LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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ANTIOCHIENA SCHOLA

Breve introduzione ai Padri della Scuola di Antiochia

Ad Antiochia di Siria, capitale di quella regione, il Cristianesimo era arrivato nella generazione degli Apostoli e da lì Paolo era partito per i suoi viaggi apostolici. In questa città, evangelizzata anche da Pietro che vi risiedette sette anni, e che fu il primo luogo dove i battezzati furono chiamati cristiani, nel IV sec., ossia nel periodo aureo della patristica della Grande Chiesa, vivevano mezzo milione di persone, per cui essa era una delle maggiori metropoli dell’Impero. Vi sorgeva una famosa Scuola, quella di Libanio (314-394). Il culto cristiano, la catechesi battesimale, la devozione ai martiri e la predicazione erano i punti di forza della vita della grande Chiesa locale, che bilanciavano l’influenza ancora viva del paganesimo, che si sentiva soprattutto negli spettacoli e che raggiungeva soprattutto i giovani.

In questo ambiente vivace sorse quella che convenzionalmente viene denominata Scuola teologica di Antiochia, che in realtà non esistette mai in senso istituzionale, ma solo in senso morale, in quanto ad essa si ascrivono dotti teologi che ebbero presupposti e metodi comuni pur senza mai aver frequentato o impartito lezioni in modo omogeneo e in una stessa struttura, né tantomeno sotto la responsabilità di un preposto di nomina patriarcale.

Questi nomi sono quelli di Eustazio, di Diodoro di Tarso, di Teodoro di Mopsuestia, di Giovanni Crisostomo, di Teodoreto di Ciro, autori di lingua greca, attivi sia nella teologia speculativa che nell’esegesi. E proprio in questi due ambiti gli Antiochieni si differenziano dagli Alessandrini, in quanto in cristologia essi, alla tesi alessandrina e neoalessandrina del Logos-Sarx, contrapponevano quella del Logos-Anthropos (allo scopo di garantire da un lato l’integrità e dall’altro la sussistenza della Natura Umana del Verbo), mentre nell’esegesi sostenevano l’esegesi letterale contro quella allegorica usata dai loro competitori.

Giova segnalare dall’inizio il rapporto antitetico tra le due Scuole, per intendere il senso paradossale dell’esito del loro scontro a distanza. Se gli Alessandrini, intendendo per Sarx – ossia per Carne- l’Uomo nella Persona di Gesù, si tenevano nell’ortodossia nella misura in cui conservavano il lessico biblico, e se gli Antiochieni, intendendo per Anthropos- ossia per Uomo- l’Umanità del Cristo, correvano il rischio di cadere nell’eresia nella misura in cui facevano di essa un soggetto personale giustapposto a quello del Verbo in una forma di unione non ben definibile, è anche vero che gli Alessandrini, sgominata ad Efeso l’eresia di Nestorio – che sosteneva l’esistenza di due soggetti personali in Cristo, la cui unione era fenomenica ma non di sussistenza – e infliggendo un colpo mortale alla dogmatica di Antiochia, precipitarono anch’essi nell’eresia leggendo i canoni del Concilio in senso monofisita, ossia dimenticando di fatto il senso biblico e personale della parola “Sarx”. Ciò fece sì che a Calcedonia si dovette interpretare il dogma efesino in un modo più conforme allo spirito antiochieno, mutuando la terminologia della sua scuola ma leggendola nel più genuino senso alessandrino. In ragione di ciò, possiamo affermare che la terminologia della cristologia ortodossa è antiochiena, ma il senso e l’ermeneutica che la contraddistinguono sono alessandrine; la prima è nelle sue forme più mature, le seconde nelle sue forme più arcaiche e nello stesso tempo più coerenti con i presupposti stessi del dogma efesino-calcedonese, ossia gli insegnamenti di Nicea. Con questo presupposto, accingiamoci ad esaminare le maggiori figure della Scuola di Antiochia.

SANT’EUSTAZIO DI ANTIOCHIA

Nato a Side nel 270, fu vescovo di Berea in Siria e dal 324 patriarca di Antiochia. Omousiano convinto nel I Concilio di Nicea, fu per questo accusato di sabellianesimo da Eusebio di Cesarea e indi di atti immorali e lesa maestà. Un concilio antiochieno lo depose nel 330 e Costantino il Grande (306-337) lo fece deportare in Tracia dove morì a Traianopoli nel 337. Teodoreto lo definì “il Grande” e Giovanni Crisostomo lo definisce martire, perché perseguitato per la sua fede nicena. La sua festa in Oriente è il 21 febbraio e in Occidente il 16 luglio. La condanna immeritatamente inflitta alle sue opere fece si che esse scomparissero quasi tutte. Ci rimangono pochi frammenti di vario genere ed alcune omelie. Coerentemente antiariano ma anche antialessandrino, Eustazio è considerato il fondatore della cristologia antiochiena, perché per primo insistette sull’integrità della Natura Umana del Verbo, preferendo parlare, per essa, di Anthropos e non di Sarx, ossia dando a quest’ultima parola greca il suo senso ellenico e non quello biblico, così che la sua sostituzione terminologica era perfettamente logica e comprensibile, se non necessaria.

SAN DIODORO DI TARSO

Primo vero esponente della Scuola di Antiochia, più di Eustazio patì da morto gli esiti della condanna, postuma e immeritata, fulminata contro di lui, che comportò la perdita delle sue opere e imputabile soprattutto alla maldestra comprensione del suo pensiero da parte di Cirillo di Alessandria.

Diodoro nacque ad Antiochia nel 330, studiò filosofia ad Atene e teologia nella sua città natale, dove pure fondò una comunità di studi e di vita monastica. Nella metropoli siriaca gli ortodossi niceni erano ligi alla memoria del vescovo Eustazio e separati dalla cattedra retta dagli ariani. Eletto il nuovo vescovo ortodosso Melezio (358-360), Diodoro collaborò con lui assieme all’amico Flaviano (†449) e ressero in nome suo la diocesi quando il presule fu esiliato in seguito alle convulse lotte politico-religiose del periodo. Anche Diodoro fu esiliato tra il 372 e il 378 e raggiunse Melezio in Armenia. Rientrati entrambi in patria, nel 378 Diodoro fu consacrato da Melezio vescovo di Tarso. Partecipò al I Concilio di Costantinopoli nel 381. Consacrò Flaviano patriarca di Antiochia alla morte di Melezio. Fu definito da Teodosio (379-395) maestro di ortodossia. Ebbe eccellenti relazioni con San Giovanni Crisostomo, di cui parleremo a breve e del quale ricevette una visita nel 392. Nello stesso anno morì. E’ venerato come santo, specialmente dalla Chiesa Apostolica d’Oriente (o Assira o Siriaca d’Oriente, nota anche come Nestoriana).

