LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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APOLOGYA PATRUUM LATINA

Breve introduzione alla teologia dei Padri Apologeti di lingua latina

La Patristica apologetica e polemica fiorì anche nell’Occidente, con alcuni grandi nomi, a cui si deve anche la stessa nascita della teologia in lingua latina, oltre che la prima trattazione di tematiche particolari, di tipo pastorale morale e giuridico, che fino a quel momento erano state ignorate. Essa nasce nel III sec. Tra i suoi autori Tertulliano fu senz’altro il primo, vero padre della teologia latina, prima ancora di Agostino, grazie alla sua padronanza del greco e del latino, alla conoscenza della filosofia, del diritto, della retorica e della letteratura, per cui egli generò una creatura già adulta, con caratteristiche stilistiche e concettuali precise e distinte da quelle della teologia greca. Se questa si servì del platonismo per trattare i suoi temi speculativi, quella utilizzò lo stoicismo per padroneggiare questioni morali, istituzionali e pratiche. Questa teologia latina non nacque a Roma, dove la lingua dotta era il greco, ma in Africa attorno a Cartagine, dove c’era una grande Chiesa e dove si usava il latino per la liturgia e la catechesi; la città era anche crogiuolo culturale per influssi latini, greci e semitici. In essa poi operò quel Tertulliano di cui dicevamo.

Il bersaglio polemico principale ed interno alla Chiesa per questa apologetica fu il monarchianismo, inteso come corrente teologica che, per bilanciare la teologia del Logos sviluppata dai Padri apostolici ma anche dagli apologeti di lingua greca, cerca di ristabilire la rigorosa unità sostanziale di Dio (prima metà del II sec.). Tale monarchianismo si evolse poi (seconda metà del II sec.) in forme autenticamente ereticali, volte a scongiurare il rischio che esse vedevano nella teologia dogmatica classica di diteismo, per cui nacquero il modalismo (ossia quell’eresia che afferma che le Persone divine sono solo dei modi differenti e non sussistenti con cui la sola Sostanza divina si manifesta) e il patripassianismo (ossia quell’eresia per cui fu il Padre stesso ad incarnarsi e a soffrire sulla Croce). La lotta dei Padri apologeti latini contro il monarchianisimo ereticale è collaterale alla condanna del modalismo fulminata da papa san Zefirino (199-217), anche se in termini non esaustivi. Contro Noeto, eresiarca dei modalisti, si pronunziò anche Ippolito di Roma, mentre Sabellio, massimo esponente del movimento che fu detto perciò anche sabellianesimo, fu scomunicato da papa san Callisto I (217-222).

Oltre ai monarchiani, gli apologeti latini, come del resto quelli greci, si batterono contro il docetismo, ossia quella forma di gnosticismo che negava la realtà dell’Incarnazione e dell’Umanità di Cristo, sostituendola con forme apparenti.

MARCO MINUCIO FELICE

Fu il primo apologeta cristiano di lingua latina e a lui non è tributato alcun culto. Nacque a Cirta di Numidia intorno al 200 e morì nel 260 circa. Si trasferì giovane a Roma dove fece l’avvocato con buon successo. Sull’esempio dell’amico Ottavio si convertì al Cristianesimo. Scrisse molto ma di lui ci è rimasto solo un dialogo, l’Octavius. In essi disputano il cristiano Ottavio e il pagano Cecilio mentre Minucio stesso è arbitro. Su proposta di Cecilio essi intavolano una discussione sulla religione. Quella pagana è difesa da Cecilio che critica il Cristianesimo. Dopo un intermezzo di Minucio, Ottavio confuta le accuse e attacca il paganesimo. Lo fa seguendo passo passo il discorso di Cecilio che quindi viene battuto in breccia tutto quanto. Mostra l’esistenza di Dio e della Provvidenza, critica il mito e il culto pagani considerati corruttori dei giovani, mostra la superiorità morale del Cristianesimo e del martirio, nega che il Cristianesimo sia indifferente ai valori patri e che Roma dovesse agli dei la sua fortuna, come pure che il vero dotto debba essere agnostico. Cecilio si dichiara vinto e Minucio assegna la vittoria ad Ottavio.

Il dialogo ha pochi contenuti perché non è una catechesi ma solo una maniera per ben disporre al Cristianesimo i pagani. Unità di Dio, spiritualità dell’anima, santità di vita sono i pilastri tematici del libro. Minucio afferma che la morale cristiana è eminentemente interiore, mentre tesse l’elogio del matrimonio, della verginità e della castità. Lo stile è perfetto ed elegante, tanto che l’Ottavio fu considerato la perla dell’apologetica latina.

