LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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CLAVES PATRUUM LATINAE

Breve introduzione ai Padri Latini del IV e del V sec.

Sebbene la teologia latina fiorisse con cent’anni di ritardo rispetto alla greca, anche per essa il periodo postcostantiniano e delle dispute trinitario-cristologiche fu quello di una grande fioritura di nomi importanti. L’Occidente attendeva nomi di rilievo dalla fine degli Apologeti e il suo stato di minor sviluppo si dovette ad alcuni fattori: la mancanza di scuole teologiche simili a quelli di Antiochia e Alessandria, il fatto che il grosso delle dispute dogmatiche a cui facevamo cenno si svolgessero in Oriente, la minore radicazione del Cristianesimo in Occidente e la presenza di forti contrasti intestini in quella Chiesa latina che pure era stata la più vivace culturalmente, ossia quella africana.

Furono i problemi specifici dell’Occidente latino – il Manicheismo (1), il Donatismo (2) , il Pelagianesimo (3) - e furono quei teologi – Girolamo, Ilario- che conobbero temi, problemi e metodi dei loro omologhi greci a dare il propellente per il decollo della teologia anche in questa parte della Chiesa. Il grande martello di queste eresie fu Agostino di cui diremo a parte, ma anche gli altri autori che andiamo ad esporre furono pugnaci contro di esse e nella difesa del dogma niceno-costantinopolitano e nell’impegno per la soluzione della disputa cristologica. I maggiori sono Ottato di Milevi, Ilario di Poitiers, Rufino di Aquileia, Leone Magno; vi sono poi autori minori come Eusebio di Vercelli, Massimo di Torino, Lucifero di Cagliari, Gaudenzio di Brescia, Zenone di Verona, l’Ambrosiaster, Cromazio di Aquileia, Aurelio Prudenzio, Cecilio Sedulio, Paolino di Nola, Pier Crisologo, Gelasio I. Una menzione a parte meritano Ambrogio di Milano e Girolamo, che con Agostino e Gregorio Magno sono le quattro colonne della patristica latina. Essi rientrano pure in questa sommaria esposizione, ma precisando bene che sono una spanna più in alto degli altri.

SAN ZENONE DI VERONA

Nacque in Mauritania nel 300 e morì nel 371. Retore africano, visse come eremita nel Trentino. Eletto vescovo di Verona nel 362, tenne la cattedra fino alla morte. Scrisse sedici sermoni lunghi e settantasette brevi, confutando soprattutto l’arianesimo ma parlando anche di altri temi, come la mariologia.

SANT’OTTATO DI MILEVI

Vescovo di Milevi in Algeria, nacque intorno al 320 e morì nel 390 circa. La sua opera De Schismate Donatistarum, detta anche Contra Parmenianum, gli ha procurato un posto importante nella storia della teologia; essa è la prima scritta contro i Donatisti. Fonte ecclesiologica e storica di grande rilevanza, tenuta in gran pregio da Agostino, il De Schismate Donatistarum confuta il Donatismo dogmaticamente mostrando quali sono le caratteristiche della vera Chiesa e che esse si trovano in quella Cattolica e non in quella della Numidia.

Il trattato si divide in sette libri, la cui sintesi è tracciata dallo stesso autore nel capitolo settimo del primo libro. Ottato nel primo libro narra la storia dello scisma, nel secondo mostra quale e dove sia l’unica Chiesa sapendo che non ve ne possono essere due, nel terzo dimostra che non sono stati i cattolici a chiedere l’intervento militare dell’Imperatore causando diverse violenze, nel quarto mostra chi è realmente peccatore e qual è il ministro il cui sacrificio non è gradito a Dio e a cui non va chiesta l’unzione crismale, nel quinto parla del Battesimo, nel sesto confuta le eresie dei Donatisti, nel settimo – aggiunto in seguito – insegna che i figli degli scismatici non sono colpevoli e possono essere ammessi alla comunione cattolica se lo chiedono.

Polemista moderato desideroso di giungere ad una dignitosa conciliazione, Ottato difende tuttavia senza mezze misure la condanna cattolica del Donatismo e approva l’intervento armato dello Stato, necessario per le violenze degli scismatici, pur deplorandone gli eccessi e attribuendo ai ribelli la colpa che lo ha reso necessario. Il Santo nella sua opera individua alcuni concetti chiave dell’ecclesiologia e della sacramentaria. Per i Padri del IV sec. le note distintive della Chiesa erano sempre state l’apostolicità, la santità e l’unità, che però anche Donato rivendicava alla sua comunità. Per Ottato sono note indispensabili anche la cattolicità e la comunione con la Cattedra di Pietro, Principe degli Apostoli e Capo Visibile della Chiesa stessa. Chiaramente i Donatisti, isolati dalle altre Chiese e da Roma, non avevano né l’una né l’altra caratteristica. Ottato fornisce la lista di tutti i Papi fino a san Siricio (384-389), dichiarando che tutto il mondo è concorde con questo Pastore mediante le lettere di comunione. Tramite il Papa, Pietro continua ad essere al centro della comunione cattolica esattamente come Cristo aveva voluto. Nella sacramentaria Ottato respinge l’idea donatista di una validità dei sacramenti in base alla dignità morale di chi li amministra e insegna che essi sono validi di per sé, in virtù dell’azione della SS. Trinità tramite i segni, ed efficaci in base alla fede di chi li riceve.

SANT’ILARIO DI POITIERS

Grazie a lui la teologia latina arrivò al suo splendore in questo battagliatissimo periodo di controversie dogmatiche, sebbene fosse risorta da poco. Ilario nacque intorno al 315 proprio a Poitiers in Gallia e fu formato nella cultura umanistica. Si sposò ed ebbe una figlia di nome Abra; diventato catecumeno, ricevette poi il battesimo, dopo il quale si dedicò solo alla Chiesa. Nel 350 divenne vescovo di Poitiers e professò sempre senza compromessi la fede nicena difendendola pugnacemente. Nel 355 fu proprio Ilario ad ottenere dal Concilio di Parigi la condanna del metropolita di Arles Saturnino, filoariano. Per tutta risposta, il vescovo eretico ottenne dall’imperatore Costanzo II (337-361) la condanna di Ilario all’esilio in Asia Minore. Il Santo, nei quattro anni in cui dovette soggiornare colà, potè conoscere meglio tutta la questione trinitaria e cristologica, affinando il suo pensiero. Per i vescovi gallici ortodossi che gliene avevano fatto richiesta, Ilario raccolse tutte le professioni di fede ortodossa delle Chiese Orientali nel Liber de Synodis seu de Fide Orientalium. Nel 359 professò la fede nicena nel Concilio di Seleucia e venne accolto dai vescovi orientali ortodossi nella comunione ecclesiastica. Nel 360 potè rientrare in Gallia passando per Roma, grazie all’editto di remissione di Giuliano l’Apostata (360-363); in patria convocò un nuovo Concilio a Parigi nel quale depose Saturnino di Arles e Paterno di Périgueux, debellando definitivamente l’arianesimo in Occidente. Negli ultimi anni Ilario svolse una attività apostolica eccezionale, favorendo peraltro lo sviluppo del canto sacro del quale fu un ottimo autore e di cui si servì per catechizzare il popolo nella dottrina nicena. Morì nel 368.

