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DOCTOR GRATIAE Breve introduzione a Sant’Agostino di Ippona La personalità, la vita e le opere di Sant’Agostino costituiscono un capitolo a parte della tradizione patristica, in quanto il Grande Dottore e Padre fu senz’altro il più grande teologo e filosofo della Cristianità, a cui può essere paragonato solo San Tommaso d’Aquino, e uno dei maggiori filosofi della storia. Ultimo dei grandi letterati e classici della latinità, Agostino ha influenzato prepotentemente tutte le epoche successive, delle quali molti aspetti culturali sono la conseguenza della sua impostazione intellettuale, mentre può essere considerato il Padre della Res Publica Christiana, dalle sue origini altomedievali sino alla fine della Restaurazione. Il suo pensiero teologico è ancora fondamentale. La sua filosofia ha animato di sé tutti i secoli successivi e ancora oggi influenza ed ispira, oltre ad essere professata. Fino ai tempi nostri San Giovanni Paolo II (1978-2005) ha sentito il bisogno di parlare del Santo nella sua epistola enciclica Augustinum Hipponensem (1986), mentre il Papa Emerito Benedetto XVI (2005-2013) ha dichiarato di considerarsi un discepolo del grande Dottore. Vediamo dunque la sua biografia, le sue opere, le caratteristiche generali del suo pensiero, la sua filosofia, la sua teologia, la sua estetica letteraria e il suo apporto alle scienze della sua epoca. VITA E OPERE Il grande Ipponense nacque il 13 novembre 354 a Tagaste in Algeria, da Patrizio (†372) e da Santa Monica (331-387). Il primo era pagano, sedeva nel consiglio cittadino sebbene di piccolo sangue e nutriva grandi ambizioni per il figlio, che mandò a studiare a Madaura grammatica e a Cartagine retorica, grazie al sostegno economico di Romaniano, amico di Agostino. Solo in punto di morte si fece battezzare. La seconda era invece una fervida cristiana che meritò la canonizzazione ed educò il figlio alla fede cristiana, cosicchè quando questi, dopo un lungo errare tra filosofie ed eresie contemporanee, tornò a questa religione con la sua conversione celeberrima, potè dichiarare che di fatto rientrava in quella religione che la madre gli aveva fatto entrare fino nel midollo. L’esilio di Agostino dalla fede cattolica iniziò proprio a Cartagine, in quanto la metropoli offrì al giovane talentuoso sia le lusinghe della vita lussuriosa sia le seduzioni delle filosofie pagane e delle dottrine eretiche, e quegli non disdegnò né le une né le altre. Per le prime, dopo aver conosciuto molte donne, ebbe un figlio naturale, Adeodato (372-389), da una donna di cui non sappiamo il nome e che poi si allontanò da lui per permettergli di sposarsi, anche se poi questo non accadde. Per le seconde, si avvicinò al Manicheismo dopo che la lettura dei classici di Cicerone, primo tra tutti l’Hortensius, lo aveva dissuaso dal credere che il Cristianesimo potesse risolvere il problema del male – da Agostino avvertito sempre con particolare acutezza e con un profondo risvolto esistenziale – e persuaso della natura barbarica della letteratura giudaico-cristiana, disadorna e ripetitiva, incapace di reggere il confronto con quella latina pagana. Furono i manichei ad aiutarlo nella carriera: grazie a loro Agostino, dopo qualche anno di insegnamento a Cartagine quale retore, salì dapprima in cattedra a Roma per la stessa disciplina e dopo sedette su quella, ben più ambita, della capitale, ossia di Milano. Nella metropoli imperiale soggiornò dal 384 al 387 e sbalordì l’uditorio raccoltosi, numeroso e qualificato, per udire le sue lezioni piene di originalità e cultura più ancora che di metodo. In quegli anni approfondì lo studio del Manicheismo e notò in esso diverse contraddizioni, tanto da interrogare a loro proposito il capo della setta, Fausto, che però non seppe in alcun modo fornirgli spiegazioni sufficienti. Ragion per cui il futuro Santo abbandonò il Manicheismo e approdò nelle acque dell’Accademia, che all’epoca professava lo Scetticismo. Il filosofo Plotino, che pure aveva posto mano alla grande riforma del pensiero platonico proprio per superare la crisi che attanagliava gli Accademici, fu anche per Agostino ancora di salvezza: a lui si agganciò il futuro Dottore per uscire dalle nebbie del dubbio e abbracciare il sistema neoplatonico, nelle cui coordinate egli sarebbe rimasto per tutta la vita, fino a quando non le avrebbe egli stesso cristianizzate. Fu la professione neoplatonica a dare la spinta ad Agostino perché riprendesse la ricerca della verità in modo tale da superare il problema del male, ma il propellente gli venne da Sant’Ambrogio. Ascoltando le sue omelie Agostino scoprì il senso allegorico della Scrittura e potè riavvicinarsi alla fede materna. Come Ambrogio gli aveva insegnato, non lui trovò la Verità, ma la Verità trovò lui. La fulgurazione definitiva gli venne, dopo un lungo e tormentato lavorìo interiore, dalla lettura delle Lettere di Paolo laddove esortano a rivestirsi di Cristo, avvenuta casualmente per aderire all’impulso improvvisamente nato in lui all’ascolto di una filastrocca di ragazzi, che, al di fuori del suo giardino, canterellavano: tolle et lege, tolle et lege. Agostino fu battezzato nel Sabato Santo del 386, assieme al figlio e all’amico Alipio, alla presenza della madre. Il neofita decise di darsi alla vita ascetica, abbandonando Milano per rientrare in Africa. Durante il viaggio di ritorno, alla vigilia dell’imbarco ad Ostia, Monica morì tra le braccia del figlio ritrovato. Questa separazione, mistica e dolorosa insieme, fa da spartiacque nella vita del Santo. Egli proprio in questi anni scrisse i suoi maggiori dialoghi filosofici: De Ordine, De Vita Beata, De Quantitate Animae, De Libero Arbitrio, Contra Academicos, De Immortalitate Animae. Giunto a Tagaste, si diede alla vita del cenobio, secondo quello spirito che confluì nella Regola che porta il suo nome. Nel 391 fondò un monastero ad Ippona. La fama della sua santità si diffuse a tal punto, che una domenica mentre assisteva alla Messa celebrata dal vescovo Valerio, fu riconosciuto dal popolo e indotto ad accettare i sacri ordini. Nel 396, con la stessa riluttanza con cui aveva accettato il Presbiterato, dovette ricevere l’Episcopato, in quanto eletto a furor di popolo successore di Valerio. In questa fase centrale e terminale della sua vita Agostino divenne e fu esclusivamente pastore e dottore, in modo totale. Debellatore del Donatismo e del Pelagianesimo nei Concili, da lui appositamente convocati, di Cartagine e Milevi (411 e 416), Agostino scrisse anche tantissimo contro queste eresie, mentre eternò il suo nome nei capolavori Confessiones (397-401), De Trinitate (399-419), De Civitate Dei (413-426). Nel 426 scelse il suo successore, Eraclio, affidandogli l’amministrazione. Nel 427, prossimo alla fine, partecipò ad un Concilio plenario dell’Africa tenuto proprio nella sua città. Scrisse le sue Retractationes per dare armonia al suo pensiero nel 428, rivedendone i punti controversi o semplicemente superati nella sua riflessione. Nel 430 rimase coraggiosamente in Ippona assediata dai Vandali e qui si spense il 28 agosto a settantasei anni. Nella sua vita Agostino scrisse prodigiosamente: nelle Retractationes e nell’Indiculus del suo discepolo Possidio di Calama sono elencati milletrentadue titoli, di libri lettere e trattati. Altre lettere e altri discorsi furono rinvenuti nei secoli posteriori. Una sommaria classificazione può comprendere i seguenti gruppi. Il primo consta delle autobiografiche Confessiones, il capolavoro assoluto della letteratura introspettiva di tutti i tempi. Il secondo è costituito dalle opere filosofiche, dai titoli parlanti: i summenzionati De Ordine, De Vita Beata, De Quantitate Animae, De Libero Arbitrio, Contra Academicos, De Immortalitate Animae, e poi Soliloquia, De Musica, De Magistro, De Dialectica, De Grammatica ars breviata, De Grammatica regulae, De Origine Animae, De Rhetorica, De Geometria, De Arithmetica, De philosophia (queste ultime cinque iniziate e non finite), De Grammatica (oggi perduto).. Il terzo comprende le opere apologetiche: De Vera Religione, De Utilitate Credendi, De Divinatione daemonum, De Civitate Dei (che è da solo il capolavoro di Agostino). Il quarto si compone delle opere dogmatiche: De Fide et Symbolo, De Quaestiones Diversae LXXXIII, De Diversae Quaestiones ad Simplicianum libri duo, De Trinitate, De Fide et Operibus, Enchiridion Fidei, Spei et Charitatis, De Cura pro Mortuis Gerenda, Quaestiones Octo ad Dolcitium, De Fide Rerum quae non videntur, De Symbolo ad Cathecumenos, De Utilitate Ieiunii. Il quinto si sostanzia delle opere morali e pastorali: De Cathechizandis Rudibus, De Mendacio, Contra Mendacium, De Agone Christiano, De Continentia, De Opere Monachorum, De Bono Coniugali, De Bono Viduitatis, De Coniugiis Adulterinis, De Scriptura Sacra Speculum, De Disciplina Christiana, De Diversis Quaestionibus ad Simplicianum, De Diversis Quaestionibus octoginta tribus, De octo Dulcitii quaestionibus, De Patientia, De Sancta Virginitate, Regula ad Servos Dei. Il sesto si compone di opere bibliche: De Doctrina Christiana (altro testo fondamentale per la storia del pensiero e della cultura), De Sermone Domini in Monte, De Genesi contra Manichaeos, De Genesi ad Litteram, De Genesi ad Litteram liber imperfectum, Expositio quorundam praepositionum ex Epistula ad Romanos, Epistolae ad Romanos Inchoata, Expositio Epistolae ad Galatas, Quaestiones Evangelicae, Adnotationes in Job, De Consensu Evangelistarum, Locutionum in Eptateuchum, Quaestiones in Eptateuchum, Quaestionum Septemdecim in Evangelium Matthaei Liber Unus, De octo quaestionibus de Veteri Testamento, Enarrationes in Psalmos, In Epistolam Ioannis ad Parthos Tractatus Decem, In Evangelium