Come dicevo, per la esagerata opposizione postuma di Cirillo, le opere di Diodoro furono condannate come precorritrici del nestorianesimo nel Concilio costantinopolitano del 499 e conseguenzialmente in gran parte distrutte. Egli aveva scritto di filosofia, teologia ed esegesi. I titoli giuntici vertevano sulla polemica antiplatonica, sulla materia, la natura, Dio, la Sua unità, lo Spirito Santo, l’anima, la Resurrezione dei morti, i Salmi, la teoria e l’allegoria.

Proprio a Diodoro si fa risalire la tendenza letteralistica e antiallegoristica della Scuola di Antiochia. Tuttavia proprio lo scritto Sulla differenza tra la teoria e l’allegoria, saggio di esegesi biblica di Diodoro, dimostra che in lui non vi era una completa incomprensione dell’ermeneutica allegorica del testo sacro. La teoria di Diodoro infatti altro non è che un mezzo interpretativo che sovrappone alla lettera un senso tipologico che non la elimina ma l’accresce. I fatti dell’AT sono per Diodoro anticipazioni di quelli del NT.

In cristologia si pensa, né si può andare oltre a causa dello stato lacunoso delle fonti, che Diodoro abbia accentuato la distinzione tra Dio e Uomo in Cristo, inaugurando quella debolezza concettuale in ordine all’Unione Ipostatica che sarebbe stata rinfacciata alla Scuola Antiochiena. Tuttavia una lettura ereticale del suo pensiero è possibile solo proiettando sul passato la chiave di lettura del magistero dei Concili di Efeso e Calcedonia, che peraltro non ebbero mai dubbi sulla sua ortodossia. Anzi tecnicamente Diodoro, a cui senz’altro ha nuociuto nella Grande Chiesa il fatto di essere uno dei Santi e campioni della Chiesa nestoriana – che però ad oggi ha sottoscritto una Dichiarazione cristologica comune con quella Cattolica nel 1994 - è uno dei padri del diofisismo, che si affermò a Calcedonia in modo inequivoco. In effetti proprio la Dichiarazione summenzionata e siglata da San Giovanni Paolo II (1978-2005) e da Dinkha IV (1976-2015) permette di leggere in modo rigorosamente ortodosso il pensiero dei grandi dottori antiochieni, compreso Diodoro.

SAN TEODORO DI MOPSUESTIA

Nato nel 350 ad Antiochia da famiglia benestante, studiò alla Scuola di Libanio sia retorica che filosofia, avendo come condiscepolo San Giovanni Crisostomo. Nel 368 entrò nella scuola monastica di Diodoro di Tarso. Fu ordinato prete nel 383 insieme a Giovanni Crisostomo dal patriarca Flaviano e consacrato vescovo di Mopsuestia in Cilicia nel 392 per volontà di Diodoro di Tarso. Maestro di Nestorio (381-451), protesse Giovanni Crisostomo quando fu perseguitato dall’imperatrice Eudossia (†404) e dall’imperatore Arcadio (383-408) prendendone le difese, mentre accolse Giuliano di Eclano (385-455) ed altri pelagiani durante il loro esilio. Morì nel 428, mentre si stava scatenando la tempesta del nestorianesimo.

Fu il massimo genio della Scuola di Antiochia, stimato e ammirato in vita, ma denigrato senza freni in morte dai monofisiti che a lui, più che a Nestorio, attribuirono l’eresia che porta il nome di quest’ultimo. Passato il Concilio di Efeso, Proclo di Costantinopoli (434-446) aveva condannato Teodoro, ma né Giovanni di Antiochia (428-441) né Cirillo di Alessandria avevano aderito. In difesa di Teodoro era sorto Iba di Edessa (di cui parleremo a breve), che aveva rintuzzato le accuse di Proclo e fatto le pulci alla terminologia cirilliana. Teodoreto di Ciro – su cui pure torneremo - a sua volta aveva ampiamente contestato le inesattezze linguistiche di Cirillo. Tuttavia, chiarito e fissato inequivocamente il senso del lessico cristologico efesino-alessandrino, la disputa era rientrata. Dopo la condanna nel Conciliabolo di Efeso fulminata contro Teodoro, Teodoreto ed Iba e rimessa a Calcedonia, il II Concilio di Costantinopoli del 553 li anatematizzò con Origene, come già invece dicemmo. Questa condanna, detta dei Tre Capitoli (termine con cui si indicano le loro opere antialessandrine), leggeva in modo calcedonese la cristologia dei tre dottori antiochieni. Essa fu dunque fulminata in modo corretto, ma senz’altro inopportuno, in quanto non aveva senso usare sul passato precalcedonese il metro delle definizioni del 451. Peraltro, anche gli Anatematismi di Cirillo e persino le formule di Atanasio, lette col metro di Calcedonia, potevano avere una interpretazione eterodossa. In ogni caso, la condanna non fu mai ritirata e solo la Dichiarazione del 1994 ha mostrato ufficialmente ciò che gli storici della teologia sanno, ossia che il pensiero di Teodoro, venerato come Santo dalla Chiesa Apostolica d’Oriente, può essere inteso in modo ortodosso, ovviamente al netto di alcuni concetti suoi propri. Peraltro, la teologia teodoriana è molto più raffinata di quella di Nestorio, i cui errori non possono essere messi in capo al dottore di Mopsuestia senza alcun distinguo. Tuttavia proprio in lui la Chiesa Apostolica d’Oriente trovò il suo vero maestro, sia pure interpretato da Nestorio stesso, e fu la sua condanna del 553, e non quella del 431, ad aprire il vero scisma tra la Grande Chiesa e quella Assira.

La condanna provocò la scomparsa di tutti i suoi scritti sia di teologia che di esegesi, con un danno incalcolabile, essendo Teodoro soprattutto un grande commentatore biblico. Quel che ci rimane è in lingua siriaca. Abbiamo infatti i frammenti del trattato L’Incarnazione che era in quindici libri, della Disputa contro i macedoniani e delle Sedici Omelie Catechetiche.