Ilario scrisse molto e le sue opere si dividono in cinque gruppi: dogmatiche, esegetiche, polemiche, epistolari ed inniche. Le prime annoverano soprattutto il menzionato Liber de Synodis e il capolavoro De Trinitate, nonché il Tractatus Mysteriorum. Le seconde constavano di molti commentari biblici sia sui libri dell’AT che del NT, ma dei quali ci sono rimasti soltanto il Tractatus in Job e il In Evangelium Matthaei commentarius. Le terze sono senz’altro le più numerose, delle quali le più importanti sono il Contra Costantium imperatorem liber unus, il Contra Arianos vel Auxentium mediolanensem liber unus e l’Ad Costantium Augustum. Le quarte sono andate perdute ad eccezione dell’Epistola ad Abram filiam suam. Le quinte sono radunate nel perduto Liber Hymnorum ed erano soprattutto composizioni strofiche da eseguirsi a cori alternati. Ci rimangono di Ilario anche i Fragmenta Historica. Chiamato l’Atanasio di Occidente, Ilario fu scrittore involuto, spesso gonfio che si ripeteva in modo robusto.

La metodologia di Ireneo è positiva, perché il Padre non ricorre se non alla Scrittura per argomentare. Per il Vescovo di Poitiers la filosofia è inutile e dannosa, non discostandosi da Ireneo di Lione e da Tertulliano. Ilario rintraccia proprio nella contaminazione razionalista del dogma la nascita dell’Arianesimo. Perciò il metodo va dalla fede alla ragione e non viceversa. La Scrittura esige una interpretazione che si serva di categorie teologiche e non filosofiche. La Natura Divina va esplorata sulla base della Rivelazione e non dei principi umani. In sintesi, il pensiero umano dev’essere subordinato alla Rivelazione per essere usato con profitto nell’intellezione della stessa.

Ilario non fornisce prove filosofiche dell’esistenza di Dio, ma ne determina la Natura sulla base di alcuni attributi teologici: eternità, onnipotenza, infinità, onnipresenza e bellezza. Il primo attributo Ilario lo desume dal Nome di Dio nell’Esodo, che implica l’immutabilità; in tal modo Ilario implicitamente afferma il primato dell’Essere di Dio su ogni Sua altra perfezione, aprendo una strada che arriverà assai lontano, anche perché è tra i primi ad argomentare a partire dal concetto di “Colui Che E’”. Il secondo attributo viene esplicato affermando che il Creato è racchiuso in Dio senza che Egli ne faccia parte, per cui esso Gli è assolutamente subordinato. Sempre su base biblica Ilario argomenta per il terzo e il quarto, mentre per il quinto parte dal concetto biblico (Sap 13,5) per cui dalla bellezza delle cose si risale a quella del loro Artefice, fino ad arrivare a postulare per Dio una bellezza assoluta. Ilario insegna chiaramente che gli attributi di Dio si identificano con la Sua Essenza, per cui Egli non ha ma è i Suoi attributi. Tuttavia, come Origene o Clemente Alessandrino o Gregorio di Nissa, Ilario sa che la Natura di Dio non può essere esaurientemente intesa e che quindi rimane più oggetto di fede che di ragione.

E’ di Ilario il grande merito di aver colmato il gap tra il linguaggio teologico dogmatico latino e quello greco-orientale, sebbene egli intervenisse a cose fatte ed essenzialmente per difendere il dogma niceno dall’assalto di Costanzo II. L’esposizione chiara, sistematica, approfondita e polemica della dottrina ortodossa fu fatta da Ilario nel De Trinitate. Ilario non è un mero compilatore, per cui nell’opera approfondisce le Relazioni tra le Persone Divine mescolando il meglio della teologia latina prenicena con quello della teologia greca postnicena. Enciclopedia teologica vivente, Ilario, riallacciandosi a Tertulliano e Cipriano, rimette la teologia latina al centro del dibattito speculativo, superando le sue fonti di ogni lingua sia per l’ampio approfondimento delle tematiche che per la chiarezza con cui definisce l’Unità della Natura Divina e la distinzione delle Persone del Padre e del Figlio, pur sussumendo nella fede nicena il meglio della tradizione orientale. Ilario inoltre superò ogni subordinazionismo che gli veniva da Tertulliano, affermando che il Padre, Che pure genera il Figlio, e Questi, Che pure è generato, sono in una completa compenetrazione sostanziale di essere, volere ed agire.

Nel De Trinitate Ilario, dopo aver descritto all’inizio del I libro le lunghe discussioni che, a partire dalla lettura della Bibbia, lo portarono alla conversione, esamina in undici libri, dal II al XII, il mistero delle Persone Divine, in modo ampio e approfondito, per fissarne i termini in modo preciso. Demolisce con acribia tutte le obiezioni ariane alla diseguaglianza tra Padre e Figlio. Gli ariani sostenevano che la distinzione delle Persone all’interno della Natura implicasse di fatto il politeismo e adducevano a prova della loro tesi di non consostanzialità del Padre e del Figlio svariati luoghi biblici, fino a sostituire il termine Generazione, riferito al rapporto tra le Due Persone Divine, con quello di Creazione. Ilario invece si dà programmaticamente la dimostrazione degli obiettivi contrari: Unità di Dio nella distinzione delle Persone avvenuta per Generazione, argomentazione biblica, Consostanzialità del Padre e del Figlio. Nel VII libro il gran Padre mostra che il Figlio, confessato da tutti quale Dio, Lo è realmente e non in senso accomodatizio per cinque ragioni: perché ne porta il Nome, perché ne è Figlio, per la Sua Natura, la Sua Potenza e le Sue affermazioni. Egli non sarebbe chiamato Dio come il Padre col consenso del Padre se non lo fosse; lo è perché è Suo Figlio; essendone Figlio è della stessa Sua Natura, la manifesta con le Sue azioni e la proclama con le Sue affermazioni, che diversamente sarebbero rispettivamente ingannevoli nello scopo e bugiarde nella formulazione, sebbene Egli sia venuto per rivelare la Verità. Il Padre ha generato il Figlio senza nulla perdere della Sua Natura e il Figlio ha in Sé tutto del Padre essendogli uguale per operazione, virtù, onore, potestà, gloria e vita. Merita una menzione l’idea che Ilario ha del Corpo di Cristo, Che sente la forza della Passione ma non il dolore, per cui egli rigetta la sentenza ariana per la quale il Redentore, se fosse stato Dio, non avrebbe potuto soffrire, in attesa della soluzione di Calcedonia alle questioni cristologiche di tal fatta. Sebbene poi si soffermi assai poco sullo Spirito Santo, Ilario considera la Sua Persona come dono reciproco del Padre e del Figlio escludendo che Essa fosse una creatura ed affermandone la Consostanzialità alle altre Due.

Nonostante la ritrosia che ebbe per la filosofia, Ilario ha un posto nella sua storia. Proprio nel De Trinitate egli scolpisce un concetto filosofico di rara potenza: “Niente più dell’Essere è proprio di Dio”, il Quale così è l’opposto del nulla. Da qui appunto quella immutabilità di cui parlavamo, in quanto Quello stesso Che è non potrebbe essere né iniziato né finito. L’Essere puro, che è Dio, è quindi immutabile, eterno, autosufficiente e semplice. Così Ilario battezzava col rito latino Parmenide. In Ilario le preoccupazioni morali hanno la preminenza sulle questioni metafisiche. Egli aspirava alla felicità tramite la virtù ma, non potendo accettare l’idea che l’uomo prima ricevesse tale dono da Lui per poi esserne privato, come accadeva nel paganesimo a causa della morte, ne dedusse che Dio era unico, eterno, onnipotente e immutabile, come abbiamo detto. Dunque Ilario giunse al monoteismo cercando di risolvere il problema della felicità umana, prima ancora di leggere la Bibbia. In essa, come abbiamo visto, la lettura dell’Esodo e del Nome di Dio lo segnò profondamente avvicinandolo a quella fede che attribuiva a Lui quelle caratteristiche che Ilario Gli aveva riconosciuto tramite mera ragione. Il Prologo di Giovanni, mostrandogli come Dio si fosse Incarnato per salvare l’Uomo e renderlo felice, risolveva il problema antropologico di Ilario e gli permise di diventare cristiano. E’ degno di nota che, fedele allo spirito latino, affermando che ogni cosa creata è corporea, Ilario ritenne che anche le anime avessero una loro corporeità eterea.