Ioannis tractatus centus viginti quattuor, Quaestiones Evangeliorum, De Sententia Iacobi. Il settimo è costituito dalle opere polemiche: Adversus Judaeos Tractatus, Breviculus Collationis cum Donatistas, Collatio cum Maximino Arianorum episcopo, Contra Adimantum Manichaei discipulum, Contra Adversarium Legis et Prophetarum, Contra Cresconium grammaticum donatistam, Contra Epistulam Parmeniani, Contra Epistulam Petiliani, Contra Duas Epistolas Pelagianorum libri ad Bonifacium quattuor, Contra Epistolam Manichaei quam vocant Fundamenti, Contra Felicem Manichaeum, Contra Faustum Manichaeum, Contra Fortunatum Manichaeum, Contra Gaudentium Donatistarum episcopum, Contra Iulianum haeresis pelagianae defensorem, Contra Iulianum opus imperfectum, Contra Litteras Petiliani, Contra Maximum Haereticum episcopum Arianorum, Contra Priscillianistas et Origenistas, Contra Secundinum Manichaeum, Contra Sermonem Arianorum, De Anima et eius origine contra Vincentium Victorem, De Baptismo contra Donatistas, De Correptione et Gratia, De Duabus Animabus, De Moribus Ecclesiae et de moribus Manichaeorum, De Natura Boni contra Manichaeos, De Natura et Gratia contra Pelagium ad Timasium et Iacobum, Disputatio Contra Fortunatum, Psalmus contra Partem Donati, De Unico Baptismo contra Petilianum, De Unitate Ecclesiae, Post Collationem ad Donatistas, De Gestis cum Emerito Donatistarum Episcopo, De Peccatorum Meritis et Remissione et De Baptismo Parvulorum ad Marcellinum, De Spiritu et Littera, De Natura et Gratia, De Perfectione Iustitiae Humanae, Gesta Pelagii, De Gratia Christi et Peccato Originali contra Pelagium ad Albinam, Pinianum et Melaniam, De Nuptiis et Concupiscentia, De Gratia et Libero Arbitrio, De Correptione et Gratia, De Sanctorum Praedestinationem, De Dono Perseverantiae, De Haeresibus, De Excidio Urbis, Gesta Collationis Carthaginensis. L’ottavo è costituito dalle duecentodiciassette Epistolae, utilissime anche per l’interpretazione delle altre opere; il nono raggruppa gli oltre cinquecento Sermones, di stile popolare, chiaro, appassionato ed efficace, di contenuto morale, polemico e dogmatico. Tra essi segnaliamo il Sermo ad Cesareensis Ecclesiae Plebem. CARATTERISTICHE GENERALI DEL PENSIERO FILOSOFICO DI AGOSTINO Nel Grande Ipponense, come abbiamo accennato, giungono a sintesi due motivi diversi e complementari: la filosofia pagana, oramai depauperata della sua scintilla creativa esauritasi in tanti secoli, e il Cristianesimo, gravido di possibilità originali di pensiero innovativo. Il risultato è la fondazione autonoma del pensiero cristiano innestato sulla continuità di quello classico inaugurato da Socrate. Agostino ha creato la filosofia cristiana latina in una forma che è stata insuperabile. La sua sovranità intellettuale si impose da subito alla Chiesa e una serie ininterrotta di Papi ne ha magnificato il genio: dal coevo Sant’Innocenzo I (401-417) fino ai nostri giorni, quando elogi significativi gli sono stati tributati da Pio XI (1922-1939) – che lo definì il più grande Dottore della Chiesa e uno dei maggiori geni dell’umanità – dal Beato Paolo VI (1963-1978) – che ha evidenziato sia la confluenza in lui di tutto il pensiero antico sia la scaturigine dalla sua riflessione di molteplici correnti di pensiero successive – e dal menzionato San Giovanni Paolo II – che nella sua citata Epistola Enciclica ha evidenziato la capitale importanza della conversione del Santo nella storia della Chiesa e in quella sua personale e ha enucleato dal suo magistero dottorale, quali plessi tematici fondamentali, il nesso tra fede e ragione, il rapporto tra Dio e l’uomo, quello tra Cristo e la Chiesa, quello tra Grazia e libertà, nonché la carità e le conseguenti ascensioni dello spirito, sino a sottolineare le peculiarità della sua azione di pastore e le caratteristiche sue proprie che ancora parlano all’uomo di oggi. Il Papa Polacco ha sottolineato in altre occasioni la grandezza dell’azione di Agostino nella difesa dell’ortodossia, la profondità della speculazione filosofica, l’incisività della sua opera santificatrice. Il grande pensatore che era in Agostino seppe tenere sempre vivo il sistema che produsse, tanto che, consapevole del fatto che esso, sia in filosofia che in teologia, era nato per rispondere alle esigenze dei momenti, volle correggere con le Retractationes quello che gli sembrava oramai superato o erroneo verso la fine della sua vita. L’ampiezza del suo orizzonte intellettuale, la molteplicità dei temi trattati e l’approfondimento di essi ha fatto si che Agostino fosse una autorità talmente alta da essere riconosciuta anche fuori della Chiesa e fosse un pensatore tanto composito da poter essere unilateralizzato e fornire spunti anche a correnti teologiche non cattoliche e filosofiche non cristiane. Un tema su tutti, quello della Predestinazione, è stato oggetto di interpretazioni e appropriazioni sia ortodosse che ereticali proprio a partire dalla riflessione dell’Ipponense. Inoltre dal pensiero di Agostino sono scaturite forme intellettuali, politiche, sociali, culturali che sono oggi incomprensibili – si pensi all’uso della coazione materiale contro l’eresia o lo scisma, l’inglobamento della società civile in quella religiosa, l’uso estensivo della guerra giusta – ma che è scorretto considerare erronee o sbagliate: sono semplicemente differenti da quelle contemporanee né si può escludere che in circostanze mutate possano tornare sia pure in modo differente. Nella produzione agostiniana distinguiamo una fase filosofica e una teologica, senza che in lui però tutta la teologia si nutra di filosofia e tutta la filosofia si realizzi nella teologia. Nel corso della sua vita Agostino assunse due posizioni sulla filosofia: una, la prima, ancora attribuisce alla disciplina in questione il compito di conoscere tutto il reale e il vero, sia pure naturalmente, per cui essa svolge una funzione se non salvifica almeno propedeutica alla salvezza; l’altra, la seconda, portando a compimento quanto è implicito nella prima, da un lato restringe l’ambito del noema filosofico e dall’altro lo inserisce nel quadro di quello teologico, a sua volta fondato sulla Rivelazione che culmina in Cristo, Verità e Vita. Ancora in questo quadro teologico tuttavia, Agostino mantiene intatte le sue concezioni cosmologiche, metafisiche, metodologiche ed epistemologiche. Per l’Ipponense come per Pitagora e Platone la filosofia è l’amore della sapienza, l’impegno attivo di conseguirla, non un semplice studio come per Aristotele; è una ricerca esistenziale che mira alla realizzazione dell’uomo onde condurlo alla vita beata, come avevano pensato Platone, Cicerone e Plotino. Le strade che la tradizione offriva per conoscere i concetti filosofici, ossia la maieutica di Socrate, la dialettica di Platone, la logica di Aristotele degli Stoici e degli Epicurei (sia induttiva che deduttiva), furono percorse tutte e tre da Agostino, che però ne elaborò una sua propria: l’analisi interiore, la via dell’interiorità, l’introspezione. Questa strada è senz’altro esistenziale, perché Agostino cerca e trova in se stesso la verità, evidentemente corrispondendo ad un bisogno intimo e personale e declassando la ricerca esteriore, ma è anche metafisica, ontologica e teologica, in quanto il Santo trova nel fondo dell’anima non solo le fondamenta di quest’ultima ma anche la via d’accesso che introduce a Dio, la Cui esistenza è intimamente connessa non solo a quella dell’anima ma alla possibilità stessa di conoscere la Verità: le perfezioni o qualità, gli assiomi e i giudizi, che l’uomo vede in sé, gli appaiono in modo duplice: da un lato gli appartengono in modo limitato, dall’altro sono compiute in se stesse; per il primo aspetto sono dell’uomo, per il secondo esistono prima e fuori di lui, identificandosi con l’Essere Supremo, che tutti li possiede e col Quale coincidono ontologicamente. In tal guisa la conoscenza effettiva di se stessi e la conoscenza di Dio sono la medesima cosa. Ciò comporta che interiorità e metafisica siano i due momenti distinti di un solo metodo, nel quale la prima si compie solo nella seconda e questa si scopre tramite la prima. L’interiorità che non sfoci nella metafisica è sterile e monca, incompleta e superficiale; chi guarda se stesso e vede il proprio essere bramoso di realtà, il proprio volere desideroso di bene, la propria intelligenza avida di verità, proprio quando scorge l’indigenza in cui versano, capisce che la sorgente di quanto cerca è Colui Che chiamiamo Dio e l’approdo del suo periglioso navigare è sempre Lui. Trovando in noi stessi la verità, Agostino deduce che essa ontologicamente ci è superiori, perché diversamente non potremmo giudicare per mezzo di essa ma la giudicheremmo noi stessi – se ci fosse inferiore – o sarebbe nel divenire – se ci fosse pari – mentre la vediamo immutabile, in quanto sempre simile a se stessa la scorge l’intelligenza che la scopre. La Verità è dunque non solo reale ed indipendente dall’uomo ma è essa stessa il grado supremo dell’Essere, Dio appunto. Proprio per questo approdo saldissimo Agostino potè continuare ad usare il metodo esistenziale metafisico anche in teologia, sia pure inserito nel contesto della Rivelazione e piegato all’istanza ascetica. I grandi misteri trinitario, cristologico e soteriologico vennero così raggiunti attraverso una via singolarissima per un personale intimo e proficuo approfondimento. In ultima analisi è proprio il metodo che permette ad Agostino di dare unità al suo pensiero producendo un sistema incentrato sul soggetto che si interroga. Al suo interno l’Ipponense sempre può usare le partizioni filosofiche platoniche ed aristoteliche, ma di suo aggiunge la distinzione tra la scienza dell’utile e quella del dilettevole. La