Teodoro di Mopsuestia elaborò una cristologia a partire dalla contestazione dell’apollinarismo, che svalutava l’Umanità di Cristo riducendola alla corporeità e all’anima sensibile. Egli volle evidenziare la completezza di questa Umanità, pur nella sua Congiunzione del tutto singolare con il Logos. Teodoro, mediante l’esegesi letterale, sottolinea gli aspetti storici del Cristo, presenti nei Vangeli e nelle Lettere di Paolo, onde farne emergere la piena Natura Umana. In particolare egli sottolinea l’importanza della reale Morte in Croce di Gesù. Per Teodoro vi è il Verbo, che assume la Natura Umana, e Gesù, assunto dal Verbo e nato da Maria, che non può tecnicamente essere intesa come Madre di Dio, perché non genera la divinità. Posizione questa che, estremizzata in Nestorio, sarebbe stata condannata ad Efeso. Parlando di inabitazione del Verbo nella Natura Umana, l’Antiochieno si chiede se l’inabitante assume tutto l’Uomo o una parte della Umanità. Scartando la seconda ipotesi, egli ancora si chiede se il Verbo assume una mera natura o una persona umana. A questa domanda si risponde che, onde assumere una Umanità individuale perfetta, il Verbo inabita una persona umana e non solo una natura. Su questa strada, che è dogmaticamente scorretta, l’Antiochieno si incamminò anche perché i termini ousia e hypostasis in greco sono sinonimi, a differenza di quanto avviene in latino coi corrispettivi substantia e persona. Quando perciò parla di Natura come ousia, immediatamente egli pensa anche alla Persona che, come hypostasis, la possiede, e viceversa. Peraltro, facendo assumere al Logos una natura personale, l’Antiochieno pensa di preservare l’unione della Sostanza divina con quella umana in genere, così da non cadere nel panteismo. Teodoro si avvede che la sua cristologia, che in esegesi biblica ha il pregio di distinguere bene quanto è di pertinenza di Dio e quanto dell’Uomo in Cristo, può evolversi in una concezione che individua due soggetti personali separati in Cristo stesso, perciò, sebbene li distingua, affermando che in Lui vi erano due Nature o Fyseis corrispondenti ad altrettante Sussistenze o Ipostasi, afferma risolutamente che esse sono unite in un solo Prosopon. Questo termine indica la maschera e quindi l’unione finale delle due Nature. Si trattava senz’altro di una congiunzione troppo blanda che non impedì a Nestorio di separare i soggetti personali – così come però non gli impedì di avvicinarsi al magistero di Calcedonia – ma che tuttavia potè essere battuta in breccia solo dopo la condanna del 553. Il dibattito teologico che ne derivò mise in luce che, sebbene ordinariamente ogni sostanza o natura abbia la propria sussistenza personale, in Cristo è proprio questa sussistenza ad essere unica, ossia ad identificarsi con la Persona, che quindi può anche essere indicata come Prosopon, purchè tale termine diventi sinonimo di Ipostasi. Naturalmente tali scaltrite obiezioni servirono anche ad evitare una lettura criptomonofisita del dogma calcedonese.

Nell’esegesi biblica, Teodoro non rigetta del tutto l’esegesi allegorica, anzi afferma che il VT è tipologicamente leggibile alla luce del NT nel Commento a Giona. Tuttavia l’impronta fondamentale è quella di una esegesi marcatamente letteralista.

SAN GIOVANNI CRISOSTOMO

Giovanni nacque nel 344 ad Antiochia da agiata famiglia. Perse il padre, il tribuno Secondo, da bambino e fu educato nella religione cristiana dalla madre Antusa, pia donna rimasta vedova a vent’anni. Frequentò la scuola di Libanio, che lo avrebbe voluto come suo successore nello scolarcato. Fu poi catecumeno e ricevette il battesimo nella Pasqua del 372. Per influsso di San Basilio, suo amico, si staccò dallo spirito mondano e progettò di ritirarsi con lo stesso Cappadoce a vita eremitica. Dissuaso dalla madre che non voleva rimanere sola, differì una decisione definitiva e proseguì a studiare con Diodoro di Tarso, Melezio di Antiochia e Carterio. Morta Antusa, nel 374 Giovanni divenne monaco eremita. Per quattro anni, sotto la guida di un eremita molto anziano, praticò una rigida ascesi e lo studio biblico. Scrisse in questo ritiro i sei libri Sul Sacerdozio, i due Sulla Compunzione, il Confronto tra il Re e il Monaco, il Contro i detrattori della vita monastica. Verso la fine del 380 Giovanni si ammalò gravemente e abbandonò l’eremitaggio rientrando ad Antiochia. Qui Melezio lo ordinò sacerdote e lo incaricò di predicare in città. La metropoli sull’Oronte si riempì della sua fama, meritatamente coronata dall’epiteto di “Bocca d’Oro”, in greco Crisostomo, e raggiunse persino Costantinopoli. In ragione di ciò Arcadio lo volle Patriarca della capitale. A lungo riluttante, Giovanni si fece consacrare il 26 febbraio 398. Da vescovo riformò i costumi, abolì ogni sfarzo, richiamò clero e religiosi ai loro doveri, promosse opere assistenziali e soprattutto predicò incessantemente, così da entrare nel novero dei maggiori retori ed oratori della storia ecclesiastica. Nei suoi sermoni castigava i costumi senza remore, colpendo anche la Corte imperiale. Caduto perciò in disgrazia, fu vulnerabile agli attacchi degli ariani e oggetto di numerose persecuzioni, nonostante la devozione del popolo. Esiliato una prima volta da parecchi vescovi malcontenti nel Sinodo della Quercia (403), in cui ampio spazio ebbero le mene del patriarca di Alessandria Teofilo (385-412), desideroso di eclissare la sede costantinopolitana, venne trionfalmente reintegrato per richiesta dei fedeli. Nuovamente caduto in disgrazia presso la corte, fu deposto dal soglio patriarcale e spedito in Armenia a Cucuso sull’Antitauro nel 404 e poi, siccome era indomito nel flagellare i vizi anche dall’esilio evidentemente non troppo remoto, fu spedito nel Caucaso, a Pitiunte, nel 407. Mentre doveva raggiungere il suo soggiorno coatto, Giovanni morì stremato dai maltrattamenti nella chiesa di San Basilico a Comana. Le sue ultime parole furono il suo motto di sempre: “Gloria a Dio in ogni cosa”.