SANT’EUSEBIO DI VERCELLI

Sardo, nato intorno al 283, soggiornò per un periodo a Roma dove fu lettore; trasferitosi a Milano, fu un ardente sostenitore del Credo di Nicea e nel 345 fu eletto Vescovo di Vercelli, per risollevare le sorti della disastrata Chiesa piemontese. Energico pastore, fu esiliato nel 355 da Costanzo II prima a Scitopoli e poi in Cappadocia, infine in Egitto, perché non si era piegato al Conciliabolo di Milano (351). Giuliano l’Apostata lo liberò nel 361. Il Santo morì nel 370 circa. Gli sono attribuite varie opere, delle quali ci sono giunte tre lettere; Girolamo gli attribuisce la traduzione dei Commentari ai Salmi di Eusebio di Cesarea. Apostolo del Piemonte, che evangelizzò ben oltre i confini della sua diocesi anche quando tornò dall’esilio, fu indefesso assertore dell’ortodossia nicena.

SAN LUCIFERO DI CAGLIARI

Nacque a Cagliari nei primi anni del IV sec. e morì nel 370. Vescovo della sua città e pugnace assertore dell’ortodossia nicena, di costanza ammirevole e intrepido sino al martirio, Lucifero fu legato di papa San Liberio (352-366) presso Costanzo II, onde convocare un Concilio in difesa della Fede. L’esito però fu il Conciliabolo di Milano nel 355 che fu dominato dagli ariani e fulminò la condanna dell’esilio nei confronti dei niceni, compreso Lucifero. Questi fu relegato in Siria, in Palestina e nella Tebaide. Nel 361 fu liberato da Giuliano l’Apostata. Scrisse i De Sancto Athanasio libri duo, il De Regibus Apostaticis, il Moriendum esse pro Dei Filio, il De non conveniendo cum haereticis, il De non parcendo in Deum deliquentibus, che indirizzò a Costanzo per difendere sant’Atanasio e polemizzare con gli ariani. Per Lucifero le Tre Persone Divine sono consostanziali e hanno quindi la stessa eternità, la stessa potenza, la stessa sovranità e la stessa grandezza. Fu autore rigorista e intransigente i cui seguaci marcarono questi accenti tanto da essere poi ripresi dalla Chiesa.

SANT’AMBROGIO DI MILANO

Primo dei Quattro Grandi Padri Latini (con Girolamo, Agostino e Gregorio Magno), Ambrogio, contemporaneo di Girolamo e Agostino, potè svettare col suo ingegno grazie all’altissima cattedra sulla quale salì, essendo Milano all’epoca capitale dell’Impero e centro culturale di prima grandezza. Nacque a Treviri nel 374 da famiglia senatoriale e fu educato a Roma in modo eccellente coi fratelli Satiro e Marcellina, così da poter scalare velocemente le vette della carriera burocratica e venir mandato dal prefetto del pretorio Probo a Milano come consularis o governatore della Liguria e dell’Emilia, ossia di tutta l’Italia nordoccidentale. Morto il vescovo Aussenzio nel 374, Ambrogio, che aveva cercato di comporre le aspre dispute elettorali, fu scelto come candidato di compromesso per acclamazione, senza potersi sottrarre e passando così, lui ancora semplice catecumeno, direttamente dal battesimo all’episcopato, ricevuto il 7 dicembre nel 374. Ambrogio donò tutti i suoi beni ai poveri e si diede alla preghiera e alla penitenza, allo studio e alla riflessione. La lettura della Bibbia divenne il suo pane quotidiano. Il suo zelo fu celebre, la sua scrittura dotta, la sua direzione d’anime illuminata, la sua virtù eccelsa e la sua difesa della fede e della disciplina gagliarda. Egli convertì Agostino e lasciò nella Chiesa di Milano una impronta tanto forte che essa fu detta ambrosiana, traendo da lui anche il suo rito liturgico. Fu grazie a lui che vennero arginate le mene filoariane di Giustina (†388), madre di Valentiniano II (375-392), e che l’imperatore Graziano (367-383) seguì una politica antiariana e filonicena; sempre per merito suo il Concilio di Aquileia del 381 depose i vescovi ariani Palladio e Secondiano. Ambrogio non indietreggiò nemmeno quando dovette affrontare Massimo (383-388), assassino di Graziano, ed imporre a Teodosio (379-395) una severa penitenza per il massacro di Tessalonica del 390; il grande Vescovo aveva anche insegnato all’Imperatore che non poteva disporre dei beni della Chiesa e lo aveva convinto a promulgare quell’Editto che rese il Cattolicesimo sola religione di Stato (380). Alla morte di Teodosio, fu Ambrogio a pronunziare l’orazione funebre. Il Santo morì nel 397.

Il corpo delle opere ambrosiane è molto vasto. Ambrogio cominciò a scrivere qualche anno dopo la sua elezione episcopale servendosi della letteratura per raccogliere le sue omelie. Queste si accrebbero anno per anno fino alla sua morte e hanno ovviamente un argomento biblico. Inoltre abbiamo una ventina di opere esegetiche ambrosiane, quasi tutte sull’AT (De Paradiso, De Cain et Abel, De Noe, De Abraham, De Isaac et anima, De Bono mortis, De Fuga saeculi, De Jacob et vita beata, De Joseph, De Patriarchis, De Helia et jeunio, De Tobia, De Interpellatione Job et David, Expositio Psalmi CXVIII, Expositio Isaiae Prophetae) tra cui la maggiore è l’Hexaemeron in sei libri sui Sei Giorni della Creazione, mentre l’unica sul NT è l’Expositio Evangelii secundum Lucam in dieci libri. Fedele al modello di Filone di Alessandria, Ambrogio presenta ognuno dei personaggi che interpreta nelle sue opere sulla Bibbia più come un modello spirituale che come un individuo storico. Sotto queste opere bibliche vi sono le omelie del Santo debitamente sviluppate. Vi sono poi le opere dogmatiche: i cinque libri del De Fide, i tre libri del De Spiritu Sancto – l’una e l’altra contro gli ariani e la seconda prima opera pneumatologica nella teologia latina- il trattato De Incarnationis Dominicae Sacramentis, l’Explanatio Symboli ad initiatos. Rammentiamo le opere morali ed ascetiche: i tre libri del De Officis Ministrorum (anch’esso basato sulle omelie dell’Autore); i tre libri del De Virginibus ad Marcellinam Sororem; il De Viduis; il De Virginitate; il De Institutione Virginis et de Sanctae Mariae Virginitate Perpetua. Vi sono poi gli scritti di argomento vario: i due libri del De Excessus fratris sui Satyri; il Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis; il De obitu Valentiniani e il De obitu Theodosii. Infine abbiamo le novantuno Lettere (in cui sono confluiti discorsi, relazioni, scritti diversi e moltissime notizie storiche) e una quarantina di Inni liturgici, dei quali autenticamente ambrosiani sono l’Aeterne Rerum Conditor, l’Aeterna Christi Munera, la O Lux Beata Trinitas, lo Splendor Paternae Gloriae, il Deus Creator Omnium, lo Iam surgit hora tertia e il Veni Redemptor Gentium.

Ambrogio fu fondamentale per la nascita della civiltà medievale, alla quale diede il suo apporto pratico, poco incline alla teoresi e con poco tempo per la speculazione, ma ben piantato nel campo della pastorale e della politica ecclesiastica. Non mancano tuttavia spunti teorici importanti nelle sue opere, sia filosofici che, soprattutto, teologici e morali.

