze di Cana. Ad essa si riferisce la famosa iscrizione aramaica che parla appunto di una tabula. L’Anonimo Piacentino vi celebrò sia la cena pura che l’ ‘azkarah (87). Altri ritrovamenti occasionali hanno permesso di ricostruire la storia del colle di Karm er Ras, abitato dal tempo ellenistico in poi, dove sono stati rinvenuti elementi di una seconda sinagoga e una grotta dove gli Ebrei pregavano e danzavano. Presumibilmente in Cana vi furono quindi due quartieri e due sinagoghe, l’uno ebreo e l’altro giudeo-cristiano, come in altri luoghi (88).

Tabgha è un sito di grande importanza per la storia della vita di Gesù (89). I Vangeli (90) chiamano érēmos tópos il luogo solitario dove Gesù si ritirava presso le Sette Sorgenti, a due km a SO da Cafarnao. Giuseppe Flavio identifica la zona con Cafarnao stessa, della cui amministrazione era parte integrante (91). Sul tell vi era Kinneret, mentre Gennesareth si estendeva nella piana sottostante (92). La Via Maris passava vicino a Tabgha. Un piccolo fortino romano era alla base del lato orientale del Tell el-‘Oreimeh (Khirbet el-Khan). Questa zona era chiamata anche Dalmanuta (93). B. Hjerl – Hausen affermò che Marco sostantivò un’espressione aramaica divenuta antonomastica tra i cristiani, che significa “la regione della sua [di Cristo n.d.r.] dimora” (dal manutho) (94). L’altro nome del sito è Magadan, quello comune, conservato da Matteo, che significa “acque (felici) di Gad”. Per le sorgenti d’acqua ivi presenti - contate in numero di sette, sebbene ve ne siano solo tre, onde creare un parallelismo tra la guarigione del Lebbroso operata da Gesù in questo luogo (95) e quella di Naaman operata da Eliseo e legata a sette abluzioni nel Giordano (96) – i Bizantini chiamarono il posto Heptapegon, da cui venne l’arabo et-Tabgha, poi ulteriormente accorciato in Tabgha.

Le tradizioni locali furono tramandate dai giudeo-cristiani, la cui presenza è dimostrata da fonti ebraiche e monumentali (97). Vi sono tre blocchi di roccia collegati ciascuno ad un evento della vita di Gesù: uno alla Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci per i Cinquemila (che è al lato della Via Maris) (98); un altro al Discorso della Montagna (all’interno di una grotta nel pendio del monte vicino a Tabgha) (99); un altro ancora all’Apparizione del Risorto ai discepoli sul Lago di Galilea (presso alcuni gradini di pietra) (100). Dal XIII sec. è attestata nel luogo la commemorazione della Chiamata dei primi discepoli, perfettamente plausibile in quanto colà i pescatori di Cafarnao avevano le loro postazioni di lavoro. Non a caso M. Nun chiama “Porto di Pietro” il piccolo porto di pesca a Tabgha, esaminato nel 1986 per il basso livello lacustre (101).

Il sito della Moltiplicazione dei Pani si addice alla descrizione ambientale di Mc 6,31-48 ma non a quella di Mt 14,13-23. Questo elemento geografico, oltre alle differenze testuali, attesta che Gesù moltiplicò due volte pani e pesci per la folla. Questa moltiplicazione, per cinquemila persone, possiamo considerarla la Prima. Una prima chiesa fu costruita in loco col permesso di Costantino il Grande dal giudeo convertito Giuseppe di Tiberiade, che entrò tra le fila dei giudeo-cristiani. Questi ottenne il permesso di costruire chiese anche a Tiberiade, Sefforis, Cafarnao e Nazareth. La sinagoga-chiesa fu terminata intorno al 350 (102). Al principio del V sec. fu fondato un monastero con una cappella nella parte più elevata (103). A duecento metri a est da questo luogo infatti si trova una Grotta naturale venerata sin dai primi tempi e che fu considerata il ritiro di Gesù (104). Nello stesso secolo la chiesa fu ingrandita e riorientata secondo le norme liturgiche dell’epoca, divenendo così un luogo sacro della Grande Chiesa e non più giudeo-cristiano. La Roccia della Moltiplicazione dei Pani e dei Pesci non fu più al centro della chiesa e ritornò alla luce solo nel 1932 (105) e nel 1979 (106). La chiesa aveva tre navate, un atrio con nartece, una prothesis e un diaconicon. Nella costruzione furono rispettati i luoghi originali. I mosaici pavimentali erano di straordinaria bellezza. L’edificio fu distrutto tra l’invasione persiana e quella araba, ossia tra il 614 e il 636. Rimase in piedi il solo monastero, anche come luogo di pellegrinaggio. Una nuova chiesa fu eretta solo nel 1933; attorno le fu edificato un centro spirituale polifunzionale e nel 1989 fu ampliata sulla base del perimetro della costruzione del V sec.

Il sito del Discorso della Montagna – alternativo al Monte degli Ulivi e molto più referenziato per essere stato la cornice storica di quel sermone importantissimo – è noto sin dall’antichità. Coincide con il luogo dell’érēmos e in esso possono aver trovato ambientazione sia il Discorso di Matteo che quello di Luca. E’ infatti un dato ormai acquisito che i due Sermoni siano diversi anche se affini per contenuto, per cui sono stati pronunziati in circostanze differenti. Ora, il Discorso matteano è il vero montano, in quanto quello lucano fu pronunziato in un luogo pianeggiante. Essendo l’uno la maggiore elaborazione dell’altro, possiamo collocare senz’altro il primo sull’altura dell’eremo, formata da blocchi basaltici, mentre il secondo all’occorrenza possiamo immaginarlo sul prato esteso che le è prospiciente. Pixner sostiene che l’altura dell’eremo fu anche il monte anonimo su cui Gesù diede convegno, in Galilea, ai suoi Apostoli per conferire loro il mandato missionario (107). Altri preferiscono invece come sito il Monte Tabor (108). Nella Grotta dell’eremo propriamente detta in età bizantina si rifugiò un eremita, come attestano due pietre lavorate di basalto come resti di un muro di chiusura, rimasto in piedi fino al 1986. Nella parte posteriore della Grotta vi è poi una croce incisa nella roccia e della ceramica anch’essa di età bizantina. Sotto la Grotta vi è una sorgente d’acqua, che sempre in età bizantina fu circondata da un muro (109). Essa è legata alla Guarigione del Lebbroso di Mt 8,1-2 (110).

A duecento metri dalla chiesa della Moltiplicazione vi è la cappella francescana dedicata al Primato di Pietro, sul sito dell’Apparizione di Gesù Risorto ai discepoli sul Lago di Galilea. Tale sito è identificato da una roccia, una mensa Domini, su cui Gesù fece mangiare i discepoli per cui aveva arrostito del pesce. Vicino ci sono dei gradini di pietra, dove Gesù fu visto. Già quando nacque il monastero accanto alla sinagoga-chiesa della Moltiplicazione dei Pani, accanto ad essa sorse una cappella a centocinquanta metri a sud, sui gradini di pietra di cui abbiamo appena detto. La cappella potrebbe essere anche più antica, ma non è menzionata in alcun documento. Essa fu distrutta dai musulmani nel 1263 e ricostruita solo nel 1933; nel 1985 fu restaurata. Il cuore dell’edificio è la mensa del Signore. Nella chiesa sono custodite anche le pietre dove sedettero i XII durante la Moltiplicazione dei Pani. Questo complesso di sedili naturali è chiamato Dodekathronos. A cinquecento metri dall’eremo di Gesù vi è poi una piccola baia, simile, per le rive pendenti, ad un anfiteatro. Qui probabilmente avvenne il Discorso del Lago (111): infatti l’acustica del luogo, per chi parlasse da una barca posta al centro della baia, sarebbe ottima (112). Essa è nota come la “Baia delle Parabole”.

Il ritrovamento di un altro porto presso Tabgha nel 1991, attualmente sotto il livello del mare e risalente al periodo romano (113), ha aperto una discussione sul versetto 6,53-54 di Marco. In esso si legge “Compiuta la traversata fino a terra, giunsero a Gennesareth e approdarono”. Questo versetto è contenuto nel frammento 7Q5, che è il più antico frammento papiraceo evangelico esistente. Per la sua identificazione tuttavia i papirologi, per ragioni sticometriche, avevano espunto la locuzione “fino a terra”, considerandola un pleonasmo aggiunto in seguito, magari con la distruzione delle città palestinesi operata dai Romani, resosi necessario per aiutare il lettore a capire che Gennesareth era una località e non semplicemente il nome del Lago (114). Alcuni ora sostengono che proprio l’esistenza di un porto separato dal villaggio, a causa di depositi di fango provenienti dalla sorgente di et –Tine, potrebbe essere il motivo per cui Marco - e non un glossatore – abbia scritto pedantemente che Gesù e i suoi prima sbarcarono e poi giunsero a Gennesareth. A mio avviso tuttavia questo ritrovamento non cambia i termini della questione, in quanto l’eliminazione della locuzione in questione non cambia il senso dei verbi “giunsero” e “approdarono”. Quand’anche l’Evangelista avesse voluto sottolineare la distanza tra il porto e il villaggio, l’uso dei due verbi – dei quali il secondo significa proprio “approdare in un porto” ed è usato solo qui nel NT [prosormixesthai]- sarebbe stato bastevole per marcare la differenza tra i due luoghi, e la locuzione “sulla terra” rimarrebbe pleonastica ed espungibile dal frammento 7Q5, la cui identificazione rimarrebbe quindi indiscutibile.

Per quanto riguarda Cafarnao (115), che fu luogo di residenza di Gesù durante il suo ministero – scelto perché assai frequentato e quindi capace di offrirgli maggiori possibilità d’azione- diremo anzitutto che a lungo due siti furono in predicato di identificazione con l’antica città ormai scomparsa: Tell Hum e Khirbet el-Minyeh, posto più a sud del precedente. Il Robinson nel 1838 sostenne che Tell Hum fosse Corazin (116). Tuttavia ben presto si capì che era proprio Tell Hum il sito di Cafarnao. Nel complesso, l’intera Cafarnao risultò più antica del previsto e risalente all’età persiana (117). Orfali scavò nella zona sinagogale tra il 1905 e il 1921 e rimise insieme le pietre squadrate che giacevano a terra, ricostruendo la struttura del luogo di culto e datandolo al I sec. (118) Invece H. Kohl e C. Watzinger attribuirono la sinagoga alla fine del II sec. o al massimo all’inizio del III (119). In seguito, Corbo e Loffreda la ritennero più tardiva, collocandola tra il IV e il V sec. (120). A questa opinione, seguita dalla maggioranza degli studiosi, si contrappose quella di D. Chen, che, con una metodologia basata sulla metrologia, riscontrò la chiara impronta del periodo bizantino sull’edificio e sentenziò che esso poteva risalire sino all’epoca di Costantino (121). In ogni caso, siccome ogni sinagoga si costruiva sulla precedente, si cercò sotto di essa quella dei tempi di Gesù. Furono ancora Corbo e Loffreda a scavare più in profondità e a rintracciare la sinagoga del I sec., nel 1980 (122). Peraltro, sotto il pavimento di questa sinagoga, fatto di basalto, ve n’è un altro, limitato alla navata centrale, appartenente ad un edificio di culto ancora più antico. In ogni caso la sinagoga calcarea del IV sec. era, secondo Pixner e Maoz (123), un edificio memoriale che custodiva quella sottostante, evidentemente perché era stata frequentata da qualcuno di importante, che non poteva essere altri che Gesù. Infatti sino alla fine del IV sec. in Cafarnao, come a Tiberiade, Sefforis (124) e Nazareth, risiedevano solo ebrei, ma tra essi non si faceva distinzione tra rabbinici e giudeo-cristiani. Giuseppe di Tiberiade potè edificare sinagoghe giudeo-cristiane in tutti questi luoghi, ma a Cafarnao dovette accontentarsi di costruire a Tabgha. Questa sinagoga memoriale fu frequentata dunque da entrambe le famiglie religiose del giudaismo sopravvissute alla catastrofe del 70 e del 130; essa mantenne grandezza e orientamento della precedente, oltre alla porzione inferiore e alla soglia di ingresso. La sua costruzione fu finanziata presumibilmente sia da entrambe le comunità che dall’imperatore Teodosio (379-395), assai benevolo con gli Ebrei e costruttore di luoghi cristiani sul Gethsemani e sul Monte Sion.

Il quartiere circostante la sinagoga aveva a nord, a est e a sud della stessa aree residenziali. Due isolati più a sud di essa vi era la Casa di Pietro, divenuto luogo di culto esclusivamente giudeo-cristiano e dove alloggiò anche Gesù. Ancora nel 383 Egeria vide la Casa di Pietro, divenuta domus ecclesia nel I sec., esattamente com’era. In essa vi erano, su frammenti di intonaco, graffiti cristiani in greco, ebraico ed estrangelo. Simboli cristiani erano anche in case vicine (125). Fino al IV sec. un muro circondò il quartiere, che a est aveva altre aree residenziali; esso era un presidio sia contro gli altri ebrei che, soprattutto, contro i cristiani della Grande Chiesa. Questi tuttavia nel V sec. costruirono la loro basilica, formata da due ottagoni iscritti l’uno nell’altro; nel perimetro dell’ottagono maggiore si inseriva un abside; il tutto non eccedeva i limiti dell’antico muro quartierale dei giudeo-cristiani.

Nei pressi del quartiere sinagogale furono infine rinvenuti i resti di un bagno termale, con l’ipocausto, datato al I sec. grazie alla ceramica presente. Apparteneva alla guarnigione romana e presumibilmente vi viveva il centurione cui Gesù guarì il figlio (126).

Bethsaida è la città più citata nel Vangelo dopo Gerusalemme, Betlemme e Cafarnao (127). Essa è il luogo natio di Pietro, Andrea, Filippo, Giacomo il Maggiore e Giovanni. Gesù vi guarì Bartimeo (128) e dalle sue parti compì la Seconda Moltiplicazione dei Pani (129). Fu sin dall’antichità meta di pellegrinaggio, ma dal XII sec. si cominciò a dimenticarne l’ubicazione; si iniziò perciò a visitare, dopo il XIII sec., un posto vicino a Khirbet el-Minyeh, ma non era assolutamente il sito originario. Tre furono i luoghi candidati all’identificazione di Bethsaida: Messadiye, Khirbet el-Aradj, et-Tell; poiché esistevano due Bethsaida, la Julia e la Galilea, contigue, due di questi siti sono senz’altro stati abitati. Oggi sono stati individuati et-Tell ed el-Aradj, dei quali l’uno, a due km dal Lago, era Bethsaida Julia, l’altro Bethsaida in Galilea. La divisione è d’obbligo perché per Giuseppe Flavio Bethsaida Julia aveva un porto ed era sita laddove il Giordano sfocia nel Lago di Gennesareth (130), ma come abbiamo detto et-Tell è attualmente distante dalla riva. Evidentemente la morfologia del luogo ha subito mutamenti. Mancando al Giordano il fenomeno dell’espansione del deposito alluvionale del delta, a causa del drenaggio del Lago di Hule, si deve postulare che era la laguna di es-Saki, a est di el-Aradj, a fungere da letto fluviale, in quanto era più estesa e giungeva sino alle falde di et-Tell. Vi sono tracce di un letto fluviale ormai asciutto a nord di es-Saki e la parte finale del Giordano appare scorrere oggi in modo anomalo, molto ad ovest. Perciò el-Araj era la zona portuale di et-Tell; essa era appunto Bethsaida di Galilea e il secondo Bethsaida Julia (131).

Bethsaida Julia era, quindi, su et-Tell. I motivi di identificazione sono svariati: il rinvenimento di ceramiche simili a quelle di Cafarnao del periodo di Gesù (132); la presenza, alla base del pendio meridionale, di pietre lavorate che costituivano un muro imponente; un passaggio in esso che conduceva ad una sorgente a dieci metri, con un abbondante flusso d’acqua, atta a sostentare un vasto insediamento; un architrave finemente lavorato; una pietra grezza di basalto con una croce incisa – segno della presenza di cristiani; la corrispondenza alla descrizione del sito della Battaglia di Bethsaida Julia fatta da Giuseppe Flavio (133); la maggiore estensione del sito rispetto agli altri due in predicato di identificazione, essendo stata Bethsaida Julia capoluogo di toparchia; la maggior attitudine alla fortificazione. Tutti questi elementi vennero alla luce tra il 1981 e il 1984. I ritrovamenti di et-Tell sono divisi in tre aree, la A (corrispondente ad un periodo insediativo dell’Età del Bronzo, tra il 3050 e il 2700 a.C.), la B (il cui abitato è dell’Età del Ferro, tra il 1000 e il 587 a.C.) e la C (abitata in età ellenistica e romana, a partire dalla prima metà del III sec. a.C.). La città di Bethsaida Julia apparteneva alla Tetrarchia di Erode Filippo (4 a.C.-34 d.C.). Egli la scelse perché era dotabile di un porto (134), la popolò, la ingrandì, la fortificò e la innalzò al rango di città intitolandola, per Giuseppe Flavio, alla figlia di Augusto chiamandola Julia. Se così fu, tale mutamento toponomastico dovette accadere tra il 4 a.C. e il 2 d.C., quando Giulia fu esiliata dal padre a Pandataria. Ma più probabilmente l’aggettivo Julia fu dato in onore di Livia Giulia, vedova di Augusto e madre di Tiberio, che aveva buoni rapporti con la famiglia di Erode. Infatti un suo probabile busto è stato rinvenuto nella zona A. Tale cambiamento di nome potè accadere dopo il ministero di Gesù, non essendovene traccia nel Vangelo. La città fu popolata da ebrei, siriaci e greci, il che corrisponde all’ambiente multilingue e multiculturale in cui visse Gesù e in cui furono scritti i Vangeli. Il Signore vi si trasferì per sfuggire alla possibile persecuzione di Antipa, il quale, dopo aver fatto martirizzare Giovanni il Battista, considerava Cristo mosso da un analogo spirito profetico e contestatore. A differenza del fratello, Filippo era invece un tetrarca mite. Bethsaida Julia era vicina alla Via Maris. Il nome Bethsaida indica la ricchezza del luogo, perché può intendersi sia come “città di caccia” che come “città di pesca”. I rabbini la chiamavano solo Saydain, Marco due volte la chiama Bethsaidan. Nell’area B è stato rinvenuto un cortile quadrangolare lastricato, un tempo circondato da abitazioni, di diciotto per ventisette metri, dei tempi di Gesù. Attorno ad esso vivevano pescatori, come si deduce dall’abbondanza di ritrovamenti di materiale per la pesca. Perciò uno o più degli Apostoli pescatori poterono vivere qui. Nell’area C vi era una casa decorata e ben costruita, con una bella cucina, una stanza con sostegni di basalto, una cantina sottostante, un gran cortile con una piccola sala in cui si è rinvenuta una croce d’argilla – segno della presenza dei cristiani – e in cui sono stati rinvenuti vari oggetti, tra cui un paio di begli orecchini e arnesi per la toeletta femminile. E’ quella che Pixner ha chiamato la “Casa di Salome”, la madre ambiziosa dei figli di Zebedeo, senza però alcuna pretesa di identificazione storica. A nord della casa vi era il muro settentrionale della città, collegato all’estremo sud dell’insediamento da un sentiero che Gesù e i suoi dovettero percorrere spesso. L’edificio e il quartiere sono esattamente così com’erano alla sua epoca. Ai piedi della collina nel 1993 R. Arav e R.A. Freund scoprirono un porto presso una sorgente, in quanto la laguna di es-Saki giungeva fin là (135). Nell’area B si rinvennero poi monete di Filippo, una coniata nel 29-30, un sigillo di età ellenistico-romana rappresentante due uomini che pescano. Nel 66 il sito fu distrutto dalla Guerra Giudaica. Nel 115 fu colpito da un terremoto che generò anche un’onda anomala che colpì la costa. Una gran frana ostruì la valle e dietro vi si formò un laghetto che sfondò l’argine e seppellì la laguna con dei detriti che giunsero sino a et-Tell. Dalla seconda metà del III sec. l’insediamento si rimpicciolì. Nel periodo bizantino scomparve quasi del tutto.