QUINTO SETTIMIO FLORENTE TERTULLIANO

Nacque a Cartagine intorno al 160 da genitori pagani e fu educato secondo i principi di quella cultura. Dapprima avversò il Cristianesimo e lo derise, immergendosi nei piaceri e praticando le forme più abbiette di paganesimo. Studiò e imparò bene il greco e il diritto, esercitando l’avvocatura. Si sposò e nel 193 si convertì al Cristianesimo, al cui servizio mise il suo impeto, la sua sensibilità, la sua cultura e il suo ingegno. Fu sempre uno spirito rigorosissimo dapprima con sé e poi con gli altri. A causa di un non bene individuato screzio col clero romano per ragioni disciplinari, egli si avvicinò al Montanismo, il movimento profetico frigio che prendeva il nome da Montano, e lo abbracciò apertamente nel 213 (1). Lo spirito inquieto di Tertulliano, ostile alle costrizioni, ben presto non si trovò a suo agio nemmeno più nelle pure agitate acque carismatiche del Montanismo, e fondò una sua setta alla guida della quale egli morì in circostanze e luogo ignoti nel 240 ca. I suoi seguaci sarebbero stati convertiti da Agostino nel 428.

Teologo, polemista e apologeta, Tertulliano scrisse moltissimo, ma solo alcune sue opere sono datate con certezza: l’Apologeticum e l’Ad Nationes del 197; l’Adversus Marcionem del 207-208; il De Corona del 213; l’Ad Scapulam del 211-213. Degli scritti tertullianei si possono dare due classificazioni: una per argomento (apologetico, dottrinale, disciplinare e morale), l’altra, più adatta, per periodi. Il primo è quello cattolico, pienamente afferente alla Patristica ortodossa, e va dal 197 al 208, comprendendo l’Apologeticum, l’Ad Nationes, il De Testimonio Animae, il De Spectaculis, il De Praescriptione Haereticorum, il De Horatione, il De Baptismo, il De Patientia, il De Poenitentia, il De Cultu Foeminarum, l’Ad uxorem, l’Adversus Hermogenem, l’Adversus Judaeos. Il secondo è quello di transizione, ancora interessante per la dottrina cattolica, fino al 213, comprendente l’Adversus Marcionem, il De Pallio, l’Adversus Valentinianos, il De Anima, il De Carne Christi, il De Resurrectione Carnis, il De Idolatria, l’Ad Scapulam. Il terzo è il periodo montanista, comprendente opere non ortodosse, come il De Fuga in Persecutione, l’Adversus Praxeam, il De Monogamia, il De Ieiunio e il De Pudicitia.

Tertulliano coniò il linguaggio tecnico della teologia latina ed elaborò diverse forme specifiche del pensiero teologico nelle loro prime modalità sistematiche ed approfondite. Il suo carattere fiero ed intransigente lo spinse al rigore speculativo e a quello pratico. Egli diede piena voce latina a quel crogiuolo culturale esistente nella natia Cartagine. Retore scaltro, denigratore della filosofia intriso di stoicismo, inculturatore della sua fede nel proprio ambiente intellettuale, maestro di sofistica e pensatore acuto, polemista abile, rimase talmente irretito negli aspetti più battaglieri, capziosi e violenti del suo carattere da mettere in discussione le sue stesse acquisizioni intellettuali, divenendo da implacabile bersagliatore di eretici egli stesso uno di loro. Tuttavia da pensatore ortodosso seppe sceverare sempre quanto fosse essenziale nelle fonti per costruire un edificio concettuale nuovo e consono alla fede cattolica e si avventurò nei temi etici e disciplinari con tanta sicurezza da tracciare la strada per i pensatori latini futuri, che l’avrebbero trovata più congeniale per la loro indole.