Giovanni Crisostomo scrisse trattati, discorsi e lettere. I primi furono scritti soprattutto durante il periodo del diaconato dell’autore. Sono soprattutto apologie della vita ascetica. Il summenzionato trattato Sul Sacerdozio contiene una grande dissertazione sulla dignità dell’Ordine Sacro, sulla sorte tremenda destinata ai preti indegni, sulle qualità del predicatore, sulla vita attiva che esige maggiore perfezione della contemplativa. Esso è il capolavoro di Giovanni Crisostomo e uno dei testi migliori della Patristica. Il trattato Ad eos qui scandalizantur spiega invece come l’uomo, essendo dotato di intelligenza, ha il dovere di cercare di capire l’azione di Dio nel mondo, ma anche di inchinarsi dinanzi a quanto sfugge alla sua mente limitata. I secondi, che altro non sono che Omelie stenografate dai tachigrafi, sono di carattere soprattutto esegetico e liturgico. Le omelie esegetiche sono ampi commenti alla Bibbia, su libri sia dell’AT che del NT; più della metà è sulle Lettere di Paolo, mentre quelle sul Vangelo di Matteo (in tutto novanta), sugli Atti e sulla Lettera ai Romani sono i più completi commenti patristici pervenutici. Degne di nota sono anche le cinquantotto omelie sui Salmi. Le omelie liturgiche riguardano tutte le solennità dell’anno liturgico, ossia i panegirici, tra cui sette particolarmente celebri sono su San Paolo. Tra queste omelie ricordiamo inoltre le Catechesi mistagogiche, nel numero di cinque, in cui l’Autore mostra come il senso religioso implica una viva consapevolezza del mistero, che invece gli eretici vogliono superare mediante il loro razionalismo. Vanno poi menzionate le omelie morali, quelle etico-ascetiche, quelle dogmatico-polemiche e i discorsi di occasione, come i ventuno sulle statue (pronunziate per rincuorare il popolo di Antiochia atterrito dalla minacciata vendetta di Teodosio, le effigi del quale e dei suoi parenti erano state distrutte in un tumulto contro la pressione fiscale, nelle quali il Crisostomo mostra umana solidarietà e incoraggia alla speranza, mentre descrive la disperazione della gente), le due sull’eunuco Eutropio suo persecutore caduto in disgrazia, quello sulla sua consacrazione e sull’unità della Chiesa, quello che tenne il giorno di ritorno dal primo esilio. Le terze, ossia le Lettere, sono duecentotrentasei, piuttosto brevi, indirizzate ad amici di Costantinopoli e della Siria, ma anche al papa sant’Innocenzo I (401-417), generalmente datate al secondo esilio. In tutto i destinatari sono circa cento. Le sue opere furono da subito via via tradotte in latino, siriaco, armeno, copto, arabo, etiopico, paleoslavo e paleorusso.

Fu oratore talmente talentuoso e di esercizio talmente costante da essere paragonato stilisticamente alla purità attica di Demostene. Fu profondamente umano e contrario ad ogni sfruttamento, specie la schiavitù, e ad ogni vizio. La sua opera letteraria si distingue per la nobiltà d’animo dell’autore, la sua natura integerrima, il calore della sua personalità, l’intima capacità di persuasione, la fiducia nel proprio ruolo e la maestria dello stile, puramente attico, in cui lo strumento retorico si fonde di volta in volta perfettamente coi contenuti.

Egli fu attento soprattutto a questioni pratiche e morali che dogmatiche. Dalla Rivelazione cerca di ricavare delle parenesi più che dei dogmi. Niceno convinto, difese il dogma cristologico dagli anomei ma, pur affermando categoricamente che Cristo è Uomo e Dio in modo completo, non specificò mai le modalità dell’Unione delle Due Nature in Lui. Sottolineò il carattere espiatorio della Redenzione e l’ereditarietà del Peccato di Adamo. Difese la realtà dell’Incarnazione contro marcioniti e Paolo di Samosata. Illustrò il significato cristologico ed ecclesiologico dei sacramenti, quali segni dell’unità della Chiesa fondata su Cristo. Nella Catechesi battesimale il primo sacramento è presentato come una nuova nascita. L’Eucarestia è ringraziamento e sacrificio che perpetua la presenza reale di Cristo tra gli uomini. Nell’ascetica, il Crisostomo sottolineò come i monaci siano come un faro per gli altri fedeli, mentre essi, che non possono tutti abbracciare quello stato, possono santificarsi vivendo l’amore sponsale, genitoriale e filiale nella famiglia, così come ogni forma di amore del prossimo. Fu esegeta storico-filologico non alieno da una lettura tipologica del sacro testo fatta in modo sobrio.

SAN TEODORETO DI CIRO

Nacque ad Antiochia nel 393. Crebbe negli ambienti monastici siriani e fu istruito nella cultura classica e cristiana. Fu discepolo di Teodoro di Mopsuestia e di Giovanni Crisostomo. Ebbe amicizia ma non comune dottrina con Nestorio. Eletto vescovo di Ciro nel 423, si dedicò ad estirpare dalla sua diocesi marcionismo ed arianesimo. Quando nel 430 Cirillo scrisse i suoi dodici Anatematismi, Teodoreto ne compose una dettagliata confutazione d’insieme della terminologia, la Reprehensio duodecim capitum seu anathematismorum Cyrilli. Quest’ultimo fece una controconfutazione nell’Epistula ad Euoptium. Teodoreto contestò ancora la terminologia del dogma efesino con il Pentalogus. Nel Conciliabolo di Efeso del 449 Teodoreto fu deposto, ma nel Concilio di Calcedonia del 451 sottoscrisse la formula dogmatica pur con qualche riserva sul lessico tecnico. In realtà Teodoreto riteneva che la crasi, il termine con cui Cirillo indicava l’Unione delle Nature in Cristo, fosse sinonimo di fusione dell’una nell’altra. Riteneva altresì che l’Alessandrino usasse fysis e hypostasis come sinonimi, per cui Cristo avrebbe avuto una sola Natura. Quando Cirillo smise di chiedere agli Antiochieni la sottoscrizione degli Anatematismi, Teodoreto accettò le spiegazioni dell’Alessandrino e credette al fatto che per lui fysis ed hypostasis erano parole non sinonimiche, fino a sottoscrivere la formula calcedonese, che adoperava il lessico antiochieno nell’accezione alessandrina. Teodoreto morì nel 466. Il II Concilio di Costantinopoli nel 553 condannò la Reprehensio e il Pentalogus, che da allora scomparvero dalla storia.

Teodoreto scrisse altresì una apologia del Cristianesimo, la Graecorum Affectionum Curatio, contenente dodici discorsi in cui sono messe a confronto le risposte pagane e cristiane alle principali problematiche filosofiche; una Storia Ecclesiastica in cinque volumi che continua quella di Eusebio, dal 323 al 428; un trattato De Sancta et Vivifica Trinitate; un energico trattato antimonofisita in tre dialoghi, l’Eranistes o Polymorphos; una somma antiereticale, l’Haereticarum Fabularum Compendium.

Letterariamente, i pregi di Teodoreto sono l’enorme erudizione, tratta spesso da fonti secondarie, la lucidità e sistematicità di pensiero, precisione espositiva e stile piano, limpido ed equilibrato secondo i canoni della classicità. Fu l’ultimo classico greco cristiano prima della fioritura della letteratura bizantina.