In antropologia Ambrogio non si distingue da quei Padri- la maggioranza- che avevano una concezione platonica dell’uomo. Nell’Hexaemeron il Santo afferma senza mezzi termini che l’uomo è la sua anima e il suo corpo ne è solo la veste. Nel De Paradiso paragona il corpo decaduto alla prigione dell’anima. Il De Bono mortis attesta la sopravvivenza dell’anima secondo il modo di ragionare di Platone nel Fedone, dove leggiamo che l’anima è la vita del corpo in quanto tale, per cui quando manca essa manca anche la vita.

In morale il Santo insegna un alto livello di perfezione, specie nel De Officiis ministrorum, dove si rivolge sia ai chierici che ai cristiani laici. Sebbene la sua opera sia divisa in tre libri come quella di Cicerone a cui si ispira letterariamente, ha una impostazione assai diversa da quella del grande Retore: Ambrogio ha una nozione giusta dell’ultimo fine, la certezza della vita futura e del premio come del castigo in essa in base ai meriti e ai demeriti di ognuno. Ambrogio impernia sulla legge naturale sia la morale che la vita civile, ma sa che la decadenza della natura umana causata dal Peccato esige sia la legge positiva del Decalogo che quella dello Stato. Un accento particolare Ambrogio lo mette sulla castità quale distintivo del cristiano in un’epoca di lussuria. Del resto, come abbiamo visto scorrendo i titoli delle sue opere, Ambrogio ha particolarmente a cuore il tema della castità e lo difende con vigore e passione.

In teologia dogmatica, il Padre si soffermò sulla dottrina trinitaria. Egli difende l’Unità della Sostanza e la Distinzione delle Persone. Il Padre è fonte e radice del Figlio, il Figlio con Lui è fonte dello Spirito Santo. In cristologia il Santo distingue perfettamente le Due Nature con le rispettive Volontà nella Persona di Cristo, senza detrimento della loro Unione, nella Quale egli postula la Comunicazione degli Idiomi. In tal modo Ambrogio, che primo tra i latini riprovò Apollinare di Laodicea, preparò la originale sintesi trinitario-cristologica di Agostino, che anticipò e superò quella dell’Oriente di Efeso e Calcedonia.

La soteriologia si impernia sulla Redenzione e questa ha, in Ambrogio, un valore soddisfattorio ed espiativo. Da Origene e da Ireneo egli riprende l’idea che la Passione e la Morte di Cristo siano il riscatto pagato a satana per la salvezza dell’Uomo.

In mariologia Ambrogio batte tutti i Padri latini sia per la vastità dei suoi scritti che per l’influenza del suo insegnamento: la Vergine Maria è per lui, nella Sua integrità morale e fisica, la Madre del Figlio di Dio, il modello della Chiesa, l’esempio di vita spirituale per ogni credente, la Tutta Santa, la Corredentrice e, implicitamente, l’Immacolata. Di Maria Ambrogio tracciò un ritratto morale ad oggi insuperato.

Nella sacramentaria, Ambrogio si cimentò con la Penitenza, il Battesimo e l’Eucarestia. Di essa egli dice che, dopo la consacrazione, è veramente Corpo e Sangue di Cristo.

Un apporto importantissimo venne da Ambrogio alla teologia spirituale. Seguace di Filone, Origene e Plotino, egli rivive quanto va scoprendo in altri a vantaggio dei fratelli. Fu pensatore equilibrato, che seppe bilanciare l’apporto umano e quello cristiano nella teorizzazione della personalità ideale, costruita attorno a una ben precisa concezione della relazione tra Grazia e natura. La prima perfeziona e purifica la seconda innalzandola, per cui nessuna azione umana che sia buona di per sé è scartata dal percorso ascetico di Ambrogio, che anzi le inserisce tutte in esso nobilitandole e tessendone ampi elogi – tipico quello dell’amicizia e della famiglia, pur mettendo in guardia dalla divisione che ne può venire. Tuttavia il fulcro di questa spiritualità è la ricerca di Cristo, la pratica del Suo mistero tutti i giorni e in tutte le cose e al di sopra di esse. Ambrogio è un cristiano e cerca Lui, non la felicità o la saggezza. Per il Santo, come per Origene ed Ippolito, la Nascita di Cristo si ripete in ogni cristiano e permette questa ascensione del fedele verso di Lui. Proprio la sottolineatura ambrosiana del tema della Nascita gli permetterà di durare tanto a lungo nella mistica medievale. Collegato a questo argomento è quello della maternità spirituale. Infatti, come la Vergine, ogni fedele genera in sé il Cristo; e come Maria ai piedi della Croce riceve e genera spiritualmente Giovanni, così ogni fedele genera in sé mediante Cristo gli altri fratelli, di cui si occupa. Il singolo cristiano ha dunque una maternità spirituale che è simile a quella della Chiesa e della Vergine Maria, ognuna delle quali fa emergere diversi aspetti della Nascita e della crescita di Cristo in noi. Preghiera, sacrificio, penitenza, opere buone e sacramenti sono i mezzi di sviluppo e di cura della vita spirituale e le tappe di crescita del Verbo in noi. In modo particolare i Sacramenti sono la condizione e il corrispettivo dello sviluppo della virtù ascetica che ognuno deve praticare nella Sua vita.

Antidialettico per eccellenza e nemico giurato della filosofia per la quale era negato, Ambrogio entra nella storia di quest’ultima per la sua identificazione dell’Essere con l’Essere per sempre ossia con l’Eternità, per cui sulla scia di Ilario interpreta il Nome di Dio nell’Esodo come la prova della Sua Eternità. Fu dunque un essenzialista e preparò l’interpretazione agostiniana dello stesso Nome fatta nel solco del Neoplatonismo. Degna di menzione è la sua interpretazione allegorica in senso moraleggiante del Peccato di Origine descritto dalla Genesi, in cui il serpente simboleggia il piacere, la donna la sensualità, l’uomo l’intelligenza offuscata dai sensi e il Paradiso come la regione superiore dell’anima, i cui fiumi sono la Grazia e la virtù. Queste allegorie avrebbero senz’altro sovrinteso ad una metafisica straordinaria, se Ambrogio le avesse sviluppate: ad esempio sono impressionanti le interpretazioni spirituali delle pene infernali descritte nel Vangelo, che il Santo non considera altro che la tristezza della colpa, il rimorso che genera e la sofferenza del peccato commesso. Tecnicamente Ambrogio è un immaterialista e sviluppa quanto insegnato da Origene contribuendo a tramandarlo a chi venne dopo di lui, anche se a volte con minor ortodossia, come Scoto Eriugena.

Non si può passare sotto silenzio l’apporto di Ambrogio all’innografia e alla musicologia. Il canto liturgico dipendeva, fino a quel momento, dalla Chiesa greca per la teoria musicale e dalla Bibbia per il testo e la pratica canora. Il Santo fu il restauratore del canto sacro occidentale come Basilio lo era stato per l’Oriente. I suoi menzionati Inni, composti per i medesimi intenti catechistici di Ilario, erano concepiti all’orientale come un canto alternato antifonico tra cantori e popolo. Particolarmente eleganti, fanno si che Ambrogio sia considerato il Padre dell’Innodia latina.

Nella loro esecuzione musicale Ambrogio fissò quattro modi autentici: di Re, di Mi, di Fa e di Sol, che i dotti chiamano protos-frigio, deuteros-dorico, tritos-ipolidio e tetrardos-ipofrigio. Il canto ambrosiano ebbe secoli di preminenza in Occidente e sopravvive ancora, sebbene contaminato da modificazioni, a Milano. Esso ebbe una enorme forza morale che toccò sant’Agostino, e sebbene popolare ha una maturità artistica profonda, una grande esperienza e una sicura formazione letteraria.

AMBROSIASTER

E’ lo pseudonimo con cui indichiamo un anonimo autore che scrisse un Commentario alle Lettere di Paolo molto succinto ma importante. A lungo fu creduto opera di Ambrogio ma già Agostino lo attribuiva a Sant’Ilario, senza che però questo ci aiuti a capire chi sia stato realmente a scriverlo.