Bethsaida in Galilea era, come dicevamo, su El-Aradj, dove è stato rinvenuto un sito con un edificio che potrebbe essere una sinagoga o una chiesa. Le prove sono la presenza di sezioni di architravi di basalto, di una colonna di calcare, di capitelli e di frammenti di mosaico, rinvenuti da Pixner (136), nonché di ceramica romana (137). Era un villaggio ebraico accanto alla città ellenistica. Qui nacque Pietro. Si trovava ad ovest del Giordano, all’epoca al di qua di es-Saki, per cui la dizione “Bethsaida di Galilea” usata da Giovanni in 12,21 risulta esatta (138). Tuttavia apparteneva alla giurisdizione di Filippo, che regnava sulla limitrofa Gaulanitide, e non a quella di Antipa, che reggeva la Galilea, perché parte integrante di Bethsaida Julia, indiscutibilmente spettante al primo. I numerosi fondi archeologici bizantini attestano che il luogo era venerato.

Corazin – oggi Korazim – è l’ultimo dei luoghi del triangolo evangelico. Colpisce che sia essa che Cafarnao e Bethsaida siano state immancabilmente segnate dalla maledizione di Gesù (Mt 11,21). Essa, scavata per bene tra il 1962 e il 1964 e tra il 1984 e il 1987, fu abitata dal I sec., cadde in rovina dal IV. Nel II e III sec. era una cittadina giudaica menzionata nel Talmud per il suo ottimo frumento. Sono state portate alla luce fondamenta di abitazioni e di edifici pubblici, ampie cantine e cisterne d’acqua. Il materiale da costruzione era il basalto nero. La sinagoga, eretta nel III sec., distrutta nel IV e ricostruita nel VI, subisce un forte influsso ellenistico che attenua il divieto delle raffigurazioni di viventi, mediante scene di vendemmia, immagini di animali, un soldato armato e una testa di medusa, scolpite in cornici e capitelli. Vicino vi era un bagno rituale e una seconda sinagoga che, rinvenuta nel 1926, non è stata più identificata.

Kursi è il luogo dove Gesù esorcizzò l’indemoniato, nel Paese dei Geraseni o Gadareni o Gergeseni (139). Si trovava sulla sponda orientale del Lago di Gennesareth, nella Gaulanitide, ed era sottoposto alla città di Hippos, nel territorio indipendente e pagano della Decapoli (140). Ebbene, accanto alla grotta della montagna dove si pensava vivesse l’indemoniato, fu costruito un piccolo santuario, complice la precoce cristianizzazione del territorio di Hippos. Il sito era circondato da quelle pietre taglienti di cui l’ossesso si serviva per ferirsi (141). Il piccolo santuario divenne poi una chiesa bizantina, con un pavimento a mosaico, affiancata da una cappella battesimale e un torchio per l’olio, evidentemente ad uso del monastero fortificato eretto nella pianura nel V sec. All’entrata della cappella c’era una botola che conduceva ad una tomba sotterranea contenente sei sarcofagi per ventiquattro monaci e un bambino che evidentemente si trovava nel monastero (142). Il complesso cominciò a decadere nel 614; dopo l’invasione araba i pellegrinaggi furono vietati; agli inizi dell’VIII sec. la chiesa fu distrutta da un terremoto e il monastero abbandonato.

Nell’ambito delle esplorazioni archeologiche fu sottoposta a ricognizione anche una roccia sovrastante con una costruzione bizantina. Fu scoperta una cappella dove avvenne l’esorcismo. Ad essa si accedeva con pochi gradini e un muro imbiancato la chiudeva; su di esso erano incise croci e germogli, simboli del Messia. Le croci erano effigiate anche sul pavimento e ciò prova che la cappella fu costruita prima della proibizione di una simile decorazione – onde evitare il calpestio sacrilego – da parte di Teodosio II nel 427. Non è chiaro se fu da qui che i porci, in cui i demoni ebbero il permesso di rifugiarsi, si precipitarono nelle acque o piuttosto da el-Kafze, una roccia ad un chilometro di distanza dalla cappella. Il sito fu visitato già da Origene nel II sec. (143)

Era invece collocato in Galilea, e piuttosto lontano dal Lago di Gennesareth, quel villaggio di Nain, che Luca afferma essere cinto da mura (e che, proprio per questo, secondo Pixner l’evangelista non aveva mai visto 144), in cui Gesù risuscitò il figlio unico di una povera vedova (145). Indipendentemente dal fatto che fosse o meno cinto da mura, il villaggio è realmente esistito. E’ l’attuale Nejim, cittadina musulmana, a SE di Nazareth e a SO di Cafarnao. Gesù vi arrivò da Arbela, andando verso il Tabor e poi puntando verso il Monte More, ai cui piedi Nain si estendeva. Eusebio di Cesarea, che pure la chiama polis, attesta la permanenza del ricordo del miracolo nel IV sec. Una testimonianza anonima del V-VI sec. (145), raccolta da Pietro Diacono nel XII sec. (146), attesta l’esistenza di una chiesa sulla Casa della Vedova e la conoscenza esatta del luogo dove il fanciullo doveva essere sepolto. Il cimitero era ad ovest, alle pendici del Monte More, dove si vedono diverse tombe scavate nella roccia. Un sarcofago romano in pietra è conservato contro la facciata della Chiesa edificata nel 1881, essendo la precedente scomparsa nel XVI sec. (148)

Gesù si recò cinque volte a Gerusalemme durante il suo ministero pubblico. In essa svolse un’attività importantissima, legata soprattutto al Tempio, il cui sito è ampiamente noto, ma che non mancò di altri scenari, come la Piscina di Siloe, ancora esistente, in cui si bagnò il Cieco Nato (149). All’epoca di Gesù era cinta di colonnati. Collegata alla Fonte di Ghicon da un tunnel, è raggiungibile anche dalla Valle del Cedron. Tornando ai cinque viaggi a Gerusalemme di Gesù, il primo fu in occasione della Pasqua, dopo la chiamata dei primi discepoli e il miracolo di Cana; il viaggio probabilmente avvenne attraverso la pista centrale lungo la catena montuosa. Il ritorno dovette invece avvenire attraversando il centro della Samaria, con l’ampia e torrida vallata – in primavera – a nord della Salita di Lebona; poco più innanzi vi era il Monte Garizim (150), oltre i cui picchi rocciosi vi era Sicar presso Sichem. Qui si fermò, all’incrocio di due importanti strade, presso il Pozzo di Giacobbe e tenne il famoso colloquio con la Samaritana (151). Sul Pozzo nel IV sec. – a coronamento di una memoria ancor più antica - fu edificata una basilica bizantina, sulle cui rovine i Crociati eressero una Basilica a tre navate, nella cui cripta – ancora esistente mentre la Basilica è distrutta – è appunto custodito il Pozzo stesso, profondo trenta metri, da cui è ancora possibile attingere acqua. Da qui Gesù tornò poi in Galilea.

Subito dopo risalì a Gerusalemme, forse per la Pentecoste (152). Vi fece un ulteriore viaggio privato, per la Festa autunnale delle Capanne, approfittando per predicare in città, a Gerico, oltre il Giordano e a nord del Mar Morto (153). Forse si trattenne in zona fino alla Festa della Dedicazione in dicembre, oppure – rientrato in Galilea – tornò a Gerusalemme per quest’altra solennità. Qui, come accennato, subì un tentativo di linciaggio e dovette rientrare in Galilea. In questo contesto si colloca la predicazione oltre il Giordano, avvenuta per sfuggire alla persecuzione di Antipa.

Alla Batanea dovrebbe corrispondere, secondo le teorie del p. Pixner (154), la regione denominata “Giudea al di là del Giordano ” (155), che molti identificano invece con la Perea, tanto che vi ambientano il racconto di Lc 9,15-18,34, comprensivo di quel blocco di parabole detta sezione pereana. Secondo lo studioso benedettino la Perea, che non è mai chiamata da nessun autore antico “Giudea al di là del Giordano”, non poteva essere meta di rifugio di Gesù, che in quel periodo sfuggiva alla persecuzione di Antipa (Lc 13,31). Questa identificazione è possibile partendo dal presupposto che tutta l’area settentrionale della Transgiordania fosse denominata comunemente “Giudea al di là del Giordano”, come in effetti sembra suggerire Giuseppe Flavio, dividendo nella Guerra Giudaica in quattro aree la terra degli Ebrei (Galilea, Perea, Samaria e Giudea 156), e lo stesso Luca, quando indica tra i territori del tetrarca Filippo l’Iturea e la Traconitide ma non la Gaulanitide e la Batanea, che corrisponderebbero appunto alla regione in questione (157). La denominazione sarebbe anche un retaggio di Gs 19,34, dove si parla di “Giuda del Giordano dal lato di Levante”, riferendosi plausibilmente ai Villaggi di Iair, posti da quel lato del fiume e in numero di sessanta, che andavano messi in capo a Giuda, essendo Iair un giudeo. In questa Giudea transgiordanica vi erano anche insediamenti di Nazorei, specie a Kocheba, dove Gesù presumibilmente aveva dei parenti e dove quindi potè recarsi più volte, sia prima che durante la vita pubblica. Questa regione sarebbe poi stata assimilata alla Siria, giustificando anche antiche tradizioni che fanno di questo Paese il luogo di rifugio di Gesù ai tempi della persecuzione di Antipa.

L’ultimo viaggio di Gesù a Gerusalemme seguì questo itinerario: riattraversato il Giordano, puntò su Ginae in Samaria, per poi volgersi di nuovo verso oriente a causa dell’ostilità dei Samaritani. Percorse la strada per Scitopoli, seguì a sud quella che costeggia il Giordano, raggiunse i dintorni di Faselide (158) e attraversò le piantagioni di palme da datteri per giungere all’Oasi di Gerico. Voltandosi verso occidente, raggiunse Gerusalemme attraverso il Deserto di Giuda.

Continuò a svolgere il suo ministero nella capitale e ad est di essa, fino al Giordano. A causa però della crescente opposizione dei sacerdoti dopo la Resurrezione di Lazzaro a Bethania, Gesù dovette ritirarsi a Efraim, chiamata anche Ofra, oggi et-Taijibeh, l’Afreema del periodo ellenistico (159). Era questa una cittadina dove presumibilmente era forte l’influsso esseno e dove quindi Gesù era al sicuro, non obbedendo gli esseni al sommo sacerdote sadduceo (160). Egli la lasciò prima della sua ultima Pasqua tornando ad alloggiare a Bethania.

La cittadina sorgeva a seicentottanta metri sul Monte degli Ulivi, più in alto di oggi, circondata da tombe antiche; quella di Lazzaro, scavata nella roccia e risalente al I sec., fu venerata da subito dai giudeo-cristiani ed era nota anche ad Eusebio. Le chiese bizantine vi furono costruite nel IV e nel V sec. (161). Sul pendio orientale del Monte degli Ulivi nel 1951 fu scoperta una grotta, che era stata venerata dai giudeo-cristiani. Si tratta di un bagno rituale che fu frequentato da Gesù. Attraverso alcuni scalini scavati nella roccia calcarea si scendeva in una grotta larga quattro-cinque metri e profonda quattro. La scala era divisa in due da un muro che separava l’entrata e l’uscita dell’antro. Il muro terminava presso uno sperone roccioso che formava come due porte all’ingresso, da cui la stretta scalinata citata conduceva dentro. Sui muri vi erano due superfici intonacate impermeabilmente con iscritti graffiti cristiani, alcuni dei quali riportano preghiere che scongiurano il Signore per la resurrezione di Lazzaro. La grotta aveva un canale di collegamento con una riserva di acqua piovana, a sua volta alimentata da una cisterna tramite un canale ulteriore. Era un bagno rituale, costruito nel I sec. o anche prima secondo i criteri degli Esseni, ad uso degli abitanti di Bethania (162). Ciò conferma l’identificazione della cittadina con i tre siti a ovest di Gerusalemme dove, secondo il Rotolo del Tempio, dovevano alloggiare gli impuri e i lebbrosi della capitale (163). Che Bethania fosse un insediamento esseno dove Gesù avesse molti amici è un dato ormai sicuro (164). Il celibato di Lazzaro, Maria e Marta aveva tra gli esseni la sua logica collocazione, mentre appare evidente perché Gesù, celibe anch’egli, mangiasse a casa di Simone il Lebbroso. Questi era evidentemente confinato nella cittadina come dalla Regola. Anche se tuttavia il soprannome di Simone fosse stato mal conservato nell’ebraico e si dovesse tradurre più correttamente come “il Pio”, il contesto esseno rimane credibile (165). In ogni caso, Gesù frequenta sì gli esseni, ma non ne segue le regole, visto che non isola gli impuri, anzi fa proselitismo tra di essi.

Spostandosi da Bethania a Bethfage, Gesù iniziò il cammino messianico a Gerusalemme in quella che noi chiamiamo la Domenica delle Palme. Bethfage è Kafr et-Tohr (166). La strada percorsa è quella che unisce questo sito alla capitale. La Porta da cui entrò è la Bella o Dorata, inserita tra i bastioni del Tempio prospicienti il Monte degli Ulivi. Identificata da Eudocia, moglie di Teodosio, nel V sec., fu ricostruita sontuosamente con cupole e sale accessibili dalla Spianata del Tempio. Esternamente la cinta muraria è interrotta solo dal grandioso arco chiuso a due fornici. Aperta dai crociati solo una volta all’anno, fu murata nel 1530.

Al Discorso escatologico sul Monte degli Ulivi (167) è legata la Grotta dell’Eleona, dal cui ingresso Gesù parlò (168). I pellegrini antichi la conoscevano (169). La comunità giudeo-cristiana aveva qui il suo cimitero, ritrovato sotto la cappella del Dominus Flevit, a sua volta costruita laddove Gesù pianse sulla città santa (170). Elena nel 326 vi eresse la Basilica dell’Eleona, lunga settanta metri. Sotto il suo abside vi è ancora oggi la Grotta, con tre ingressi, di cui uno originale, in seguito collegata alle tombe ebraiche vicine. Nel 1875, sulle rovine della Basilica, vi fu eretta la Chiesa del Padre Nostro, in conformità alla tradizione, però senza fondamento, che fa pronunziare il Sermone della Montagna sul Monte degli Ulivi. La moderna chiesa ha la caratteristica riproduzione in quasi tutte le lingue del mondo della Orazione domenicale, su altrettante piastrelle.

IL LUOGO DELL’ULTIMA CENA

Attualmente il luogo dell’Ultima Cena e della Pentecoste – ma anche delle Apparizioni del Risorto agli Apostoli il giorno di Pasqua e del pranzo del giorno dell’Ascensione – è oggi l’unico ambiente di Gerusalemme in gotico. E’ il Cenacolo, la cui sala superiore è larga nove metri e lunga quindici. Al pian terreno è venerata la Tomba di David, sia da ebrei che da musulmani. Per questa commistione di culti e storie la vicenda di questo luogo è particolarmente interessante (171).

Per comprendere l’origine del luogo sacro, bisogna contestualizzarlo nella storia archeologica del quartiere in cui si trovava ai tempi di Gesù. Esso era senz’altro un quartiere esseno (172). La sua esistenza è attestata da Filone di Alessandria, da Giuseppe Flavio e dal Documento di Damasco (173). Infatti dal 37 al 4 a.C. gli abitanti di Qumran – distrutta nel 31 a.C. da un terremoto e da un incendio – si trasferirono in Gerusalemme, benevolmente accolti da Erode, il quale sapeva che gli Esseni di quel monastero avevano fieramente osteggiato gli Asmonei. Nel 4 a.C. gli Esseni ritornarono a Qumran ma non smantellarono il Quartiere nella capitale, che il Rotolo della Guerra chiama “Comunità di Gerusalemme” (174). Il ritrovamento più significativo nel processo di riscoperta del Quartiere esseno gerosolimitano è quello della Porta dello stesso, detta appunto degli Esseni. Già da prima dell’Esilio babilonese Ezechia (727-698) aveva eretto un muro attorno al colle a sud-ovest di Gerusalemme, inglobandolo nella città, per accogliervi i profughi del Regno di Israele, dopo la Caduta di Samaria (721). Esso fu ricostruito e in parte modificato ai tempi degli Asmonei (150-37). Erode vi inserì una porta e una condotta d’acqua, necessaria per le particolari abluzioni rituali degli Esseni. Dopo la Seconda Guerra Giudaica (130-135) il muro servì a delimitare il quartiere giudaico-cristiano, ormai fuori da Aelia Capitolina, la colonia romana che Adriano aveva sostituito a Gerusalemme; esso subì degli interventi ai tempi di Eliogabalo (210-222). Nel V sec. poi Eudocia riscostruì il muro allargando la cinta della città, che aveva ripreso il nome antico (175). Nei pressi del quartiere vi erano inoltre un bagno rituale e una latrina, il cosiddetto bethsō, costruiti per soddisfare le specifiche esigenze degli Esseni (176). All’interno del quartiere vi era un insediamento monastico con molti edifici, debitamente recintato. Oltre tale recinto vi era la Casa per gli ospiti, esattamente sotto all’attuale Cenacolo. Le abitazioni d’intorno erano povere, come conveniva a coloro che simpatizzavano con l’austera regola di vita essena (177). La notizia dell’Ultima Cena forse serve ad identificare questo sito anche nel Rotolo di Rame di Qumran (178). Il fatto che Gesù abbia scelto una locanda essena per celebrare la sua Ultima Cena si addice a molti dettagli del racconto dei Vangeli che diversamente rimanevano piuttosto strani (179). Apre però una questione relativa al calendario liturgico seguito da Gesù che è ancora oggetto di dibattito (180). In ogni caso i ritrovamenti archeologici così arcaici confermano l’ambientazione tradizionale dell’Ultima Cena sul Monte Sion, messo a volte in discussione a dispetto di quanto già documentato a livello monumentale e letterario (181).