Nell’ambito dell’apologetica propriamente detta, Tertulliano fu senz’altro il più grande in assoluto. Scrisse l’Ad Nationes per il grande pubblico e l’Apologeticum per i magistrati romani. Entrambe le opere hanno uno schema simile, respingendo le accuse dei pagani ai cristiani e criticando la filosofia e la religione classica nella prima parte, per poi esporre le verità di fede nella seconda, contrapponendole alle aberrazioni pagane, secondo un modus scribendi di cui anche oggi avremmo tanto bisogno. L’Ad Nationes, in due libri, nel primo analizza l’atteggiamento pagano verso il Cristianesimo, mostrandone l’infondatezza, e nel secondo confronta le soluzioni pagane e cristiane su problematiche varie, attestando la superiorità delle seconde. Ne emerge che i pagani non conoscono il Cristianesimo e che questo è incomparabilmente superiore. L’Apologeticum esordisce difendendo i cristiani dalle presunte occulta et manifestiora facinora, in particolare dei crimina lesae divinitatis et maiestatis, riuscendo a dimostrare che sono i pagani quelli veramente corrotti. Dei battezzati, Tertulliano elogia la virtù, la dirittura morale, l’eroismo e il martirio, da cui germogliano nuove conversioni. Inoltre introduce alla fine temi dottrinali, sul Logos, sui demoni, sulla Resurrezione della carne, sempre in chiave polemica. L’apologetica tertullianea s’impernia sulla inconsistenza delle accuse ai cristiani, sull’inattendibilità degli accusatori, sulla illegittimità dei processi e sulla prescrizione; erano essi argomenti non nuovi, ma nuovo era il cipiglio e nuova la forza polemica con cui erano branditi dall’autore. Aggressivo verso i filosofi anche più prestigioso, ironico verso l’inconsistenza del paganesimo, dialetticamente abile nel mettere in luce le incongruenze della persecuzione pagana sia giuridicamente che moralmente, entusiasta nel mostrare la superiorità dei cristiani sui pagani in ogni aspetto, appassionato nel denunziare le ingiustizie subite da quelli e nel rivendicarne il diritto alla libertà religiosa anche nel negare all’imperatore gli onori divini che non gli spettano, Tertulliano fa convergere le sue argomentazioni nell’esecrazione della condanna giuridicamente mostruosa della semplice denominazione di cristiano indipendentemente dalle azioni che il singolo compia. A questo tema egli aggiunge quello della prescrizione contro coloro, ossia i filosofi, che spacciano il loro veleno nell’opinione pubblica contro il Cristianesimo mediante calunnie e travisamenti della sua dottrina, in quanto afferma che proprio essi sono i primi falsari, in quanto ciò che c’è di buono nella loro riflessione è stato plagiato dalla Scrittura, incomparabilmente più antica. In tal maniera l’AT diventa la fonte, ma adulterata, della filosofia, esattamente come il NT, distorto e mutilato, lo è dell’eresia.

Proprio contro di essa Tertulliano usò con maggior conseguenzialità e più appropriatamente l’argomento della prescrizione. L’apologeta cartaginese contrastò il dualismo manicheo di Marcione, lo gnosticismo di Valentino e il monarchianismo di Prassea. A parte le ragioni che abbiamo di dubitare sull’esattezza della ricostruzione del pensiero di Prassea da parte di Tertulliano- che potrebbe averlo attaccato non tanto per aver sostenuto il modalismo (2) per salvaguardare il primato del Padre sulle altre Ipostasi trinitarie, quanto per la sua opposizione al montanismo a cui l’apologeta africano aveva già aderito- si deve riconoscere che Tertulliano impostò la polemica in modo radicale ed efficace, in quanto, invece di impelagarsi nella contestazione dell’esegesi biblica degli eresiarchi passo per passo, negò il loro stesso diritto di tentare una interpretazione della Scrittura in nome della prescrizione. Questa forma di eccezione pregiudiziale valeva in quanto solo agli Apostoli era stata affidata la custodia della Bibbia e la sua spiegazione direttamente da Gesù Cristo. Tertulliano affermava che ogni eresia avrebbe dovuto mostrare la sua origine apostolica individuando da quale Apostolo o loro discepolo essa fosse stata professata e tramandata a una serie di vescovi legittimamente succedutasi in una sede da essi fondata. Siccome questo non era possibile farlo in quanto non era mai accaduto – mentre era successo che le parole degli Apostoli consegnate alla Scrittura fossero state travisate – ecco che ogni eresia perdeva di legittimità. Ma anche se realmente un eretico avesse falsificato la sua genealogia spirituale, il mero confronto tra la sua dottrina e quella apostolica avrebbe dimostrato che egli non aveva diritto ad interpretare la Bibbia. Per tale ragione, allontanandosi dall’insegnamento apostolico, tramandato attraverso i loro successori legittimi, ossia i vescovi delle Chiese fondate dai XII e dai loro discepoli, gli eretici hanno perso ogni titolo di legittimo insegnamento. In tal maniera la dottrina della fondazione sulla Tradizione dell’ortodossia, già formulata da Ireneo, trova una nuova e più solida espressione. Solo chi possiede la retta fede può legittimamente usare le Scritture. La fede infatti deriva da Cristo, che ha inviato a predicare solo i XII Apostoli, i quali a loro volta dopo la sua Resurrezione partirono per predicare e trasmisero alle loro Chiese l’insegnamento ricevuto. Si determinano così a quo, per quos, quando et quibus tradita est sit disciplina qua fiunt christiani. Da questa determinazione si postula chiaramente sia che gli eretici, essendo posteriori agli Apostoli, non possono accampare diritti alla predicazione che non fu affidata loro, sia che le scritture ereticali sono tali perché contraddicono quelle apostoliche, le sole che custodiscono la verità che, a sua volta, vive ed è interpretata attraverso quelle Chiese che gli stessi Apostoli hanno fondato e che quindi sono eredi della loro missione. Solo chi si muove nell’alveo della Tradizione può interpretare correttamente la Scrittura, poiché nella prima vi è tutta la verità rivelata; orbene questi prescelti sono i successori degli Apostoli e non gli eretici, che hanno adulterato la dottrina cristiana e che proprio in questo dimostrano di aver elaborato la propria molto dopo che quella fosse predicata e trasmessa.