AURELIO CLEMENTE PRUDENZIO

Nato nel 348 in Ispagna e morto dopo il 405, fu uno dei più espressivi poeti della latinità classica cristiana. Retore, avvocato e politico, si dedicò poi solo a Dio e alla poesia. La disposizione dei suoi scritti è la seguente: la Praefatio, che li introduce con canti di carattere lirico; il Cathemerinòn liber, composto da dodici canti quotidiani che accompagnano la preghiera quotidiana dalle Lodi alla Compieta e ricordano le feste principali dell’anno liturgico, con una poesia letteraria che fonde l’epica e la lirica (a volte in modo non intimo), comprende visioni e figurazioni bibliche, dipinture della natura e mistico-simboliche (tutte in certe circostanze troppo invadenti nelle descrizioni), con una polimetria ispirata a Catullo e a Orazio senza tralasciare le strofe giambiche popolari; l’Hamartigenìa, che descrive l’origine del peccato, polemizza con il dualismo marcionita, rende drammatico il senso del male e tratteggia con colori accesi Inferno e Paradiso; l’Apotheosis, che tratta della Trinità e dell’Incarnazione; la Psychomachia, che inaugura il poema allegorico antico, impregnandolo di misticismo, e in cui virtù e vizi combattono tramite mosse figure e svariate scene fino alla vittoria del bene sul male e del Cristianesimo sul paganesimo; i Contra Symmacon libri duo, che con efficace polemica lottano contro l’ultimo difensore del paganesimo morente, il senatore Simmaco (340-402); il Peristephànon, che introduce il tema del martirio in poesia (desumendolo dalle tradizioni popolari e dagli Atti dei Martiri), trattandolo in modo anch’esso nuovo nei tocchi di coloritura larga e fantastica, nei ritmi sostenuti nel descrivere l’aurora di sangue del Cristianesimo che si diffonde impetuoso, con un’arte viva che sfocia spesso in un verismo crudo, violento ed orrorifico. La raccolta è chiusa da canti a sfondo morale, polemico e teologico. In alcuni manoscritti segue il Dittochaeon o Tituli historiarum, formato da esametri uniti in quarantanove strofe tetrastiche di soggetto biblico, che illustrano i quadri di una Chiesa ispirati all’Antico e al Nuovo Testamento.

SAN CROMAZIO DI AQUILEIA

Nacque ad Aquileia o in Ispagna tra il 335 e il 340, monaco, partecipò al Concilio di Aquileia, divenne arcivescovo della sua città nel 388 e la resse fino alla sua morte nel 407-408. Scrisse quarantatrè sermoni e un Commento al Vangelo di Matteo. Predicò efficacemente sul Nuovo Testamento, contro l’Arianesimo e interpretando spiritualmente le azioni del Redentore. Non mancano spunti mariani nelle sue omelie.

SAN GAUDENZIO DI BRESCIA

Nato in data imprecisata, apparteneva al clero bresciano e fu eletto vescovo nel 390. Amico di Sant’Ambrogio che lo invitò a predicare a Milano e legato di sant’Innocenzo I (401-417) in oriente per ottenere il rientro a Costantinopoli di San Giovanni Crisostomo, fu arrestato per questa richiesta dall’imperatrice Elia Eudossia († 404), ottenendo tuttavia la gratitudine dell’Esiliato. Scrisse almeno quindici discorsi e tre lettere. Morì nel 410.

SAN RUFINO DI AQUILEIA

Svolse nella sua epoca il ruolo di ponte tra Oriente ed Occidente, per cui fu molto noto ed ha una sua importanza peculiare nella storia del pensiero teologico. Nacque a Concordia presso Aquileia nel 345 circa, si formò letterariamente a Roma ed ebbe vita assai tribolata segnata dalla polemica con San Girolamo, di cui pure era stato amico in precedenza, perché quest’ultimo osteggiava acremente Origene – dopo averlo ammirato - che invece Rufino difendeva ancora. L’amicizia con Girolamo era nata proprio a Roma, dove i due Santi avevano frequentato le medesime scuole, e dove avevano imparato a condividere lo stesso ideale monastico, che Rufino abbracciò nel 373, una volta che ebbe abbandonato la capitale, recandosi in Egitto proprio per attingere alle sorgenti dei Padri del Deserto. Qui conobbe e frequentò diversi santi monaci, lesse diverse opere di autori orientali importanti come i Luminari di Cappadocia e soprattutto conobbe Didimo il Cieco che lo iniziò alla teologia biblica e dogmatica di Origene. Lo sforzo di interpretare in modo ortodosso questo grande pensatore fu l’impegno della vita di Rufino e avrebbe meritato maggior fortuna, in quanto avrebbe salvato completamente il suo enorme lascito intellettuale. Nel 381 Rufino fondò a Gerusalemme un monastero accanto a quello di Santa Melania la Vecchia (350-410). Nel 390 circa fu ordinato sacerdote dal patriarca Giovanni. Era nel frattempo iniziata la disputa con Girolamo, che aveva abbandonato la fazione origeniana per schierarsi armi e bagagli contro il Padre Alessandrino. Rientrato in Italia, Rufino tradusse in latino, eliminando i passi di dubbia ortodossia, il Perì Archòn di Origene, nel 398. Attaccato nuovamente da Girolamo con maggior veemenza, scrisse due Apologie, una per papa Sant’Anastasio I (399-401) e una contro Girolamo, nel 400 e nel 401. Poi si ritirò dalla contesa su consiglio di Cromazio, dedicandosi alla traduzione di numerose opere patristiche greche. Nel 407 sfuggì ai Goti di Alarico (370-410) rifugiandosi a Roma; quando poi il Re giunse anche nella capitale, nel 410, fuggì in Sicilia con alcuni amici, dove morì di malattia nel 411.

Delle traduzioni di Rufino ricordiamo le omelie origeniane sulla Genesi, l’Esodo, il Levitico, i Numeri, il Cantico dei Cantici, la Lettera ai Romani; l’Apologia di Origene di San Panfilo e di Eusebio di Cesarea; molte omelie di Basilio Magno e Gregorio di Nazianzo; il Dialogo di Adamanzio; l’Historia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea; l’Historia Monachorum in Aegypto; le Recognitiones dello Pseudo-Clemente. Delle opere originali di Rufino ci sono giunte le due Apologie e il De Benedictionibus Patriarcharum, ossia una esegesi metodica del cap. 49 della Genesi. Ci è giunto anche l’Expositio Symboli del Credo di Aquileia.

Rufino, oscurato dalle polemiche, fu in realtà un pensatore equilibrato e integro, un maestro spirituale influente su monaci e laici, un uomo di grande cultura teologica.

SAN MASSIMO DI TORINO

Primo vescovo della città (398-420), nacque nella Rezia nella seconda metà del IV sec. e fu discepolo di Eusebio di Vercelli che, fondata la diocesi a Torino, ve lo mandò come presule. Alcuni sostengono che sopravvivesse sino al 467. Fu autore di centodiciotto omelie, centosedici sermoni e sei trattati. Le prime si dividono in de tempore, de Sanctis et de diversis (esegesi, dogmatica e morale), i secondi hanno la stessa partizione; i trattati sono uno sul Battesimo, uno contro i Giudei e uno contro i pagani. L’oratoria di Massimo è breve ed energica, indirizzata soprattutto ai ricchi proprietari terrieri, a cui il Vescovo rimproverava l’avarizia, la cupidigia e lo sciacallaggio. Vari altri argomenti (astinenza in Quaresima, digiuno alla Vigilia di Pentecoste, la fine della penitenza nel Tempo di Pasqua, le invasioni barbariche e la distruzione di Milano, le superstizioni pagane, la mariologia e il Primato di Pietro) sono anche trattati nella sua opera.