Su questa Casa degli ospiti venne fondata l’antica “Chiesa degli Apostoli”, che oggi fa appunto parte del complesso del Cenacolo e della Tomba di David, l’uno a piano rialzato e l’altra a piano terra. Quest’ultima identificazione non è più presa in considerazione da nessuno a livello scientifico, ma la sua storia si interseca con quella del Monte Sion, su cui il complesso si trova. Oggi il Monte è identificato con un’altura a sud della zona priva di mura della Città Vecchia di Gerusalemme. Colà vi sono due colline verso sud, separate dalla Valle del Tyropeion. Quella più occidentale è appunto il Sion, dove si credeva ci fosse stata la Città e la Tomba di David. Ma nel 1838 il Robinson scoprì il canale con cui Ezechia aveva predisposto l’approvvigionamento idrico di Gerusalemme in vista dell’assedio assiro: esso era sulla collina orientale. Si scoprì altresì che la città gebusea conquistata da David – ossia la Gerusalemme preisraelita – e che divenne appunto la “Città di David”, era anch’essa ad oriente, su quel colle, perché la Fonte di Gichon, che l’approvvigionava d’acqua, era ai piedi della collina orientale. Lo Shiloh riportò alla luce le fondamenta della “Rocca di Sion”, il palazzo di David a rampe, alto quanto un edificio a cinque piani. Questo è il vero Monte Sion, chiamato Sion I. Quando però Salomone (961-922) edificò il Tempio sul Monte Moria, a nord della Città di David, questo fu chiamato a sua volta Sion, per ragioni di prestigio. E’ il cosiddetto Sion II, che fu considerato tale fino al 70 d.C. Verso quest’epoca già comincia a registrarsi una certa incertezza sulla localizzazione esatta del Monte. Dopo la Distruzione di Gerusalemme agli Ebrei parve impossibile che la “Rocca di Sion” fosse in basso, sulla collina orientale (ossia su Sion I), e si convinsero che era su quello occidentale, ossia su quello che oggi è chiamato Monte Sion e che tecnicamente è Sion III. Ma la Tomba del re David era sul Sion I. Riscoperta solo nel 1913 da R. Weil, assieme agli altri Sepolcri regali di Giuda, la tomba davidica era tuttavia nota a Neemia nel V sec. (182); a Erode che, dopo aver tentato invano di saccheggiarla, per superstizione decise di abbellirla con una stele commemorativa; a Pietro, che cita questa stele nel suo primo discorso pubblico (183). La stele rimase in piedi sino alla Seconda Guerra Giudaica, quando Adriano la distrusse riducendo l’area sepolcrale regia a una cava di pietra per Aelia Capitolina, da cui gli Ebrei erano banditi. Essi, da questo momento, cominciarono a venerare la tomba regia a Betlemme, in quanto anch’essa era la “Città di David”; i cristiani fecero lo stesso, come attestano Eusebio (184), il Pellegrino di Bordeaux (185) e l’Anonimo di Piacenza (186). Anche i musulmani venerarono la tomba davidica a Betlemme sino al XIV sec., ma dal X sec. iniziò la tradizione cristiana della sepoltura del Re su Sion III, per le motivazioni che vedremo tra breve; i Crociati la fecero propria costruendo un gran cenotafio a David e di essa alla fine si convinsero anche Ebrei e musulmani. Per i primi la venerazione di questa tomba divenne un fatto nazionale sin dal 1948, quando ancora lo Stato d’Israele non possedeva la Spianata del Tempio (187).

J. Pinkerfeld scoprì dietro al cenotafio una nicchia di un edificio originario del I sec. Sotto il cenotafio trovò, oltre il pavimento arabo, uno crociato, uno bizantino, graffiti giudeo-cristiani e il pavimento di pietra originale (188). La nicchia e il pavimento fecero capire che l’edificio originale del I sec. era una sinagoga. Pixner ha individuato l’orientamento dell’edificio verso il Santo Sepolcro; questo, assieme ai graffiti giudeo-cristiani, fece capire che la sinagoga apparteneva alla Chiesa ex circumcisione (189). Questa sinagoga giudeo-cristiana era la Chiesa degli Apostoli, sorta sul luogo del Cenacolo attuale, ossia laddove sorgeva la stanza al piano rialzato in cui Gesù aveva celebrato l’Ultima Cena, in cui era apparso dopo la Resurrezione e in cui era sceso lo Spirito Santo sui XII a Pentecoste. La Casa degli Ospiti essena – forse già trasformata in domus ecclesia, perché si diceva che gli Apostoli stessi avessero posto le fondamenta dell’edificio detto “degli Apostoli”, e attorno alla quale dovettero vivere i primi cristiani di Gerusalemme, cui ben si addiceva la povertà delle case del Quartiere esseno, avendo assunto una regola di vita simile a quella che vigeva in esso (190)– era stata distrutta nel 70 dai Romani, ma quando i giudeo-cristiani tornarono sul luogo, nel 73 fondarono la sinagoga (191), per impulso di Simeone bar Cleofa, vescovo di Gerusalemme e fratello dell’Apostolo Giacomo – e quindi cugino di Gesù. Essi si servirono anche di massi erodiani del II Tempio. Questo aumentò nei cristiani la consapevolezza che il Monte da essi abitato era in realtà Sion e contribuì allo spostamento toponomastico di cui dicevamo. Di tale slittamento geografico si persuasero talmente tanto tutti che, durante la Seconda Guerra Giudaica, la monetazione di Bar Kokheba inneggiante alla Redenzione di Israele ignorava il Monte Sion nella sua simbologia, considerandolo ormai perduto perché abitato da eretici che non avevano preso le armi in quanto avevano già il loro Messia (192). Quando poi Adriano distrusse Gerusalemme, la sinagoga degli Apostoli rimase intatta, dimostrando come per i Romani i giudeo-cristiani fossero cosa diversa dai Giudei veri e propri (193) e ai primi forse non fu proibito di risiedere in Aelia Capitolina. Ma in essa il Sion giudeo-cristiano era fuori dalle mura e opposta alla città, ormai pagana (194). Eusebio lo identifica con certezza a sud del Golgotha e a nord dell’Akel damà (195). Il controllo della sinagoga rimase a lungo nelle mani dei giudeo-cristiani, nonostante la loro separazione dalla Grande Chiesa, soprattutto a partire dal I Concilio di Nicea e dalla riforma della data della celebrazione pasquale (196). Fu sotto l’episcopato di Giovanni II (387-419) che le due comunità si riunificarono, grazie alla predicazione di san Porfirio di Gaza. Il segno tangibile fu l’erezione, da parte di Teodosio, di una chiesa ottagonale a modo di vestibolo innanzi alla sinagoga degli Apostoli; nella nuova chiesa fu collocato l’altare dell’espiazione dell’edificio giudeo-cristiano. Ciò avvenne un po’ prima del pellegrinaggio di Eteria, ossia intorno al 383-384 (197). Ben presto però l’edificio ottagonale fu sostituito dalla basilica rettangolare a cinque navate dedicata alla Hagia Sion, adiacente, sul lato nordorientale, alla Chiesa degli Apostoli, trasformata in diaconicon del nuovo edificio sacro. Nella Basilica fu portata e messa al centro la Colonna della Flagellazione (198). Giovanni II traslò nel diaconicon le reliquie di Santo Stefano, trasformando la Chiesa degli Apostoli nel Martyrion del Protomartire. Poi esse furono spostate in una chiesa edificata per esse da Eudocia. Nel diaconicon rimase dunque solo il sepolcro vuoto. La Basilica fu distrutta dai Persiani nel 614 e riedificata; nel X sec. accanto al sepolcro vuoto di Stefano furono eretti i memoriali funebri di David e Salomone, che davano inizio alla tradizione monumentale delle sepolture dei Re su Sion III. Nel 1009 il califfo el-Hakim distrusse la Basilica. Quando i Crociati nel 1099 presero Gerusalemme, sul Sion trovarono solo rovine. Allora essi, convinti che sul Sion fosse avvenuta la Dormitio Virginis, edificarono sulla chiesa bizantina la Basilica di Santa Maria in Monte Sion, a cinque navate. Nell’edificio inglobarono completamente, all’angolo nord-ovest, i resti e la planimetria della sinagoga degli Apostoli. Non a caso l’angolo sud-ovest della Basilica è orientato verso il muro sud dell’edificio giudeo-cristiano. Sui suoi muri superstiti edificarono un locale a due piani, il Cenacolo. Al pian terreno commemorarono la Lavanda dei Piedi di Gesù e, in un vano separato, la Tomba di David – avendo rinvenuto i memoriali del X sec. ed ignorandone il significato simbolico; al primo piano onorarono l’Ultima Cena e, in una cappella rialzata, lo Spirito Santo disceso a Pentecoste. Quando la dominazione crociata cessò, la Basilica passò ai cristiani siriani, ma di lì a poco il Sultano ayyubide di Damasco li scacciò e demolì il luogo sacro. La memoria dell’Ultima Cena e della Pentecoste si spostò nella Chiesa di San Marco, dove ancora è celebrata dai Siriaci. Inoltre, a causa del fantasioso resoconto di viaggio di Beniamino di Tudela, in cui si descriveva il rinvenimento della Tomba di David presso il cenotafio bizantino-crociato, anche tra gli Ebrei invalse l’opinione che il Re fosse stato realmente sepolto in quel luogo (199). Nonostante ciò, i Francescani riuscirono a comprare il terreno tra il 1335 e il 1337; ripararono il tetto della sala al piano superiore del Cenacolo rafforzandolo con arcate gotiche e a sud di esso fondarono un convento il cui superiore assunse il titolo di Custode del Santo Monte Sion; al pian terreno rimasero tuttavia i musulmani che vi veneravano la Tomba di David. Questi nel 1549 scacciarono i Francescani e i due locali divennero moschee orientate verso la Mecca. Solo nel 1948 Israele assunse la gestione dell’edificio, trasformando il piano della Tomba di David in una sinagoga ed aprirono l’accesso del piano rialzato ai cristiani.

I LUOGHI DELLA PASSIONE, MORTE E RESURREZIONE

Il Gethsemani è il luogo sul Monte degli Ulivi in cui Gesù si recò dopo l’ultima Cena, percorrendo la strada a gradini che collegava il colle occidentale all’orientale passando per la Valle del Tyropeon e di cui diremo più avanti. Uscì poi dalle Mura, attraversò la Valle del Cedron e giunse appunto al Gethsemani, il cui nome significa “pressoio per l’olio”. Esso fu frequentato fin dall’antichità (come attestano Eusebio, l’Anonimo di Bordeaux, San Cirillo, Egeria) (200). Oggi alcuni siti, custoditi dai francescani, commemorano l’agonia e l’arresto di Gesù nella notte in cui fu tradito.

Il primo è la Basilica dell’Agonia, detta anche Basilica delle Nazioni, o del Gethsemani, che custodisce la nuda pietra su cui avvenne l’agonia di Gesù. La chiesa, consacrata nel 1924, pur sorgendo su una basilica crociata, ricalca il perimetro della più antica chiesa bizantina, che fu ritrovata durante i lavori per la costruzione del nuovo santuario. Infatti nell’autunno del 1891 furono scoperte le mura di un’abside e qualche frammento di mosaico in tessere grossolane, presso il terreno vicino al giardino degli Ulivi. Gli scavi sistematici iniziarono nel 1909 e furono seguiti da Luc Thonessen (201). Padre Orfali vi individuò la chiesa del XII secolo (202). In seguito, Antonio Barluzzi, architetto della moderna chiesa del Getsemani, scavandone le fondamenta, trovò a circa due metri più in basso del livello della chiesa medievale i resti della chiesa bizantina del Gethsemani, descritta da Egeria e da lei definita «elegante» (203). Gli scavi furono ripresi tra il 1922 e il 1924. La Basilica bizantina fu costruita sotto l’impero di Teodosio. Essa era sensibilmente ruotata verso nord-est rispetto alla chiesa medievale; la scelta dell’inclinazione era determinata dal pendio delle rocce stesse, che scendono dal Monte degli Ulivi. Parimenti, la facciata della chiesa fu rinforzata da muri di sostruzione e una cisterna fu ricavata all’interno dell’atrio, sopraelevato rispetto alla strada antistante. La roccia naturale faceva da base all’abside centrale e si prolungava fino al presbiterio; si alzava di trentacinque centimetri rispetto al pavimento ed era esposta alla venerazione dei fedeli, a testimonianza dell’agonia di Gesù al Getsemani. L’interno era costituito da tre navate divise da due file di sette colonne e terminanti in absidi semicircolari. All’esterno, le absidi laterali erano contenute in un muro rettilineo, mentre la centrale era estradossata. Sul retro della chiesa la roccia naturale fu tagliata con pareti verticali per isolare le absidi. Lungo il perimetro esterno alla chiesa fu scavato un canale per le acque, che nel periodo invernale convogliavano alla base del monte. I canali portavano l’acqua nella cisterna costruita davanti alla facciata, sotto l’atrio. Anche le pareti dovevano essere ricoperte di mosaici, perché si rinvennero diverse tessere di vetro e di pasta smaltata. L’edificio era introdotto da una monumentale scalinata che conduceva all’atrio aperto e circondato da portici. Il pavimento della chiesa era tappezzato di splendidi mosaici, che si sono conservati soprattutto nella navata sud e tra le colonne. Sul pavimento erano evidenti le tracce di un violento incendio, forse quello che distrusse la chiesa nel 614, evidentemente appiccato dai Persiani.

Il culto sul luogo continuò, come testimonia il Lezionario Georgiano (204). La chiesa, però, era probabilmente in rovina. All’inizio del XII secolo le fonti parlano di un semplice oratorio al Getsemani, intitolato al Santo Salvatore.

La ricostruzione crociata della chiesa ebbe inizio nella seconda metà del XII sec. Sul luogo dell’oratorio del Santo Salvatore, nel 1165 sorgeva una nuova chiesa, intitolata allo stesso modo, con le tre rocce distinte che ricordano la triplice preghiera di Gesù nell’orto. Essa andò parzialmente abbattuta dalle armate di Saladino (1174-1193), nel 1187. Mediante un restauro, la Chiesa del Salvatore continuò ad esistere e rimase meta di pellegrinaggio, fino al 1323, quando si cominciò venerare la nuda roccia, oggi visibile dietro la Basilica, chiamata “Roccia degli Apostoli”, laddove i discepoli si addormentarono durante l’agonia di Gesù.

Nella chiesa crociata il presbiterio, su cui si trovava l’altare, era realizzato nello spazio della navata centrale e avanzava fino al centro della chiesa. Grazie a un rilievo naturale, si elevava di sessantatrè centimetri dal pavimento ed era circondato con un muretto perimetrale. Tre gradini nella navata centrale consentivano di accedere direttamente al presbiterio e, in prossimità delle absidi, sui lati nord e sud, erano posizionati altri gradini per l’accesso laterale. Al centro del presbiterio la nuda roccia si elevava di circa dieci centimetri, ed era a vista anche nell’abside settentrionale; in quella meridionale era tagliata irregolarmente e serviva anche da fondazione per le mura dell’abside. Il pregio degli elementi architettonici e decorativi mostrano una ricca committenza. La chiesa fu il centro spirituale della Confraternita di Carità che raccoglieva fondi per l’ospedale di Nostra Signora di Giosafat, legato all’abbazia della Tomba della Vergine.

Il secondo sito è la Grotta, posta alla base del Monte degli Ulivi e vicino alla Tomba di Maria. Al suo interno vi sono le più antiche tracce di venerazione dei pellegrini e gli indizi del primitivo uso agricolo della grotta. Infatti, a seguito di una violenta alluvione del 1955, Vincenzo Corbo scoprì che nel I sec. vi erano diverse grotte naturali, che formavano il paesaggio del Monte degli Ulivi (205). Il primitivo ingresso era posto sulla parete nord, a destra dell’accesso attuale, e l’interno era costituito dalla parte centrale dell’attuale ambiente - unito a sua volta alla zona dove ora è posto l’altare maggiore - e da una seconda grotta che si trova a sud. La volta era sostenuta da quattro pilastri di roccia naturale, di cui oggi ne restano tre. La grotta era dotata di un serbatoio d’acqua, costituita da una cisterna posta nell’angolo di nord-ovest, a destra dell’attuale ingresso, collegata a una vasca più piccola dove, attraverso un sistema di canaline, le acque piovane venivano raccolte e fatte decantare prima di essere conservate nella cisterna stessa. Nella depressione posta a est, dove c’è l’attuale altare, esisteva un pressoio per l’olio. La grotta, a partire probabilmente dal IV secolo, fu trasformata in chiesa rupestre e funeraria. A partire dal V secolo numerose tombe furono realizzate al suo interno. Anche nelle pareti della cisterna furono ricavate tombe ad arcosolio e il pavimento fu strutturato in diversi loculi e ricoperto con un mosaico con un’iscrizione, visibile alla destra dell’attuale ingresso. La necropoli, realizzata tagliando il pavimento musivo in tessere bianche, era composta da quarantadue sepolture, comprese tra l’età bizantina a quella crociata, con qualche caso di riutilizzo successivo.

Tra il IV e il VI sec. nella Grotta si commemoravano il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù. I crociati trasformarono la grotta in cappella e affrescata con un cielo stellato e scene evangeliche. Dopo la distruzione della basilica crociata del Gethsemani, nella Grotta si ricordarono solo le tre preghiere di Gesù mentre, presso le “Rocce degli Apostoli”, sulle rovine della basilica, si fece memoria dell’arresto. Il restauro della volta, in occasione del Giubileo del Duemila, ha ripulito gli intonaci, rendendo possibile osservare i numerosi graffiti lasciati dai pellegrini durante e dopo l’età crociata. L’accesso attuale ha subito delle modifiche ma resta sostanzialmente quello aperto, nel 1655, tra i due muri di contenimento delle terrazze sovrastanti. Oggi nella Grotta si commemorano nuovamente il tradimento e l’arresto.

Il terzo sito è l’Orto degli Ulivi, il giardino del Vangelo di Giovanni, in cui vi sono otto alberi di ulivi tra i più antichi al mondo, a cui ne sono stati aggiunti altri nel secolo scorso. Le piante, di oltre otto secoli, sono tutti figli di un’unica pianta madre, ancora più antica, forse testimone della preghiera di Gesù.

Dopo l’arresto, questi fu portato prima da Anna, già sommo sacerdote dal 6 al 15, ed eminenza grigia del Sinedrio anche dopo la sua deposizione da parte di Roma, in quanto ebbe a successore dapprima il figlio Eleazaro (16-18) e poi il genero Caifa (18-36) (206). La Casa di questi è tradizionalmente individuata nel Quartiere armeno; su di essa fu costruita una chiesa probabilmente dal IV sec.; sulle sue rovine nel XII sec. fu costruita la Chiesa degli Arcangeli (Deir Al Zeitoun), che si coprirono il volto per non vedere gli schiaffi impressi sul viso di Gesù. Presso il monastero delle suore armene vicino alla Chiesa, detto dell’Olivo, si venera l’albero al quale Gesù fu legato durante questa prima fase del suo processo religioso (207).