Teodoreto fu un teologo di alto lignaggio. Comprese tutte le sfumature delle parole e delle formule e ne assimilò il significato profondo. Irremovibile nel rifiuto di formule teopaschite, sottolineò sempre che ciò che accadeva alla Natura Umana di Cristo o al Suo Corpo non era di per sé accaduto anche alla Sua Divinità; di converso, confessava che quando si parlava della Persona di Cristo, bisognava rendere comune ciò che è proprio delle Due Nature attribuendole sia l’una che l’altra. In tal guisa egli ridusse al minimo il ruolo dell’unità ipostatica del Soggetto, ma non la negò e potè contestare Nestorio nel Compendium. Considerò fysis e hypostasis quali sinonimi, ma non accettò la dottrina dell’ “Uomo assunto” di Teodoreto, mentre parlò di Natura Umana di Cristo per venire incontro a Cirillo. La Passione e la Morte dell’Uomo Cristo sono fatte proprie dal Verbo tanto quanto la Sua Carne, mentre la Resurrezione è riguardante il Corpo, non l’Anima e la Divinità di Gesù, in quanto la Morte di Questi è la separazione della Sua Anima dal Suo Corpo, pur rimanendo la Divinità unita ad entrambi, mentre la Resurrezione stessa altro non è che il rientro dell’Anima nel Corpo morto. La Persona del Verbo, che rimette la Sua Anima umana nel Suo Corpo, per cui risorge in quanto compie un’unica azione mediante due operazioni, è lasciata in ombra. Teodoreto identificò la Persona del Verbo col Prosopon che era stato di Teodoro di Mopsuestia, non intendendolo più come maschera, ma appunto come quella che noi oggi definiamo Ipostasi.

Come filosofo, Teodoreto si espresse soprattutto nella Curatio, in cui volle dimostrare perché i Greci dovevano lasciare la filosofia pagana per abbracciare l’insegnamento degli Apostoli. Insegnò che bisogna credere per capire e che tra i filosofi solo alcuni, ma anche i più grandi, come Socrate, Platone e Porfirio, sono vicini alla verità, specialmente il secondo che ha professato il monoteismo. Con quest’opera, finisce la serie storica delle apologie, segnata da un pulviscolo scintillante di tanti altri libri minori, usciti dalla penna di autori grandi e piccoli: il Nazianzeno, il Crisostomo, Cirillo Alessandrino, Filippo di Side (380-dopo il 431), Eusebio, Apollinare il Giovane (310-390), Macario di Magnesia (fine IV sec.).

Come storico, Teodoreto è appunto continuatore di Eusebio tanto quanto Socrate Scolastico (380-440), Sozomeno (400-450 ca.) e, dal punto di vista ariano, Filostorgio (368-439), mentre è senz’altro maggiore di Filippo di Side, Timoteo di Berito (381-449), Sabino di Eraclea (dopo il 376- prima del 390), Esichio di Gerusalemme († 433 ca.)

IBA DI EDESSA

Fu teologo e scrittore siro, di data incerta di nascita e morto nel 457. Fu capo della scuola di Edessa, dove continuava la tradizione di Antiochia, sotto il vescovo san Rabbūlā (350-436). Fu presente al Concilio di Efeso ma non approvò la condanna delle opere di Teodoro di Mopsuestia e fu perciò deposto dallo scolarcato di Edessa (433). Allora scrisse la Lettera al vescovo persiano Maris contro il Concilio di Efeso e Cirillo d'Alessandria. Questa lettera, rimastaci in versione greca, ricalcava la cristologia antiochiena e sottolineava le incongruenze degli eccessi di quella alessandrina. Compostasi temporaneamente la questione ed eletto (435) vescovo di Edessa, Iba fu più volte accusato di nestorianesimo fino a essere deposto nel Sinodo del Ladrocinio (449). Fu tuttavia riabilitato dal Concilio di Calcedonia (451). La sua Lettera fu invece anatematizzata dal II Concilio Costantinopolitano nel 553, anche se la sua persona fu preservata da qualunque censura, tanto che si sostenne che essa non fosse stata scritta da lui ma da un autore ignoto.

SANT’EPIFANIO DI SALAMINA

Anch’egli è annoverabile tra gli Antiochieni, sebbene nato tra il 310 e il 315 in un villaggio in Palestina presso Eleuteropoli da genitori giudeo-cristiani, perché si oppose alla lettura allegorizzante della Bibbia e perché, come i suoi omologhi, combattè Origene e il suo razionalismo, distinguendosi in questa battaglia che anzi con lui iniziò in modo energico. Fu monaco in Egitto e poi nel paese natale, dove fondò un cenobio e divenne prete. Divenne uno dei massimi maestri della sua epoca e per questo fu eletto vescovo di Salamina a Cipro nel 366/367. Partecipò al I Concilio di Costantinopoli nel 381, zelò la lotta contro ogni eresia, ogni filosofia e Origene in particolare. Preso da questo fuoco, bruciò invano quando partecipò al Sinodo della Quercia che depose Giovanni Crisostomo, che contribuì ad accusare ingiustamente di origenismo, sebbene agisse in buona fede. Infatti, resosi conto del suo errore, lasciò la capitale prima del verdetto e morì durante il viaggio di ritorno a Cipro tra il 402 e il 403.

Scrisse opere esegetiche e polemiche. Le prime constano essenzialmente di due testi: Sulle misure e sui pesi biblici, una specie di manuale introduttivo all’AT; Sulle dodici pietre preziose, che spiega il significato delle dodici pietre che figuravano sulla veste di Aronne. Le seconde comprendono un manuale di teologia, l’Anchoratus, che espone la dottrina ortodossa e contesta le eresie, commentando il Credo; il Panarion o Cassetta delle Medicine, in tre libri e ottanta capitoli che, stigmatizza venti eresie precristiane e sessanta cristiane. Di ognune è data la dottrina e la confutazione. E’ il più completo trattato di eresiologia che la Patristica ci abbia lasciato. Epifanio ha scritto poi tre Lettere, delle quali una è assai importante sulla Verginità di Maria.

Eresiologo di prim’ordine, successore in questo magistero di Giustino, Ireneo, Ippolito e Tertulliano, fu letto, commentato ed epitomato dagli eresiologi successivi, come Filastrio. Aggressivo e battagliero nel confutare l’errore, spesso Epifanio è sarcastico, sgarbato e greve. Egli infatti sistematicamente, ma involontariamente, travisò e svilì il pensiero di Origene, la cui complessità non era capace di capire. Il Padre di Salamina fu tuttavia pensatore positivo in cristologia e pneumatologia. Nell’Anchoratus mostra come la Divinità dello Spirito Santo è fondata sulla Scrittura e sui Padri. Della Terza Ipostasi divina Epifanio dice che sussiste in seguito a Processione. Essa è legata dall’eternità sia alle operazioni ad intra che a quelle ad extra della Trinità. Contro Ario Epifanio affermò che in Cristo le Due Nature sono unite in un solo Soggetto agente. In mariologia Epifanio fu tra i primissimi teologi della Grande Chiesa a riprendere le dottrine giudeo-cristiane sull’Assunzione, mentre confessa, a differenza degli altri Antiochieni, che Maria è Madre di Dio.

