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CLAVES PATRUUM BYZANTINAE Breve introduzione a Dionigi l’Areopagita, ai Neocalcedonesi e a Giovanni Damasceno La Patristica dei secoli VI, VII e VIII non è più quella aurea che abbiamo esaminato fino ad ora; possiamo considerare il secolo VI come l’età argentea dei Padri e i due secoli successivi come quella plumbea e ferrea, almeno se consideriamo la periodizzazione classica. In essi vi è una grande quantità di autori, ma pochi sono i nomi veramente importanti. Naturalmente la situazione della Patristica in Oriente è migliore di quella in Occidente, in quanto colà sopravvisse l’Impero Romano con le sue strutture mentre costì esso si disintegrò, per cui qui scomparvero le scuole pressochè ovunque e là invece sopravvissero in perfetta e florida salute. A Costantinopoli fiorirono gli studi teologici, filosofici e giuridici, mentre nei monasteri crebbero la teologia mistica e spirituale. Nel corso del VI sec. nella capitale si accentrò tutto il lavoro di ricerca teologica per il declino progressivo degli altri grandi centri ecclesiastici, lacerati dagli scismi e poi passati sotto l’Islamocrazia o, nel caso di quelli occidentali, sotto il dominio barbarico. Inoltre, fino a quando la Siria, l’Egitto, la Palestina, l’Italia e l’Africa rimasero nell’Impero Romano, esso fu un contenitore multiculturale assai sofisticato anche per la teologia oltre che per tutte le scienze. Anche quando l’Islam si impadronì del Medio Oriente e dell’Africa (ossia nel VII sec.) l’Impero rimase pur sempre la parte più civile del mondo cristiano, sebbene l’elemento greco a quel punto diventò esclusivo in quanto l’unica appendice rimastagli era la latina Italia, che fu persa completamente nel VIII sec. Seguiremo perciò in quanto segue le vicissitudini essenziali della Patristica greca dei secoli in oggetto. Essa visse un declino più lento di quella latina e più glorioso, tanto che questo periodo è detto neopatristico. In esso vissero gli autori classici della teologia greca medievale, anche se inizia tecnicamente nel Tardo Antico, ammesso che esista una soluzione di continuità reale tra quest’ultimo e il Medioevo greco. Nonostante proprio in questo periodo la Chiesa orientale, via via sfrondandosi dei suoi rami non greci, divenne sempre più imperiale e contemporaneamente greca, la teocrazia costantiniano-giustinianea non isterilì la vita spirituale, che anzi si incentrò sulla santificazione e sulla liturgia, strettamente connesse e patrocinate entrambe dal monachesimo, che produsse peraltro una teologia sua propria all’interno di questo periodo. Le fonti della Patristica di quest’epoca attestano l’incipiente decadenza: premesso che quanto segue vale anche per quella latina, la greca attinse ampiamente e ovviamente dalla Bibbia, dalla Tradizione rappresentata dagli autori più antichi e dai Concili Ecumenici, ma il modo con cui venivano usate attestano sia l’isterilirsi del metodo che la mummificazione del sapere in forme erudite. Si diffondono infatti i florilegi, le catene e le antologie: i primi raccolgono le sentenze dei Padri, le seconde le concatenano in un commento continuato della Bibbia, le terze mettono insieme i brani più significativi degli autori antichi. La prova patristica consiste proprio in questo: attestare una posizione teologica sulla scorta delle più numerose citazioni possibili a supporto di essa traendole dai testi dei Padri. I maestri greci di questo periodo si servono ampiamente della filosofia, non solo di Proclo e Plotino, ma anche di Aristotele. I contenuti di questa Patristica medioellenica, fluentemente scritta in greco anche quando la lingua latina era ancora quella ufficiale dell’Impero – ossia sino all’VIII sec. – sono orientati alla rielaborazione, all’approfondimento, all’apologia e all’integrazione del magistero del Concilio di Calcedonia, per cui tali Padri sono detti Neocalcedonesi. Come i Neoniceni, essi mostrano la fecondità del magistero del loro Concilio di riferimento, facendone la base della loro teologia