Sulla Scrittura e sulla sua unità Tertulliano si è diffuso nell’Adversus Marcionem, dove contesta la contrapposizione tra i due Testamenti e i due presunti diversi Dei che li animano. In realtà, se è vero che Cristo mostra tratti del Padre che nell’AT non si erano veduti, è altrettanto vero che, se Cristo fosse immagine del Dio supremo e Questi non fosse lo stesso Dio dell’AT, allora lo stesso Cristo non sarebbe dovuto apparire nella carne che deriva dal Dio veterotestamentario. Ciò che invece si predica di Cristo lo si predica del Dio dell’AT e viceversa, perché l’uno è immagine dell’altro e l’altro è colui che l’ha mandato. Alle Antitesi di Marcione, che metteva a confronto caratteri apparentemente diversi dei presunti due Dei nei due Testamenti, Tertulliano oppone la grandezza dell’unico Dio, in Cui coincidono gli opposti e che trascende ogni aspetto della Creazione e della storia, includendoli nel modo che conviene nella Sua medesima Natura.

Facendo l’eziologia delle eresie, Tertulliano individua in diverse filosofie la causa di molte di esse. Tuttavia egli non ripudia completamente la filosofia come metodo e come criterio euristico, ma contrappone quella del senso comune a quelle delle specifiche scuole, affermando che essa ha una connaturata sintonia con le verità della fede cristiana. Ad esempio adduce come prova dell’esistenza di Dio la consapevolezza che l’anima ha di Lui nel proprio intimo quando ritorna a sé nei momenti di resipiscenza. Questa prova è preferita da Tertulliano a quella cosmologica ed è esposta nel De Testimonio Animae. Analogamente alla sua esistenza, di Dio l’uomo coglie le proprietà fondamentali, quali unicità onnipotenza onniscienza infinità bontà eternità immaterialità e invisibilità. Anzi ad Ermogene rinfaccia l’idea che la materia sia coeterna a Dio, considerando questa ipotesi come limitatrice della onnipotenza divina e incompatibile con essa. Però Tertulliano è altrettanto categorico nell’asserire che l’Essenza divina sfugge alla comprensione umana, per cui di Dio appare chiara proprio e innanzitutto la Sua incomprensibilità.

In contrapposizione con Prassea, Tertulliano dà della Trinità una enunciazione dottrinale che prepara quella agostiniana, spostando l’asse concettuale dalla considerazione cosmologica a quella psicologica del mistero. Partendo dal fatto che la Regola della Fede insegna che vi sono il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, Tertulliano scolpisce l’unità e la distinzione delle Persone in Dio con concetti chiari e lapidari. Padre Figlio e Spirito sono tre nel ruolo che occupano o grado, pur avendo una intrinseca condizione comune o stato; sono tre nella forma o modo di esprimere la unica sostanza; sono tre nel modo di esercitare l’unico potere; sono uno perché uno è lo stato, la sostanza e il potere che coincidono proprio in quanto tali. Si enumerano dunque i Tre senza subire divisione e ciò avviene perché dalla consapevolezza che Dio ha di Sé si mette in moto la Sua stessa Ragione o Sapienza, che con Lui fa tutt’uno e che così si costituisce come Seconda Persona. Ciò avviene al momento della Creazione ed è la perfetta nascita del Verbo, in quanto Suo pronunziamento, mentre prima era solo pensiero pensato all’interno della mente del Padre in quanto, appunto, Sapienza. Da questo momento il Verbo è pari al Padre e quindi Figlio, Primogenito perché prima delle creature, Unigenito perché esse non sono generate. Dopo ciò, come dalla luce viene il raggio e da questi l’irraggiamento, o come dalla sorgente il ruscello e da questo l’irrigazione, ecco che procede da Padre e Figlio lo Spirito Santo. In tale modo non vi è né diversità né separazione tra i tre, sebbene Essi siano discernibili l’uno dall’altro. Vi è dunque monarchia divina nell’Essenza nella Trinità. Essa avviene per la distribuzione e la distinzione, non per diversità o divisione.