ALTRI AUTORI DEL SECOLO V

Severiano, vescovo di Gabala, presso Laodicea di Siria, nacque prima del 380 e morì dopo il 408. Fornito di doti oratorie e di cultura, si trasferì a Costantinopoli incontrandovi con i suoi discorsi il favore del popolo e dell'imperatrice Eudossia. Anche il Crisostomo, allora patriarca, lo accolse con cordialità e lo incaricò del servizio liturgico. Severiano in sua assenza cercò di alienargli l'animo del popolo e della corte. Ma al suo ritorno Severiano fu costretto ad allontanarsi. Intervenuta Eudossia, il traditore poté ritornare a richiesta dello stesso Crisostomo, contro il quale tuttavia egli ebbe parte importante nel celebre sinodo della Quercia (403) e dopo il ritorno del Patriarca dal primo esilio. In seguito non si sa più nulla di lui; morì sotto l'imperatore Teodosio II (408-450).

Scrisse commenti a Genesi, Esodo, Deuteronomio, Giobbe e a parecchie epistole di S. Paolo, andati perduti, e omelie per lo più trasmesse mediante i manoscritti contenenti le opere di Crisostomo. Le meglio identificate sono: Orationes sex in mundi creationem , molto importanti per la storia delle idee cosmologiche biblico-tolemaiche; Oratio de serpente quem Moyses in cruce suspendit; In illud Abrahae dictum: Pone, ecc., in Genesi, XXIV, 2; De ficu arefacta; Contra Judaeos; De sigillis librorum; In Dei apparitionem. L'orazione De pace si riferisce alla riconciliazione col Crisostomo nel 401. La sua teologia è squisitamente antiochiena.

Di formazione efesino-calcedonese furono i maggiori omileti del V sec. Molti autori furono anonimi e predicarono contro il manicheismo e il nestorianesimo. Altri sono noti: San Teodoto di Ancira († 446 ca.), il summenzionato Esichio di Gerusalemme, Crisippo della stessa città (†479), Basilio di Seleucia († dopo il 458), Antipatro di Bosra († dopo il 457) e il menzionato San Proclo di Costantinopoli. Altri autori, importanti anche in mariologia, furono l’esegeta Tito di Bosra (†378 ca.) e l’autore ascetico Nilo di Ancira († 430 ca.).

PATRES SYRIACI

Breve introduzione ai Padri della Chiesa Siriaca

Per Padri Siriaci intendiamo quei Padri che scrissero in siriano e pensarono più con categorie mentali aramaiche e semitiche che greco-latine. Tecnicamente, gli scrittori antiochieni sono Padri Siriaci anche se scrivono in greco, ma Teodoreto, Teodoro, Iba, Eustazio, Diodoro pensano secondo schemi greci o greco-siriani. Così prima di loro Origene e ancora prima Taziano e tutti coloro che, da Ignazio, avevano scritto dopo essere nati o vissuti in Siria. I Padri della Scuola di Antiochia, debitamente interpretati, influenzarono enormemente la Chiesa Siriana, specie quella calcedonese, visto che per ironia della sorte una parte significativa della Comunità di quel Paese divenne monofisita. Analogamente i Padri della Scuola di Alessandria influenzarono moltissimo la Chiesa Copta, pur scrivendo in greco; anzi essi hanno esteso la loro egemonia teologica sia sugli ortodossi calcedonesi che sui monofisiti, questi ultimi ovunque diffusi, entro e fuori i confini dell’Impero Romano.

Per Padri Siriaci tuttavia qui intendiamo quei Padri che, appunto, scrivendo in siriano e pensando semiticamente, mantennero una loro inconfondibile peculiarità e influirono specialmente sulla Chiesa Siriana dell’Est, o Assira. Sono diversi e tra essi spiccano Afraate ed Efrem, sebbene specie da quest’ultimo sia sgorgata addirittura una corrente letteraria. L’espressione simbolica della fede, l’immagine come strumento di riflessione teologica, gli sviluppi dei contenuti avvenuti autonomamente dalla Grande Chiesa o la loro custodia in forme arcaiche, l’interesse per l’ascetismo e l’escatologia sono le peculiarità di questa letteratura patristica nella terza grande lingua dell’antichità.

SANT’AFRAATE

E’ il primo Padre di lingua esclusivamente siriana, detto “Saggio persiano” perché suddito dei Sasanidi. Visse nel IV sec. ma di lui nulla sappiamo, se non che fu capo di una comunità di “Figli del Patto”, ossia di cristiani votati al celibato sin dal catecumenato.

Scrisse ventitrè omelie tra il 337 e il 345, delle quali ventidue iniziavano ciascuna con una diversa e conseguente lettera dell’alfabeto siriano. Esse sono chiamate anche Dimostrazioni.

Egli sviluppa una teologia positiva esclusivamente biblica e scevra da qualunque contenuto filosofico e quindi greco-romano. Egli prosegue risolutamente l’antigiudaismo paolino contestando le accuse degli Ebrei ai Cristiani e confutando le usanze della Sinagoga. Afraate dimostra, a partire dalla mera Scrittura, che Gesù è Figlio di Dio e Dio Egli stesso. Confessa la consostanzialità del Verbo col Padre e la Sua Generazione Eterna. Adopera un linguaggio semitizzante e la teologia dei Padri Apostolici. Ignora o finge di ignorare la terminologia di Nicea, anche perché nessun Vescovo persiano si recò a quel Concilio. La sua pneumatologia è conseguenzialmente poco sviluppata. Afraate sviluppa una teologia narrativa, non speculativa, ricca di immagini simboliche molte delle quali relative al Targum trasmesso dai Giudeo-Cristiani. In morale, Afraate chiede una rigida imitazione di Cristo, mediante il digiuno corporale e spirituale. Egli afferma che la morale si basa verso la carità e che essa dev’essere rivolta alle Persone Divine, progredendo di pari passo con l’inabitazione dello Spirito Santo in noi; a complemento, tale carità va rivolta al prossimo. L’edificio ascetico si fonda sulla fede e si costruisce con umiltà.

SANT’EFREM

Nato a Nisibi in Mesopotamia nel 306 da madre cristiana e da padre pagano, sacerdote, che lo cacciò di casa quando seppe che si era convertito alla fede, fu istruito dal vescovo della sua città, Giacomo. Studiò teologia e filosofia, ma quest’ultima in modo distratto, tanto che difettò sempre di una terminologia appropriata. Diacono della sua città, predicò insegnò e scrisse contro le eresie, specie l’ariana, in quanto probabilmente accompagnò il suo vescovo a Nicea per il I Concilio Ecumenico. Eletto vescovo di Nisibi, si finse pazzo per non accettare. Si ritirò ad Edessa quando Nisibi cadde in mano persiana nel 363 e divenne scolarca di quella città. Continuò a vivere asceticamente fino al 372. Sommo poeta, stimato dai contemporanei e persino da San Girolamo, venerato dai Siriaci, poi dai Greci e infine dai Latini, fu nel 1920 Benedetto XV (1914-1922) proclamato Dottore della Chiesa.