Dopo Gesù fu condotto presso la Casa di Caifa (208). La sua localizzazione tradizionale è presso la Chiesa di San Pietro in Gallicantu, così chiamata perché nel cortile della Casa del Sommo Sacerdote il Principe degli Apostoli rinnegò Gesù tre volte prima che il gallo cantasse due volte. Presso di essa già nel 1888 vi furono scavi che riportarono alla luce antiche costruzioni (209). X. Marchet (210) ed E. Power (211) identificarono i ruderi con quelli della casa di Caifa. Questa è ancora oggi l’opinione più accreditata, nonostante alcune opposizioni (212). Tra questi resti alcuni sono degni di nota. Vi è una cisterna profonda sei metri e larga quattro, con tre croci bizantine incise sul bordo; originariamente era un bagno rituale e oggi è presentata ai pellegrini come la prigione di Cristo, anche se la cosa non è molto probabile (213). Vi è poi un frammento di architrave di porta su cui è scritto “korban” e una lunga scalinata all’aperto che collegava la Piscina di Siloe al Monte Sion. Questa scala fu quella probabilmente percorsa da Gesù nei suoi spostamenti, liberi e coatti, nella notte tra Giovedì e Venerdì Santi. La Casa di Caifa era in rovina ai tempi del Pellegrino di Bordeaux (214), a quelli di Cirillo di Gerusalemme (348)(215) e del Lezionario Armeno degli inizi del V sec. Le processioni devozionali passavano per il luogo, dove a metà del V sec. (216) Eudocia eresse una chiesa, dedicata a San Pietro, che per il Lezionario Georgiano era sita proprio dove oggi c’è quella di San Pietro in Gallicantu (217). Fino al IX sec. le testimonianze sono concordi nell’ubicare in questo luogo la Casa di Caifa. Ma quando le chiese gerosolimitane legate alla memoria del Pretorio e del processo penale di Gesù furono distrutte dai Persiani e i quartieri limitrofi occupati dagli Arabi, la celebrazione di questi misteri si spostarono accanto alle rovine della Santa Sion, laddove era sorta la Chiesa armena del Redentore. Ben presto alla memoria liturgica si sovrappose quella storica, e il sito fu identificato non solo col Pretorio, ma anche con la Casa di Caifa, in virtù di una erronea variante testuale di Gv 18,28, che ambientava anche il processo religioso di Gesù nel Pretorio stesso. Tale tradizione è ripresa da Epifanio di Gerusalemme nel IX sec. (218) e dai canonici agostiniani che nel XII sec. si prendevano cura delle chiese sul Monte Sion. La convinzione in tal senso è durata sino a tempi recenti. Tuttavia gli scavi presso la Chiesa del Salvatore hanno rinvenuto case le cui decorazioni non si addicono alla dimora di un sommo sacerdote (219). Ad influire sulla mescolanza delle memorie storiche e liturgiche influì senz’altro la collocazione della Casa di Anna nella zona. Epifanio infatti parla di una sola casa, di Anna, Caifa, Pilato e Cesare. Ora, la presenza, sotto la Chiesa del Salvatore, dei resti di un quartiere residenziale e la vicinanza tra la stessa Chiesa e quella degli Arcangeli rende plausibile la collocazione della dimora di Anna in quella zona.

Il processo penale di Gesù avvenne nel Pretorio. L’identificazione di questo è cambiata in tempi recenti e una parola definitiva non può essere ancora pronunziata, per scegliere tra i tre siti possibili sedi del Procuratore romano nei giorni della Passione, ma è sicuro che questi risiedeva o nella Fortezza Antonia o nel Palazzo Superiore di Erode o in quello degli Asmonei. Le fonti antiche menzionano il Pretorio come luogo devozionale a partire dal 333 con l’itinerario di viaggio del Pellegrino di Bordeaux, ma il riferimento è troppo en passant per permettere una collocazione topografica sicura (220). In genere, fino a Cirillo di Gerusalemme – che lo cita due volte, di cui una nel 348 (221) - e alla Peregrinatio Etheriae del 383 (222) – in cui né la Casa di Caifa né il Pretorio sono citati come tappe processionali del Venerdì Santo- le antiche fonti non danno indicazione alcuna sul luogo in cui avvenne il processo romano di Gesù, per cui non ci aiutano a scegliere tra i tre castelli erodiani quello più atto ad ambientarlo. Analogamente, il breve processo di Gesù innanzi ad Erode Antipa si svolse anch’esso in uno di questi luoghi, ovviamente diverso da quello che scegliamo per la collocazione del Pretorio. Perciò due di questi siti sono senz’altro legati alla Passione di Gesù. Le collocazioni tradizionali sono quella del Pretorio alla Fortezza Antonia e quella di Antipa nel Palazzo Asmoneo. Le più accreditate oggi sono il Pretorio al Palazzo Superiore e Antipa al Palazzo Asmoneo. Significative prove si possono addurre per collocare il Pretorio nel Palazzo Asmoneo e Antipa nel Palazzo Superiore. Le processioni devozionali del Venerdì Santo del IV sec. – le più antiche a noi note – partivano dalla Chiesa dell’Eleona sul Monte degli Ulivi, passavano per la Porta d’Oro sul lato orientale della Spianata del Tempio e giungevano fino al Golgotha. Fiancheggiavano quindi presumibilmente la Torre Antonia. Legati alla collocazione tradizionale sono i luoghi di culto: la Chiesa e il Convento della Flagellazione, la Chiesa della Condanna e quella dell’Ecce Homo sono sulle rovine dell’Antonia; da essa parte il percorso della Via Crucis. Andiamo però in ordine (223).

L’identificazione tradizionale del Pretorio con la Fortezza Antonia è stata sostenuta con argomentazioni valide dagli studiosi del passato (224). La Fortezza Antonia fu costruita da Ircano I (134-104) a nord del Tempio, sulla viva roccia, come castello, chiamato antonomasticamente Baris. Fu Erode a cambiarla in fortezza e a dedicarla al suo protettore Marco Antonio, evidentemente prima della sconfitta di questi ad Azio nel 31 a.C. Giuseppe Flavio attesta che Erode non abitò nell’Antonia tra il 37 e il 23 a.C. (225), ma essa era una delle tre residenze regie in Gerusalemme, assieme al Palazzo Superiore e al Palazzo degli Asmonei. L’identificazione dell’Antonia col Pretorio si deve ai Crociati, i quali trovarono nelle opere di Giuseppe Flavio le ragioni di questa scoperta; secondo gli eruditi di quel periodo, infatti, lo storico ebreo descriveva la Fortezza come l’unico luogo atto ad identificarsi con il Pretorio evangelico (226). I Crociati rigettarono così il Pretorio fittizio della Chiesa del Salvatore degli Armeni e tracciarono le tappe di quella che sarebbe diventata la Via Crucis (227). Una loro descrizione si deve a Ricoldo da Montecroce nel 1294 (228). Questi individuò i luoghi degli incontri di Gesù con la Madre, con la Veronica, con il Cireneo e con le Pie Donne; sorsero così diverse Chiese, come quella di Nostra Signora dello Spasmo (229) o di Santa Veronica (230). E’ giusto dire che in tempi più recenti altri hanno letto Flavio in modo diametralmente opposto da quello dei Crociati, così come hanno giudicato la narrazione evangelica, con i suoi movimenti di folla, incompatibile con il sito dell’Antonia. Indipendentemente da ciò, il fondamento archeologico più significativo dell’identificazione del Pretorio con la Fortezza, ossia il rinvenimento nel perimetro del fortilizio del Litostroto, com’è noto è stato oggetto di dibattito, in quanto quel pavimento, dapprima datato al I sec., è stato poi attribuito all’epoca di Adriano. Tuttavia a distanza di alcuni anni dall'ultima campagna di scavi eseguita, sotto l’attuale piano calpestato della Città vecchia sono stati portati a termine esami stratigrafici comparati sui vari livelli occupazionali e si è riusciti ad appurare che l’antica pavimentazione conservata all’interno del Convento delle Suore di Sion risale in realtà per ampie parti all’epoca di Gesù. Tale dato è ricavato dalla comparazione del livello della pavimentazione con quelli dei camminamenti e delle strutture varie attigui al Tempio, databili con sicurezza al periodo erodiano; è poi certo che Adriano, nel ricostruire Gerusalemme, seguì la prassi di recuperare e riattivare strutture preesistenti, migliorandone e conservandone le parti integre. La pavimentazione conservata si trovava comunque all’esterno della Fortezza Antonia. Alcuni dei segni incisi sul lastricato - una corona a raggiera con la lettera B, iniziale della parola greca Basileus - sembra siano stati usati per il “Gioco del Re”. Esso consisteva nell'estrarre a sorte fra i condannati per delitti comuni, un re carnevalesco al quale si doveva l'ubbidienza per tutti i giorni della festa, al termine della quale veniva eseguita la sentenza di morte (231). Il lastricato si trova vicino ad una piscina, descritta anche nei Vangeli, riserva idrica per tutta la città, costruita in epoca asmonea e riportata alla luce dagli scavi. Su alcune pietre sono visibili i segni dei militari (uno scorpione, simbolo della X Legione Fretense, attiva sotto Ponzio Pilato). Gli accertamenti degli studiosi faticano a proseguire, perché la parte inferiore della Fortezza Antonia con parte del suolo originale è sotto un’importante scuola musulmana, che di fatto ne impedisce l’ispezione sistematica (232). Anche l’Arco dell’Ecce Homo, datato al periodo adrianeo, potrebbe dunque essere il rifacimento di un arco identico nel medesimo luogo del I sec.

La seconda collocazione del Pretorio è quella del Palazzo Asmoneo, sostenuta soprattutto da Bargil Pixner, ma anche da altri studiosi (233). Esso era stato la Reggia degli Asmonei. Conquistato da Erode a Ircano II nel 40 a.C. e poi definitivamente ad Antigono nel 37 a.C., fu la sua sede esclusiva fino al 23 a.C., secondo la testimonianza di Giuseppe Flavio il quale, affermando che il re così trascurò la Fortezza Antonia, attesta peraltro indirettamente che anche questa era una residenza del sovrano (234). L’ipotesi di lavoro in questo caso è che Pilato risiedesse nel Palazzo Superiore di Erode e andasse a quello Asmoneo per le funzioni pubbliche. E’ peraltro certo che quando un governatore romano aveva con sé la moglie, vi fossero due residenze o pretorii (235). Cosa che appunto riguardò anche Pilato, accompagnato dalla consorte. Ma quegli poteva benissimo risiedere al Palazzo Asmoneo o alla Fortezza Antonia e svolgere le sue funzioni nell’altro palazzo. Di certo Erode Antipa, che nel 30 passò la Pasqua a Gerusalemme, fu ospite di Pilato in uno dei due palazzi che erano stati del padre, ossia o a quello Superiore – come inclina a credere Pixner – o a quello Asmoneo – come crede la maggioranza degli studiosi odierni. Tornando al nostro discorso, la collocazione del Pretorio nel Palazzo Asmoneo è plausibile perché in esso vi era un trono del giudizio che invece il Palazzo Superiore non aveva (236). Il Palazzo Asmoneo era collocato all’estremità della città alta (237). Questa collocazione coincide con quella del Pretorio che si evince da diverse fonti di età tardoromana e bizantina. Tra il 417 e il 439 i Lezionari armeni dei Codici Gerusalemme 121 e Parigi 44 citano espressamente tra le tappe della processione del Venerdì Santo la Casa di Caifa e il Pretorio, dati in rovina, ma non in modo tale da permetterne una identificazione (238). Invece il Lezionario Georgiano della metà del V sec. identifica la Casa di Caifa con la Chiesa di San Pietro in Gallicantu e il Pretorio di Pilato con quella di Santa Sofia (239). Questa chiesa fu costruita dall’imperatrice Eudochia nel 450 ca. L’intitolazione alla Sapienza Divina ricordava l’umiliazione a cui Essa si era sottoposta incarnandosi per morire (240); l’identificazione del Pretorio su cui era stata costruita col Palazzo Asmoneo si potrebbe evincere da diverse fonti: Pietro l’Ibero nel 450 (241), il Breviarius de Hierosolyma (510) – che la colloca vicino alla Cisterna di Geremia, tutt’ora nei pressi delle rovine palatine (242) - e Teodosio nel 530 (243). Giustiniano edificò la summenzionata chiesa di Santa Maria Nea proprio nei pressi di Santa Sofia nel 543 (244) e costruì in zona molti ostelli e ospedali per pellegrini. Le due chiese sono da questo momento citate sempre in coppia, anche in quell’Itinerarium Anonymi Placentini che, passando nei pressi di Santa Sofia, vide i resti dell’acquedotto romano che sfociava nella Piscina di Siloe, costruito da Pilato e che, secondo Giuseppe Flavio, costeggiava il Palazzo Asmoneo (245). Sia Santa Sofia che la Nea furono distrutte dai Persiani nel 614. I resti della prima furono identificati parzialmente nel 1914 da L.H.Vincent (246), il quale rinvenne, oltre ai miseri resti dei cristiani martirizzati nell’incendio sacrilego, anche vestigia più antiche, del periodo erodiano, soggiacenti a quelle bizantine. Fu sul sito di Santa Maria Nea che i Cavalieri Teutonici costruirono nel XII sec. la loro Santa Maria di Gerusalemme, distruggendo ogni fondamenta precedente e rendendo difficile l’indagine archeologica, supplita, per l’identificazione, dalle coordinate indicate dalle fonti e dalla scelta dell’intitolatura del nuovo edificio di culto. Fu N. Avgad a scoprire nella zona la cosiddetta “Dimora Erodiana” o “Palatina”, la più splendida costruzione del periodo dell’Idumeo in Gerusalemme (247). A cento metri a ovest di Santa Maria di Gerusalemme fu poi scoperta una strada erodiana verso sud-est, entro l’asse dell’Arco di Robinson. Pixner e altri con lui identificano la Dimora Erodiana con una parte del Palazzo Asmoneo (248). L’ipotesi che vuole il Pretorio in questo sito si basa dunque sulla identificazione devozionale dal V sec. e suppone un progressivo slittamento dell’ubicazione a seguito dell’invasione araba. Essendo i Saraceni interessati a costruire nell’area del Tempio, le due chiese di Santa Sofia e Santa Maria Nea non furono più ricostruite e anzi i loro materiali diruti vennero riciclati. Quand’anche le chiese fossero state ricostruite, tra il 746 e l’859 una serie di terremoti di sicuro le spianò definitivamente al suolo. I cristiani persero dunque l’uso materiale dei luoghi e si arrangiarono spostando la memoria liturgica, che poi divenne storica, sul Monte Sion, nella Cappella dei SS. Ciro e Giovanni, caratterizzata da un pavimento di pietra che poteva fungere da Litostroto. Questa è la Casa di Caifa, Anna, Pilato e Cesare di cui già dicemmo parlando del Quartiere Armeno. Sarebbero stati i Crociati a rimettere un po’ d’ordine, scindendo almeno il sito di Caifa da quello del Pretorio e identificando questo con la Torre Antonia.

L’ultima collocazione possibile, attualmente la più accreditata, del Pretorio è quella nel Palazzo Superiore di Erode, edificato dal Re intorno al 23 a.C., quando si sentì più sicuro politicamente. Il palazzo sorgeva presso la Porta di Giaffa e permetteva di sovrastare l’intera città. Formato da più edifici, dei quali il Cesareum e l’Agrippeum erano i maggiori, era fortificato da tre torri possenti inserite nel Primo Muro e intitolate ad Ippico, Fasael e Mariamne. Qui visse il Re con la sua corte (249). Le ragioni dell’identificazione sono essenzialmente tre, più che altro polemiche con quella alternativa con la Torre Antonia, vigente quando esse furono addotte: la mancanza, all’epoca, di riscontri archeologici certi per la collocazione antoniana; la nascita tardiva della tradizione su di essa, ossia nel XII sec.; la testimonianza delle fonti storiche e di Giuseppe Flavio, per cui l’Antonia non sarebbe stata mai adoperata come Pretorio dai Romani, i quali per tale scopo avevano bisogno di un palazzo vero, come quello descritto in Mt 27,27, Mc 15,16, Gv 18, 28.33, 19,9. Marco chiama il luogo sia “palazzo” che “pretorio”. Il luogo sembra inoltre, come dicevamo, adattarsi meglio dell’altro agli spostamenti della folla descritti dai Vangeli. La sua principale debolezza è l’assoluta mancanza di riscontri nella tradizione della Chiesa gerosolimitana antica. Il corifeo di questa ipotesi è stato P. Benoit (250).

Personalmente faccio alcune considerazioni su queste identificazioni. La prima è che due almeno di questi palazzi dovettero essere teatro della Passione di Cristo, l’uno come residenza di Pilato e l’altro come residenza di Erode, a meno che non supponiamo che il Procuratore e il Tetrarca non alloggiassero nella stessa dimora. E’ però certo che vi fossero due pretorii, essendo Pilato accompagnato dalla moglie. E’ un altro dato obiettivo che la memoria devozionale è legata a due di questi luoghi, anche se apparentemente in modo alternativo. A proposito di queste identificazioni, è altrettanto evidente che le fonti scritte sono suscettibili di diverse letture in ordine sia alle residenze di Pilato che ai movimenti della folla durante la fase finale del Processo di Gesù. Inoltre, nonostante abbiamo due memorie devozionali alternative dei luoghi del Processo Romano, non abbiamo alcun sito in cui si identifica quello Erodiano di Gesù, per cui dobbiamo dedurre che o una delle due memorie si è alterata e perduta, o che entrambe le istruttorie siano state tenute in un medesimo edificio. Di certo la venerazione di quei luoghi potè iniziare solo dopo la cristianizzazione dell’Impero Romano, essendo tutti i siti in questione parte integrante di Elia Capitolina e inaccessibili ai cristiani per secoli. Quando i riti processionali iniziarono, essi lambirono le vestigia dell’Antonia. Se poi consideriamo la ricostruzione di Gerusalemme proposta da molti studiosi, dobbiamo considerare l’ipotesi di una Antonia di molto più grande e con una planimetria differente, assai più confacente ai fatti descritti nei Vangeli (251). Di certo i resti della Fortezza che venivano datati al II sec. sono in realtà dell’età di Gesù e si addicono ad una collocazione plausibile del suo processo. In ragione di ciò io penso che Gesù sia stato processato davanti a Ponzio Pilato nella Fortezza Antonia; di qui rimandato ad Antipa presso il Palazzo Asmoneo; indi riportato all’Antonia e ivi rigettato dalla folla, flagellato, coronato di spine, torturato, condannato e mandato a morire. La memoria del luogo si conservò fino al IV sec., come sembrano suggerire le processioni del Venerdì Santo, ma nel V per ragioni a noi non ben chiare la devozione tese a spostarsi verso il Palazzo Asmoneo, forse sovrapponendosi alla memoria del processo ad Antipa, del quale si perse ogni traccia, essendo peraltro l’istruttoria romana di maggiore importanza. Nelle modalità descritte poi la devozione si spostò nel Quartiere Armeno per poi tornare a incentrarsi all’Antonia. E’ una teoria olistica – che potrebbe postulare che la residenza della moglie di Pilato fosse il Palazzo Superiore – non una certezza.

In tal senso è un supporto significativo che l’unico percorso ricostruibile della Via Crucis oggi parte dalla Fortezza Antonia (252). Il percorso più antico della processione devozionale, come dicevamo, è attestato dal IV sec. Definirlo Via Crucis è improprio, mancando le stazioni classiche ed essendo legato a tutto il ciclo della Passione. Ma, come pure dicemmo, è sintomatico che, partendo dal Gethsemani, attraversasse la Porta d’Oro sul lato orientale del Tempio e giungesse al Golgotha costeggiando il sito dell’Antonia. Fu nel V sec. che la processione, sempre come accennammo, andò dal Gethsemani alla Casa di Caifa, per poi passare presso la Chiesa della Santa Sofia, originariamente e significativamente detta di Pilato, raggiungendo infine il Golgotha. Nel VII sec. il sacro itinerario partiva dalla Chiesa Armena del Salvatore e puntava dritta al Golgotha. In tal senso, la nuova processione crociata, a partire dal XII sec., fu un ritorno all’antico.