SAN GIROLAMO

In quattro cose eccelse Girolamo: l’erudizione filologica, nella quale svettò tra i Padri per la sua perfetta conoscenza di latino greco ed ebraico; la perizia di traduttore che fece di lui il maggior biblista di tutti i tempi; il suo ascetismo monastico, mediante cui infuse entusiasmo per l’ideale della perfezione evangelica in molte anime; la sua pugnace opposizione ad ogni eresia, mediante una fedele conservazione della Tradizione. Egli fu senz’altro uno degli ultimi grandi autori della latinità classica e un classico di quella cristiana.

Il Santo nacque a Stridone in Dalmazia nel 347 circa; studiò a Roma sotto il grammatico Donato ed altri eruditi; apprese, oltre al latino, il greco, l’aramaico, l’ebraico, il siriaco e l’arabo, onde approfondire la Scrittura; fu battezzato da papa San Liberio (352-366); recatosi a Treviri, conobbe le opere di Ilario di Poitiers e decise di diventare monaco; si spostò in Oriente per continuare gli studi ed avvicinarsi alle sorgenti del monachesimo, potendo conoscere i Tre Luminari di Cappadocia e legarsi in amicizia a Gregorio di Nazianzo del quale fu collaboratore. In Oriente perfezionò il suo ebraico studiando con dotti rabbini; approfondì anche la lingua greca; visse per quattro anni nel Deserto della Siria dedito allo studio, alla preghiera, alla contemplazione. Paolino II di Antiochia (371-376), nel bel mezzo del triplice scisma della sua sede, lo ordinò sacerdote traendolo fuori dal suo eremo; lo spedì poi a Roma dove papa San Damaso I (366-384) lo prese come suo segretario e lo protesse accrescendone influenza e prestigio; morto Damaso e successogli San Siricio (384-399), che non aveva per Girolamo alcuna simpatia, questi fu costretto a lasciare Roma per le calunnie lanciate contro di lui e, amando ancora quella vita eremitica da cui era stato tirato fuori a forza, si trasferì a Betlemme, non senza essersi energicamente difeso dalle accuse e dopo aver attraversato l’Egitto e la Siria. In Betlemme Girolamo, assistito dalle pie matrone romane Santa Paola (347-406) e Santa Eustochio (368-419), madre e figlia, che gli misero a disposizione il denaro, fondò, nei pressi della Basilica della Natività, tre edifici: un monastero femminile retto dalla stessa Paola e poi da Eustochio, uno maschile retto da lui stesso e un ospizio per pellegrini. Da lì, dove scrisse il grosso delle sue opere, delle sue lettere, delle sue omelie, da dove continuò ad avere relazione intellettuale con i maggiori centri culturali dell’epoca e da dove tenne le sue memorabili polemiche con Gioviniano (†405), con Elvidio (340-390), con Vigilanzio (†dopo il 406), con Rufino e Giovanni II di Gerusalemme (386/387-417) e con Pelagio sull’ascetismo sulla Verginità di Maria, sul culto dei Martiri, su Origene e sulla soteriologia, il Santo non si sarebbe più mosso, fino alla morte che lo colse intorno al 420. Fino all’ultimo fu consultato come vera e propria autorità suprema sulla Bibbia, anche da personalità superiori alla sua come quella di Agostino. Chiuse gli occhi addolorato dalla morte delle sue due discepole e con la consapevolezza della crisi irreversibile di Roma e del suo Impero.

La produzione di Girolamo può dividersi in cinque gruppi di opere. Il primo è l’epistolario, forte di centodiciassette lettere di cui diciannove indirizzate ad Agostino, di vario contenuto, letterariamente curate, ricchissime di notizie e utilissime per la comprensione della sua personalità ad un tempo amabile e dura, perché implacabile con gli errori. Il secondo è costituito dalle opere storiche: la Vita di Paolo di Tebe, la Vita di Ilarione, il De Viris Illustribus (che, imitando l’omonima opera di Svetonio, comprende le biografie di centotrentacinque personaggi del mondo giudaico e cristiano, da Pietro fino a se stesso). Tra le opere storiche possiamo annoverare anche la traduzione del Chronicon di Eusebio di Cesarea, le cui cronologie – che partivano dal 2017 a.C. con la nascita di Abramo per arrivare sino al 303- Girolamo proseguì fino al 378, alla morte di Valente. Vi è poi l’insieme delle traduzioni bibliche, ossia la cosiddetta Vulgata, realizzata per volontà di papa Damaso I sulla scorta dei testi originali con una maestria nutrita di precisione ed acume letterario. Abbiamo poi il quarto gruppo, che raccoglie i Commenti biblici, sulle Lettere ai Galati, agli Efesini, a Tito, a Filemone, a tutti i Profeti, all’Ecclesiaste, a molti Salmi e al Vangelo di Matteo. L’ultimo gruppo, il quinto, annovera le opere polemiche: Adversus Helvidium, Adversus Jovinianum, Contra Iohannem Hierosolymitanum, Apologia, Contra Vigilantium, Dialogos adversus Pelagianos.

Girolamo fu il massimo esegeta della sua epoca e uno dei maggiori della storia. La sua traduzione della Vulgata non solo sopperì a quella Vetus Itala che il Santo in origine voleva solo rivedere, ma soppiantò tutte le altre che erano confluite in essa e divenne la versione ufficiale latina della Bibbia nella Chiesa fino ad oggi, anche se con i dovuti adattamenti. La ciclopica opera iniziò nel 382, partì dal NT, si spostò ai Salmi e coprì tutto il VT, dopo aver consultato i migliori manoscritti della Bibbia ebraica ed essersi consultato coi maestri della Sinagoga. Nel 405 l’opera, peraltro anche abbastanza in fretta, era terminata.

Girolamo non fu un teologo originale, ma un polemista imbattibile schierato a difesa della fede, minacciata sia dalle eresie che dalle interpretazioni troppo ardite dei suoi contenuti. Ciò lo rese, come vedemmo, ad un certo punto implacabile nemico di Origene. Fu uno scrittore di fortissima ed impetuosa personalità, di erudizione spaventosa, di forma espressiva nuova e ad un tempo radicata nel rinnovamento dei classici, mediante la revisione del lessico e della grammatica, con ampie concessioni alla lingua parlata e cristiana. La sua scrittura è armonica e composta e fa di lui uno dei maggiori autori della latinità. Tuttavia l’ardore lo porta spesso alla polemica personale e spesso rivela una conoscenza teologica non brillante. Come letterato il suo pregio sta soprattutto nell’opera erudita di traduzione e di conservazione del sapere.

Girolamo fu esegeta che ricalcò finchè potè l’arte di Origene, salvo distaccarsene quando, diventatone nemico, preferì l’esegesi letterale degli Antiochieni, pur senza disconoscere del tutto l’uso della allegoria. Si tenne in una posizione mediana tra il letteralismo di Diodoro di Tarso e l’allegorismo di Origene, un poco come faceva Cirillo di Alessandria, e potè così usare l’allegoria nei momenti più inaspettati e disparati, echeggiando Didimo il Cieco o lo stesso Origene. Il suo temperamento gli rendeva più congeniale l’interpretazione letterale della Bibbia, per cui i suoi Commentari, specie quelli più recenti, sono una miniera inesauribile di notizie erudite, antiquarie, linguistiche, storiche e nello stesso tempo sono asciutti e secchi nell’esposizione. In effetti Girolamo sapeva bene che il senso storico della Bibbia è il fondamento, mentre l’allegoria ha un valore parenetico per la morale e la santificazione, perciò discordava del tutto dai presupposti epistemologici dell’esegesi origeniana. L’interpretazione spirituale della Bibbia porta Girolamo sempre a Cristo, al Cui mistero salvifico tutto dev’essere ricondotto, e spesso alla Chiesa, che ne prolunga la missione nel mondo. A volte sono toccati i temi ascetici della vita individuale orientata a perfezione. In tutta la sua opera di commentatore, Girolamo conserva scrupolosamente il senso che la Chiesa, in precedenza, aveva attribuito ai passi interpretati, in polemica con le innovazioni degli eretici.