prima è la filosofia che serve a raggiungere la felicità ma non la può elargire; la seconda è la teologia che ci introduce alla contemplazione di quanto unicamente ci rende felici, ossia Dio stesso. Ecco perché il Padre, che pure avrebbe potuto strutturare sistematicamente il suo pensiero filosofico, compiuta la svolta teologica dopo il sacerdozio, non pone minimamente mano a un simile progetto, limitandosi ad usare la filosofia come strumento al servizio della teologia, sebbene, a conti fatti, per lui stesso, tale funzione sia molto più alta che quella di pretendere di spiegare il mondo a catafratte. Se volessimo tentare di fornire una sintesi organica e breve del pensiero filosofico agostiniano, potremmo partire dalla sua definizione di uomo, ossia dalla sua antropologia. L’uomo è per lui un’anima che si serve di un corpo, o almeno lo è per lui quando fa meramente filosofia, attingendo al capitale platonico per investirlo nel Cristianesimo, per il quale l’uomo è anima e corpo, come del resto l’Agostino teologo ammette e dichiara. In ragione di ciò, all’interno dell’unica sostanza umana composta di anima e corpo, in cui quest’ultimo non è assolutamente accidentale né tantomeno negativo, l’anima esercita un primato gerarchico. L’anima è presente al corpo tutto intero ed è unito ad esso esclusivamente dal fatto che agisce per vivificarlo. Essa non è influenzata direttamente da esso perché gli è superiore, ma percepisce i cambiamenti del corpo stesso dovuti a stimoli esterni. Quando ciò accade, senza subire azione dal corpo ma edotta di quanto gli avviene, essa estrae da sé una immagine conforme a quanto successo; ciò è quanto chiamiamo una sensazione, che quindi è una azione e non una passione dell’anima. Le sensazioni ci informano sia sullo stato e i bisogni corporei che su quanto ci circonda, che però, proprio perché corporeo anch’esso, è instabile ed incapace di fornire una conoscenza autentica. Conoscere significa avere stabilmente sotto lo sguardo dello spirito un qualcosa, che nella fattispecie dev’essere immateriale proprio per non essere sottoposto a mutamento. Tali realtà immateriali sono presenti solo nell’anima stessa e non al di fuori. Quando l’anima le scorge, allora e soltanto allora essa conosce la verità, che è cosa ben diversa dal fatto, in quanto si identifica con una regola, a cui la mente deve sottomettersi e lo fa spontaneamente. Le verità intellegibili sono infatti necessarie e quindi immutabili ed eterne. Queste tre caratteristiche sono indicate appunto col fatto che le chiamiamo verità. Esse sono tali proprio perché hanno l’essere, il quale è di per sé immutabile eterno e necessario, per cui solo ciò che è è veramente vero. Per spiegare la presenza nell’anima di simili verità, considerando che l’uomo ha solo conoscenze che derivano dalle sensazioni, le quali a loro volta non rimandano se non ad oggetti contingenti, mutevoli e passeggeri che non potrebbero mai giustificare l’astrazione da essi di una regola universale, e tenendo presente che l’uomo stesso, che pur contiene tali verità, è egli stesso contingente e mutevole, per cui non può averle ricavate da se stesso, Agostino, che nota che quelle stesse verità impongono alla mente umana un riconoscimento che implica sottomissione e che postula la loro superiorità alla ragione stessa, formula la nota teoria dell’illuminazione, che è la versione cristiana della dottrina della reminiscenza di Platone. Nell’uomo c’è qualcosa che lo supera e senza il quale egli non potrebbe pensare. Questo qualcosa è la verità, intellegibile, necessaria, immutabile, eterna e quindi vera. Ossia è Dio. Egli è il solo intellegibile, alla cui luce la ragione vede la verità, il Maestro interiore che dall’interno risponde alla ragione che lo consulta, più interiore a noi stessi di quanto non lo sia il nostro intimo. L’illuminazione fa vedere all’uomo nel suo intimo gli archetipi presenti nella mente divina, ossia le Idee platoniche, sulla base delle quali egli può formulare i giudizi di conformità o difformità i quali, proprio perché fondati su di esse, sono consostanziali a quelli con cui Dio stesso giudica, nella misura in cui essi sono comprensibili per la mente umana. Come si vede, Agostino non solo non dubita della possibilità dell’uomo di conoscere la verità rigettando lo scetticismo con il celebre assioma per cui, proprio se dubito di tutto, posso essere certo di esistere e quindi di poter conoscere stabilmente me stesso, in cui posso scoprire la verità nell’unità delle sue articolazioni logiche, ma la fonda su Dio stesso in modo da garantirne l’oggettività assoluta nonostante gli inevitabili errori umani nel cercarla e nel definirla. Infine, Agostino dimostra come l’uomo possa conoscere nella medesima maniera anche in questa esistenza corporea, abolendo l’idea della preesistenza dell’anima come prerequisito per la conoscenza certa. La gnoseologia agostiniana sarà uno dei cardini della filosofia medievale e anche dell’immaterialismo moderno, che la svilupperanno come una serie di epistemologie vere e proprie. Il punto di approdo della gnoseologia di Agostino è dunque la teologia razionale, sebbene, oltre a quella della verità, detta appunto agostiniana, l’Ipponense adduca come prove dell’esistenza di Dio anche la contingenza delle cose che esige di riposare su un Essere necessario e l’ordine del mondo che postula un Intelletto ordinante. Viene scoperto Dio come verità intima e trascendente al pensiero, indispensabile per qualunque conoscenza ma di per Sé incomprensibile, per cui possiamo dire di Lui più quel che non è che quel che è. Tuttavia tra i tanti nomi che possiamo darGli, uno gli si addice maggiormente ed è stato rivelato da Lui stesso: Ego sum Qui sum. Con esso si presentò a Mosè. Egli è l’Essere stesso, l’Ipsum Esse, la realtà piena e totale, l’essentia, tanto che solo Dio è realmente essentia. Infatti ciò che cambia non esiste veramente, perché cambiando cessa di essere ciò che era per diventare qualcosa di nuovo che a sua volta cesserà di essere. Ogni cambiamento comporta quindi una mescolanza di essere e di non essere. Eliminare il non essere è togliere il principio stesso del divenire, ossia della mutabilità, per cui rimane solo l’immutabile e quindi l’Essere. Ciò significa però parlare in grado sommo di essentia, di modo di essere sempre uguale a se stesso, che quindi ben più profondamente si addice a Dio di quanto non lo sia alle Idee platoniche. Essere supremamente è infatti essere sempre e solo uguali a Sé. Dio è dunque immutabile perché essere e viceversa. Così l’Uno platonico viene identificato pienamente con Dio e l’Essere univoco del platonismo e di Parmenide si identificano con Lui grazie alla scoperta geniale di Agostino. Alla domanda plurisecolare sulla natura dell’Essere, scaturita dalla necessità di armonizzare Eraclito e Parmenide, il divenire e la fissità ontologiche, Agostino dà una nuova risposta, dopo quella di Platone e di Aristotele, dopo le Idee e le sostanze individuali: l’Essere è l’Essenza divina, in quanto solo essa è senza limitazioni. Ma l’ontologia di Agostino non è una mera metafisica, ma una teologia compiuta che si capisce solo alla luce della Rivelazione: i filosofi presocratici avevano compiuto una prima navigazione verso i principi costitutivi del mondo fisico, Platone e Aristotele ne avevano fatta una seconda verso quelli del mondo metafisico, Agostino giunge con una terza al mistero stesso di Dio che crea le stesse essenze metafisiche e che si rivela dando un definitivo avallo a quanto l’uomo cerca. L’essenzialismo ontoteologico di Agostino influenzerà Anselmo di Aosta, Alessandro di Hales, Bonaventura da Bagnoregio, Malebranche, Berkeley; molti di costoro dedurranno proprio dall’essenza divina la sua esistenza, andando oltre il pensiero stesso di Agostino. Il Santo a più riprese si è sforzato di concepire la natura di Dio per analogia con l’immagine che di Se stesso Egli ha lasciato nell’uomo. Nell’antropologia filosofica di Agostino ha un peso enorme la sua teologia trinitaria, su cui torneremo. Il Santo, che per primo ha studiato la Trinità a partire dalla Sua Natura o Sostanza o Essenza divina per poi giungere alle Ipostasi personali in cui essa sussiste, ha rintracciato nell’anima umana l’essere del Padre (di cui essa ha e conserva consapevolezza nella memoria), l’intelligenza di sé che Quegli ha nel Figlio e l’amore di sé tramite questa intelligenza come il Padre lo ha tramite il Figlio nello Spirito Santo. Conoscere se stessi significa conoscersi come immagine di Dio, per cui il socratismo viene battezzato da Agostino. Nel pensiero dell’uomo vi è dunque, anche se celato, il ricordo di Dio, profondo e misterioso, inesauribile e superiore a noi stessi. La nostra vita interiore è il dispiegarsi dentro di sé della conoscenza che un pensiero divino ha di se stesso e dell’amore che si porta. Guglielmo di San Teodorico, Teodorico di Vriberg, Meister Eckhart, Giovanni Tauler e Guglielmo di Ruysbroeck riprenderanno questo insegnamento nella loro mistica. Dio è conseguenzialmente il Creatore dell’uomo e anzi di tutte le cose. Egli è l’Essenza suprema che è attestata da quella parziale degli altri enti e l’immutabilità che il cambiamento richiede come causa. Esse, che di per sé non hanno l’essere ma che pure sono, postulano l’esistenza dell’Essere in Sé, che le ha tratte dal loro nulla. Se esse non venissero dal nulla, Dio non sarebbe l’assoluto, perché o le avrebbe tratte da Sé e quindi esse sarebbero parte di Lui, o le avrebbe tratte da altro non prodotto da Lui in alcun modo e quindi attestante la Sua limitatezza. Invece essendo create dal nulla esse sono radicalmente dipendenti da Lui e dimostrano che l’assunto parmenideo, per cui “l’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere” è