e battendone in breccia gli oppositori. L’obiettivo di fondo dei Neocalcedonesi è essenzialmente la conciliazione tra la terminologia cirilliana e quella del Concilio Calcedonense, in quanto non si poteva mettere in discussione la prima senza contestare l’autorità del Concilio di Efeso né si poteva abiurare alla seconda che aveva bonificato il dogma dalle contaminazioni monofisitiche germogliate dal lessico alessandrino. Altro tema classico di questa Patristica fu quello pneumatologico, che venne più ampiamente in luce grazie allo spegnersi della guerra cristologica, nonostante l’ultima battaglia sul monoergetismo, ossia l’eresia che affermava che in Cristo vi era una sola energia nonostante le Sue due Nature, e sul monoteletismo, ossia l’eresia che insegnava che Cristo aveva una sola volontà ed operazione sempre nonostante le Sue due Nature e che fu anatematizzata dal III Concilio di Costantinopoli (680-681). I Padri greci non accettarono la Dottrina della Doppia Processione dello Spirito Santo formulata in Occidente, o almeno non ne condivisero la formulazione. L’ultimo grande tema dibattuto fu quello iconologico: la battaglia sul culto delle immagini fu una conseguenza della disputa cristologica e impegnò per l’ultima volta tutte le forze congiunte della teologia mondiale, anche dopo l’anatema del II Concilio di Nicea (787). Le caratteristiche della teologia bizantina di cui andiamo a parlare sono tre: la sapienzialità, che porta a gustare il mistero divino oltre la ragione stessa; l’apofaticità, che attesta l’ineffabilità di questo mistero esprimendolo col silenzio e con la via negationis; il misticismo, che spinge ad immedesimarsi nel mistero in questione e a viverlo, specialmente con la liturgia. La teologia dei Padri bizantini parla alla ragione e al cuore, perché per essi il suo scopo è suscitare amore, intimità, unione con Dio. In ragione della sua ineffabilità, essa è una mistagogia che avanza in una foresta di simboli, in un rigoglio di ispirazione poetica e in un fervore di composizioni musicali. Tutto ciò si sintetizza nella liturgia, che a sua volta è la causa efficiente di quella santità per donarci la quale il Verbo Eterno si è fatto Uomo. La deificazione dell’uomo è lo scopo dell’Incarnazione, la Chiesa la opera mediante i suoi Sacramenti e la teologia la alimenta. Ecco perché il vero teologo per i Padri bizantini è il Santo, colui che possiede la Terza Persona della Santissima Trinità, colui che insegna con la parola e le opere, con il ragionamento e la vita. Le grandi figure di quest’epoca sono tre: Dionigi l’Areopagita, Massimo il Confessore e Giovanni Damasceno. Accanto a questi ci sono alcune figure minori, tra cui citiamo Severo di Antiochia, Giovanni il Grammatico, Leonzio di Bisanzio, Enea di Gaza, Sofronio di Gerusalemme, Anastasio il Sinaita, Andrea di Creta e molti altri di cui diremo sommariamente. SAN DIONIGI L’AREOPAGITA Dionigi l’Areopagita è lo pseudonimo dietro cui sembra si celi un anonimo autore di un periodo non ben identificato, posto tra la fine del II e l’inizio del VI sec. Alla sua penna si devono il De Coelesti Hierarchia, il De Ecclesiastica Hierarchia, il De Divinis Nominibus, la Theologia Mistyca e dieci Epistulae. Furono suoi anche i Theologica Fundamenta, che precedevano e preludevano al De Divinis Nominibus ma che non ci sono giunti. Il personaggio in sé fu discepolo di San Paolo, convertito ad Atene sull’Areopago (At 17,34). L’autore del Corpus Areopagiticum, che si presenta con il nome di Dionigi, fu identificato con lui. In realtà questo misterioso Dionigi non dice di sé di essere il discepolo di Paolo, ma il Vescovo di Atene – cosa che pure si attribuisce all’Areopagita degli Atti da parte della Tradizione – e di essere stato testimone dell’eclisse di Sole che accompagnò la Morte di Cristo, della Dormizione della Vergine e di altri eventi che lo qualificano come legato alla cerchia degli Apostoli. Tuttavia gli scritti del Corpus compaiono per la prima volta nella storia nel 532, durante i colloqui teologici tra i