Questa teologia trinitaria ha una impostazione economica, ossia le Persone divine sono descritte nelle Loro Relazioni in funzione delle funzioni gerarchizzate svolte nel mistero della Creazione e della Salvezza. In conseguenza di ciò, vi è una tendenza subordinazionista, perché ovviamente il ruolo del Padre è esaltato su quello del Figlio e quello di Entrambi su quello dello Spirito. Peraltro, riprendendo la teologia del Logos dei Padri Apologeti di lingua greca, Tertulliano riprende la distinzione tra Logos endiathetikòs e prophorikòs, ossia tra Ratio e Sermo divini, tra Sapienza e Verbo, tra pensiero pensato e parola proferita. In questa prospettiva, le Relazioni tra le Persone divine hanno un ordine cronologico e la Generazione del Figlio occupa un momento preciso, in vista della Creazione e a preludio di essa. Anche questa è una conseguenza dell’impostazione economica dell’enunciazione del mistero trinitario. Tuttavia, in senso lato la successione della Generazione – e la stessa distinzione tra i due modi del Logos- non sono incompatibili con quella che sarà la formulazione classica e dogmaticamente vincolante del dogma trinitario fatta a Nicea e a Costantinopoli, perché se la Generazione coincide con l’atto del proferire il Verbo e questo avviene prima del tempo della Creazione anche se in vista di essa, allora anche la Generazione avviene nell’eternità. Specificamente, nell’ottica tertullianea proprio l’atto del pronunziare il Verbo da parte del Padre è considerata come manifestazione, per cui essa appare sì al momento della Creazione, ma non significa che sia coeva ad essa. E’ proprio il fatto di non considerare mai il dogma trinitario nella prospettiva immanente che fa sì che i Padri apologeti, Tertulliano compreso, non si pongano mai la questione della coeternità delle Relazioni divine. Quando il tema sarà posto, funzionalmente alla lotta contro il subordinazionismo estremo di Ario, la dogmatica non avrà più ragione di distinguere il Pensiero di Dio dal Suo Verbo, perché le due cose saranno immediatamente riunificate in un solo atto coeterno al Padre e implicito nella Sua sostanza, anche se logicamente distinguibili.

Nella cristologia, Tertulliano afferma risolutamente che il Redentore ha una sola Persona con due Nature distinte. Nell’Adversus Marcionem il Cartaginese distingue gli attributi divini di Cristo da quelli umani, affermando che per i primi Egli opera in quanto Dio e anzi ha sempre mediato, in quanto Logos, tra il Padre e gli uomini nelle varie fasi della Rivelazione, mentre per i secondi Egli ebbe tutto quello che hanno gli uomini, compresa la morte, eccetto ciò che è incompatibile con la Persona divina, ossia il peccato e la sua corruzione morale. La carne di Cristo fu reale, perché nel Suo abbassamento Egli nobilitasse l’uomo e per poter realmente risorgere e un giorno inaugurare il Regno dei giusti. La Sua Redenzione è per Tertulliano più un fatto giuridico, legata alla soddisfazione del peccato e alla riconciliazione mediante l’espiazione vicaria, più che un fatto mistico che divinizza la natura umana.

L’ecclesiologia di Tertulliano sottolinea l’unità, la santità, la cattolicità, l’apostolicità e la romanità della Chiesa. Essa è una perché uno è il Corpo del Cristo di cui siamo tutti membra e una è la fede che professiamo. E’ apostolica perché questa fede è professata sulla base dell’insegnamento degli Apostoli custodito dalla Chiese da essi fondate. E’ romana perché soprattutto nella Chiesa di Roma è custodita integra e completa tutta la dottrina insegnata da Pietro, Paolo e Giovanni. E’ cattolica perché è ovunque diffusa. E’ santa nei suoi singoli membri, perché in essa si entra tramite Battesimo, che a sua volta ci riveste di Cristo e della Sua Grazia, il che implica la santificazione e la salvezza del battezzato. E’ altresì santa nella sua totalità, perché la Grazia viene comunicata a tutti mediante l’unico banchetto eucaristico. E’ infine santa perché al peccatore è dato il perdono mediante la Penitenza, la cui amministrazione per le colpe gravi Tertulliano, come Erma, riservava ad una sola volta nella vita.

L’antropologia tertullianea è composita. Filosofica, comprende la teoria stoica della corporeità dell’anima e la sua identificazione con lo spirito, come pure la sua generazione assieme al corpo mediante un seme separato da quello di quest’ultimo, mentre immagina che dopo la morte essa vada nel Limbo in attesa del Giudizio, con l’eccezione dei martiri che subito sono ammessi in Paradiso. Teologica, insegna che l’uomo è immagine di Dio nel suo stesso corpo, e che la restaurazione della sua somiglianza avviene attraverso il Battesimo.