errato, in quanto l’Essere supremo, proprio in quanto tale, può, se vuole, trarre dal non essere l’essere degli enti. Dio, all’interno del Suo Verbo, contiene eternamente in Se’ tutti gli archetipi o idee dei vari esseri possibili. Tali idee sono dunque increate e consostanziali a Dio, della medesima consostanzialità del Verbo. In un solo istante, volendo creare il mondo, Dio l’ha detto e dicendolo l’ha fatto. Senza successione temporale tutto ciò che fu, è e sarà è stato fatto esistere insieme, mentre il racconto dei Sei Giorni della Genesi è una allegoria. Oggi infatti Dio non crea più ma conserva nell’essere quanto ha creato. Tutti gli esseri sono stati prodotti sin da principio nella stessa materia, ma quelli futuri lo furono sotto forma di ragioni seminali, che dovevano o devono ancora svilupparsi nella successione dei tempi, secondo l’ordine previsto da Dio stesso e in base alle leggi da Lui fissate. L’uomo stesso non fa eccezione, salvo la sua anima e, come Adamo era in potenza nella materia da cui è stato tratto, così in lui sono stati contenuti potenzialmente tutti i suoi discendenti. Vi è dunque una evoluzione dispiegatrice nel processo di sviluppo perpetuo del mondo, fino al termine fissato da Dio. Agostino respinge sia l’emanazionismo platonico che l’origine malvagia del mondo dei manichei, creando la prima vera metafisica positiva della storia del pensiero. La dimensione fondamentale della Creazione che così si dispiega è dunque il tempo, l’immagine mobile dell’eternità, la prima delle creature, che è compreso e misurato solo dall’uomo, la cui anima, conservando la memoria del passato, avendo desiderio del futuro e avanzando continuamente nel presente che le viene incontro e gli si getta alle spalle, è un vero ponte tra tali dimensioni. Il tempo è la distensione dell’anima. Vi è una gerarchia delle creature, nella misura in cui esse sono capaci di amare si collocano più in alto e all’ordine del sapere dei Greci Agostino sostituisce quello dell’amore. Gli Angeli sono le più nobili creature di Dio e Agostino non sa se hanno un corpo. Gli uomini sono inferiori e sono certamente composti di anima e corpo. La prima si serve del secondo ed è spirituale e semplice, unita a lui da una semplice inclinazione naturale per cui lo vivifica lo regge e lo custodisce, trasformandolo così, da mera materia, in un organismo strutturato e vivo. Sull’origine dell’anima Agostino non si pronuncia in modo definitivo: forse Dio ha creato i germi delle anime sin dall’inizio facendoli tramandare di padre in figlio così da permettere la trasmissione del Peccato originale? Forse ha creato una sostanza spirituale primordiale da cui ha poi tratto le anime volta per volta? Forse ha creato i germi delle anime e li ha affidati agli angeli? Non lo sappiamo e Agostino non lo ritiene particolarmente importante, e sebbene preferisca qualsiasi soluzione che gli permetta di giustificare il traducianesimo la ragione lo inclina a propendere per la creazione individuale di ogni anima, che evidentemente contrae il Peccato originale quando è immessa nel corpo. L’anima è immortale, perché è una realtà semplice e spirituale e quindi incorruttibile. Lo dimostrano la sua autonomia dal corpo nell’agire e nell’essere, il desiderio – altrimenti irrealizzato – di essere immortali, il vincolo indissolubile tra anima e verità la quale, essendo spirituale ed eterna, suppone che anche la prima sia immortale per poter partecipare di essa. Né alcuna cosa potrebbe sciogliere tale vincolo: non il corpo, che è inferiore all’anima, non l’anima che appunto desidera la verità e l’immortalità ad essa connessa, non Dio, che ha anzi creato questo nesso e quindi non ha motivo di annullarlo. In ogni caso, sebbene inferiore, la materia – e quindi il corpo – non è cattiva; la decadenza della natura non è il portato di una sua negatività metafisica ma la conseguenza del Peccato, per cui il corpo non è, ma è diventato, il carcere dell’anima. Solo la vita morale può liberarcene spiritualizzando il corpo nelle sue inclinazioni. La natura umana è buona di per sé nella misura in cui è, perché il bene è proporzionale all’essere, mentre il male di per sé non esiste, proprio perché esso non appartiene all’ordine dell’essere e di suo si identifica col non essere. Il male designa in realtà la mancanza di un certo bene in una natura che dovrebbe possederlo. Il male è dunque una privazione, una causa deficiente. Ecco perché è possibile spiegare la presenza del male in un mondo creato da un Dio buono. Agostino rigetta quel dualismo manicheo che pure aveva professato con delle critiche stringenti ed insuperabili: se esistessero due principi primi assolutamente simili ma di segno opposto, per cui in perpetua lotta tra loro, nessuno di loro sarebbe realmente l’assoluto, né avrebbe senso questa stessa lotta in cui nessuno può prevalere. Il principio primo o assoluto per sua natura dev’essere unico; come unico si identifica col Bene, mentre il suo contrario, ossia il male, proprio per questo motivo non può esistere né può nuocergli in alcun modo. Il male naturale altro non è che l’interpretazione antropocentrica dell’ordine del mondo: esso è composto di enti i quali sono di per sé buoni, ma limitati. La limitazione non è un male ma un modo di essere. In quanto poi all’avvicendarsi delle cose, la distruzione e la morte, come le vicende che le preparano e le accompagnano nelle leggi di natura, sono indispensabili per l’armonia e il rinnovamento dell’universo e quindi non sono mali se non per l’uomo che li considera dal suo punto di vista limitato e parziale e individuale. Quanto poi al male morale, esso senz’altro esiste, ma è la conseguenza della libera scelta dell’uomo che, invece di fare il bene, fa appunto il contrario. Dal canto suo il libero arbitrio, pur essendo aperto alla drammatica possibilità del male, e quindi pur non essendo un bene assoluto, rimane un bene in quanto unica condizione per poter meritare la beatitudine. Essere felici è lo scopo dell’uomo, ma per raggiungere il suo scopo egli deve volgersi verso il Bene sovrano e impadronirsene con un atto di volontà. Ciò può avvenire solo con il libero arbitrio. Avendo l’uomo usato il libero arbitrio per godere non di Dio ma di sé e dei beni inferiori, ha commesso il peccato che non era necessario all’ordine del mondo e di cui è responsabile. Il Peccato originale ha stravolto la natura umana e da questa concezione teologica derivano anche istanze filosofiche: la rivolta del corpo contro l’anima, la nascita della concupiscenza e dell’ignoranza, il fatto che il corpo regga l’anima invece del contrario, l’appagamento dell’anima nel sensibile e il suo conseguente sfinimento nel fornire a se stessa immagini e sensazioni che trae da sé, il rivestimento dell’anima stessa di una crosta di immagini sensibili che le fanno obliare persino la sua esistenza e la persuadono di essere essa stessa corpo. Questa è la prigione dell’anima, non il corpo. E da questa materializzazione l’anima deve liberarsi. Ma non può farlo da solo, senza l’aiuto della Grazia. Tuttavia questo è un tema teologico su cui torneremo. Basti dire che filosoficamente parlando esso si basa sulla constatazione dell’impossibilità pratica dell’uomo di fare il bene di sua sponte e sul fatto che in lui coesistano tendenze opposte. Questa condizione è ciò che fa dubitare dell’esistenza del libero arbitrio umano, ma in realtà esso esiste ed è scopribile dalla ragione: di fatto l’uomo fa continue scelte e senza di tale possibilità egli on potrebbe né vivere bene né vivere male. Il Peccato tuttavia ha lasciato all’uomo il libero arbitrio ma gli ha tolto la libertà, per cui egli non può perseverare nel bene ma solo nel male, se lasciato a se stesso. La Grazia tuttavia può convertirlo e trasformarlo, conferendogli il potere di non peccare. La conversione è, gnoseologicamente, lo sforzo della ragione di volgersi dal sensibile all’intellegibile, dalla scienza alla sapienza o, che è lo stesso, lo sforzo dell’uomo di volgersi dalla ragione inferiore dedita alle cose esemplificate sulle idee alla ragione superiore dedita alla contemplazione delle idee stesse alla luce dell’Uno, mediante un risanamento della volontà. A questa visione estatica giunsero Platone e Plotino, e anche il cristiano può arrivarci, ma per poi ricadere accecato dalla luce divina. Egli però può, a differenza dei pagani, continuare a tendere verso quello che ha visto e che pure non può più fissare, con la forza del volere, per cui solo il battezzato possiede il vero bene. Il possesso di Dio è del singolo cristiano, ma non separato dagli altri fedeli. Gli uomini che amano Dio sono uniti a Lui dall’amore e quindi anche tra loro a causa di ciò. Essi sono dunque un popolo spirituale che vive in mezzo a quelli temporali, avendo in comune un patrimonio religioso distinto ma non separato da quei patrimoni culturali che hanno i popoli temporali. Se dunque gli uomini vivono e popolano la loro città terrena, i cristiani, qualunque terra abitino, popolano la Città di Dio. Adesso le due città sono mescolate, e la costruzione della Città di Dio è la grande opera iniziata da Lui dalla Creazione e proseguita attraverso la storia che la Provvidenza regge in vista di questo fine, ma alla fine saranno separate dal Giudizio e i Predestinati giungeranno alla Beatitudine eterna, per raggiungere la quale essi stessi e la medesima storia furono creati. Una menzione particolare merita la filosofia del linguaggio di Agostino recentemente rivalutata per la sua modernità. Agostino imposta la relazione tra parola e cosa come relazione di sostituzione, nella misura in cui la parola è conforme alla cosa. La parola concreta è il suono o voce, ma la sua articolazione logica è il