calcedonesi e i monofisiti severiani, addotti da questi ultimi a sostegno delle loro tesi e perciò rifiutati come apocrifi dai primi. Furono dunque i severiani i primi a sostenere la pseudoepigrafia. Il fatto che lo Pseudo-Dionigi citi Proclo (411-485) fa supporre ad alcuni che i suoi testi siano stati composti tra la fine del IV e l’inizio del V sec. Nonostante il netto rifiuto degli ortodossi, le opere dello Pseudo-Dionigi ebbero tuttavia e subito una fortuna immensa e l’attribuzione dei severiani fu unanimemente accettata, fino a quando nel XV sec. Lorenzo Valla ne dimostrò l’inautenticità. Tuttavia la critica non risolse il problema della loro origine, anzi lo rese più fitto. Le caratteristiche stilistiche e contenutistiche fanno oscillare la loro composizione nel range da me indicato all’inizio. Appare difficile immaginare che un’opera di tale mole potesse essere realizzata solo per motivi polemici ed essere coperta dall’autorità di un personaggio biblico con tanta facilità dopo essere emersa dal nulla. Il fine polemico è inficiato dal fatto che Dionigi afferma di non aver mai fatto teologia polemica perché convinto che la miglior difesa della Verità è la sua spiegazione; mai infatti nessuna controversia si affaccia nelle sue opere. Inoltre l’autore non cita mai né altri Padri né i Concili Ecumenici, cosa che lascia ipotizzare o una personalità eccezionalmente sicura di sé ma avulsa completamente dal contesto storico o un autore realmente antico, anche della seconda metà del II sec., che scrive alla fine di esso, al quale forse i severiani hanno appiccicato una identità diversa per ragioni di propaganda, o che egli stesso aveva conservato tradizioni più antiche, la cui stesura a sua volta avrebbe subito qualche interpolazione da parte di scrittori influenzati da Proclo. Una ulteriore ipotesi è che il vero Dionigi, in un’epoca senza controversie, senza Concili e senza Padri, potrebbe avere scritto egli stesso le opere attribuitegli e queste potrebbero essere rimaste nascoste per ragioni ignote e poi riscritte alla luce del Neoplatonismo, del quale il suo genio potrebbe aver anticipato molti concetti. Persino la lingua originaria della sua opera potrebbe essere diversa dal greco, siriaca o semitica in genere, così da giustificare che, come altre tradizioni apostoliche, essa rimanesse isolata al di fuori del circuito della Grande Chiesa greca e latina. Questo spiegherebbe perché a tirar fuori il Corpo areopagitico siano stati i severiani, originari della Siria. Del resto alcuni concetti chiave di Dionigi, come la Gerarchia angelica e l’illuminazione, hanno dei precisi corrispettivi, sia pure essenziali, nella cultura giudaica antica. Così come tanti concetti del Neoplatonismo esistevano anche in quello antico, che si conosceva nel I sec. Diversamente, Dionigi potrebbe anche essere un pensatore solitario, di tipo monastico, evidentemente il più antico, la cui opera, tirata fuori dall’anonimato dai severiani per gettarla nell’agone teologico, assurse a una meritata ed imperitura fama. Costui sarebbe stato di origine siriana, avrebbe soggiornato ad Atene e avrebbe seguito i corsi di Proclo, conducendo poi una vita ritirata in qualche monastero di Siria o di Palestina. Una ennesima ipotesi, la più maliziosa, lo identifica con Pietro Gnafeo, patriarca monofisita di Antiochia (471-488), il quale avrebbe proiettato nelle opere areopagitiche la sua capacità mistificatoria e il suo desiderio di ordine armonia e compostezza, che sempre mancarono nella sua vita errabonda, lusingando peraltro le pretese dei Vescovi ad una fondazione robusta ed alta del proprio potere, coi modi che vedremo. Ma nessuna di queste teorie e men che meno l’ultima può spiegare la grande profondità e l’immensa autorità delle opere dello Pseudo Areopagita, a meno che non si voglia riconoscere loro una origine apostolica, appunto retrodatando il più possibile la loro composizione, anche a costo di postularne alcune riscritture parziali, anche dal greco al siriaco e da questo di nuovo in greco. Chiunque