In teologia morale Tertulliano fu sempre rigorista, enumerando tutte le attività, anche artistiche e di lavoro, incompatibili con la fede, generalmente per la matrice pagana. Sconsiglia le seconde nozze alle vedove. Esalta il martirio come perfezione cristiana e sicuro accesso al Cielo. Nella sua fase montanista il Cartaginese inasprirà fino all’inverosimile le sue posizioni più dure.

NOVAZIANO

Nacque intorno al 200, forse a Roma e fu battezzato in occasione di una grave malattia, senza la Confermazione. Nonostante ciò a causa del suo ingegno fu ammesso al sacerdozio e, superate vaste opposizioni per questa procedura irregolare, si impose al clero romano per la sua immensa cultura e potè aspirare al Papato dopo il martirio di san Fabiano (236-250) sotto Decio (249-251). Ma alla fine fu scelto san Cornelio (251-253). Alcuni ecclesiastici e diversi laici, compresi alcuni confessori, vollero però a tutti i costi Novaziano papa e lo fecero consacrare irregolarmente, dando inizio allo scisma novazianeo, i cui resti sarebbero durati fino alla fine del V sec. Essendo in vita l’antipapa (251-258), fautore di una grande severità verso gli apostati (a cui non concedeva l’assoluzione) e i peccatori pubblici, gli aderirono molti episcopati orientali di media importanza, nonostante la scomunica inflittagli da san Cornelio. Dopo lo scisma non sappiamo molto di Novaziano, ma si pensa sia stato martirizzato da Valeriano (253-260), dopo essersi ostinatamente opposto ai papi san Lucio I (253-254), santo Stefano I (254-257) e san Sisto II (257-258). Prima di separarsi dalla Chiesa, Novaziano scrisse molto e bene, diventando il primo teologo in lingua latina di Roma. Quattro suoi scritti ci sono giunti, ma il De Trinitate è l’unico testo afferente al suo periodo cattolico.

Il suo pensiero in questo trattato altro non è che l’esplicazione della Regula Fidei, del Credo: si sofferma dapprima sul Padre, dimostrando che vi è un solo Dio Creatore, a dispetto dell’insegnamento gnostico e marcionita; poi parla di Cristo, Figlio di Dio e nostro Signore, del Quale dimostra la figliolanza naturale dal Creatore contro Marcione, la realtà della Sua Umanità contro i docetisti, l’unione di questa con la Sua Divinità contro gli adozionisti, la Sua Personalità contro i modalisti; indi enuncia la dottrina sullo Spirito Santo; termina confutando l’accusa di diteismo in merito alla distinzione tra Padre e Figlio. Le prime due parti sono ricche di apporti originali. Novaziano illustra bene il concetto della inconoscibilità di Dio, echeggiando Filone e Teofilo. Contesta la concezione materialistica dello spirito presente in Tertulliano e riferita anche all’essenza divina. Usa la Scrittura per argomentare in cristologia e la correda di elementi dialettici e teologici. Insegna che Padre e Figlio sono un solo Dio perché due sostanze infinite e onnipotenti non potrebbero coesistere, ma che in compenso il Padre santifica e invia il Figlio, Che quindi Gli obbedisce, sebbene la Generazione del Secondo dal Primo sia eterna e non nel tempo. Essa si completa in vista della Creazione quando il Figlio diviene Verbo, per fare tutte le cose. Valga qui quanto annotato per la teologia trinitaria di Tertulliano, sebbene Novaziano sia più preciso e più prossimo a Nicea del Cartaginese. Il dottore romano poi introduce alcuni termini tecnici: Incarnazione, per indicare l’atto con cui il Verbo di Dio assume una Natura umana; Persona, per distinguere le Ipostasi divine; Sostanza, per indicarne la Natura. Questo lessico venne usato anche da Tertulliano, sebbene questi fosse già fiorito prima di Novaziano.