Efrem scrisse in prosa e poesia. Nella prima i Commenti scritturistici sulla Genesi, sul Vangelo, gli Atti e le Lettere di Paolo; nella seconda i Carmina Nisibena, gli Hymni contra Julianum, contra haereses, de Nativitate, de Crucifixione, de Resurrectione, de Paradiso, de Virginitate, de Eccleisa. Scritti in siriaco, furono subito tradotti in greco. Efrem fu senz’altro il più grande innografo dell’antichità e fu chiamato “Cetra dello Spirito Santo”, anche per l’enorme quantità di suoi versi.

Pensatore isolato che visse in un contesto culturale diverso da quello fino ad ora considerato, non partecipò alle grandi controversie trinitarie e cristologiche e costruì una teologia semitica basata sulla mera Scrittura, in polemica con gli gnostici i marcioniti i manichei e gli ariani, in continuità con le tradizioni giudeo-cristiane e senza l’apporto della cultura greca, della quale non conosceva neppure la lingua. Il suo linguaggio è figurato, ricco di simboli e di allegorie, sia in poesia che in prosa. La sua cristologia ebbe largo influsso anche nel mondo greco romano e fu più corretta di quella di Afraate, distinguendo tra le proprietà della Natura divina del Verbo e quelle della Sua Persona rivelata, pur mantenendo una cronica insufficienza terminologica in ordine a quelle questioni che riguardano la consostanzialità e le relazioni tra le Persone divine, nonché le Nature e la Ipostasi nel Verbo stesso. Così Efrem potè piacere agli ortodossi ma anche ai monofisiti e ai nestoriani. Nella teologia trinitaria Efrem afferma che la Natura è unica ma le Persone tre, e per indicarne la sussistenza adduce l’argomento della distinzione dei Nomi (Padre Figlio Spirito Santo), perché nel mondo semitico il Nome indica la Persona. In mariologia Efrem non solo iniziò l’innografia mariana, ma attestò la Perpetua Verginità della Madre di Dio e la sua Assunzione. In escatologia insegnò che le anime dei giusti dopo la morte non vedono subito tutta l’Essenza divina, se non dopo la Resurrezione dei Corpi.

ALTRI TEOLOGI SIRIANI

Contemporaneo di Efrem fu Sant’Isacco di Antiochia, vissuto tra IV e V sec., sacerdote. Autore di molti discorsi poetici (nēmrē) in settenarî, di un gruppo di lodi e di sedici madrāshē.

Il primo nome celebre è senz’altro il già menzionato San Rabbūlā di Edessa, rinomato scrittore siriaco. Una biografia sua, una delle più belle scritte in lingua siriaca, c'informa sulle vicende della sua vita. Scrisse tanto in siriaco quanto in greco e fece parecchie traduzioni da quest'ultima lingua. Nacque a Qenneshrīn da padre pagano, che era un sacerdote, e da madre cristiana. Egli percorse la carriera burocratica fino a diventare prefetto. Poi si convertì al cristianesimo e donò tutti i suoi beni ai poveri, ritirandosi in un convento. Prese parte vivacemente alle controversie teologiche di quei tempi e fu un rigido seguace di San Cirillo di Alessandria. Al suo interessamento per le dispute cristologiche dobbiamo le sue versioni dal greco della lettera di Cirillo Sulla retta fede all'imperatore Teodosio e di alcune altre opere del patriarca alessandrino. In lingua siriaca sono stati redatti da lui alcuni canoni ecclesiastici, varie regole per la vita dei monaci, alcuni canti liturgici. Morì nell'anno 435.

Il Cristianesimo siriano alimentò anche il talento scrittorio di San Xenaia di Mabbug († ca. 523), fiorito prima ancora della controversia tricapitolina, vero e proprio classico della sua letteratura, teologo, polemista, omileta ed esegeta, nemico giurato del Calcedonese e della Scuola Antiochiena classica. Il Cristianesimo diede inoltre linfa all’ispirazione di San Giacomo di Sarug († 521), suo contemporaneo, padre dell’omiletica metrica, che influenzò pure la letteratura mediogreca e ispirò la scrittura di Giovanni di Edessa († ca. 586), storico della Chiesa siriana e dei Santi d’Oriente, la cui silloge agiografica è in un certo qual modo una cartina di tornasole per l’autocomprensione della comunità monofisita.

Altro nome illustre è quello di Sant’Isacco di Ninive, scrittore ascetico siro del sec. VII. Originario di Bēth-Qaṭrāyē, fu ordinato vescovo di Ninive verso il 670, ma dopo cinque mesi lasciò tale ufficio per ritirarsi a far vita eremitica ai confini della Susiana, donde poi passò nel monastero di Rabban Shabor; ivi morì vecchissimo, dopo aver perso la vista per l'assidua lettura, intorno al 700. Fecondo scrittore, le sue opere formavano - secondo la testimonianza di ‛Abhdišo‛ (Ebedjesu) - sette volumi. Oggi sono superstiti circa ottanta scritti, che comprendono trattazioni ascetiche, lettere, dialoghi, carmi, ecc., insieme con i quali furono trasmessi scritti che probabilmente spettano ad altri scrittori omonimi. Se ne hanno anche versioni antiche in arabo, greco ed etiope.

Altri nomi importanti furono il continuatore della storia ecclesiastica di Giovanni di Edessa, Ciro di Batna; nel VII sec. Paolo di Tella, collaboratore dell’Esapla Siriana del Vecchio Testamento, e Tommaso di Harqel, che lavorò sul Nuovo Testamento. Giacomo di Edessa († 708), vescovo della città, frequentatore dei circoli culturali di Alessandria, esule dalla sua sede e poi monaco, fu il più grande genio della sua Chiesa nel suo periodo, e mostra ai posteri come essa continuasse a vivere della linfa della Grande Chiesa anche nei primi secoli del dominio islamico. Conoscitore della letteratura e della lingua greche, ma anche dell’ebraico, tradusse moltissimo della patristica bizantina in lingua siriana, della quale realizzò la prima grammatica; cercò la conciliazione del sapere religioso e profano con un Esameron purtroppo incompiuto e lasciò un modello di erudizione che continuò a vivere nelle sillogi di allocuzioni spirituali, nelle catene dogmatiche, nella poesia religiosa che prelusero alla nascita di una letteratura liturgica tipicamente siriana, che va affiancata alle altre liturgie cristiane nel venerando corpus della Tradizione.