sia stato, Dionigi è il maggior esponente della teologia bizantina ed ebbe una autorità superiore persino a quella di Agostino. Sul suo pensiero, nella sua forma più matura, influirono anche i Padri alessandrini e quelli Cappadoci. Nel De Divinis Nominibus Dionigi spiega i Nomi e gli attributi che la Bibbia assegna a Dio, con un saggio sul valore della nostra conoscenza e sulle possibilità e i limiti del linguaggio teologico. Nella Theologia Mistyca Dionigi riprende lo stesso tema in modo più sintetico e marca ulteriormente sulla trascendenza divina. Il De Coelesti Hierarchia è un trattato di angelologia, che spiega la natura degli Spiriti Celesti e ne enuncia le Tre Gerarchie formate ciascuna da Tre Cori o Ordini, in tutto nove. Il De Ecclesiastica Hierarchia è un breve trattato di ecclesiologia, che considera i tre Ordini Sacri (Episcopato, Presbiterato, Diaconato), tre stati subordinati (monachesimo, laicato e catecumenato) e i tre Sacramenti dell’iniziazione cristiana (Battesimo, Cresima ed Eucarestia). In appendice si tratta della sepoltura dei morti e del pedobattesimo. Dionigi è un neoplatonico che si serve del pensiero di Proclo per dare una impalcatura filosofica al Cristianesimo producendo il primo sistema filosofico e teologico che incrocia la religione con il pensiero dell’Accademia rinnovata. Da Proclo Dionigi desume il principio della Triade, per cui ogni essere si costituisce mediante tre momenti: la permanenza, l’uscita e il ritorno. Per il primo, l’ente partecipa dell’essere del Principio ad esso superiore e permane in esso; per il secondo, l’ente differisce dal Principio superiore ed esce da esso; per il terzo, l’ente aspira alla sua massima perfezione ed anela a tornare al Principio superiore. Nella sua visione teologica l’Areopagita ha realizzato un sistema unitario il cui vertice è Dio. La Scrittura ci parla di Lui in modo intellegibile e in modo sensibile. Il primo modo, che pertiene all’uso di Nomi come Bene, Essere, Vita, Sapienza, Potenza ecc., è studiato del De Divinis Nominibus ed esige una contrazione lessicale e una rarefazione concettuale perché, quanto più si sale dal basso verso l’alto, tanto più ci si avvicina, fino a sfociarvi pienamente, all’Ineffabile. Nel De Divinis Nominibus, che è la sua opera più rilevante da un punto di vista filosofico, Dionigi parte dalla costatazione che la Bibbia dà a Dio una grande quantità di Nomi, per cui si chiede in che senso sia lecito attribuirglieli. In effetti, proprio perché solo Dio conosce Se stesso, Egli solo può farsi conoscere da chi Lo cerca con modestia, per cui non si può dire e pensare di Lui nulla che non sia garantito dalla Scrittura. Essa attesta molti dei Nomi citati in precedenza, ma anche che Dio è nostro amico perché la Seconda Persona della Santissima Trinità si è incarnata per salvarci, unendo in Cristo la sostanza divina e quella umana. Tuttavia si tratta sempre di nomi che nascondono l’intellegibile sotto il sensibile. Nel De Divinis Nominibus Dio è anzitutto il Bene, perché è attraverso le creature che ci si avvicina a Lui ed è in quanto Bene Supremo che Egli le crea. Questo Bene è simile a quello della Repubblica di Platone e come quello, in quanto anch’esso simile al sole che irradia la sua luce in tutte le cose, si diffonde in nature, energie attive, in esseri sensibili ed intelligenti. Dio è anche Amore, in quanto movimento di carità mediante cui Egli conduce a Sé tutte le creature. L’amore è la forza attiva che trae fuori da se stessi gli enti venuti da Dio per riportarli a Lui. Esso è dunque estatico. Considerato poi più in Se stesso Dio è Essere, è Colui Che E’, e in quanto Essere è in Lui che sussistono tutte le cose, partecipando della Sua esistenza. Questa partecipazione è la prima di tutte quelle creaturali, a cui seguono tutte le altre, in particolare la vita. I tipi o esemplari dei modelli divini degli esseri muniti di tutte le partecipazioni volute da Dio stanno nella Sua Mente. Sono le Idee platoniche. Il secondo modo di parlare di Dio, quello sensibile, che pertiene