significante o verbo, che rimanda al significato, tramite la mediazione di chi la pronuncia, fortemente condizionato dal linguaggio storico. Il nesso tra significante e significato si esprime nel nome, che designa l’uno e l’altro insieme, sebbene esso non sia la cosa che significa e di cui appunto prende il posto come supposizione materiale. Agostino imposta dunque una distinzione tra lingua e riflessione metalinguistica elaborando una teoria semiotica completa. Proprio per rendere riconoscibili i significati nei significanti e per connettere i significanti alle cose cui si riferiscono nella loro integrità, Agostino connette la sua teoria del linguaggio alla gnoseologia dell’illuminazione, perché solo nella luce interiore l’uomo vede quegli archetipi che può designare con dei nomi mediante cui riunificare le cose in essi a livello mentale. Vi è dunque un’ampia ripresa delle teorie stoiche del linguaggio ma anche una loro modificazione e un loro approfondimento. Il pensiero di Agostino è quanto di più non si poteva fare per cristianizzare il platonismo, generando una filosofia eccezionale il cui impatto è inesauribile. Tuttavia alcuni elementi del platonismo sono irriducibili al Cristianesimo e laddove Agostino non potè sopperire col suo genio creativo – che pure è fortissimo – rimasero aperte delle indeterminazioni che potevano sanarsi solo con l’uso dell’aristotelismo. Un aristotelismo, si badi, anch’esso bisognoso di correttivi e addomesticamenti. Per rendere il mondo aristotelico una creatura e il Dio platonico un vero Creatore, bisognava interpretare il Nome di Dio nell’Esodo in un modo nuovo. Agostino aveva compiuto una parte di questa opera interpretandolo come Essere immutabile e traendo da ciò tutte le conseguenze del caso. Per completare l’opera bisognò aspettare il pensiero di Tommaso d’Aquino, che avrebbe assoggettato il mondo a una dimensione autenticamente creaturale. LE LINEE PORTANTI DEL PENSIERO TEOLOGICO DI AGOSTINO Se fu geniale filosofo, Agostino fu ancor più grande teologo e in moltissimi campi della dogmatica e della morale come della spiritualità egli ha detto parole definitive. Dopo l’ordinazione sacerdotale, in seguito alla svolta teologica, da studioso di Cicerone e Plotino divenne discepolo della Bibbia. Soprattutto nel De Doctrina Christiana egli fissò compiti e metodi della disciplina teologica. Il presupposto dello studio teologico è che la fede sia razionale, ossia intellegibile alla mente umana. Il motto intellige ut credas et crede ut intelligas si intende soprattutto in tal senso: la ragione filosofica scopre che Dio e l’anima esistono, che Cristo è realmente morto e risorto, che l’uomo ha bisogno di Dio: in parole povere mostra l’utilità del credere con il ragionamento e adduce profezie e miracoli (non solo quelli taumaturgici ma soprattutto la Resurrezione e la diffusione eccezionale del Vangelo nel mondo) per attestare la soprannaturalità del Cristianesimo e il compimento in esso delle promesse antiche; la fede porta a compimento le istanze così poste; la ragione teologica approfondisce ed enuncia le verità di fede: ciò è legittimo perché diversamente non sarebbero né ascoltate né comprese, è conveniente perché Dio ci ha dato una ragione affinché la usassimo ed è necessaria perché i pastori le difendano dai pagani e dagli eretici. Non vi è dunque sovrapposizione tra i due ambiti ma complementarietà, sebbene la fede abbia contenuti superiori e un livello di certezza assoluto basato sulla Rivelazione di Dio e la Sua autorità. Questa è esercitata dalla Chiesa in Nome di Cristo, perché la fede non è possibile senza l’autorità che dirima le questioni controverse. Solo la Chiesa può infatti annunciare autorevolmente il Vangelo. La teologia, che si differenzia dalle altre discipline per il suo oggetto, ossia le verità di fede, ha anche un criterio epistemologico basato sull’autorità di chi le attesta, in quanto Dio ha voluto sottrarre agli uomini la possibilità di sbagliare in questo campo delicatissimo. Questa autorità coincide con la verità che è infallibilmente contenuta nella Bibbia (in modo vero fermo e sommo), nella Tradizione e nel Magistero della Chiesa. Questa fissa il canone della Scrittura sulla base dell’origine apostolica, trasmette la Tradizione fondata dagli Apostoli stessi ed interpreta l’una e l’altra nei casi dubbi sempre con l’autorità apostolica. Vi è dunque un primato epistemologico della fede nella teologia che però non esclude il lavoro dell’intelletto, nonché della ragione col suo bagaglio di cultura: le lingue antiche, la storia, l’ermeneutica. Fissando le regole di quest’ultima, valide praticamente fino ai nostri giorni, Agostino scinde il senso allegorico da quello letterale, spiegando come applicare l’esegesi rivolta ad individuare il primo. Infine aggiunge agli strumenti interpretativi l’uso della dialettica e della filosofia. Essa è utile perché mette a disposizione dei teologi cose vere e conformi alla fede, specie attraverso il platonismo. Il bagaglio intellettuale dei pagani in verità appartiene ai cristiani perché è una parte di quella verità che è rivelata per intero solo a loro. Si tratta di portare fuori dall’Egitto del paganesimo i tesori che spettano al Nuovo Israele ora uscito dalla schiavitù, con il concetto di “sacro furto”. Del resto quanta fecondità abbia la filosofia nell’applicazione teologica lo ha dimostrato Agostino con la sua eccezionale attività intellettuale. Infatti egli non attinge tanto a Plotino quanto alla sua stessa inventiva. Il metodo agostiniano è dunque un metodo dall’alto, perché la teologia non stabilisce i propri principi ma li riceve da Dio stesso. Non è un metodo meramente deduttivo né sintetico, ma rimane sempre un metodo introspettivo e interioristico. Studiando Dio Agostino capisce se stesso e viceversa. Le verità di fede sono la vita soprannaturale dell’uomo, anche se egli le vede solo come in uno specchio. Nel lavoro teologico Agostino si distinguono tre momenti: biblico, dogmatico ed esplicativo-apologetico. Ma vale anche una divisione tra teologia contemplativa e teologia pratica e morale. Anzi, solo la contemplazione rende possibile l’azione e solo l’azione dà senso alla contemplazione: una teologia meramente intellettuale che non si concretizza in un cambio di vita sarebbe non solo inutile ma dannosa e il teologo deve coltivare le virtù teologali. L’aspetto più noto del pensiero agostiniano è la sua soteriologia, sviluppata soprattutto in polemica con Pelagio. La dottrina del Peccato Originale era sempre stata importante nella Patristica, dai tempi di Ireneo di Lione, di Tertulliano e di Origene, ma la sistemazione dell’argomento si dovette ad Agostino perché Pelagio sosteneva che la colpa adamitica avesse danneggiato solo il capostipite della specie e che ogni uomo poteva salvarsi con la propria buona volontà, mentre la Morte di Cristo aveva semplicemente il valore di un esempio. L’Ipponense addusse come prove della fallacia di questo insegnamento sia l’insegnamento biblico della Lettera ai Romani e della Genesi, sia la prassi del pedobattesimo che presuppone la nascita in stato di peccato dei bambini evidentemente senza la loro volontà, sia l’universale presenza del male, del dolore, della morte che suppongono un traviamento collettivo, proprio della natura umana e non della persona, che ha avuto queste drammatiche conseguenze. Essendo un mistero, Agostino non può spiegare in che cosa consista la colpa d’origine: può solo affermare con certezza che essa, compiuta da Adamo come capostipite dell’umanità, è stata da lui tramandata a tutti i suoi discendenti. Adamo avrebbe dovuto obbedire a Dio e meritare per sé e per i suoi discendenti la Grazia santificante e i doni preternaturali; disobbedendo, ha demeritato per sé e per essi, perdendo l’una e gli altri. E’ dunque una colpa non imputabile al singolo ma alla specie e non si può sostenere che sia un semplice cattivo esempio di Adamo. La colpa peraltro danneggia la natura umana, perché oltre a ricondurla alla sua mortalità corporea, risveglia in essa la triplice concupiscenza come inclinazione strutturale al peccato che quindi ognuno compie, meritando di per sé il castigo eterno e ciò che Adamo ha perduto per primo. Inoltre essa annienta la libertà umana, in quanto la lascia capace solo di fare il male: se il libero arbitrio è sopravvissuto al peccato e l’uomo può scegliere tra il bene e il male, la libertà intesa come capacità di perseverare nel bene è scomparsa e l’uomo può fare solo il male. Tale colpa si propaga di padre in figlio mediante il traducianesimo, ossia mediante la carne, per cui, qualunque delle ipotesi sulla creazione dell’anima si accetti, non appena questa entra a contatto col corpo che deve vivificare ne risulta contaminata. In tale prospettiva, per colmare l’offesa infinita fatta dall’uomo sia come specie che come singolo a Dio, è indispensabile la Redenzione. Dio poteva senz’altro perdonare sovranamente, ma ha voluto che il Figlio si incarnasse e si facesse Uomo. In quanto vero Uomo, ha potuto espiare offrendo la propria sofferenza per i suoi simili; in quanto Dio ha dato alla Sua sofferenza un valore infinito, atto a coprire non solo i peccati commessi prima e dopo di Lui, ma a meritare la restituzione della Grazia mediante cui ogni uomo, o per la fede in Lui venturo o per quella in Lui venuto, ha potuto può e potrà, se vuole, meritare il Paradiso e sfuggire all’Inferno. In quanto Uomo concepito di Spirito Santo, Gesù è immune dalla colpa originale e in quanto perfettamente Santo ha potuto offrire la Sua sofferenza solo a vantaggio degli altri, perché se avesse avuto dei difetti ci sarebbe stato bisogno di chi espiasse per Lui stesso. Come Adamo ha demeritato facendo ereditare la colpa alla natura