Il punto di arrivo è sempre il Golgotha con il Santo Sepolcro. Navigad (253) individuò la Porta varcata da Gesù per raggiungere il luogo del suo supplizio, quella detta del Giardino. Essa sorgeva laddove il Secondo Muro si staccava dal Primo (254) e introduceva in uno spazio tra di essi, all’angolo, dove si trovava una cava di pietra che proteggeva proprio il Secondo Muro da ovest. Qui Erode il Grande fece piantare un giardino, ma gli operai lasciarono intatto un blocco di pietra troppo friabile, non livellabile, che era appunto il Golgotha, sul quale si accumularono diversi detriti, fino a trasformarla in una collina a forma di cranio, a cui deve il suo nome ebraico e latino (Calvario). A nord del Calvario c’era un giardino privato con alcune tombe aristocratiche scavate nella roccia, tra le quali quella di Giuseppe di Arimatea divenne il sepolcro occasionale di Cristo (255). Esso era scavato nella roccia viva. Composto di un vestibolo e di una camera sepolcrale con una lunga mensola nella nicchia funeraria, il sepolcro era chiuso da un masso di forma circolare, rotolabile lungo una sorta di binario. Le tombe circostanti attestano la veridicità della collocazione: un sepolcreto con tombe ebraiche e sarcofagi; una tomba oggi sotto il monastero copto; una zona sepolcrale sotto la cappella siriaca, oggi tagliata a metà dalla Basilica costantiniana. Tali tombe esistevano prima del 42, quando Erode Agrippa I (37-44), inglobandole in città col Terzo Muro, di fatto impedì la nascita di nuovi sepolcri. Al tempo di Gesù dunque il Golgotha era fuori della città. Per un certo periodo tra gli studiosi si era diffusa la teoria che ciò non era possibile, per cui Charles Gordon aveva identificato il Santo Sepolcro sul sito della collina di es-Sahra, con la cosiddetta “Tomba del Giardino”, che però oggi non è presa più in considerazione da nessuno (256). L’area è stata scavata ampiamente (257). Gli scavi di Mallios e Katsimbinis nel 1958 e nel 1973-77, eseguiti da Florentino Diéz hanno messo in luce nella parte est la roccia per l’altezza di dodici metri e cinquanta, in parte tagliata e in parte scalpellata per ricevere un muro di rivestimento quasi esagonale. A sette metri e venti dal basso è stata trovata una grotta naturale di due metri di altezza e altrettanti di larghezza, rivestite di pietre appena squadrate. A due metri dal muro di rivestimento si erge un altro muro parallelo; tra di essi, a cinque metri di altezza dal fondo e a circa due metri sotto il livello della grotta, si trova un forno (258). E’ l’ambiente detto dai testi “post crucem” e la famosa Grotta dei Tesori, nella roccia spaccata del Golgotha e legata al ciclo di Adamo col sepolcro del nostro capostipite e l’ambientazione della descensio ad inferos del Cristo, trovandosi colà l’ingresso dello sheol. Si trovavano tra i Tesori la Sacra Lancia che squarciò il Cuore di Cristo, la spugna che lo dissetò, l’immagine dell’Addolorata. Ciò è ricordato nella Passione di Luciano di Antiochia (259). L’ambiente fu legato anche al Triduo Pasquale, con il pianto della Nuova Eva in attesa della Resurrezione, come attesta la Dormitio Mariae della corrente gerosolimitana. Il forno funse da acerra in cui venivano accesi legni odorosi durante i riti funebri. Lo scavo ci ha restituito anche i muri di fondamento del Tempio di Venere per ricordare il pianto della dea per risuscitare Adone. Infatti Adriano profanò il Calvario e il Santo Sepolcro, livellando la cava di pietra originaria di dieci-dodici metri, per costruirvi sopra il Foro che portava il suo nome in Aelia Capitolina; in esso il Tempio di Venere fu eretto proprio sul Sepolcro di Cristo, e sovrastava la Piazza del Mercato. Una statua di marmo della dea si ergeva sulla roccia del Golgotha. Di tale tempio parlano Eusebio (260) e Sozomeno (261); esso fu riprodotto anche sulle monete di Aelia (262). Nei pressi di questi luoghi tuttavia i Giudeo-cristiani mantennero viva la tradizione cultuale legata alla Morte, Sepoltura e alla Resurrezione di Gesù.

Dopo il 325 il vescovo di Gerusalemme Modesto chiese di liberare il sacro luogo dalle costruzioni sacrileghe (263) e Costantino riportò alla luce la Grotta della Tomba. Le antiche tradizioni giudeo-cristiane con le loro reliquie furono conservate nelle nuove costruzioni imperiali. Eucherio contemplò la roccia viva, della cui collocazione oggi diremo appresso. L’Anonimo del Breviarius de Hierosolyma vi venerò la Lancia. L’Anonimo di Piacenza ossequiò l’immagine di Maria Santissima che impetrò a Santa Maria Egiziaca la conversione. Arculfo trovò una cappella mariana legata alla Pietà e alla Mater Dolorosa. La prima chiesa fu eretta da Costantino attorno al Santo Sepolcro nel 366; aveva la forma di un mausoleo circolare chiamato Anastasis, che appunto significa “Resurrezione” in greco. La Rotonda sopra il Sepolcro, detta Grande Abside, è fronteggiata da due transetti a nord e a sud. Lungo il transetto sud sorgono le colonne del restauro fatto da Costantino IX Monomaco. Al lato orientale, di fronte all’Anastasis, vi è lo stilobate della galleria orientale. Di fronte alle colonne, ad angolo con lo stilobate, vi è quanto resta del Calvario. Costantino I aveva fatto asportare la roccia viva dal Sepolcro, che invece oggi è completamente nascosto da una sovrastruttura russo-ortodossa del XIX sec., sovraccarica di ornamenti. Attraverso l’atrio, denominato Cappella dell’Angelo, si accede alla Camera sepolcrale, un vano quadrato di circa due metri di lato. La panca di pietra su cui fu posto il corpo di Cristo è coperta da una lastra marmorea. Al soffitto sono appese quarantatrè preziose lampade, suddivise tra le varie Chiese in proporzione alla quota che esse posseggono dell’edificio. Dietro gli archi occidentali della Rotonda si vedono i sepolcri rupestri di cui abbiamo fatto menzione sopra. All’interno, due erte scale di quindici gradini portano sul colle del Golgotha, che Costantino squadrò in un solo blocco di roccia di cinque metri di altezza e sei di larghezza. La superficie fu rivestita di mosaici e divisa in due cappelle da colonne. Nell’area attualmente di proprietà dei Francescani, a destra, si trovano la X e l’XI stazione della Via Crucis, ossia la spoliazione e la Crocifissione; nella cappella di sinistra si commemora la XII, ossia la Morte di Gesù. Ai piedi del Calvario vi è la Pietra dell’Unzione, che commemora la XIII stazione, ossia la Deposizione. Sotto gli altari del Calvario è scavata appunto la Grotta della Cappella di Adamo. Qui è visibile la roccia spaccata durante il terremoto che accompagnò la morte di Gesù e di cui ho fatto cenno. Nel muro est della Cappella adamitica c’era la Grotta dei Giudeo-Cristiani. In epoca bizantina, alla Rotonda del Sepolcro era annesso un cortile nel quale era visibile, all’aperto, il Calvario. La Basilica a cinque navate fu edificata in seguito. Sul lato orientale era preceduta da un atrio accessibile dall’antico foro attraverso tre porte, alcune parti delle quali si conservano ancora nel Monastero russo del Muristan, già ospizio dei pellegrini. Oltre l’abside protobizantino vi era la cripta della Basilica costantiniana, che poggiava sulla cisterna nella quale Elena madre dell’Imperatore ritrovò la Croce. Il complesso costantiniano sopravvisse a quasi tutte le distruzioni, fino a quella fatale inflittagli da El-Hakim nel 1009. Da allora, la Basilica non è più tornata alla grandezza e alla compiutezza d’origine. La pianta odierna è quella crociata, corrispondente alla chiesa eretta e consacrata nel 1149; essa collegò la Rotonda a una chiesa romanica che includeva anche il Calvario. Il centro di questo edificio è oggi occupato dal coro greco-ortodosso, il katholikòn. Un deambulatorio con diverse cappelle chiude la chiesa sul lato orientale, da cui, tramite una rampa di scale, si raggiunge la Chiesa di Sant’Elena (l’antica cripta costantiniana), posta a un livello inferiore assieme alla Cappella dell’Invenzione della Croce, a sua volta nella viva roccia. Presso questa Cappella vi è un muro con un famoso graffito raffigurante una nave. Attorno vi sono le fondamenta del martyrion bizantino. Accanto sono stati fatti gli scavi armeni. Sopra di essa e adiacente alla Basilica si ergeva, in epoca crociata, il convento dei Canonici del Santo Sepolcro. Sul tetto vicino alla piccola cupola della Chiesa di Sant’Elena si vedono pochi resti di archi di quell’epoca e si erge un convento etiopico con piccole celle. Dall’epoca dei rifacimenti crociati l’ingresso principale si trova sul lato meridionale, raggiungibile mediante un atrio delimitato da antiche cappelle. La Facciata è romanica, la più compiuta forma di architettura romanica in Basilica. I doppi archi del portale – dei quali uno fu chiuso ai tempi del Saladino – ricordano la Porta Bella del Tempio. Questi sono i luoghi storici in cui Cristo morì, fu sepolto e risorse dalla morte.

I LUOGHI DELL’ESKATON DI CRISTO E DI MARIA

Il luogo dell’Ascensione di Gesù è segnato, sul Monte degli Ulivi, dall’edificio conosciuto come Cappella dell’Ascensione. I Cristiani dei primi secoli dovettero commemorare l’Ascensione in una piccola Grotta sacra del Monte, per ragioni di sicurezza. Dopo l’Editto di Milano Sant’Elena identificò, durante il suo soggiorno in Palestina tra il 326 e il 328, il luogo dell’Ascensione, e ordinò di costruirvi un santuario. Esso era a cielo aperto, per ovvi motivi simbolici, a forma di rotonda, circondato da portici circolari e archi; era detto Imbomon, ossia “Sulla collina” in greco. Al centro di esso si conservava una pietra su cui la pietà popolare individuava l’impronta miracolosamente impressa del Piede di Cristo; tale reliquia è ancora oggi al centro dell’edificio di culto. La costruzione fu nota a Egeria nel 384 Secondo quanto ci riferisce costei, la comunità di Gerusalemme si riuniva all’Imbomon la Domenica delle Palme, il Giovedì santo, ogni pomeriggio dell’Ottava di Pasqua e la domenica di Pentecoste; in questo giorno, prima si pregava all’Imbomon e poi si passava all’Eleona. Entro il 390 Poimenia, pia esponente della famiglia di Teodosio, dovette ampliare l’originale impianto costantiniano (264).

Il luogo era strettamente legato a quello dell’Eleona, dal quale è poco distante. Eusebio di Cesarea, per esempio, afferma che nello stesso luogo Gesù rivelò ai suoi discepoli i misteri e ascese al cielo. Il pellegrino di Bordeaux parla di due luoghi, uno dove c'è una basilica e un altro, detto monticulus, dove Gesù fu trasfigurato. Forse il pellegrino si è sbagliato oppure ha riferito una tradizione della Chiesa di Gerusalemme che in quel luogo faceva memoria della Trasfigurazione. I documenti dell'antichità parlano di un luogo aperto, la cui terra custodiva le impronte del Signore. Questa terra, secondo Paolino di Nola e Sulpicio Severo, rigettava la copertura in pietra.

Nel 614 i Persiani rasero al suolo la Basilica bizantina. Ricostruita nel VII sec. nelle forme costantiniane, fu descritta da Arculfo nel 680 come un luogo a cielo aperto, una costruzione rotonda con tre porticati all’ingresso a sud e otto lampade che scintillavano nella notte dalle finestre verso Gerusalemme; il pellegrino al centro del Santuario contemplò distintamente l’impronta del Piede di Cristo sulla pietra. Questi confermò nel suo racconto le notize di Paolino e Sulpicio. Asserì poi che i custodi davano a tutti i pellegrini un po' di terra senza che le impronte sparissero. Nel IX sec. il Santuario era servito da tre chierici. Forse fu poi nuovamente distrutto, per poi essere ricostruita dai Crociati nel 1150 ca., che l’ampliarono e fortificarono. Il Saladino trasformò in moschea quella parte dell’edificio che non aveva distrutto (1178), ossia l’odierna Cappella o Edicola di tre metri per tre a forma ottagonale, cinta dai resti del muro basilicale di dodici per dodici metri, anch’esso ottagonale; ma di fatto i pellegrini cristiani furono sempre più numerosi e il luogo non venne mai usato per il culto dai musulmani, che pure onoravano l’Ascensione di Gesù. Nel 1180 il Sultano ordinò la costruzione di una moschea immediatamente adiacente all’entrata della Cappella. Il complesso fu fortificato e nel 1200 la Cappella fu chiusa da una cupola. Cadde poi in rovina per trecento anni circa e nel XV sec. la parte occidentale, ormai diruta, del complesso fu divisa dal resto degli edifici da un muro e occupata da case e stalle. Nel 1620 fu costruita una nuova, piccola moschea ancora esistente. Ad oggi la Cappella appartiene sempre al Waqf islamico di Gerusalemme, ma è aperta a tutti dietro un pagamento di pedaggio meramente simbolico (265). Ancora oggi si vedono i capitelli marmorei finemente lavorati di origine crociata che decorano il fronte esterno e su cui ci sono foglie di acanto realizzate con fantasia e grifoni (animali fantastici metà uccello e metà leone) tipici delle sculture medievali; il tamburo ottagonale fu aggiunto dai musulmani. Quasi addossati alla parete di ovest ci sono due altari e una mensola di pietra. Un altare e la mensola sono di proprietà degli armeni; l'altro altare (a forma di sigma chiuso) è dei greci ortodossi. I latini, invece, celebrano dentro l'edicola e piazzano un altare mobile. Le pareti esterne sono decorate con archi e colonne di marmo. L'ingresso è a ovest e l'interno della cappella è costituito da un mihrab che indica la direzione della Mecca nella parete sud. Al piano, all'interno di una cornice di pietra, vi è la roccia con l’Orma di Cristo (266). Il parco circostante contiene anche una cripta funeraria vicino alla Cappella. Vi si arriva scendendo dalla essa; si giunge così davanti ad un cancello che apre su un corridoio; entrando c'è una stanza di epoca più antica con un sarcofago coperto da un drappo verde. Gli ebrei credono che contenga il corpo della profetessa Culda, vissuta nel VII sec. a.C. (tuttavia una tradizione ebraica pone la sua tomba in città); i cristiani credono che sia la tomba di Santa Pelagia di Antiochia, del V sec., ma un'altra tradizione parla di quella di Maria Egiziaca, che visse quarant'anni del deserto al di là del Giordano dove però morì e fu sepolta (Niccolò da Poggibonsi pone in questo luogo la sua memoria); i musulmani infine sostengono che il mistico sufi Wali, Rabi'a al-Adawiya, dell’VIII sec., sia sepolto in loco (tuttavia la sua tomba è a Bassora, in Iraq).

Nella proprietà francescana a ridosso dell'Ascensione Padre Corbo nel 1959 fece scavi e ritrovò un muro rotondo, simile a quello descritto da Arculfo. Gli scavi dimostrarono che il livello della memoria originale resta otto metri più in basso. Si nota pure una sala crociata con un muro molto spesso e i segni di una mangiatoia. All'interno di una stanza addossata ad un'abitazione araba c'è un'abside. Alcuni interpretano il sito come una cappella; altri come un nartece a forcipe. Al di sotto della stanza c'è una tomba di persone molto ricche. Si notano anche capitelli, rocchi di colonne, segni forse dei portici che circondavano la chiesa (267).

Per quanto concerne i luoghi della Dormitio Mariae, essi sono identificati con l’attuale Chiesa della Tomba della Vergine, che altro non è che la cripta della chiesa del monastero crociato di Santa Maria di Giosafat, ora distrutti. Tale cripta ha un bel portale esterno ed una scalinata larga sei metri, fatta di più di quaranta gradini e coperta da un soffitto a volta; a destra e sinistra della scalinata si aprono due cappelle che contengono le tombe delle Regine del Regno di Gerusalemme e che oggi sono venerate come i sepolcri di San Giuseppe, San Gioacchino e Sant’Anna. Il sepolcro della Vergine propriamente detto è un blocco di pietra, isolato dal banco roccioso, alto da un metro e cinquanta a uno e ottanta; presenta due aperture che servono da passaggio per i pellegrini. La roccia su cui fu deposta la Vergine è protetta da un cristallo, in quanto corrosa dai secoli e dalla pietà dei fedeli che, per devozione, ne asportavano dei brandea, ossia dei piccoli pezzi. Il foro sul soffitto della grotta serve da sfiatatoio per il fumo delle candele e delle lampade ma ha anche il significato simbolico di apertura sul cielo verso il quale fu assunta la Madonna. Gli antichi documenti sono concordi nel descrivere il sepolcro della Vergine come nuovo e sito presso il Gethsemani. Divergono tuttavia nell’individuare il luogo di partenza del corteo funebre. I documenti del II – III sec., di matrice giudeo-cristiana (nazarethana, ebionita ed ebionita cattolica, quella di Leucio che rappresenta la tradizione dei Parenti di Maria nel II sec.), la Vergine si sarebbe addormentata in casa sua, situata nei pressi di Gerusalemme, nella zona della Valle di Giosafat chiamata Magdalia (268); i testi giovanniti (monofisiti nominali che si rifanno all’Apostolo Giovanni in polemica coi fantasiasti e gli ebioniti estremisti) del IV-V sec. fanno invece avvenire il Transito mariano nella casa dei Parenti di Giovanni sul Monte degli Ulivi, dove la Madre di Dio era ospitata (269); infine i documenti bizantini del V sec. e seguenti (rigorosamente calcedonesi e sgombri di ogni influsso giudeo-cristiano e monofisita) ambientano il trapasso della Vergine sul Monte Sion (270).

L’ipotesi per cui la Vergine visse e si addormentò sul Monte Sion ha trovato di recente un sostenitore in Bargil Pixner (271). L’archeologo altoatesino evidenziò che, sotto l’attuale Basilica della Dormizione costruita nel 1898, sono stati rinvenuti le fondamenta di Santa Maria di Sion dei Teutonici, il mosaico dell’atrio della basilica bizantina dell’Hagia Sion, un sito sepolcrale anteriore al 70 in corrispondenza della Casa di Maria dei documenti calcedonesi e, nel 1983, una strada, anch’essa anteriore al 70, tagliata nella roccia che scorreva da nord a sud a venti metri a ovest della Dormitio, lungo la quale sorgevano case assai semplici in pietra grezza tra cui una, sul lato orientale, dotata di un bagno rituale ebraico avente ancora al centro una mezza colonna eretta. Data la presenza dei cristiani sul Monte Sion, Pixner ritiene che la casa in questione sia quella della Vergine, in quanto nelle fonti calcedonesi leggiamo la notizia – senz’altro autentica perché radicata nella tradizione giudaica- che la Madre di Dio prese un bagno purificatore dopo la rivelazione del giorno del suo transito (272).