Nell’opera letteraria di Girolamo si compenetrano quegli elementi che si amalgamano nella sua vita spirituale: ascetismo e polemica dottrinale, anacoresi e studio classico, monachesimo e amore della classicità. Così egli battezzò completamente la tradizione letteraria antecedente al Cristianesimo, facendola entrare nel sistema educativo del fedele ideale.

SAN PAOLINO DI NOLA

Nacque a Bordeaux nel 352 e morì a Nola nel 431. Il suo nome completo era Meropio Ponzio Paolino, era stato discepolo di Ausonio (310-395) ed apparteneva a nobile famiglia. Prima avvocato, poi governatore della Campania, indi sposato con la spagnola Terasia, fu poi battezzato nel 389; ordinato sacerdote nel 393, di comune accordo con la moglie fece voto di castità e si ritirò a Nola in una sua tenuta in cui innalzò una basilica in onore di San Felice. Nel 490 fu eletto vescovo di Nola. Istituì i campanili e si dedicò con zelo alla cura di anime. Scrisse una cinquantina di Lettere ricche di notizie storiche, una parafrasi dei Salmi e numerose poesie, tra cui ricordiamo il Propemticon per San Niceta di Ramesiana (†dopo il 414), l’Epitalamium per le nozze di Giuliano e Tizia, assai mirabile e delicato, i Carmina, assai freschi e fluidi, di ispirazione religiosa e di elegante forma classica, tra cui quattordici sono dedicati a San Felice di Nola (†95). Paolino ha un’arte inondata di bontà e di bellezza morale, ricca di motivi complessi e di sentimenti delicati, con una rara serenità di contenuto, per cui introduce nella poesia latina, pur imitando Virgilio per il suo realismo pittoresco e la sua dovizia di descrizioni, elementi nuovi come le feste cristiane, le basiliche, i miracoli, i pellegrinaggi, i dogmi.

SAN PIER CRISOLOGO

Nacque ad Imola alla fine del IV sec., fu battezzato dal vescovo locale Cornelio (390/412-446), avviato agli studi letterari e giuridici a Ravenna e Bologna e infine ordinato diacono. San Sisto III (432-440) lo elesse presule della capitale dell’Impero d’Occidente preferendolo ad altro candidato per il quale Pietro era pure andato a Roma a chiedere conferma. Pieno di pietà e di zelo, ammirato per la sua arte oratoria, fu detto Crisologo, ossia dalla parola aurea, e amato dal suo popolo. Amico di Leone Magno e di Galla Placidia (388/92-450), sostenne energicamente le prerogative della sua sede episcopale spostandola da Classe a Ravenna propriamente detta. Scrisse centosettantasei omelie tramandateci dai suoi successori; anche se alcune sono state interpolate si tratta di un corpo scrittorio notevole, in cui il Santo si esprime concisamente ed efficacemente contro l’Arianesimo e il Monofisismo, sull’Incarnazione del Verbo, sulla Vergine Maria, su San Giovanni Battista e commentando il Credo. Altre nove omelie sono state trovate in seguito e un numero impreciso di altre prediche può essergli attribuito. Morì a Imola nel 450.

SEDULIO CELIO

Sacerdote e poeta vissuto nel V sec. e morto nel 451. Visse in Italia e forse in Grecia. Compose il Carmen Paschale, in cui descrive in cinque libri in esametri i principali episodi della vita di Gesù con ampie esposizioni dottrinali e argomentazioni apologetiche; l’Elegia, che traccia parallelismi tra Antico e Nuovo Testamento; i due inni A solis ortus cardine e Crudelis Herodes Deum, un tempo nella liturgia di Natale e dell’Epifania. I suoi modelli sono Orazio, Lucano, Ovidio e Virgilio. Egli fa incontrare bene il tema cristiano con la perfezione formale pagana.

SAN LEONE I MAGNO

Fu uno dei più grandi Papi della storia. Non è molto nota la sua vita prima del Pontificato: era nato in Toscana all’inizio del V sec., aveva frequentato le scuole romane acquisendo l’arte letteraria e la scienza teologica; era entrato giovanissimo nei sacri ordini ed era stato cardinale diacono di San Celestino I (422-432) e di San Sisto III (432-440), al quale successe per unanime elezione. Combattè manichei, priscilliani, pelagiani e monofisiti. Questi ultimi, capeggiati dall’eresiarca Eutiche (368-454), estremizzando la dottrina di Cirillo secondo la lettura datane da Dioscoro (444-451), stravolgevano l’insegnamento del Concilio di Efeso (431), postulando che dopo l’Incarnazione le Due Nature del Verbo si fondessero, perdendo quindi la loro unità nella diversità. Leone I acconsentì alla convocazione di un nuovo Concilio ecumenico sempre ad Efeso per chiarire i punti oscuri della disputa cristologica, sulla scorta di una rimodulazione del campo semantico della terminologia dogmatica, ma quando esso fu tenuto nel 449 sotto Teodosio II (408-450), il Tomo a San Flaviano (†449), patriarca di Costantinopoli, spedito dal Papa e somma della dottrina ortodossa, non fu tenuto in nessun conto e anzi lo stesso presule a cui era indirizzato fu martirizzato dagli eretici, che capovolsero i deliberati del Concilio precedente adottando la dottrina di Eutiche. Il Papa rifiutò di ratificare gli atti e, alla morte di Teodosio, ottenne dall’imperatore San Marciano (450-457) la convocazione di un vero Concilio Ecumenico a Calcedonia nel 451. Qui il Tomo leonino fu approvato per acclamazione dai seicento vescovi convenuti e la dottrina ortodossa ristabilita nella nuova e classica formulazione fattane dal Papa, con un esplicito riconoscimento del suo primato dottrinale. Leone si battè, nel corso del suo Pontificato, per il riconoscimento anche della primazia di giurisdizione di Roma sul mondo cattolico, ma proprio a Calcedonia e senza il suo consenso il Patriarcato di Costantinopoli venne elevato al secondo posto della Gerarchia delle Sedi Apostoliche e venne concepita la teoria della Pentarchia patriarcale. Il grande Papa, a cui i posteri diedero l’appellativo di “Magno”, continuò a battersi per la difesa della sua gente, fermando prima gli Unni del re Attila (434-453) e poi inducendo i Vandali di Genserico (428-477) a non saccheggiare Roma. Leone morì il 10 novembre 461.

Il Papa scrisse un nutrito epistolario e parecchi sermoni. Del primo fanno parte centosettantatrè lettere di cui centoquarantatrè sono scritte da lui stesso e trenta a lui da altri. Trattano in modo ufficiale questioni di dogma e di disciplina. I sermoni autentici sono novantasei e sono eleganti per stile e ricchi per dottrina, nonostante la loro brevità. I loro temi sono quelli dell’anno liturgico e ne abbiamo nove per l’Avvento, dieci per il Natale, otto per l’Epifania, tredici per la Quaresima, diciannove per la Settimana Santa, due per la Notte di Pasqua, due per l’Ascensione, tre per la Pentecoste, quattro per le Domeniche che la seguono, tre per la solennità dei Santi Pietro e Paolo, una per la festa di San Lorenzo, sei per le Collette tra il 5 e il 13 luglio, cinque per l’anniversario della sua elezione a Papa.