umana, così Cristo ha meritato in modo tale che chi si innesta in Lui mediante una rigenerazione spirituale riceve la Grazia. Tale rigenerazione avviene nel Battesimo e all’uomo si chiede la fede per rendere efficace la Grazia ricevuta. In tal modo Cristo è la causa efficiente, finale ed esemplare di tutto il bene che si fa nel mondo e di tutto il male che viene evitato o perdonato. Essendo la natura umana incapace di meritare alcunchè, la giustificazione, pur essendo reale perché capace di trasformare l’uomo da peccatore a giusto, e pur implicando la collaborazione dell’uomo nel processo di santificazione, è una mera grazia divina che comincia ad operare in tutti per un semplice dono di Dio. Peraltro la Grazia così infusa, che muove alla Fede e che permette l’esercizio della Carità, restaurando la libertà di fare il bene, dà inizio sostiene e compie ogni atto buono, sia nell’ordine soprannaturale che in quello naturale, anche se nel caso di chi è in peccato essa previene ulteriori colpe ma non permette di compiere opere meritorie. In questa prospettiva il Cristo è il Nuovo Adamo nel Quale tutti devono essere inseriti per avere una Natura spirituale che li conduca alla Salvezza capovolgendo il comune destino di morte con una comune vocazione di gloria e vita eterna. Tuttavia, siccome dalla Scrittura si evince che ci saranno dannati e beati, Agostino, pur insegnando che Dio vuole tutti gli uomini salvi, asserisce giustamente che Egli sa chi corrisponderà alla Sua Grazia e chi no, e sapendolo lo decreta dall’eternità, per cui coloro i quali saranno beati sono anche predestinati. Irrigidendo nel corso del tempo le sue posizioni, il Dottore della Grazia, così chiamato proprio per questa sublime dottrina, parlerà persino di una predestinazione alla dannazione, intendendo però l’atto mediante cui Dio sa e vuole che siano puniti eternamente coloro che disprezzano la Sua offerta di salvezza e che vengono perciò da Lui abbandonati alla loro scelta. E’ evidente che una simile sintesi polemica si potesse prestare, come in effetti si prestò, ad essere sviluppata e fraintesa nei più svariati modi: ad Agostino si rifecero non solo San Tommaso e il Concilio di Trento, ma anche Lutero, Calvino, Zwingli e Jansen. Del resto, alcune esagerazioni verbali furono corrette dal Magistero ecclesiastico contemporaneo il quale, pur accettando la dottrina agostiniana per risolvere la controversia pelagiana, non fece sue tutte le espressioni del Santo sottolineando con chiarezza la necessità della cooperazione umana per meritare la salvezza o la sua colpevolezza per demeritare. In ogni caso, la soteriologia di Agostino è l’espressione più alta, dopo quella di San Paolo, della dottrina cristiana sulla Salvezza, con la differenza che il nostro è un Padre e quindi un interprete, mentre l’Apostolo è portatore di una Rivelazione divina. Altrettanto importante in Agostino è la formulazione del mistero trinitario, che in Occidente era stato affrontato in modo sistematico per l’ultima volta solo da Tertulliano, che aveva adoperato la formula che poi sarebbe stata del Credo niceno-costantinopolitano dell’Unica Sostanza in Tre Persone e che aveva tradotto in latino la parola greca Trias di Teofilo con il termine Trinitas. Agostino spiega chiaramente che le Persone divine sono identiche nell’Essenza ma distinte per le Relazioni. Il Padre è tale perché genera, il Figlio perché è generato, lo Spirito Santo perché procede dall’Uno e dall’Altro come un reciproco dono. Tali Relazioni sono intrinseche alla Natura Divina e non suppongono diversità ma solo distinzione tra le Persone. Le Relazioni, essendo reali, sono anche immutabili, sussistenti ed eterne, per cui il Padre il Figlio e lo Spirito Santo sono sempre esistiti e le loro Relazioni non hanno mai avuto inizio né avranno mai fine. Come si vede, Agostino ha impostato la teologia trinitaria a partire dalla Natura divina e non dalle Persone, per cui, pur perdendo alcuni spunti di particolare chiarezza provenienti dalla teologia di Gregorio di Nissa, egli ha garantito una enorme chiarezza all’esposizione del mistero eliminando ogni forma di subordinazionismo tra le Ipostasi trinitarie. In cristologia, Agostino dapprima sottolineò il ruolo di Cristo come Maestro e poi, con la svolta teologica, quello di Redentore e di Causa prima ed assoluta della santificazione di ognuno. Ancora il Santo confuta gli Ebioniti, i Docetisti, gli Apollinaristi, gli Adozionisti, i Manichei, gli Ariani affermando la Figliolanza divina, la reale Umanità, l’esistenza dell’Anima, l’Unione Ipostatica, la funzione redentrice di Cristo, nel Quale distingue senza mescolarle le Due Nature in una sola Persona proprio mentre in Oriente sorgeva il monofisismo, anche senza ancora arrivare alle formule schematiche di Leone Magno e del Concilio di Calcedonia. Né gli eccessi della cristologia alessandrina né le inesattezze di quella antiochiena sono presenti nel lessico dell’Ipponense. Egli dimostra che a Cristo compete tutto quanto è proprio di Dio e tutto quanto è proprio dell’Uomo, affermando che l’Umanità di Gesù è integra e perfetta sia nell’essere che nell’agire, così da prevenire ogni precoce monoteletismo e monoergetismo. Avendo dunque assunto tutta l’Umanità, Cristo la può redimere: l’azione salvifica infatti inizia con l’Incarnazione e la Sussistenza diofisita di Lui ne fa il perfetto Mediatore, Unico, Universale e Necessario, tra Dio e l’uomo. Egli tratta da pari a pari col Padre come Figlio ed espia come Uomo per i suoi simili. La Morte di Cristo ha dunque un valore espiativo assai marcato in Agostino. Il Redentore si identifica dunque sia con chi offre che con chi riceve il sacrificio, rappresenta tutta l’umanità nel seno della Trinità ed è il Capo di essa rinnovata. Portando in Sé il peso della colpa di tutti e dovendo tutti incorporare a Sé, il Cristo prosegue il mistero della Sua Passione fino alla fine dei tempi e suscita mediazioni subordinate unendo a Sé le sofferenze dei membri del Suo Corpo Mistico. La dottrina della Chiesa, che a questa è strettamente connessa, è espressa da diversi modelli adottati da Agostino, tra i quali particolare fortuna ebbe quello di Popolo di Dio, ancora oggi adottato dal Concilio Vaticano II (1962-1965). Per Agostino alla Chiesa appartiene tutta l’umanità redenta da Cristo, purchè in grazia, sia che Lo conosca sia che non Lo conosca, sia vissuta prima sia vissuta dopo di Lui. E’ dunque una realtà invisibile che comprende al suo interno quella visibile senza che l’una si possa concepire senza l’altra, dato che le funzioni gerarchiche e sacramentali sono indispensabili per l’edificazione della Chiesa stessa e in ogni caso sono sensibilmente visibili ma hanno effetti invisibili. Nella disputa contro i Donatisti e contro la loro pretesa di una Chiesa di santi sin da questo mondo, Agostino obbietta che la comunione ecclesiale è mista, in quanto contiene dentro di sé sia santi che peccatori, sia i buoni che i cattivi, dei quali peraltro nessuno può predeterminare la sorte eterna nota solo a Dio; in questa comunione peraltro non tutti hanno lo stesso grado di santità o di peccaminosità. Agli stessi Donatisti obbietta che non si può immaginare, come essi facevano, che i Sacramenti siano validi solo se amministrati da ministri degni, sia perché nessuno ne è veramente degno, sia perché il sacerdozio – anche se conferito a persone che siano o diventino indegne – è sempre efficace e fa di chi l’ha ricevuto uno strumento di Cristo Che quindi opera tramite lui. Il Sacramento, che edifica la Chiesa, è valido dunque non in virtù dell’azione da compiersi da parte del ministro in sé ma in virtù di quella svolta da Cristo in lui, non ex opere operando ma ex opere operato. Con questo principio, maturato in ecclesiologia, Agostino pose anche una pietra miliare della teologia sacramentale. Tornando al tema ecclesiologico, l’Ipponense sottolineò, sempre in polemica con lo scisma donatista, l’unità e la cattolicità della Chiesa, senza trascurarne santità ed apostolicità, per battere in breccia le obiezioni degli avversari. Afferma poi senza esitazione che la Chiesa Romana è, tra tutte, quella che detiene il primato, in quanto fondata da Pietro, e che colui che la presiede, succedendogli, ha lo stesso potere magisteriale e giurisdizionale del Principe degli Apostoli, che può esercitare senza nessun vincolo di qualità personali, da cui infatti non deriva, in quanto promana da Dio. Riprendeva così il meglio della teologia episcopale di Cipriano. La riflessione sulla Chiesa si sposta poi sul piano della storia, della quale Agostino è il primo ad elaborare una teologia compiuta e fattuale, diversa da quella tendenzialmente metafisica che era stata di Origene. Nel De Civitate Dei, del quale abbiamo parlato a proposito del pensiero filosofico del Santo, egli traccia tuttavia soprattutto un quadro teologico, anche perché l’opera venne scritta con intenti apologetici per dimostrare che la decadenza repentina del mondo romano non dipendeva, come affermavano i pagani, dall’abbandono della religione pagana. Doveva altresì consolare i cristiani, i quali, dopo le persecuzioni, si erano impadroniti dello Stato Romano e credevano che il dominio eterno di Roma sarebbe stato per sempre il guscio protettivo della Chiesa, anch’essa imperitura. Era nata una Chiesa imperiale che tuttavia ora, esattamente come l’Impero stesso, era gravemente minacciata. Agostino a costoro doveva mostrare come la Chiesa, pur avendo cristianizzato l’Impero, non poteva identificarsi con esso né farsi racchiudere in esso, quanto piuttosto inglobarlo nella sua realtà spirituale e come momento transitorio, in quanto l’eternità non gli appartiene. Per raggiungere tali scopi l’Ipponense avrebbe voluto narrare la storia