I restauri della tradizionale tomba della Madonna, avvenuti nel 1972 (273), hanno permesso una ricognizione dell’ambiente, risultato conforme alla descrizione dei testi più antichi (274) e quindi autentico, risalente al I sec. La tomba è una spelonca di pietra e un sepolcro tagliato nella roccia, come descritto dai testimoni oculari citati nelle fonti. Il banco roccioso stava sotto l’arcosolio; la tomba appartiene a un complesso funerario i cui resti si trovano ad un piano superiore, oltre la parete nord della chiesa bizantina attuale: è una camera del I sec. a kokhim, a due metri e quaranta dal livello della chiesa odierna, che doveva essere preceduta da un vasto atrio ad ovest, aperto sul Cedron, con scale di accesso ai lati, di cui si vedono i resti sia a nord che a sud. La descrizione letteraria e i ritrovati archeologici sono conformi ad altri complessi funerari di quella valle e del medesimo periodo, come la Tomba della famiglia di Beni Hazir, detta di Zaccaria o di San Giacomo, e quella monumentale dei Re, detta anche di Elena di Adiabene. Il complesso mariano rimase intatto fino a quando Teodosio isolò la tomba della Theotokos liberandola dalle altre tombe e ponendola al centro della chiesa bizantina fatta a croce. L’edificio, tolto agli ebioniti, fu gestito dai giovanniti che purificarono i testi sulla Dormizione afferenti al ciclo di Leucio e modificarono i riti funerari commemorativi svolgendoli in parte sopra l’Oliveto, precisamente nella zona del Monte detta Galilea. Qui nel 1889 fu trovato un pavimento mosaicato di una cappella di tipo funerario, identificata col santuario dedicato all’Angelo comparso a Maria per annunziarle l’imminente Dormizione e porgerle la palma da portarsi innanzi al suo feretro. Esso è del V sec. Nello stesso sito si è rinvenuta una caratteristica chiesa di stile orientale, fondata nel V sec. anch’essa e durata fino al Medioevo, probabile casa dei Parenti di Giovanni, dove appunto la Madre di Cristo si sarebbe addormentata. I cristiani officiavano in questo luogo per poi scendere al Gethsemani per celebrare la Dormizione. Vi erano dunque tre luoghi di culto: la Basilica sepolcrale, la Chiesa della Dormizione e il Santuario dell’Angelo. Nel 453 la Basilica con le dipendenze passò ai calcedonesi per volontà dell’arcivescovo Giovenale, il quale istituì localmente la solennità dell’Assunzione (275), poi estesa a tutta la Chiesa dall’imperatore Maurizio (582-602), il quale costruì sulla chiesa rupestre teodosiana una seconda basilica di grande bellezza di forma circolare, purtroppo distrutta dai Persiani nel fatidico 614. Sopravvisse la sola cripta sepolcrale su cui i benedettini, negli anni tra il 1112 e il 1130 edificarono sopra la già menzionata chiesa crociata con l’annesso monastero di Santa Maria di Giosafat. I monaci diedero una nuova entrata anche all’antica cripta. La chiesa crociata fu tuttavia distrutta da Saladino dopo il 1187, che risparmiò solo la cripta in onore della «Beatissima Madre del profeta Gesù».

Tirando le somme, a mio avviso, il luogo più probabile della vita della Vergine dopo la Resurrezione di Gesù fu senz’altro Magdalia, perché le fonti più antiche attestano questo luogo. I riscontri archeologici non sono stati mai cercati. Ma non sono indispensabili. Ciò non esclude che la Vergine possa aver vissuto anche in altri luoghi in Gerusalemme, ospite di diversi amici, anche perché l’esistenza di un quartiere cristiano nei pressi di quello esseno in città non significa che i cristiani stessi non potessero essere distribuiti anche altrove, magari in ragione delle origini sociali e della scelta, fatta o meno, di aderire alla forma di vita monastica condotta in comune nei primissimi tempi. La presenza di un bagno rituale in una casa sul Sion non ne fa necessariamente quella della Vergine, ma non si può escludere che Maria avesse una dimora, peraltro assai essenziale, tra i battezzati che avevano scelto di vivere in comunità, a poca distanza dal Cenacolo, e che perciò potesse anche compiervi le abluzioni prescritte. Più solida appare la collocazione della casa dei Parenti di Giovanni sul Monte degli Ulivi. Qui la Madre di Dio potè trascorrere alcuni periodi dell’ultima fase della sua vita e anche avere le visioni descritte nei testi apocrifi prima della sua Dormizione. Il Transito però accadde a Magdalia. Da qui partì il corteo funebre per il sepolcro, sulla cui collocazione non vi è, come abbiamo visto, alcun dubbio. Se ne potrebbe dedurre che la Vergine si muovesse tra più case amiche, cosa del resto normale per una vedova priva del suo unico Figlio ma circondata da un solido clan familiare e da una cerchia stretta di amici, peraltro legati dalla professione di una Fede nata al loro interno.

Non è invece a mio avviso fornito di alcun fondamento il parere di chi ambienta la Dormizione della Vergine a Efeso. Se non si può escludere che, in una prima fase del suo apostolato in Asia Minore, Giovanni abbia portato la Vergine Maria con sé, magari per sottrarla ai pericoli della prima persecuzione del 42 ordinata da Erode Agrippa, e che quindi la Casa a Lei intitolata nella metropoli greca (la Meryem Ana), peraltro risalente al I sec., possa realmente averla ospitata (276)– nonostante il silenzio in merito dei Padri antichi e la negazione esplicita della presenza ad Efeso della Madre di Dio fatta da Epifanio- è assolutamente fuor di dubbio che la Dormizione sia avvenuta a Gerusalemme, presumibilmente nel periodo del Concilio di Gerusalemme (48) e massimo entro il 50 ca. Infatti queste date permettono di contestualizzare la compresenza al Transito mariano di tutti gli Apostoli, come attestano i documenti assunzionisti.


1. Già pubblicato in “Sulle tracce del Gesù storico”, ed. digitale, amazon.com, 2015.

2. Per una disamina generale dei luoghi archeologici mariani citati cfr. E.TESTA, Maria di Nazareth, in Nuovo Dizionario di Mariologia a cura di S.DE FIORES e S.MEO, Cinisello Balsamo 1996, pp.865-891; V.SIBILIO, Su alcuni aspetti della mariologia medievale, 1° ed. on-line sul sito www.theorein.it (2003) reg. il 27.10.2004 ai sensi dell’art. 1 D.Lgs.Lgt. 31.8.1945; 2° ed. a stampa su “Marianum –Ephemerides Mariologiae” LXVI (2004), 623-658; 3°ed. nel forum www.latheotokos.it dell’I.S.S.R. San Luca di Catania (2009).

3. Per la parentela della Vergine sia con la Classe sacerdotale di Abia che con la Casa di David, cfr. V. SIBILIO, Il Dogma cattolico. Appunti per una esposizione sistematica, digitale, Amazon.com, 2010, pp. 99-100, nn. 262-263.

4. GIROLAMO, In Matthaeum, 33,6, in PL XXVI, 175; Epist. 75,3, in PL XXII, 687.

5. M.SIMON, Verus Israel, Parigi 1964, pp. 394-431.

6. Ps.Mt., 3, in M. ERBETTA, Gli Apocrifi del Nuovo Testamento, voll. I-III, Torino 1969-1981, in partic. vol. I, 1975-1981.

7. 3Q15 11,11-14; 12,1-3 in B. PIXNER, Unravelling the Copper Scroll Code: A Study on the Topography of 3Q15, in “Revue de Qumran” XI (1983), pp. 323-366.

8. Codex Theodosianus, 9,16,3.

9. E.-J. e L.-G. EDELSTEIN, Asclepius. A Collection and Interpretation of the Testimonies, II, Baltimora 1945, pp. 453-469; CIRILLO, Cat. II, 13 in PG XXXIII, 399 e 1131-1154; AMBROGIO, in PL XVII, 531.

10. Cfr. il PELLEGRINO DI BORDEAUX, in CCL, 175, 14-15; GIOVANNI II, Mistagogia 1,8, in PG XXXIII, 1071-1074 e in SC 126, 94-97.

11. BREVIARIUS DE HIEROSOLYMA, in CCL, 175,112,7; TEODOSIO, ibid., 118s, 8; ANONIMO PIACENTINO, ibid., 143, 27; SOFRONIO, Anacr. XX, in PG LXXXVII, 3821; GIOVANNI DAMASCENO, In Nativitate Beatae Mariae Virginis, in PG XCVI, 661-680.

12. Op. cit., in PG XCVI, 670.

13. TEODOSIO, De situ Terrae Sanctae, 8, in in J.WILKINSON, Jerusalem Pilgrims before the Crusades, Warmister 1977, p. 66.

14. 1-10.

15. B. PIXNER, Sulle strade del Messia – Luoghi della Chiesa primitiva alla luce delle nuove scoperte archeologiche, Padova 2013, p.48, n.38, (ed. orig.: Wege des Messias und Stätten der Urkirche. Jesus und das Judenchristentum im Licht neuer archäologischer Erkenntnisse, Giessen 1991,2010; ed. ingl.: Paths of the Messias and Sites of the Early Church from Galilee to Jerusalem, San Francisco 2010, entrambe a cura di R. RIESNER). La notizia dell’esistenza del collegio delle Vergini tessitrici, a cui appartenne la Vergine, è desumibile anche da altre fonti antiche, come l’Apocalisse di Baruc 10,19, una baraita del I sec. di R. Simon b. Segun e il Pesiqta Rabbati, Piska 26,6. Sul significato nella vita della Vergine cfr. SIBILIO, Il Dogma Cattolico, p.100, n.204.

16. G.GHARIB, Presentazione della Vergine, in Nuovo Dizionario di Mariologia, pp.1155-1161, in partic. p.1156.

17. Per quanto andiamo a dire su Nazareth cfr. PIXNER, Sulle strade del Messia, pp.15-16; 39-46, con bibliografia in apparato. Per gli scavi cfr., sub voce, R.RIESNER in Das Große Bibellexikon (GBL), voll. I-III, Brockhaus-Brunnen 1987-1989, 19902 , II, 19902, coll.1036-1037; ID., s.v., in Neues Bibel Lexikon, a cura di M. GÖRG- B. LANG, vol. II, Solothurn-Düsseldorf 1995, coll. 908-912.

18. Esd 2,1; 3,2; 5,2.

19. Esd 8,2-3.

20. GIUSEPPE FLAVIO, Antiquitates Iudaicae, 17,23-28, a cura di L. MORALDI, voll. I-II, Torino 2006.

21. Nm 24,17; EUSEBIO, Historia Ecclesiastica, 1.7.14 ss., in PG XLIV, 1066.

22. Is 60, 21 e 61,1. Cfr. Lc 4,16 -30.

23. B. BAGATTI, I “Parenti del Signore” a Nazareth (secc.I-III), in “Bullettin d’Études Orientales” VII (1965-1966), pp. 259-264; E. ALLIATA, Il luogo dell’Annunciazione a Nazareth, in A. STRUS, Maria nella sua terra, Cremisan-Bethlehem 1989, pp. 25-33.

24. E.TESTA, Le grotte mistiche dei Nazareni e i loro riti battesimali in “Liber Annus” XII (1961-1962), pp. 5-45.

25. E.TESTA, Il targum di Is 55,1-13, scoperto a Nazareth, e la teologia sui pozzi dell’acqua viva, in “Liber Annus” XVII (1967), pp. 259-289.

26. E.TESTA, Nazareth giudeo-cristiana. Riti, iscrizioni, simboli, Gerusalemme 1969, 70-75ss.

27. V.SIBILIO, L’Eucologia Cattolica. Appunti per una esposizione sistematica, digitale, Amazon 2013, p.156.

28. PG XLI, 399-402.915 s.

29. Cfr. TESTA, Le grotte mistiche.

30. B. BAGATTI, Scavo presso la Chiesa di San Giuseppe a Nazareth (agosto 1970), in “Liber Annus” XXI (1971), pp. 5-32; J. BRIEND, L’Église judéo-chrétienne de Nazareth, Gerusalemme 19752, pp. 48-64.

31. B. BAGATTI, Il santuario della Visitazione ad ‘Ain Karim (Montana Judaeae). Esplorazione archeologica e ripristino, Gerusalemme 1948, pp.45-55.72.84s.89-97.

32. S. SALLER, Discoveries at St.Johns, ‘Ein Karim, 1941-1942, Gerusalemme 1946, pp.69.92ss.72.

33. Dialogus cum Tryphone, 78, in PG VI, 657.

34. Contra Celsum, I, 51, in PG XI, 755.

35. E. KLOSTERMANN, Eusebius Werke, III, Das Onomastikon der biblischen Ortsnamen heuraugs., Die griechischen christlichen Schriftsteller, Lipsia 1904, 42.43.82.

36. B. BAGATTI, La “casa dei capitelli”, in Gli scavi di Nazareth, vol. I – Dalle Origini al sec. XII, Gerusalemme 1967, pp.58-63.

37. P.BENOIT, “Non erat eis locus in diversorio” (Lc 2,5), in Mélanges bibliques en hommage au R. P. Béda Rigaux, Duculot 1970, pp.173-186.

38. Contra Celsum, I,51, in PG XI, 755.

39. Epist. 58, in CSEL LIV, 531 e PL XXII, 581.

40. Cat. XII, 20, in PG XXXIII, 749.

41. EUSEBIO, Demonstratio evangelica, 7,2,15 in PG XXII, 540.

42. EUSEBIO, De laudibus Constantini, 9,17 in PG XX,1371.

43. GIROLAMO, Epist. 108, 10, in PL XXII, 884.

44. Per la storia e la struttura dell’edificio e delle grotte adiacenti cfr. B.PIXNER, Sulle strade del Messia, pp.23-32.

45. B.BAGATTI, Recenti scavi a Betlemme, in “Studium Biblicum Franciscanum, Liber Annus” (SBFLA), XVIII (1968), pp. 181-237.

46. TEODOSIO, De situ Terrae Sanctae, 28, pp.70-71; PIXNER, op.cit., pp.19-21. Cfr. il Protovangelo di Giacomo, 17,2, in Vangeli Apocrifi, a cura di G. BONACCORSI, Firenze 1948.

47. PIXNER, op.cit., pp. 52-64. Protovangelo di Giacomo, 1-10.

48. TEODOSIO, op.cit., n. 20, p.70.

49. C.KOPP, The Holy Places of the Gospels, New York 1963, p.33, nota 64 (trad. it.: I Luoghi Santi degli Evangeli, Milano 1966).

50. Epist.108, 10 in PL XXII, 884.

51. 4,8.

52. R. RIESNER, Migdal Eder, in GBL, II, 19902, coll. 977-978; V. CORBO, Gli scavi di Kh.Siyar el –Ghanam e i monasteri dei dintorni, in “Studium Biblicum Franciscanum, Collectio Maior”, XI, Gerusalemme 1955; PIXNER, op.cit., pp. 33-34 e n.35.

53. G. GIAMBERARDINI, Il culto mariano in Egitto, vol.I- secc.I-VI, Gerusalemme 1975.

54. E’ opinione sempre più comune che questi prima di iniziare il suo ministero vivesse a Qumran, sito archeologicamente arcinoto, dove però non divenne un esseno, avendo intrapreso poi un percorso spirituale diverso, che è quello che conosciamo.

55. PIXNER, op.cit., p. 213, nota bibliografica.

56. Itinerarium burdigalense, 19, in BALDI, 171.

57. 2 Re 2,5-14.

58. Gv 3,23.

59. Onomastikon, in BALDI, 214.

60. Peregrinatio, 13 in BALDI, 215-217.

61. Scitopoli era una delle città che costituivano la Decapoli, cui aderì nel 47 a.C. E’ un luogo importante del NT, perché spesso Gesù e il Battista si muovono nei suoi pressi. Dell’età evangelica sono vestigia il suo ampio ippodromo, i suoi templi, il teatro romano.

62. Sul tema cfr. PIXNER, op.cit., pp.199-200.

63. Gv 1,28.

64. Su quanto segue in gen. Cfr. PIXNER, op.cit., pp. 200-213.

65. Gv 1,29-51; 10,31-42.

66. Fiktive Orte der Johannestaufe, in “Zeitschrift für die neuetestamentliche Wissenschaft” XLV (1954), pp.121-123.

67. Bethany beyond Jordan, in PEFQS (1877), pp.184-186.

68. 1 Re 17,1; 17,3-6.

69. Gli scavi di Samaria/Sebaste e la Tomba di Giovanni il Battista, a cura della Redazione degli Scritti, in http://www.gliscritti.it/blog/entry/701

70. La centralità del Lago di Gennesareth – detto anche di Tiberiade o di Galilea o anche “Mare di Galilea”- nella vita di Gesù non è maggiore di quella che esso aveva nella vita economica e sociale della Palestina. Il gran lago, lungo venti chilometri e ampio al massimo dodici, era ricco di pesce e riforniva di questo alimento non solo i dintorni ma anche l’industria conserviera di Cafarnao e delle altre cittadine rivierasche, che lo salava e lo essiccava in gran quantità, onde esportarlo in tutto l’Impero Romano. Era dunque un polo assai vivace dell’economia, tenendo conto che all’epoca il pesce era alimento assai più importante della carne.

71. Per quanto segue PIXNER, op.cit., pp. 68-91, con bibliografia in apparato.

72. Tiberiade incombe sulla vita pubblica di Gesù anche se egli non vi si recò mai. Fondata da Antipa sulle rovine di un insediamento precedente, probabilmente si estese anche sui suoi cimiteri, e ciò la rese impura per gli ebrei osservanti che, come lo stesso Gesù, non vi misero mai piede. Era una città fortificata nella quale risiedeva il Tetrarca, il quale, per onorare l’imperatore Tiberio, non solo le aveva imposto il nome che portava, ma l’aveva ornata di monumenti tipici dell’urbanistica romana, come un teatro, aree sportive, le terme, ampie piazze decorate da statue.

73. Nei pressi di Magdala Gesù si dovette recare spesso. La città è dunque importante per la storia della sua vita, anche se non ci risulta ambientata in essa alcuna particolare sua azione. Era chiamata Tarichea in età greco-romana ed era un porto e un centro importante per la pesca e l’industria ittica. Le sue rovine sono in riva al Lago di Gennesareth e sono parzialmente sommerse. Fu espugnata dai Romani nel 67. Oggi è chiamata Migdal. E’ celebre per aver dato i natali a Maria, detta Maddalena perché nata in essa, prostituta e indemoniata convertita ed esorcizzata da Gesù, al quale rimase fedele fino alla crocifissione e della cui Resurrezione fu privilegiata, prima testimone.

74. S. LOFFREDA, Recovering Capharnaum, Gerusalemme 19932, pp. 18-20.

75. Anche Cesarea di Filippo, sebbene nulla vi avvenga di particolare nella vita di Gesù, è un luogo importante per essa. Nei suoi pressi egli chiese ai suoi discepoli chi la gente pensasse lui fosse realmente, e Pietro lo confessò, per primo, il Cristo Figlio del Dio vivente. Perciò qui Gesù gli conferì il Primato a cui si riallaccia anche la Chiesa romana. A Cesarea vi fu peraltro una fiorente comunità giudeo-cristiana primitiva. La città aveva originariamente nome di Banjas e in età ellenistica assunse quello di Paneas. Erode vi innalzò un tempio pagano. Suo figlio Filippo ne fece la capitale della propria Tetrarchia, estesa all’Iturea, alla Traconitide, alla Batanea e alla Gaulanitide.