Leone è un pastore d’anime che vuole imprimere con formule chiare e vigorose nella mente dei fedeli le verità trasmesse dalla Tradizione; senza essere uno speculativo o un sistematico, fissò autorevolmente e chiaramente il senso delle formule dogmatiche canonizzate poi nel magistero di Calcedonia, così da espellere dall’ambito dell’ortodossia qualsiasi interpretazione monofisitica della dottrina cristologica. Nel Tomo a Flaviano ma anche nei Sermoni natalizi il Papa sottolinea sempre che Cristo è Vero Uomo e Vero Dio; egli insegna che le Due Nature o Sostanze perfette e distinte del Verbo sono unite nel vincolo della Persona o Ipostasi o Sussistenza senza mescolanza né separazione, avendo ognuna le Sue proprietà. Così in quanto Dio il Verbo è maestà, forza, eternità, impassibilità, mentre in quanto Uomo ha umiltà, debolezza, mortalità e passibilità. Nella Natura Umana la Persona divina del Verbo, che l’ha assunta senza annullarla nella Natura Divina, nasce, soffre, muore e risorge, come conveniva che facesse il Redentore dell’Uomo, Mediatore tra lui e Dio, non potendo né nascere, né soffrire, né morire nella Divinità. Le Due Nature, ciascuno con una operazione proporzionata a sé, agiscono in un Unico Soggetto, che rende sussistente l’Unione Ipostastica, e che in ogni azione mostra ad un tempo la sua composizione teandrica. Vi è qui già contenuta la negazione del monoteletismo e del monoergetismo. Le proprietà delle Due Nature sono dunque ben distinte nel Soggetto Divino, senza che questo nuoccia alla Sua Unità anzi costituendone l’aspetto specifico.

Tutta la Vita di Cristo ha avuto un valore redentivo, che è iniziato dall’Incarnazione, in quanto essa è già principio efficiente di salvezza, in quanto dà inizio al processo di rinnovamento della natura umana.

Dalla cristologia Leone desume concetti chiave anche in ecclesiologia. Cristo è il solo ed eterno Vescovo della Chiesa, ma avendo dato a Pietro la funzione vicaria, anch’essa dev’essere eterna e quindi si postula che prosegua nei suoi Successori, i Papi. Non dunque la morte di Pietro a Roma o la sua azione nella città legittimano i Pontefici Romani a subentrargli nei poteri che esercitava, ma la regolarità giuridica della successione stessa. Questo concetto, non nuovo- lo aveva espresso anche papa Siricio – venne formulato da Leone in modo particolarmente chiaro. Perciò, come Pietro ebbe da solo tutto il potere che ebbero tutti gli Apostoli con lui e sotto di lui, così il Papa ha da solo l’autorità su tutte le Chiese che hanno tutti i Vescovi con lui e sotto di lui, in quanto a lui uguali nell’ordine ma non nel rango.

SAN GELASIO I

Africano di origine ma nato a Roma, fu Papa dal 492 al 496, è l’autore che in modo più originale ha, nella storia della Chiesa, impostato la questione dei rapporti tra Stato e Chiesa, tra Imperium e Sacerdotium, secondo uno schema ancora oggi valido, che ha superato sia il cesaropapismo costantiniano sia l’agostinismo politico, quando questo era appena nato e non ancora soggetto a quegli sviluppi che lo fecero durare per mille anni. Sostenne infatti che i due poteri spirituale e temporale sono distinti e dipendono direttamente da Dio nella propria sfera, per cui l’Imperatore è sottomesso al Papa per le cose spirituali e il Papa all’Imperatore per quelle temporali.


1. E’ la religione sincretica fondata da Mani (216-277), pensatore e mistico persiano, dapprima seguace degli Elcasaiti e poi fondatore di un suo indirizzo spirituale. Fortemente sincretico ed irenistico, il Manicheismo, che prende dal Giudaismo, dal Cristianesimo, dal Buddhismo e dallo Zoroastrismo, ha un impianto dualistico che distingue nel cosmo due Dei, uno buono e uno cattivo, dei quali il primo sovrintende al Bene e alla Luce, il secondo al Male e alle Tenebre. Essi sono in perpetua lotta tra loro e la commistione che ne deriva ha generato l’Universo. I fondatori delle religioni che Mani ha fuso tra loro sono dei messaggeri mandati nel mondo per liberare le anime dal dominio delle Tenebre. Mani ne è l’ultimo. La sua Chiesa aveva una struttura simile a quella cattolica. La sua liturgia era assai scarna. La sua morale fortemente ascetica. Esso si diffuse in Asia centrale e in Occidente, compresa l’Africa, nonché in Egitto. Il Manicheismo distingueva tre età, di separazione di commistione e di nuova separazione definitiva, dei Due Regni, considerava negativa la nascita dell’uomo come essere corporeo, attingeva alla gnosi giudaica e cristiana e moltiplicava le figure divine e semidivine. Faceva di Gesù il Sommo Rivelatore, che opera attraverso i maestri gnostici. Asseriva la corporeità di Cristo al centro del processo della rivelazione ma riservava alla Chiesa manichea la funzione salvifica. Essa si compie tramite l’appello alla salvezza e l’adesione ai misteri gnostici, ma anche mediante l’osservanza dei comandamenti di giustizia, la preghiera e il digiuno. Il suo dualismo, la svalutazione della materia, la negazione della Redenzione, la funzione salvifica della conoscenza, la morale rigorista e la pretesa di continuare la Rivelazione costituivano una gravissima minaccia per il Cristianesimo, con il quale il Manicheismo fu in concorrenza per secoli, anche attraverso le sue filiazioni medievali, innanzitutto il Bogomilismo e il Catarismo.

2. Nato essenzialmente come controversia sulla legittimità dell’elezione di Ceciliano di Cartagine (311- dopo il 340), accusato dai suoi detrattori di aver apostatato nella persecuzione di Diocleziano (284-305) che gli opposero Maggiorino (312-313), il Donatismo prese il nome dal vescovo Donato (313-355 ca.) che era il capo della fazione dissidente in quanto successore di Maggiorino. Questi, nonostante le condanne di papa san Milziade (311-314), del Concilio di Arles (314) sotto san Silvestro I (314-335) e di Costantino il Grande (306-337), rimase fermo nelle sue opinioni, che si spostarono in questioni di principio condannando la prassi romana di non ripetere il battesimo amministrato dagli eretici – in quanto Ceciliano aveva abbandonato la posizione di Cipriano – e considerando invalidi i sacramenti amministrati da sacerdoti indegni. Il movimento donatista ebbe il duplice effetto di replicare l’idea di una Chiesa dei Puri – che era stata anche di Novaziano e di Tertulliano- e di introdurre quella di un movimento politico-militare antiromano di tipo nazionalista nella Numidia. Infatti i Donatisti organizzarono una vera e propria guerriglia contro le truppe romane. Il Donatismo era pericoloso per la Chiesa a causa della sua concezione sacramentaria e del suo rigorismo morale.

3. Prende il nome da Pelagio (360-420), monaco britannico nato nel 354 e giunto a Roma nel 400, seguace di Teodoro di Mopsuestia in quanto rigettava la trasmissione ereditaria del Peccato originale. Sviluppando questa ipotesi, Pelagio sosteneva che il Peccato originale fosse solo di Adamo ed Eva, che esso non si trasmettesse agli eredi, che la natura umana non ne fosse stata guastata, che ognuno potesse agire bene con le sue forze, che la Grazia è data secondo il merito e che Cristo non avesse realmente redento col Suo Sangue ma solo dato un buon esempio. Pelagio fu condannato da sant’Innocenzo I (401-417), da san Zosimo (417-418) e dal Concilio di Efeso (431). Il Pelagianesimo è forse la più pericolosa delle eresie in questione, perché nega il Peccato originale come condizione connaturata all’uomo, nega i suoi effetti e rende superflua la Redenzione e la Grazia.


Theorèin - Settembre 2016