umana, si librò talmente in alto da dover lasciare questo compito al suo discepolo Orosio nelle sue Historiae, e tracciò un quadro d’insieme di insuperata potenza comprendente principi e analisi. Per il Santo, come argomenta nei primi dieci libri, il paganesimo non ha mai giovato a nessuno e l’Impero Romano, i cui sudditi pretenziosamente vorrebbero eterno e migliore degli altri, è nato come quelli da azioni malvage, è degno di essere punito ed è destinato a finire, né si identifica con la Chiesa per cui debba meritare una protezione particolare di Dio; inoltre – come spiega nei successivi undici libri- la storia ha origine da Dio Che crea l’uomo e la governa con la Provvidenza, per cui essa ha i fini che Egli le dà e non quelli che l’uomo stesso vorrebbe. Dio attraverso l’uomo costruisce la Sua Città sin dall’Eden. L’uomo peraltro col peccato ha creato la sua città, la sua Babilonia, terrestre, opposta alla città divina, celeste, simbolicamente adombrata in Gerusalemme. Ebbene la prima ha come valore l’uomo e le cose inferiori a Lui, la seconda invece ha come valore Dio stesso. L’amore di sé genera la prima città, l’amore di Dio perpetua la seconda, che pure è la più antica, la più importante e la sola che arriverà a compimento. In senso stretto, della Città di Dio fanno parte solo coloro che sono in Grazia, Angeli e uomini, mentre della città umana fanno parte i malvagi e i demoni; la prima è dunque invisibile ma sostanzialmente anche la seconda lo è, sebbene compaia chiaramente nelle strutture meramente umane che la caratterizzano nella convivenza dei suoi membri. Essa vive quaggiù per la fede, è in pellegrinaggio tra gli empi, ha come fine del suo pellegrinaggio il Cielo. Anche la Città di Dio ha un rivestimento visibile che è la Chiesa come appare nelle sue strutture e si identifica sostanzialmente con essa, ma in realtà solo gli eletti entreranno in cielo nella Gerusalemme definitiva; dunque la Città di Dio è in perenne costruzione e la dialettica tra le due Città fa sì che la celeste sia osteggiata dalla terrestre ma anche che questa sia vivificata e trasformata dalla prima, sebbene solo questa sia definitiva e l’altra sia destinata a scomparire. Le due Città non sono separate pur essendo distinte, in quanto Dio ha stabilito che questo avvenga nel Giudizio Universale. I cristiani sono dunque cittadini dell’una e dell’altra Città e seguono le leggi della comunità umana per amore di Dio, nella misura in cui sono ordinate al conseguimento di cose buone in terra e in cielo. Solo la Città di Dio tuttavia può condurre i suoi abitanti alla felicità, perché essa è in cielo. Solo essa insegna senza errori ai suoi membri il giusto per meritare il premio, mentre la Città dell’uomo, ai tempi dell’Ipponense, aveva ben duecentottantotto diversi sistemi morali razionali. Mentre la Città umana non si interessa della verità e lascia ognuno in balia del proprio arbitrio, quella divina, in cui la Verità viene dall’alto, non può accettare la licenza individuale in materia perché l’eresia e lo scisma minano alla base la sua stessa unità sostanziale e inficiano la sua stessa missione. In questa maniera Agostino ha posto le basi di una società umana sì, ma soprannaturale, distinta e coesistente con gli Stati, che possono anche collaborare con essa, ma che si regge su leggi proprie e che quindi realizza in terra i principi del Vangelo, all’occorrenza punendo, con mezzi propri, coloro che li violano. Da ciò derivò ancor più esplicitamente un principio che già Agostino sosteneva a vantaggio dello Stato cristiano, ossia quello del coge o compelle intrare, mediante la punizione non solo canonica anche civile del dissidente religioso, partendo dal presupposto morale che come si salva la vita terrena dell’uomo anche a dispetto del suo volere, così, sia pure con determinate delimitazioni – che nel corso dei secoli diventeranno più vaghe – si può salvare la sua vita spirituale. Era la soluzione che Roma, mandando l’esercito in Africa contro i ribelli donatisti, passati all’opposizione anche politica, aveva cercato di praticare. Agostino tuttavia spiegò chiaramente che la fede era sempre e solo atto di volontà e che nessuna costrizione poteva essere esercitata sino a quel livello, anche perché inutile e dannosa. Egli patrocinò interventi civili che favorissero la conversione, che facilitassero l’unificazione della Chiesa, non che le imponessero, e deplorò la prassi, all’epoca iniziata sia pure con pochi casi, di mandare a morte gli eretici. Tornando al nostro discorso, nella maniera che dicevamo la Città di Dio si concretizza, strutturalmente e visibilmente, nella Chiesa come realtà teandrica, epifanica del mistero e pur concreta, e ancor più specificamente nell’insieme di tutti i cristiani, sia come comunità di individui che di popoli e di Stati, che sarà poi definita Cristianità. La Città di Dio quindi, pur essendo essenzialmente quella dei Predestinati, si manifesta attraverso queste due realtà, delle quali una coincide con essa pur avendo al suo interno anche molti non predestinati, l’altra ne è una espressione necessaria e subordinata. In questo contesto Agostino riconosce sia che l’Imperatore deve sostenere la Chiesa nella sua missione sia che i sovrani cristiani non sono peggio di quelli pagani, ma afferma anche che questo non è un motivo sufficiente per aspettarsi che l’Impero sfugga alle disgrazie, che spettano a tutti, cristiani compresi, i quali devono basarsi solo su Dio. E’ da questa concezione politica che derivò il cosiddetto agostinismo politico, composto di tre elementi destinati a svilupparsi in modi differenti e complementari: l’idea, già citata, di una società soprannaturale fondata sulla sapienza cristiana distinta dallo Stato e con essa compatibile (intesa sia come Chiesa che come comunità dei cristiani); le conseguenze pratiche tratte da questa idea dallo stesso Agostino in seguito alla crisi dell’Impero (ossia il fatto che gli abitanti della Città di Dio e la loro società soprannaturale si servano della Città terrena per giungere in cielo); le conseguenze pratiche tratte da questa idea da altri pensatori in altre epoche e circostanze (ossia che la Città di Dio, identificata con la Chiesa, riassorba in sé, mediante la comunità cristiana, gli Stati cristiani guidandoli secondo uno schema ierocratico o, che è la stessa cosa, che esercita l’autorità di Ambrogio secondo i principi di Agostino). Forse il Santo intravide lo sviluppo teocratico sacerdotale del suo pensiero, ma nessuno può dirlo con certezza. Del resto, la Bibbia forniva modelli sia di teocrazia regia che di teocrazia sacerdotale, peraltro entrambi esercitabili in Nome di Cristo Re e Sacerdote. L’Ipponense, che imposta la storia sullo schema Eden Caduta Redenzione, e che la divide in sei età (da Adamo a Noè, da Noè a Mosè, da Mosè a Davide, da Davide alla Deportazione in Babilonia, dalla Deportazione in Babilonia a Cristo, da Cristo alla Fine dei Tempi), afferma che essa sfocerà in una settima età che è poi quella della Vita Eterna, in cui, senza nessuna ripetizione ciclica né remissione, i buoni saranno beati e i cattivi dannati. Agostino dunque smentisce senza mezzi termini Origene e insegna che tutto quanto accade nella storia è permesso o voluto da Dio solo per il bene degli Eletti. L’Ipponense ha una visione molto fosca e pessimistica della storia, come Platone, percependo la caducità e la caoticità della convivenza umana, peraltro aggravata dalle conseguenze del Peccato. Ma nello stesso tempo egli crede che la storia sia stata redenta e che quindi potrà sfociare nell’Eternità dove l’umanità sarà veramente riunificata in una Repubblica celeste e in un organismo mistico. Nell’esegesi biblica, Agostino si immerse soprattutto dopo la sua ordinazione sacerdotale, nutrendosi di Scrittura e poi dispensandola come cibo ai suoi fedeli, consapevole che solo su di essa non solo si può edificare la fede ma tutta la cultura che viene così cristianizzata. I commentari, le omelie e le questioni – genere tipico dell’esegesi patristica e medievale e non solo biblica – si radicarono sempre più in tale consapevolezza. Nella metodologia, Agostino partì privilegiando il metodo allegorico, che gli sembrava più adatto a respingere le obiezioni di rozzezza mosse alla Bibbia dai Manichei e da altri critici, per poi avvicinarsi sempre di più al senso letterale, secondo un modello simile a quello di Girolamo ma espresso tramite la retorica più che per mezzo dell’erudizione, tanto che non manifestò nessun particolare interesse per la Vulgata. Il passaggio da un metodo all’altro si vede nell’interpretazione della Genesi, alla quale, a distanza di vent’anni, egli dedicò dapprima un trattato che la leggeva allegoricamente (De Genesi adversus Manichaeos) e poi uno che la intendeva in modo storico e letterale (De Genesi ad litteram). In questo modo egli dimostrò di aver disconosciuto gli eccessi che sono possibili nel metodo allegorico. Ponendo poi le basi della sua teologia biblica, Agostino insegnò che il senso della Scrittura è sempre l’amore di Dio, per cui solo il significato che, attribuito ad un passo, accresce questo amore, è autentico; possono ovviamente coesistere più significati, perché la Parola di Dio è infinitamente ricca di sensi, purchè non in contraddizione tra loro. Come omileta, il grande Ipponense ancora e sempre si nutrì ovviamente di Bibbia, per veicolare al popolo le verità e gli insegnamenti della Fede. Le sue omelie sono colloquiali, affettuose e intime, spesso basate su domande e risposte, mentre utilizzano molto l’allegoria, che rende ovviamente tutto più semplice. Per secoli le omelie di Agostino sono state il punto di riferimento dei predicatori latini, oltre che un grande strumento di catechesi. Il suo