76. Arbela era un centro di una certa importanza e quindi merita una menzione particolare. Aveva delle pareti dolomitiche nelle cui caverne avevano trovato rifugio coloro che nel 38 a.C. si erano ribellati ad Erode, che però li aveva snidati riempiendo quegli anfratti di fumo mediante torce in mano a soldati calati tramite ceste.

77. PIXNER, op. cit., pp.77-78.

78. R. RIESNER, Schiffe auf dem See Genezareth, in GBL, III, 19902, coll.442-443.

79. La città di Gennesareth, ennesimo porto di pesca e centro dell’industria ittica lacustre, esisteva dal 1350 a.C. Era chiamata anche Kinneret e si collocava nella Piana detta, appunto, di Gennesareth. E’ un altro sito importante per la vita di Gesù, anche se non vi è ambientato nulla di particolare nei Vangeli.

80. PIXNER, op. cit., pp.83-87.

81. Mt 17,1-9; Mc 9,2-13; Lc 9,28-36.

82. Expositio super psalmos LXXXVIII, in PG XXIII, 1092. Una terza proposta di identificazione con il Monte degli Ulivi appare completamente insostenibile.

83. Sul motivo si possono fare solo delle ipotesi. A mio avviso, tale silenzio si deve all’apostolo Matteo, il quale scrisse in ebraico o aramaico il primo Vangelo, durante gli ultimi anni di Caligola (37-41). Cfr. V.SIBILIO, La datazione interdisciplinare dei Vangeli. Una messa a punto della situazione, in “Christianitas. Rivista di Storia Pensiero e Cultura del Cristianesimo” I/1 (2013), pp.15-131, in partic. p. 73, con bibliografia in apparato. Matteo, parlando dell’Abominio della Desolazione che avrebbe colpito il Tempio negli ultimi tempi allude chiaramente al concreto rischio che l’Imperatore erigesse nel luogo sacro una sua statua per farla adorare (24,15 d). L’espressione incisa nella profezia di Gesù – “chi legge comprenda” – si riferisce a qualcosa che sta accadendo proprio mentre il testo sta per iniziare a circolare. L’allusione è fatta in modo velato proprio per evitare di incorrere nei rigori della legge romana ma anche per far capire che la profezia del Cristo sta per compiersi. Non è da escludere che Matteo temesse, nel caso di una sollevazione generale conseguente alla profanazione imperiale, che la reazione romana violasse anche altri luoghi sacri della Palestina. Siccome nella Trasfigurazione Gesù si era manifestato nella sua Gloria, la stessa che – attraverso la Shekinah – abitava il Tempio del Padre Suo, e siccome lo stesso Gesù aveva proclamato che il suo Corpo era il vero Tempio, l’Evangelista preferì passare sotto silenzio il nome del luogo esatto del prodigio, per proteggerlo. Infatti la Gloria del Regno di Dio che si mostra in Cristo è identica alla definizione della Shekinah, per cui in senso stretto il luogo della Trasfigurazione per i cristiani è molto più sacro del Tempio stesso. Per lo sviluppo di tale parallelismo cfr. la definizione della Shekinah di D. DE LA MAISONNEUVE, s.v., in Grande Dizionario delle Religioni. Dalla Preistoria ad oggi, a cura di P. POUPARD, Casale Monferrato 2000 (rist. 2007), p.2090 (ed. orig.: Dictionnaire des Religions, Parigi 1984).

84. B. BAGATTI, Le Antiquitates di Kh.Qana e di Kefr Kenna in Galilea, in “Liber Annus” XV (1964-1965), pp.252-263.

85. S. LOFFREDA, Scavi a Kafr Kanna. Rapporto preliminare in “Liber Annus” XIX (1969), pp. 328-348; D. BALDI in Enchiridion Locorum Sanctorum (ELS), Gerusalemme 1926, p. 264.

86. Cfr. BAGATTI, Le Antiquitates e LOFFREDA, Scavi, loc.cit.

87. QSt 1901, pp.251.374-389; ibid., 1902, pp. 132-134; RAO (“Revue d’Assyrologie et d’Archéologie Orientale”, Parigi) 4, pp.345-360, pl. II; BALDI, in ELS, p.242.

88. S. LOFFREDA, Un lotto di ceramica da Karm er Ras, in “Liber Annus” XXV (1975), pp.195.196, tav.48,1-2.

89. PIXNER, op.cit., pp.92-115; 118-130.

90. Mt 14,13.15; Mc 6,32.35;1,45;6,31; Lc 4,42; 5,16.

91. Bellum Iudaicum 3,519, ed. G. CORNFELD, Grand Rapids 1982.

92. V. HÜBNER, Kinneret und Ginnosar, in “Zeitschrift des Deutschen Palästina-Vereins” (ZDPV) XLIV (1978), pp. 32-45.

93. Mt 15,39 e Mc 8,10.

94. Dalmanutha (Mc 8,10): énigme géographique et linguistique dans l’Evangile de St. Marc, in “Revue Biblique” (RB) XLIII (1946), pp. 372-384.

95. Mt 8,1-2.

96. 2 Re 5.

97. B. BAGATTI, The Church from the Circumcision, Gerusalemme 1971, pp.128-129; V. CORBO, The House of St. Peter at Capharnaum, Gerusalemme 1972.

98. Mt 14,13-21; Mc 6,31-46.

99. Mt 5-7; Lc 6,17-49.

100. Gv 21.

101. Ancient Anchorages and Harbours around the Sea of Galilee, En Gev 1988, p.22.

102. B. GAUER, Ein neuer Fund in der Brotvermehrungskirche zu Tabgha, in “Das Heilige Land” (HIL) LXXX (1936), p.60; EPIFANIO, Panarion XXX, 4-13 in PG XLI, 410-417; Peregrinatio Etheriae, in Egeria, Pellegrinaggio in Terra Santa, a cura di J. WILKINSON, in “Collana di Testi Patristici” XLVIII, Roma 20082 , pp.237-240 (ed. orig.: Egeria’s Travels to the Holy Land, Gerusalemme 19812)

103. B. BAGATTI, La Cappella sul Monte delle Beatitudini, in “Rivista di Archeologia Cristiana” XIV (1973), pp.1-91.

104. R. RIESNER, Die Höhle der Seligpreisungen, in HK CXXI (1989), nn.2-3, pp.16-21.

105. A. E. MADER, Die Ausgrabung der Brotvermehrungskirche auf dem deutschen Besitz et –Tabgha am see Gennesareth, in HIL LXXVIII (1934), pp. 115, 41-66, 89-103, 129-149.

106. R. ROSENTHAL-M. HERSHKOVITZ, Tabgha, in “Israel Exploration Journal” (IEJ) XXX (1980), p.207.

107. Mt 28,16. PIXNER, op.cit., pp.112-113. La reticenza matteana nel dare il nome del luogo potrebbe imputarsi a ragioni simili a quelle dell’analogo silenzio sul Monte della Trasfigurazione, in quanto anche in questa visione Cristo mostra la sua Gloria e impartisce ordini sovrani.

108. R. RIESNER, s.v., in GBL, III, 19902, pp. 515-520.

109. S. LOFFREDA, Scavi di et-Tabgha, Gerusalemme 1970, pp. 125-137.

110. B. BAGATTI, Antichi villaggi cristiani di Galilea, Gerusalemme 1971, pp. 89-91.

111. Mc 1,55.

112. B. C. GRISLER, The Acoustics and Crowded Capacity of Natural Theatres in Palestine, in Biblical Archeologist XXXIX (1976), pp. 128-141, in partic. p.137.

113. M. NUN, Newly Discovered Harbours from New Testament Days, En Gev, 1992, p.36 ss.

114. SIBILIO, La datazione, p. 24.

115. Cfr. per quanto segue PIXNER, op.cit., pp.131-144.

116. Biblical Research in Palestine, voll.I-II, Boston 187411, pp.403-408.

117. V. CORBO, Le origini di Cafarnao nel periodo persiano, in SBFLA XXXIV (1984), pp. 371-384.

118. G. ORFALI, Capharnaum et ses ruines, Parigi 1922, pp. 74-76.

119. Antike Synagogen in Galiläa, Lipsia 1916, p. 204.

120. LOFFREDA, Scavi di et-Tabgha, pp. 52-56.

121. The Design of the Ancient Synagogues in Galilee I, in SBFLA, XXVIII (1978), pp. 193-202; ID., On the chronology of the Ancient Synagogue at Capernaum, in ZDPV CII (1986), pp. 134-143.

122. S. LOFFREDA, Ceramica ellenistico-romana nel sottosuolo della sinagoga di Cafarnao, in “Studia Hierosolymitana”, vol. III, Gerusalemme 1982, pp.273-312; V.CORBO, Resti della sinagoga del I sec. di Cafarnao, ibid., pp.313-357; B. BAGATTI, Capharnaum, la Ville de Pierre, in “Le Monde de la Bible” (MB), XXVII (1983), pp.8-16; J. F. STRANGE-H. SHANKS, Synagogue where Jesus preached found at Capernaum, in “Biblical Archaelogy Review” (BAR) IX (1983), n. 6, pp. 21-31.

123. PIXNER, op.cit., p.141.

124. Sefforis, chiamata anche Zippori, svolse sicuramente un ruolo importante nella vita nascosta di Gesù. Essa raggiunse il massimo splendore nel I sec. La tradizione apocrifa ne fa la patria di Gioacchino ed Anna, i genitori della Vergine Maria. Antipa l’ampliò e l’abbellì, ed essa divenne uno dei centri tipici della Galilea dell’epoca, colta, raffinata, aperta alle suggestioni del mondo greco-romano, poliglotta e permeata della lingua e della cultura non solo ebraica ed aramaica, ma anche greca. Al teatro romano dai cinquemila posti, realizzato per volontà del Tetrarca con dovizia di mezzi, lavorarono operai specializzati, tra cui sicuramente Giuseppe e, al suo seguito, Gesù. Essi erano infatti entrambi tektoi, ossia costruttori, e vivevano a Nazareth, ossia ad un tiro di schioppo da quei lavori. Città di venticinquemila abitanti, in essa molti capivano quel greco in cui erano esclusivamente rappresentati i drammi che andavano in scena nel teatro, sia per i giudei che per i greci. La diffusione della lingua greca in questa città è attestata da numerose iscrizioni. Il lessico greco teatrale che Gesù adopera nei suoi discorsi – come hypokrites, ossia attore e per traslato, appunto, ipocrita – dovette venirgli da questi ambienti, né si può escludere che egli abbia assistito a qualche rappresentazione teatrale, visto che è sicuro che conosceva il greco. Su questo cfr. SIBILIO, La datazione, pp. 79-85.

125. LOFFREDA, Recovering Capharnaum, pp.58-63, 30ss.; J. F. STRANGE-H. SHANKS, Has the House where Jesus stayed in Capernaum been found?, in BAR VIII (1982), n.6, pp.29-39.

126. V. TSAFERIS-M. PELEG, Kefar Nahum, in “Excavation and Surveys in Israel” IV (1986), Gerusalemme p. 59.

127. Su quanto segue PIXNER, op.cit., pp.145-166.

128. Mc 8,22-26.

129. Mt 15,32-39; Mc 8,1-10.

130. Autobiografia 407 a cura di G. JOSSA, Napoli 1992; Antiquitates Iudaicae 18,28, ed. H. St. J. THAKERAY-R. MARCUS-L. H. FELDMAN nella “Loeb Library” 1926-1965, voll. I-IX; Bellum Iudaicum 3,515; cfr. PLINIO IL VECCHIO, Naturalis Historia, 5,15,71.

131. PIXNER, op. cit., pp. 151-152, con altri suoi studi in apparato alle nn. 24 e 27; G.DALMAN, Orte und Wege Jesu, Darmstadt 19672 , p. 174; C.W. WILSON, The Sites of Taricheae and Bethsaida, in “Palestine Exploration Fund, Quaterly Statements”, 1877, pp.11-13.

132. PIXNER, op.cit., p.150; J.F.BAUDOZ, Bethsaida, in MB XXVIII (1985), pp.28-31, con integraz. di B. PIXNER.

133.Autobiografia, 398-407.

134. A. ALT, Die Stätten des Wirkens Jesu in Galiläa territorialgeschichtlich betrachtet, in ID., Kleine Schriften, voll.I-II, Monaco 1953, pp.436-455.

135. J.E. SHRODER-M.IMBAR, Geologie and geographie Background to the Bethsaida Excavations, in R. ARAV-R.A. FREUND, Bethsaida. A City by the North Shore of the Sea of Galilee, vol. I, Kirksville 1995, pp.15-94.

136. Op.cit., p.157.

137. DOLMAN, Orte, p.173; J.F.STRANGE, Bethsaida in D.N. FREEDMAN, The Anchor Bible Dictionnary, New York 1992, vol. I, coll.692 ss.; G.FRANZ, The excavations at Bethsaida in “Archaeology in the Biblical Word” III (1995), pp. 9-11.

138. B. SCHWANK, Ortskkenntnisse im Viersten Evangelium?, in “Erbe im Auftrag” LVII (1981), pp.427-442.

139. Mt 8,28-34; Mc 5,1-17; Lc 8,26-27.

140. Anche Hippos è una città che incombe sulla vita di Gesù, sebbene questi non l’abbia mai visitata. Il nome completo è Antiochia Hippos, fondata nella seconda metà del II sec. a.C. dai Seleucidi accanto ad una fortezza costruita dai Tolomei sul confine, nel secolo precedente. Sin dalle origini fu una città ellenistica, con templi, il foro e altri edifici pubblici, dotata di autonomia e padrona del suo hinterland. Giudaizzata a forza da Alessandro Ianneo tra l’83 e l’80 a.C., riebbe l’indipendenza nel 63 a.C. quando Pompeo Magno scorporò dal regno asmoneo la Decapoli e Hippos ne entrò a far parte. Presa da Erode nel 37 a.C., tornò ancora libera nel 4 d.C. Antitetica a Tiberiade, sebbene città pagana, Hippos ebbe una parte di popolazione ebraica, che perseguitò durante la Guerra Giudaica. Il suo fulgore fu nel II sec., dopo la Seconda Guerra Giudaica (130-135) . Dal IV sec. sono attestati vescovi, ma la cristianizzazione è presumibilmente più antica. Decadde solo nell’età ommayyade e un terremoto la distrusse nel 749. Il sito è al centro di un progetto di scavi, a cura dell’Institute of Archeology Zinman dell’Università di Haifa, che ancora continua, la cui ultima documentazione scientifica è stata edita in A.SEGAL-M.SCHULER-M.EISENBERG, Hippos-Sussita, Eleventh Season of Escavations (July 2010), Haifa 2010.

141. BAGATTI, Antichi villaggi cristiani, pp.46 ss.

142. M. NUN, Gergesa (Kursi): Site of a Miracle, Church and Fishing Village, En Gev 1989.

143. M. NUN, The Land of Gadarens: New Light or an Old Sea of Galilee Puzzle, En Gev 1996.

144. Ma non si puo’ escludere che all’epoca fosse cinto da mura, mancando scavi in merito.

145. R. RIESNER, Nain, in GBL, vol. II, 19902 , pp.1022 ss.; PIXNER, op. cit., p. 455.

146. Onomasticon, 141,5.

147. Liber de locis santis, a cura di R. WEBER: Appendix ad Itinerarium Egeriae, in Itineraria et alia geographica, in “Corpus Christianorum - Series Latina” (CC Ser Lat), CLXXV, Tournai 1965, pp. 93-103

148. B. BAGATTI-E. JOSI, s.v., in Enciclopedia Cattolica, voll.I-XII, a cura di P. PASCHINI, Città del Vaticano, 1948-1954, vol. VIII, 1952, col. 1603.

149. Gv 9.

150. Esattamente come tutti i Giudei, Gesù negò ogni legittimità al culto samaritano, incentrato su questo Monte, detto della Benedizione – al ritorno dall’Esilio babilonese nel 538 a.C.- e officiato da un sommo sacerdote scismatico residente prima a Sichem e poi a Nablus. Però, mentre i maestri giudei consideravano i Samaritani dei reietti, a causa della loro origine mista (discendenti sia da Ebrei delle Tribù del Nord che dai deportati locali dell’Impero Assiro), Gesù non ricusò di avere rapporti con loro e annunziò il superamento non solo del culto samaritano, ma anche di quello templare gerosolimitano. Il santuario montano fu dapprima profanato da Adriano che vi costruì sopra un tempio per Giove; poi fu conteso tra cristiani e samaritani, quando Nablus divenne sede episcopale. L’imperatore Zenone (474-491) eresse sul monte una chiesa alla Vergine. Giustiniano (527-565) la restaurò e disperse la comunità samaritana, che però esiste ancora oggi.

151. Gv 4.

152. Gv 5,1.

153. Gv 7.

154. PIXNER, op.cit., pp. 208-212.

155. Mt 19,1 e Mc 10,1.

156. Bellum 3,35-38.

157. Lc 3,1.

158. Faselide è il Khirbet Fasayil, a nord di Gerico, nella Valle del Giordano. Fu fondata da Erode in onore di Fasael, suo fratello maggiore.

159. R. RIESNER, Ephraim, in GBL, vol. I, 19902 , p. 322.

160. PIXNER, op. cit., pp. 255-256.

161. G.KROLL, Auf den Spuren Iesu, Stoccarda 200211, pp.278-287.

162. S.J.SALLER, Excavations at Bethany, in “Studium Biblicum Franciscanum, Collectio Maior” (SBFCM) XII, Gerusalemme 1957.

163. 11QTemple 46,16-47,5, in Testi di Qumran a cura di F.GARCIA MARTINEZ, ed.it. a cura di C.MARTONE, Brescia 20032 ; Y.YADIN, Introduction, in The Temple Scroll, vol. I, Gerusalemme 1983, p. 305.

164. PIXNER, op. cit., pp. 251-256.

165. P. LAPIDE, Hidden Hebrew in the Gospel, in “Immanuel” II (1973) pp.28-34, in partic. p. 32 ss. La tesi mi pare inaccettabile, perchè gli stessi Apostoli assistettero alla Cena in quella casa, ben conoscevano il soprannome e dapprima composero il Vangelo primitivo ebraico e poi curarono o supervisionarono quelli greci.

166. S.J. SALLER-E. TESTA, The Archaeological Setting of the Shrine of Bethfage, Gerusalemme 1961.

167. Mt 24,3; Mc 13,3.

168. Acta Iohannis 97, a cura di F.JUNOD-J.D.KAESTLI, voll. I-II, Tournai 1983; EUSEBIO, Demonstratio evangelica, 4, 18 in PG XXII, 457.

169. EUSEBIO, Vita Constantini 3, 41, in PG XX, 1102.

170. B. BAGATTI, Scoperta di un cimitero giudeo-cristiano al “Dominus Flevit”(Monte Oliveto-Gerusalemme), in SBFLA III (1953), pp. 149-184.

171. Per quanto segue cfr. PIXNER, op.cit., pp. 214-276.

172. B. PIXNER, Mount Zion, Jesus and Archaeology, in J.H. CHARLESWORTH, Jesus and Archaeology, Grand Rapids-Cambridge 2006, pp. 209-322.