SAN CIPRIANO DI CARTAGINE

Tascio Cecilio Cipriano nacque a Cartagine intorno al 200 da ricca famiglia pagana che gli impartì una egregia educazione. Praticò l’avvocatura e visse nel peccato fino a quaranta anni, quando in seguito a una crisi interiore si convertì al Cristianesimo per opera del santo presbitero Ceciliano. Fu ordinato prete nel 248 e succedette nel 250 al vescovo Donato. Scatenatasi la persecuzione di Decio, al suo termine la Chiesa d’Africa fu sconvolta dalla questione della riammissione alla Comunione dei lapsi, ossia coloro che avevano ceduto e sacrificato agli dei. Cipriano si oppose risolutamente alle tesi lassiste che permettevano la loro riammissione dopo l’assoluzione se essi avessero avuto l’intercessione dei confessori, ossia di quei fedeli che non erano morti martiri ma avevano sofferto nella persecuzione. Per costoro, nonostante l’appello a Roma, il vescovo previde, in un Concilio apposito dei suoi suffraganei e degli altri presuli della Proconsolare, che dovessero sottostare a una penitenza proporzionata. In seguito Cipriano si distinse per la cura delle vittime della peste che infuriò in Africa. Il Santo fu protagonista di una seconda controversia, con il papa santo Stefano I. Cipriano nel 255 disconosce, sulla scia della tradizione africana, la validità di un Battesimo amministrato da uno scismatico. Deferita al tribunale papale, la questione riceve colà una sentenza opposta, in quanto Stefano I ribadì la dottrina romana per cui anche i Sacramenti impartiti da scismatici erano validi, purchè – nel caso del Battesimo – essi volessero fare quel che fa la Chiesa. Non volendo Cipriano retrocedere, Stefano si preparava a scomunicarlo, ma la mediazione di san Dionigi di Alessandria e soprattutto la persecuzione di Valeriano impedì la deflagrazione del conflitto: sia il Papa che Cipriano morirono martiri, l’uno nel 257 e l’altro nel 258. Cipriano fu decapitato dai Romani e inumato processionalmente e clandestinamente dai cristiani nottetempo.

Sebbene meno dotto e persuasivo di Tertulliano e anche meno influente nella storia della teologia, Cipriano fu considerato grande perché fu un vescovo eccezionale; gli antichi lodarono la fertilità della sua penna, la facilità, la chiarezza, la delicatezza, l’eleganza, la forza persuasiva dei suoi scritti. Le sue opere si dividono in quattro gruppi: le dogmatiche (i Testimonia ad Quirinum, ossia un’antologia biblica in tre libri scritti contro i Giudei; il De Lapsis, sui cattivi costumi di alcuni e in esaltazione del martirio; il De Catholicae Ecclesiae Unitate, sull’unità della Chiesa contro gli eretici), le apologetiche (l’Ad Donatum, autobiografico sulla meraviglia della conversione; l’Ad Demetrianum, che ricalca l’Apologeticum di Tertulliano con minor talento e anticipa il De Civitate Dei rintuzzando le accuse dei pagani che consideravano i cristiani causa della decadenza dell’Impero per il loro rifiuto di venerare gli dei e ritorcendogliele contro; l’Ad Fortunatum, che esorta al coraggio del martirio sotto Valeriano), le morali (De Habitu Virginum, De Dominica Oratione sul Pater Noster, De Mortalitate sul comportamento dei cristiani durante la peste) e l’epistolario con ottantuno lettere con spunti dogmatici, etici, ascetici e biografici.

Il De Catholicae Ecclesiae Unitate Cipriano è il primo trattato di ecclesiologia della storia della teologia e sicuramente uno degli apporti speculativi più importanti forniti dal Santo. Egli usa la Scrittura per delineare la dottrina sulla Chiesa così come Dio l’ha voluta, in opposizione agli scismatici che, abbandonandola, volevano sostituirla con una differente. La Chiesa è stata voluta e fondata da Gesù Cristo, pertanto le sue strutture e i suoi sacramenti non possono essere modificati da nessuno. Le varie Chiese locali sono unite nell’unica Chiesa, fondata su Pietro, che ne è il fondamento e la radice. Sebbene siano indipendenti le une dalle altre, le Chiese sono unite dalla carità e della fede che generano la concordia dei vescovi, ognuno dei quali vive nella sua Chiesa e la fa vivere in se stesso. Perciò colui che non è in sintonia col suo vescovo è fuori dalla Chiesa ed è il vescovo il segno visibile dell’unità della Chiesa stessa. Ogni vescovo ha tutto il potere sacerdotale e tutti i vescovi hanno origine dall’autorità di Pietro. Il vescovo presiede e celebra l’Eucarestia, che genera e garantisce la vera unità mistica della Chiesa, rendendo in essa presente il Cristo vivo e vero. Perciò segno di unità ad un tempo visibile ed invisibile è la partecipazione al banchetto eucaristico del proprio presule, mentre celebrarlo senza di lui e in contrasto con lui è impossibile.