capolavoro omiletico sono, per i temi pratici, le Enarrationes in Psalmos e i Sermones, e per i temi catechetici, i Tractatus in Evangelium Johannis. Proprio come catecheta, Agostino, specie nel De Catechizandis Rudibus, ha lasciato insegnamenti che ancora una volta hanno influito per secoli specie da un punto di vista pratico e che ancora sono validi. Egli propone due modelli di catechesi, una introduttiva lunga e una breve. Insegna che solo con l’amore di Dio il catecheta può sopportare le difficoltà e i fallimenti. Prescrive di adattarsi al livello dell’uditorio e alle loro caratteristiche. Tutt’altro che kerygmatico, Agostino mette al centro della catechesi tutta la storia della Salvezza da Adamo a Cristo. Ovviamente, il Suo avvento va presentato con tanto calore e tanta insistenza da suscitare nel catecumeno fede, speranza e carità. Agostino è un catecheta mai polemico e poco retorico, ma molto appassionato e fedele alla materia trattata. Un piccolo gioiello è l’Enchiridion de fide spe et charitate, dove brilla di particolare fulgore la materia trattata, le virtù teologali, illustrate le prime due con il Simbolo degli Apostoli e l’ultima col Padre Nostro. Peraltro il Santo chiarisce qui molti aspetti dibattuti del suo pensiero. Un ulteriore grande aspetto della teologia di Agostino è quella in cui tratteggia il rapporto tra fede e cultura. Il Santo distingue la funzione di inculturare, come diremmo oggi, la teologia nella cultura esprimendola nelle forme proprie di essa in un dato luogo e in una data epoca, da quella di riflettere su quali temi, in una cultura, siano assumibili dalla teologia e quali no. Nel primo caso si fa teologia e basta, nel secondo si fa teologia della cultura. Egli svolse entrambi i compiti, unico tra i Padri, eccettuati i Luminari di Cappadocia. Agostino inculturò definitivamente la teologia nel mondo greco-romano svolgendo il suo ruolo basilare nella Chiesa e nella cultura latina, usando soprattutto le categorie mentali del platonismo. In questa prospettiva si colloca anche quella grande enciclopedia delle arti liberali che il Santo si propose di realizzare ma che non potè mai terminare. Come teologo della cultura, sottoponendo a vaglio critico la civiltà classica specie nel De Civitate Dei, Agostino individua tutta una serie di costumi, pensieri, istituzioni incompatibili con il Cristianesimo, mentre di altri afferma che sono compossibili con essi, e di altri ancora che vanno semplicemente tollerati in quanto mali minori. In genere, Sant’Agostino insegna che è bene che la Città di Dio si adegui a quella dell’uomo in quello che è di pertinenza sua propria, in ordine alle leggi e ai costumi, anche perché i cittadini della prima provengono da tutti i popoli e non è necessario che essi abbandonino le loro tradizioni per entrare in essa. Ogni tradizione può essere accettata se non impedisce all’uomo di giungere in cielo e se permette di tendere alla pace terrena. Ogni professione e mestiere onesto può essere esercitato dai cristiani. Essi possono essere chiamati sia alla vita attiva che a quella contemplativa. Nel De Doctrina Christiana, che è uno dei massimi testi dell’umanesimo latino e il maggiore di quello cristiano occidentale, Agostino insegna che tutto il sapere enciclopedico, rappresentato per esempio dalla produzione di Marco Terenzio Varrone, va conservato, se può essere utile alla conoscenza della Scrittura. In tale prospettiva Agostino concepì il suo ideale di educazione che battezzava e realizzava quello di Cicerone e di Quintiliano, volto alla formazione di un vir christianus dicendi peritus, e al cui servizio egli pose il progetto mai realizzato di una enciclopedia delle arti liberali, scritta da lui stesso. In vecchiaia, affermò che quel piano gli avrebbe tolto troppo tempo allo studio sacro, a cui pure era finalizzato. Tuttavia egli stesso con la sua vita realizzò il piano, in quanto non solo commentò la Bibbia con tutte le risorse dei grammatici ma tutta la sua opera letteraria rientra nei quadri della letteratura latina. CARATTERISTICHE GENERALI DELLA LINGUA E LETTERATURA AGOSTINIANE Agostino fu l’ultimo grande classico latino e il più grande classico latino cristiano. Egli non è affatto ancora né scolastico né medievale. Nell’immensa mole dei suoi scritti egli adattò stile, lingua ed espressione ai vari generi letterari, riuscendo di solito ad ottenere sempre brillanti risultati, come trattatista, come oratore, come poeta, filosofo e commentatore, come erudito e saggista, passando dal sermo doctus a quello vulgaris, dall’eloquenza alta alla colloquialità popolare. Come retore, Agostino è legato al suo tempo e quindi ha un dettato spesso artificioso, segue schemi visibili nella riproduzione e disposizione di concetti e suoni, ama la simmetria e il bilanciamento perfetto di parole e frasi secondo formule perfettamente padroneggiate ma non spontanee. Come scrittore, è originale e profondo nel pensiero, acuto nell’introspezione, vivace nei trapassi, pieno di sentimento vibrante e pronto dinanzi ad ogni stimolo interno ed esterno, altamente contemplativo, fervido nella preghiera, efficace nella rappresentazione fantastica, concreto nelle immagini, drammaticamente vigoroso. Egli fu il primo dottore mistico e senz’altro il classicismo retorico della sua epoca gli stava un poco stretto sebbene lo padroneggiasse perfettamente, per cui il rinnovamento del suo stile, peraltro privo di qualsiasi modello greco in quanto egli non conosceva quella lingua, passò essenzialmente attraverso l’imitazione del modello biblico, mediante citazioni, espressioni, vocaboli, immagini e costrutti. Meritano una menzione speciale le caratteristiche stilistiche di due sue grandissime opere, le Confessiones e il De Civitate Dei. Le prime hanno un fascino sempre attuale per la profondità dell’esame dei grandi problemi psicologici, per l’emozione sgomenta che l’autore prova dinanzi alle enormi possibilità dell’anima umana sia in bene che in male, nonché per la scoperta in essa della traccia di Dio. Perciò l’opera si esprime mediante visioni e immaginazioni interiori di grande potenza fantastica. Vi è il colloquio costante con Dio e il senso della consapevolezza del mistero che fascia l’abisso dell’anima, quello dell’insondabile Sapienza di Dio e della drammatica contrapposizione tra peccato e fede, mentre il senso di colpa permette all’introspezione di scendere sino a livelli psicanalitici. La loro originalità sta nel fatto di essere una storia spirituale di un’anima, con precedenti solo parziali in Seneca e Marco Aurelio o in certi brani mistici di Apuleio. Agostino riscatta la mediocrità della vita comune nella letteratura classica con la consapevolezza della singolarità della vita intima della persona umana e della drammaticità del suo quotidiano. Lo stile abbandona ogni forma colorita e retorica che somigli per esempio a quelle di Girolamo o di altri contemporanei, mentre è tutto intimo, pieno di immagini spirituali e mistiche, di emozioni interiori, rarefatte e prive di corposità, che esprimono prevalentemente l’immensità dello spazio, lo scorrere del tempo, la maestà immutabile dell’eterno, l’altezza imperscrutabile di Dio, e che conferiscono vita metaforica alle facoltà dell’anima. Il periodare classico con la sua euritmia e musicalità è sostituito da una sintassi faticosa che segue i sentimenti, mentre prevale la paratassi con frasi brevi e interrogazioni affannose. Il sottile gioco del ragionamento si alterna al lirismo della preghiera e alla sublimità della visione mistica, mentre il raccontare raggiunge la stessa drammatica essenzialità dei testi evangelici almeno in alcuni passi, più semplici e popolari. La seconda, ricchissima di citazioni di classici come Varrone, Cicerone, Sallustio, Virgilio, Livio, Apuleio, è paragonabile ad una cattedrale gotica adorna di una folla di pinnacoli e tesa con slancio verso il cielo; ha uno stile non più paratattico ma ampiamente ipotattico, in cui le frasi sono accumulate apparentemente senza ordine, ma che invece, sebbene diversissimo dal periodare ciceroniano, segue l’ordine e lo slancio del pensiero in modo cosciente e padrone dei suoi mezzi, rifiutando gli strumenti tradizionali. LA MUSICOLOGIA DI AGOSTINO L’Ipponense fu un grande teorico musicale che concepì la sua teoria sulla base del pitagorismo che a sua volta identificava i fondamenti della disciplina coi numeri, arricchendola con riferimenti cosmologici, astrologici, mistici ed etici. Agostino vi aggiunse considerazioni ascetiche e morali, innalzando sempre il discorso all’anima e a Dio, per cui la sua trattazione, contenuta del De Musica, è sia tecnica che teologica. Egli si occupò molto del ritmo e della sua teoria, ma non fece in tempo a trattare il melos propriamente detto. OROSIO Paolo Orosio era un sacerdote spagnolo, nato a Braga intorno al 375, rifugiatosi in Africa per sfuggire alle persecuzioni e morto nel 390 circa. A lui Agostino chiese di scrivere la storia di tutti i flagelli subiti dai popoli pagani. Lo storico accettò e dimostrò che la Caduta dell’Impero Romano che pur stava accadendo era cosa meno grave di tante altre accadute ai pagani nel corso dei secoli proprio per il loro paganesimo. Le Historiae di Orosio giungono fino al 418 e sono incentrate sul concetto di mutatio regni Dei providentia facta, quella che nel Medioevo sarà la translatio Imperii. Il sacerdote individua la successione di Quattro grandi imperi universali, babilonese persiano greco e romano, secondo la Visione della Statua del profeta Daniele. Ai tempi di Roma sorge tuttavia l’unico vero Impero universale, quello di Cristo, il cui dominio non ha fine e ingloba in sé, a titolo strumentale e provvisorio, quel che sopravvive dell’Impero Romano. Theorèin - Ottobre 2016 |