alle forme e alle figure divine, alle parti del corpo e agli organi umani, nonché alle azioni ed emozioni antropomorficamente usate per comprendere Dio, e inoltre ai luoghi e ai mondi Suoi, è studiato nella Theologia Mistyca ed implica un uso più diffuso e ricco di parole e simboli, tanto che la teologia in questione è detta anche simbolica. Essa è necessaria, perché Dio si è manifestato a noi mediante una foresta di simboli per condurci ad una contemplazione intellegibile, teoretica. Dionigi stesso è un contemplativo, che studia la Bibbia non come libro della storia della Salvezza ma come luogo di contemplazione, perché legato all’automanifestazione di Dio. La teologia trinitaria di Dionigi porta l’impronta del neoplatonismo di Proclo: la triade del Neoplatonico è qui presente per enunciare il grande mistero. L’Unità di Dio è sovraessenziale, al di là dell’essere e del pensiero, e coincide con la Sua stessa Natura, nella Quale sono appunto comprese le Tre Persone Divine. Questa Unità di Permanenza è chiamata kenosi. In essa le Ipostasi si separano per diacrisi e sono realmente Padre Figlio e Spirito Santo, per cui Esse sono l’Uscita di Dio da Se stesso senza dispersione o fuoriuscita o degradazione. Nello stesso tempo infatti i Divini Tre, distinti e non mai confusi nei Loro ruoli, essendo nell’Unica Divinità trascendente, si trovano l’Uno negli Altri e viceversa, così da realizzare il Ritorno. Questo è il Principio divino e Supremo. La sua azione su Se stesso e sul mondo è chiamata da Dionigi Tearchia. Dio ha infiniti attributi, ma due tra essi sono più eloquenti, la Bontà e la Bellezza, perché meglio illustrano i rapporti tra Dio e le Sue creature. Dio è la Causa prima di tutte le cose, proprio per la Sua Bontà e per la Sua Bellezza. Dio crea l’Universo e lo colma di cose buone e belle perché Lui è buono e bello. In quanto Bontà comunica ad altri enti tratti dal nulla i tesori del Suo stesso Bene, in quanto Bellezza suscita spettatori che contemplino, lodino, godano e amino Lui attraverso quanto fatto e per Sé stesso. Tutti gli esseri sono infatti belli ciascuno a modo suo per grazia di Dio ed è la Bellezza che produce armonia; il Bello divino è causa efficiente di tutte le cose che le muove e le tiene insieme proprio per l’amore e con l’amore della propria Bellezza; il Bello è il fine a cui tendono tutte le cose e la loro causa esemplare perché tutte si definiscono facendo riferimento a Lui. Tutte le cose tendono al Bello tanto quanto tendono al Buono e l’uno e l’altro si identificano e sono in maniera unica la causa di tutte le cose sia belle che buone. Dio crea il mondo secondo tre ordini: lo spirituale, che è proprio degli angeli; l’umano e il materiale. Seguendo Proclo ma ancor più le Lettere di Paolo (che a loro volta seguono il misticismo giudaico), Dionigi afferma che in ognuno di questi ordini esistono delle Gerarchie, distinte per gradi, ciascuno dei quali trasmette a quello inferiore una illuminazione, purificandola e riconducendola ad una superiore unità. Ciò avviene perché il Bene divino, assimilabile alla Luce, nel suo irradiarsi produce stati differenti in cui ogni essere è definito per il posto che occupa e funzioni diverse che si svolgono da parte degli stessi esseri ricevendo dall’alto un’influenza poi trasmessa al di sotto di sé. Questa illuminazione è lo stesso essere di tutti gli enti. La creazione di Dio è quindi la Rivelazione di Dio nelle Sue opere e cioè una teofania, sia pure per gradi. Ogni grado partecipa in misura maggiore della perfezione divina quanto più si pone in alto, però nel contempo suddivide tra quelli inferiori ciò di cui partecipa. Dio vuole salvare le Sue creature disponendole in questo ordine gerarchico, mediante cui si dispiega un progetto razionale, per il quale i salvandi sono deificati e conseguenzialmente assimilati ed uniti a Dio per quanto è loro possibile. Il fine di ogni gerarchia è l’amore continuo di Dio, il quale si realizza, sempre per divina ispirazione, attraverso un processo di unificazione santificante