Cipriano poi loda il martire come figura ideale del cristiano ma gli nega il diritto di riconciliare l’apostata con la Chiesa, sia pure per i suoi meriti, perché ciò spetta al vescovo (De Lapsis); la confessione o exomologesi dei peccati avviene poi in quattro fasi: la confessione propriamente detta, la remissione dei peccati mediante l’assoluzione con imposizione delle mani, la soddisfazione o penitenza e la contrizione che accompagna tutte le fasi precedenti. Il Cartaginese infine loda le vergini che si consacrano a Dio ma biasima quelle che tra esse simulano una finta virtù o pretendono di avere una particolare licenza per peccare (De Habitu Virginis).

ARNOBIO

Nato pagano in Africa nel 257 e morto nel 311 ca., fu maestro di retorica a Sicca in Tunisia e si convertì al Cristianesimo. Scrisse l’Adversus Nationes in sette libri, di argomento apologetico. In esso contestava l’accusa al Cristianesimo di aver attirato sull’Impero Romano i castighi degli dei, trascurati dai fedeli. Arnobio attesta che il Cristo non è un Salvatore politico e che il Suo dono salvifico non poteva essere ottenuto se non da Lui. Egli concederà alle anime elette l’immortalità, qui come in Tertulliano confusa con la beatitudine. Arnobio critica i miti pagani, ma conosce poco la teologia cristiana, dimostrandosi ignorante in teologia trinitaria e cristologica e sembrando inclinare alla credenza di un Demiurgo tra Dio e il mondo, che produca le anime. L’opera tuttavia è riccamente documentata, letterariamente riuscita, retoricamente abile e piena di energia.

LUCIO CECILIO FIRMIANO LATTANZIO

Fu l’ultimo grande teologo latino apologeta. Nacque intorno al 250 in Africa, fu allievo di Arnobio, scrisse opere letterarie anche da pagano e si convertì al Cristianesimo in Bitinia. Durante la persecuzione di Diocleziano (284-305), che pure lo aveva chiamato a Nicomedia, dovette abbandonare il mestiere di retore, ma sotto Costantino I il Grande (306-337) divenne precettore di suo figlio Crispo a Treviri. Morì dopo il 317. Lattanzio scrisse molte opere, ma ci restano il De Opificio Dei, le Divinae Institutiones, il De Ira Dei, il De Mortibus Persecutorum e l’Epitome. Le Divinae Institutiones sono il suo capolavoro. In sette libri trattano tutti i temi dell’apologetica.

Lattanzio non è molto originale e cerca per i misteri cristiani argomenti tratti dalla cultura classica. Nel Cristo distingue la nascita eterna (adducendo come prova anche l’opinione di molti pagani che il Dio supremo abbia un Figlio) che avviene tramite la Parola della Mente del Padre, e la nascita nel tempo, che avviene di Spirito Santo in Maria Vergine. La nascita eterna viene enunziata in un modo che finalmente lascia intendere che il Figlio è Verbo sin dall’eternità perché come Verbo è pronunziato nella Mente di Dio Padre e quindi è tale anche prima della Creazione del Mondo. Lattanzio inoltre afferma, con un linguaggio preniceno, che una è la Sostanza divina ma differenti le Sue Sussistenze, appunto Padre Figlio e Spirito (su cui però non si sofferma), senza che questo ne comprometta l’unità. Ovviamente non mancano le tinte subordinazionistiche tipiche della teologia trinitaria prenicena.

Lattanzio sostiene che l’anima è immortale per dono di Dio, ma sembra confondere l’immortalità con la beatitudine, che dipende dalle buone opere che però si fanno solo con la Grazia di Dio. All’uomo, ignorante su tutto quanto lo circonda, tocca affidarsi completamente alla Rivelazione per conoscere la verità delle cose. Altri concetti, in questa produzione stilisticamente meritevole, sono quelli per cui l’ira divina è la manifestazione della Sua giustizia, la storia è retta dalla Provvidenza che premia i principi virtuosi e i persecutori sono infallibilmente colpiti dalla Mano dell’Altissimo.


1. Montano, morto prima del 171, si presentò come l’incarnazione dello Spirito Santo e profetizzò l’avvento della fine del mondo; avvalorò il suo neomessianismo con presunte profezie e sedicenti miracoli. Ai tempi di Tertulliano la setta montanista, che prescriveva un fanatico ascetismo in vista del Giudizio imminente, era già in fase di decomposizione perché la profezia della fine non si era compiuta entro il termine del II sec. Questa eresia era stata probabilmente condannata già da papa san Sotero (166-174).

2. La predicazione di Prassea sarebbe avvenuta a Roma sotto i papi sant’Eleuterio (174-189), san Vittore I (189-199) e san Zefirino (199-217) in modo più prudente e in Africa in modo manifesto.


Theorèin - Marzo 2016