LA SCUOLA DI NISIBI

Un’altra personalità importante fu lo scolarca di Edessa Narses (410-503), insediato da Iba e deposto dal suo successore. Il ribelle trovò scampo a Nisibi, nell’Impero Sasanide, presso il vescovo Bar Sauma (470-496), anatematizzato dal Sinodo del Ladrocinio, e i due fondarono nella città una nuova Scuola, completamente fedele alla dottrina di Nestorio (471). Essa fu detta ovviamente “di Nisibi”, ma anche, antonomasticamente e significativamente, “dei Persiani”. La scelta di Narses era obbligata: da decenni ad Edessa studiavano chierici persiani, e soprattutto tra essi poteva trovare l’ultimo scampo l’ormai anatematizzata teologia antiochiena. Fu l’egira di Narses a fondare il Nestorianesimo come confessione cristiana autonoma dalla cattolica-ortodossa e dal monofisismo, mettendo le basi della Chiesa Apostolica d’Oriente così com’è ancor oggi. Nacque così la Chiesa nazionale persiana, indipendente teologicamente da quella dei “Romani”. La Scuola di Nisibi, con la ricchezza dei suoi mezzi e la poderosità delle sue strutture, fu la vera continuatrice di quella edessana, la cui linfa, confluita nell’alveo calcedonese, si era inaridita. Il suo prestigio fu universale: Cassiodoro (485-585) modellò il programma del suo Vivarium sulla base di quello che aveva sentito dire di Nisibi. Solo a Nisibi si continuò ad argomentare basandosi esclusivamente sulla Bibbia, senza impantanarsi nell’uso della prova patristica, e questo suscitò grande impressione nel mondo. Fu grazie alla Scuola che il clero persiano ebbe un suo centro di gravità, che le impedì di sfuggire all’orbita del sistema stellare cristiano, nonostante ne fosse l’ultima propaggine verso l’Asia pagana. Dal 489 infatti ai Persiani fu preclusa la frequentazione ai corsi teologici di Edessa. In conseguenza di ciò, le traduzioni dal greco al siriano, specie di Aristotele e Galeno, oltre che di tutto il corpus di Teodoro di Mopsuestia, crebbero enormemente. Contemporaneamente alle grandi accademie ebraiche, che in quei decenni produssero il Talmud babilonese benevolmente protetti dai Sasanidi, la Scuola di Nisibi, con un metodo mnemonico simile, tramandava Antico e Nuovo Testamento ai suoi discepoli, giovani celibi, con abiti quasi monastici, alloggiati in celle ricavate in un ex-caravanserraglio. Alimentandosi della geryana, la lettura delle Scritture – fondamentale nella religiosità semitica, e quindi non solo in quella aramea, ma anche in quella ebraica e, di lì a poco, in quella islamica – della loro esegesi di tipo midrashico, accompagnata da una sapiente gestualità, la Chiesa Assira, proprio in Nisibi e cominciando con Narses, autore di più di trecento Odi, creò una innografia liturgica di rara bellezza, melodiosa nei suoni, tipica espressione delle liturgie antiochiene. Essa si irradiò ovunque arrivò la Chiesa Apostolica d’Oriente.

Abramo di Bet-Rabban (449-529), autore di commentarî a libri biblici, di scritti teologici e inni liturgici, fu direttore della scuola filosofica di Nisibi.

Cosroe II (590-628) vietò l’elezione di un Patriarca tra il 608 e il 628, e in questo interregno il potere fu esercitato di fatto da Babai il Grande, teologo assai fine, che era una sorta di etcheghè dei monasteri persiani settentrionali. Come locum tenens, Babai fronteggiò bene l’offensiva missionaria monofisita, scatenatasi in seguito all’effimera incorporazione nell’Impero Persiano dell’Egitto e della Siria, e riuscì a salvaguardare la sua Chiesa dalla minaccia più grande, l’occupazione della cattedra del Patriarca da parte di un monofisita. Nonostante si fosse costituita una comunità monofisita persino in Seleucia, i vescovi persiani, su sua indicazione, rinunciando ad eleggere il nuovo capo della Chiesa, evitarono il peggio. Proprio per sigillare la sua identità, il Sinodo del 612 formulò la cristologia ufficiale della Chiesa Assira, sulla base di una definizione dello stesso Babai. Egli, portando a compimento lo sviluppo della teologia di Teodoro di Mopsuestia, così com’era stata integrata da Nestorio, affermò che Gesù Cristo ha due fyseis e hypostaseis, in un solo prosopon. Ovviamente i termini greci sono la traduzione di quelli siriani e pahlavici corrispondenti. Solo da questa data si può affermare che la Chiesa Assira abbia rigettato la cristologia della Grande Chiesa. La formula di Babai può essere tuttavia intesa in più modi. Il senso nestoriano stretto implica due nature con due persone o sussistenze correlate, unite da un nesso piuttosto eslege e leggero, la concreta modalità storica con cui la Persona divina assume e conserva l’umana. Così s’intende il prosopon etimologicamente, come “ciò che si mostra alla visione”, una sorta di fenomeno complessivo cristologico. In tale prospettiva, il dogma assiro è radicalmente diverso da quello calcedonese. Ma se intendiamo i termini natura e sussistenza come sinonimi, o almeno come la medesima sostanza considerata in senso ora potenziale – l’id quod est – ora attuale – l’id quo est- allora la differenza si attutisce e il prosopon si avvicina molto persino alla Persona unica del Calcedonese. Su questo distinguo si giocò il futuro della conservazione nella Grande Chiesa del Patriarcato di Seleucia.

I PADRI ARMENI

L’Armenia ebbe una sua lingua e letteratura, ma subì l’influsso degli autori siriani d’Occidente, come del resto di quelli greci e copti. In questo contesto è opportuno dare qualche delucidazione in merito. La letteratura scritta cristiana cominciò a svilupparsi dal 406, quando San Mesrope Mashtots (361-440), monaco teologo e linguista, creò l'alfabeto armeno con lo scopo di tradurre i testi biblici. Egli, insieme al catholicos Sant'Isacco di Armenia (†438), fu un risoluto avversario del nestorianesimo e fondò un'Accademia denominata Scuola dei Traduttori. Gli allievi furono inviati a Edessa, Atene, Costantinopoli, Alessandria, Antiochia, Cesarea in Cappadocia e altrove, per procurare codici in siriaco e in greco e tradurli. Gli allievi più famosi della Accademia furono Giovanni di Egheghiatz, Giuseppe Balnese, Yeznik di Koghb (387-450), Koryun (380-450), San Mosè di Corene (410-450) e San Giovanni Mandakuni (†498). Yeznik di Koghb scrisse la Confutazione delle sette, Koryun la Storia della vita di San Mesrope, ed Eliseo l'Armeno (410-475) la Storia di Vardan e della guerra armena. Essi, tutti discepoli di Mesrop, concludono quella che può essere definita l'Età dell'oro della letteratura armena, che consistette principalmente di commentari ed esegesi delle tradizioni letterarie ebraica e cristiana, e di storia della Chiesa apostolica armena. In questi primi anni del V secolo furono composte anche alcune delle opere, forse apocrife, come i Discorsi di San Gregorio l’Illuminatore (257-332), il grande restauratore della Chiesa Armena. Come in tutta la letteratura cristiana antica vennero scritti un buon numero di apocrifi biblici, come il Vangelo armeno dell'infanzia.


Theorèin - Luglio 2016