173. FILONE, Apologia pro Judaeis 1; GIUSEPPE FLAVIO, Antiquitates Iudaicae 15, 371. 373-375; ID., Bellum Iudaicum 5, 154; 6, 434; Documento di Damasco 1,8 ss.; 7,14 ss.

174. 1QM 3,10 ss. Per gli studiosi favorevoli all’identificazione e alla persistenza del Quartiere esseno cfr. PIXNER, Sulle strade del Messia, p. 394, n. 4; opinioni opposte in B. SCHWANK, C’erano degli Esseni di Qumran a Gerusalemme al tempo del ministero pubblico di Gesù?, in B. MAYER, Christen und Christliches in Qumran?, Regensburg 1992, pp. 115-130; J.E. TAYLOR, Christians and Holy Places: The Myth of Jewis-Christian Origins, Cambridge 1993, pp. 207-220.

175. R. RIESNER, Josephus’ Gates of the Essens” in Modern Discussion, in ZDPV CV (1989), pp. 105-109; F.J. BLISS-A.C. DICKIE, Second Report on the Excavations at Jerusalem, in “Palestine Exploration Found, Quaterly Statements” (PEFQS), 1984, pp.243-257; B. PIXNER, An Essene Quarter on Mount Zion?, in Studia Hierosolymitana in onore del p. Bellarmino Bagatti, vol. I, “Studi Archeologici”, SBFCMa XXII, Gerusalemme 1976, pp. 254-286; ID.-D. CHEN-S. MARGALIT, Mount Zion; the “Gate of Essens” rexcavated, in ZPDV CV (1989), pp.85-95; ID., The History of the “Essene Gate” Area, in ibid., pp. 96-104.

176. F.M. ABEL, Petits découvertes an Quartier du Cénacle à Jérusalem, in RB VIII (1971), pp.119-125.

177. PIXNER, op. cit., pp. 394-399; M. BROSHI, Excavations in the House of Caiaphas, Mount Zion, in Y. YADIN, Jerusalem revealed, Gerusalemme 1976, pp.57-60.

178. 3Q15 1,4-6.

179. PIXNER, op.cit., pp. 263-264.

180. PIXNER, op. cit., pp. 266-269; SIBILIO, La datazione, pp. 93-96; entrambi con bibliografia in apparato. Come ho avuto modo di scrivere in apparato al mio contributo citato, non è necessario, se si accetta la tesi per cui Gesù celebrò la Pasqua secondo il calendario esseno, postulare la dilatazione in tre giorni dei tempi della Passione e Morte di Gesù come fa la Jaubert, seguita da Pixner. Basta partire dal principio che Gesù celebrò la Pasqua liturgica secondo il calendario esseno, già a Bethania, per poi onorare il Primo giorno degli Azzimi il nostro Giovedì Santo, avendo deciso di istituire in esso l’Eucarestia. Per Gesù la celebrazione della Pasqua secondo il calendario esseno era funzionale alla coincidenza tra la sua Morte e l’immolazione della Pasqua templare, secondo il calendario farisaico. Nei sinottici non viene data alcuna importanza alla Pasqua propriamente detta celebrata secondo il calendario esseno, ma si dà risalto al Primo Giorno degli Azzimi. Giovanni poi, tralasciando del tutto la narrazione dell’istituzione dell’Eucarestia, esplicita il nesso tra la Morte del Signore e l’immolazione degli agnelli, secondo il pensiero di Gesù. I Quattro Vangeli non danno alcun appiglio alla dilatazione dei tempi della Passione e Morte di Gesù. Appare evidente, a mio avviso, che Gesù derogasse al calendario farisaico proprio occasionalmente e che, nella cerchia dei suoi intimi, volesse valorizzare solo il Primo Giorno degli Azzimi. Cfr. anche SIBILIO, Per una concordanza dei racconti kerygmatici, in “Christianitas. Rivista di Storia Pensiero e Cultura del Cristianesimo” II/1 (2014), pp. 103-105; 107-111; 166-168; 206-208; 280-283

181. EPIFANIO, Panarion 51, 26 in PG XLI, 934-946; ID., De mensuris et ponderibus 14, in PG XLIII, 260-262.

182. 3,16.

183. At 2,29.

184. Onomastikon 42,12.

185. Itinerarium Burdigalense 20 in BALDI 88.

186. Itinerarium Placentinum 29 in BALDI 96.

187. PIXNER, op. cit., pp. 343-349.

188. “David’s Tomb”. Notes on the History of the Building, in “Bullettin of the Louis M. Rabinowitz Fund for the Exploration of Ancient Synagogues” III (1960), pp. 41-43.

189. PIXNER, op. cit., pp. 354-355.

190. PIXNER, op. cit., pp. 396-399.

191. EUTICHIO, Annales, in PL CXI, 985.

192. GIUSTINO, Apologya Prima, 31, 5 in PG VI, 376.

193. EPIFANIO, De Mensuribus 14.

194. ORIGENE, Contra Celsum 5,17-33 in PG XI, 1232.

195. Onomastikon 38, 21.

196. Itinerarium burdigalense 16 in BALDI 474; EPIFANIO, Panarion 30,18 in PG XLI, 436; EUCHERIO, De Situ Hierosolymae Epistula ad Faustum 4 in BALDI, op.cit., 4; CIRILLO DI GERUSALEMME, Catecheses 16, 4 in PG XXXIII, 924; GREGORIO DI NISSA, Epistula II in G.PASQUALI, Gregorii Nysseni Epistulae, Berlino 1925, pp. 11-17; GIROLAMO, Commentaria in Ezechielem 5 in PL XXV, 139; ID., ibid. in Isaiam 10 in PL XXIV, 369 ss.; ID., ibid. in Michaeam 2, in PL XXV, 1191; ID., ibid. in Evangelium Matthaei 4, in PL XXVI, 192.

197. Les plus anciénnes homiliaires géorgiens, a cura di M. VAN ESBROECK, Lovanio 1975, p.314 ss.; ID., Jean de Jérusalem et les cultes de St.Etienne, de la Sainte Sion et de la Croix, in “Analecta Bollandiana” CII (1984), pp. 99-133; Peregrinatio Eteriae 39,5.

198. Itinerarium Placentinum 22 in BALDI 484; ADAMNANO, De locis sanctis 1, 18, 1-3 in BALDI 489.

199. Itinerarium, in BALDI 498 ss.

200. Sulle testimonianze patristiche e letterarie in gen. cfr. B. BAGATTI-E. TESTA, Corpus Scriptorum de Ecclesia Matre, vol. IV-Gerusalemme. La Redenzione secondo la Tradizione biblica dei SS. Padri, Gerusalemme 1982.

201. Relazione degli scavi della Chiesa di San Salvatore al Gethsemani, in V. CORBO, Ricerche archeologiche al Monte degli Ulivi, Gerusalemme 1965

202. Gethsémani ou notice sur l’église de l’Agonie ou de la Prière d’après les fouilles récentes accomplies par la Custodie Franciscaine de Terre Sainte: 1909 et 1920, Parigi 1924.

203. Nuova architettura dei Santuari in Terra Santa, in “Custodia di Terra Santa, 1342-1942”, 1951.

204. M. TARCHNISCHVILI, Le Grand Lectionnaire de l’Eglise de Jérusalem (V-VIII siècle), vol. I, in “Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium” (CSCO) CLXXXVIII, p. 200 ss., Lovanio 1959.

205. Cfr. Ricerche archeologiche al Monte degli Ulivi, ad indicem.

206. Gv 18,12-24.

207. B. AMICO, Plances of Sacred Edifices of the Holy Land, Gerusalemme 1953.

208. Cfr. per quanto segue PIXNER, op.cit., pp.277-290.

209. J. GERMER-DURAND, La Maison de Caïphe et l’Eglise de Saint Pierre à Jérusalem, in RB XI (1914), pp.71-94; 222-246.

210. Le véritable emplacement du palais de Caïphe et l’église de Saint Pierre à Jérusalem, Parigi 1927.

211. The Church of St. Peter at Jerusalem and its Relation to the House of Caiaphas and St. Sion, in “Biblica” IX (1928), pp. 167-186; ID., St. Peter in Gallicantu and the House of Caiaphas, in “Oriens Christianus” VI (1931), pp. 128-288.

212. R. RIESNER, Palast des Hohenpriesters, in GBL, vol. III, pp.1109 ss.

213. R. REICH, Mishna Shegalem, in A. OPPENHEIMER-U. RAPPAPORT-M. STERN, Jerusalem at Second Temple Period, Gerusalemme 1980, pp. 225-256.

214. Itinerarium Burdigalense, 16, in BALDI 562.

215. Catecheses XIII, in PG 33, 817.

216. A. RENOUX, Le codex arménien Jérusalem 121, in “Patrologia Orientalis” (PO) XXXVI, 2.

217. TARCHNISCHVILI, Le Grand Lectionnaire, p.188 ss.

218. In PG CXX, 261.

219. BROSHI, Excavations, pp. 57-66.

220. Itinerarium Burdigalense in BALDI 562-583.

221. Catecheses XIII, in PG XXXIII, 817.

222. Peregrinatio Etheriae, 36.

223. Per quanto segue cfr. PIXNER, op.cit., pp.290-326.

224. L.H. VINCENT, Jérusalem de l’Ancien Testament, vol.I- Archéologie de la Ville (con M.A. STEVE), Parigi 1954, pp.193-221; ID., L’Antonia, palais primitive d’Hérode, in RB LXI (1959), pp.87-107; M.ALINE, La Forteresse Antonia à Jérusalem et la question du Prétoire, Gerusalemme 1955.

225. Antiquitates 15, 92.

226. TEODORICO, in BALDI 588 ss.

227. D. BAHAT, The Maps of Jerusalem in the Crusader Period, in “Vilnay Festschrift” I, Jerusalem 1984, pp. 430-434; ID., The Topography and Archeology, in J. PRAWER - H. BEN-SHAMMAI (a cura di), The History of Jerusalem. Crusaders and Ayyubids (1099-1250) Jerusalem 1996.

228. BALDI 593.

229. D. BAHAT, A Propos de l’Eglise de Sept Douleurs a Jerusalem, in RB LXXXV (1985), pp. 81-83.

230. D. BAHAT, St. Mary Magdalene’s Church and its Region, in “Eretz-Israel” XVIII (1985), pp. 5-7.

231. M. UBERTI, Ludica, sacra, magica triplice cinta. Storia geografia e simbolismo del gioco del filetto, ebook google, 2012.

232. Cfr. A. MALNATI, in “Avvenire”, 27/02/2008. Malnati, da me interpellato via email, mi ha risposto testualmente: “La notizia mi venne riferita per certa dal prof. Dan Bahat, fonte attendibilissima, dato che scava da quasi cinquant’anni nella zona del western wall (il tunnel del tempio, lungo l'asse appunto del muro occidentale [n.d.a.]). Probabilmente lui a sua volta mi riferiva di studi attendibili di suoi colleghi archeologi (lì scavano solo Università isrealiane, credo), studi e deduzioni, basate su sondaggi, fouilles de saufetage e misurazioni di livelli, come riferisco. Non ho approfondito scientificamente la questione, ma ho ritenuto più che attendibile Bahat, il massimo degli archeologi”. Cfr. D. BAHAT, The Jerusalem Western Wall Tunnel, Gerusalemme 2013. Parere difforme è stato espresso dal p. Eugenio Alliata dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme, che via mail mi ha espresso la convinzione che sulla topografia di Gerusalemme nel I sec. non possiamo sapere per ora nulla di certo, sebbene non abbia ancora consultato il libro di Bahat.

233. Cfr. PIXNER, op. cit., p.292.293-315.334-335; R. RIESNER, Nachwort: Ausgrabungen 1989-1996 in H. BLOK-M. STEINER, Jerusalem. Ausgrabungen in der Heilingen Stadt, in “Studien zur Biblischen Archäologie und Zeitgeschichte” (SBAZ) IV (1996), Gießen, pp. 155-168; J. FINEGAN, The Archaeology of the New Testament: The Life of Jesus and the Beginning of the Early Church, Princetown 1992, pp. 246-258; J. JAECKLE, Das Prätorium des Pilatus in Jerusalem, in “Jahrbuch des Deutschen Evangelisches Instituts für Altertumswissenschafts des Heiligen Landes” II (1990), pp. 51-72.

234. Antiquitates 15, 292.

235. TACITO, Annales 3, 33.

236. GIUSEPPE FLAVIO, Antiquitates Iudaicae 17, 60-62; Bellum Iudaicum 2, 175-177.

237. Bellum iudaicum, 2, 344.

238. RENOUX, op. cit. e Le codex arménien, voll. I-II, in Patrologia Orientalis XXXVI/2.

239. RENOUX, op. cit., I, 20 ss.

240. SOFRONIO DI GERUSALEMME, Anacreontica XX in PG LXXXVII, 3821.

241. R. RAABE, Petrus der Iberer, Lipsia 1895, pp.94-99.

242. Breviarius de Hierosolyma 5A in BALDI 584.

243. De Situ Terrae Sanctae 7.

244. PROCOPIO DI CESAREA, De Aedificiis 5,6.

245. Itinerarium Anonymi Placentini, 9 e 23 in BALDI 584; Bellum Iudaicum 2,175.

246. Vestiges antiques dans hâret el-Moghârbeh, in RB XI (1914), pp. 429-436

247. Discovering Jerusalem, Nashville 1983, pp. 95-120.

248. PIXNER, op.cit., p. 292, n.4. In partic. cfr. M. BEN-DOV, Jerusalem, Man and Stone: An Archaeologist’s Personal View of this City, Gerusalemme 1990, pp. 161-164.

249. Antiquitates, 15,318; Bellum 1, 402; 5, 177-183.

250. Prétoire, Lithostroton et Gabbatha, in RB LIX (1952), pp. 531-550; ID., L’Antonia d’Hérode le Grand et le Forum Oriental d’Aelia Capitolina, in “Harvard Theological Review” LXIV (1971), pp. 135-167; ID., The Archaeological Reconstruction of the Antonia Fortress, in YADIN, Jerusalem Revealed, pp. 87-89. Per recenti scoperte cfr. R. EGLESH, The Archaeologist find possible site of Jesus’ trial in Jerusalem, in “The Washington Post”, 4.1.2105.

251. N. ROBERTSON, Locating Solomon’s Temple (ed. digitale 2014), pp. 10-15.

252. Cfr. PIXNER, op.cit., pp.329-334; 337-339.

253. Discovering Jerusalem, p. 69.

254. Bellum 5, 146.

255. R. RIESNER, Golgotha, in GBL, 1, 19902 , pp. 480-482.

256. R. RIESNER, Golgotha und die Archäelogie, in “Bibel und Kirche” XL (1985), pp. 21-26; D.BAHAT, Does the Holy Sepulchre Church Mark the Burial Jesus?, in BAR XII/3 (1986), pp. 26-45.

257. K. KENYON, Digging up Jerusalem, Londra 1975, pp. 227-232; U. LUX-WAGNER, Vorläufiger Bericht über die Ausgrabungen unter der Erlöserkirche, in ZPDV LXXXVIII (1972), pp. 185-201; C. COUASNON, The Church of the Holy Sepulchre in Jerusalem, Oxford 1974.

258. CH. KATSINBINIS, The Uncovering of the Eastern Side of the Hill of Calvary and its Base Layout of the Area of the Canons’ Refectory by the Greek Orthodox Patriarchate, in LA XXVII (1977), pp. 197-208.

259. BALDI, in ELS, p. 625, n. 1.

260. EUSEBIO, Vita Constantini, 3, 26.

261. SOZOMENO, Historia Ecclesiastica, II, 1, in PG LXVII, 930 s.

262. L. KADMAN, The Coins of Aelia Capitolina, Gerusalemme 1956, pp.36 ss.

263. EUSEBIO, Vita Constantini, 3, 23-59.

264. M.A. KIRK, Women of Bible Lands: A Pilgrimage to Compassion and Wisdom. Women of Bible Lands: A Pilgrimage to Compassion and Wisdom, Collegeville 2004, p. 115.

265. D. PRINGLE, Ascension. The Churches of the Crusader Kingdom of Jerusalem. The City of Jerusalem, III, New York 2007, pp. 74-82.

266. B. BAGATTI, ‘Footprints’ of the Saviour on the Mount of Olives, in Holy Land Review, I, 2005.

267. V.C. CORBO, Relazione sugli scavi presso il luogo dell’Ascensione sul Monte degli Olivi, in “Acta Custodiae Terrae Sanctae” IV (1959), pp. 200-203; ID., Scavo archeologico a ridosso della Basilica dell’Ascensione, in LA X (1960), pp. 205-248.

268. A. BATTISTA – B. BAGATTI, Historia Josephi Fabri Lignarii. Testo arabo, Gerusalemme 1978; EPIFANIO, Panarion LXXVIII, 11.24, in PG XLII, 713-737; ERBETTA, op. cit., Assunzione I/2: Il Libro del Riposo Etiopico, pp. 421-456; Transito Romano, pp. 465-474; Augiensis CCXXIX, pp. 475-479; Istruzione dello Pseudo-Cirillo, 8.9, 606 ss.; la notizia dell’ubicazione della casa della Vergine è data da quest’ultima fonte, sebbene essa contenga sia notizie giudeo-cristiane che giovannite.

269. ERBETTA, Transitus Colbertinus, pp. 480-482; Il Racconto dello Pseudo-Melitone, pp. 492-510; Il Racconto di Giovanni di Tessalonica, pp. 511-523; Il Sermone di Teodosio patriarca di Alessandria, pp. 582-592; Il Sermone di Evodio, pp. 593-603; L’Istruzione dello Pseudo-Cirillo, pp. 604-615; Omelie di Cirillo di Gerusalemme e di Ciriaco di Behnesa, pp. 616-618.

270. ERBETTA, Il Libro dello Pseudo-Giovanni, pp. 483-491; Il Transito dello Pseudo-Giuseppe di Arimatea, pp. 529-533; Il Racconto della Storia Eutimiaca, pp. 526-528; Transito Siriaco A, B, C, D pp. 534-576.

271. PIXNER, op. cit., 424-434.

272. ERBETTA, Transito siriaco A, 1.

273. B. BAGATTI, L’apertura della Tomba della Vergine al Gethsemani, in LA XXIII (1973), pp. 318 ss.

274. ERBETTA, Transito siriaco C, III, 27, 562; Transito siriaco B, 14.16.542 ss.

275. E. AMÉLINEAU, Monuments pour servir à l’histoire de l’Egypte chrétienne, in Mémoires des Membres de la Mission Archéologique francaise du Caïre, vol. IV, Parigi 1888, pp. 125 ss.; A Panegyric of Macarius Bishop of Tkôw Attributed to Dioscorus of Alexandria, in CSCO 416, t. 42, VII, 34-65, in partic. 37.

276. A nove chilometri a sud di Efeso, su un fianco dell'antico monte Solmisso, si erge una piccola cappella conosciuta come casa della Madre Maria (Meryem Ana). Preceduta da un vestibolo risalente al VII secolo, termina con un'abside mantenuta nel suo stato primitivo (sec. IV). La parte centrale fu trasformata in cappella in epoca imprecisata. Pare comunque che essa - almeno nelle sue fondamenta – risalga al I secolo d.C. Cfr. http://www.latheotokos.it/modules.php?name=News&file=article&sid=199


Theorèin - Dicembre 2015