che si realizza con l’allontanamento dalle cose contrarie a Dio stesso, la conoscenza delle cose nel loro giusto valore relativo a Lui, la visione e la coscienza della Verità, la partecipazione alla perfezione unificante e il banchetto della contemplazione della Stessa Unità di Dio, che nutre e deifica chiunque vi si elevi. Ovviamente in queste gerarchie rientrano solo le creature. Due sono le gerarchie distinte dall’Areopagita: la celeste e la ecclesiastica. La prima è quella delle intelligenze pure ossia gli Spiriti, la seconda è quella dei membri della Chiesa. L’una e l’altra hanno tre elementi compositivi: ordine, scienza e operazione; hanno altresì il medesimo fine, ossia la divinizzazione. Il suo artefice è lo Spirito Santo. La Gerarchia angelica si dipana a partire dalla capacità di infiammare di amore, per poi scendere a quella di capire le illuminazioni divine e infine a quella di farsi recettore del Divino. Ciò corrisponde ai Cori più alti, quelli dei Serafini, dei Cherubini e dei Troni. Seguono le Dominazioni, le Virtù, le Potestà, i Principati, gli Arcangeli e gli Angeli. La Gerarchia ecclesiastica subentra alla Gerarchia legale dell’Alleanza mosaica. Se quest’ultima aveva una iniziazione che guidava al culto spirituale, compiuta da Mosè che aveva istituito il Sacerdozio aronitico e aveva fatto tutto secondo quanto mostratogli sul Sinai, ossia in copia delle realtà celesti, la Gerarchia ecclesiastica possiede perfettamente il culto spirituale e le realtà celesti come sono in sé. Gli elementi della Gerarchia ecclesiastica sono tre: attivo, passivo e strumentale. Il primo consta dei tre Ordini sacri sacramentali; il secondo è costituito da monaci popolo e catecumeni; il terzo comprende Battesimo Cresima ed Eucarestia. Il primo opera sul secondo mediante il terzo. In questa impalcatura trovano dunque posto tutte le verità della fede. Sebbene essa sia rigida per sostenere l’edificio concettuale areopagitico, sebbene pertenga all’ordine ontologico, lungo di essa, come su una scala, si muovono salendo e scendendo velocemente gli esseri senzienti, a seconda della loro volontà di giungere a o di allontanarsi da Dio. L’Areopagita parlando di Dio usa sia la teologia positiva che quella negativa, la catafatica e l’apofatica, in quanto gli attribuisce in grado eminente ogni perfezione di cui Egli è causa nelle creature e nello stesso tempo Gliele nega, affermando che Dio, essendo infinito, non può mai possederle in un modo simile a quello creaturale, ma solo in un modo sovra e metaessenziale; analogamente Dionigi afferma che si può più facilmente dire ciò che Dio non è rispetto a ciò che è. Perciò l’Areopagita è il vero padre della teologia apofatica, una teologia in cui la parola serve soprattutto a dire ciò che Dio è in grado eminente, usando peraltro parole nuove, col prefisso hyper, super, o unendo ad esse avverbi o superlativi. In questa prospettiva, ogni negazione di Dionigi a proposito di Dio non va intesa in senso ontologico ma come trascendenza, e tale regola vale soprattutto per la sua teologia del linguaggio, che nessuno più di lui ha teorizzato e applicato con conseguenzialità. Bisogna dunque dapprima applicare a Dio tutti i Nomi che gli dà la Scrittura (teologia affermativa) e poi successivamente negarli tutti (teologia negativa), conciliandoli con l’affermazione che Dio merita tutti questi Nomi in un senso inconcepibile per la ragione umana, perché Egli è iper-essere, iper-bontà e iper-vita, ecc. (teologia superlativa). In questo senso, Dio, Che pure è l’Essere a cui partecipano tutte le cose, non è più Essere considerato di per Sé ma, appunto, qualcosa che è al di là di esso. Dionigi, come i platonici, lo chiama Uno. Eppure, anche appellandolo così, Dionigi si infrange sugli scogli del Suo mistero: Dio non è né Trinità né Unità, né Uno né Essere, né divinità né paternità, né filiazione né spirazione. Egli trascende qualsiasi cosa. L’ignoranza mistica è il grado supremo della conoscenza. L’influsso dell’Areopagita sull’Oriente fu immenso ma anche l’Occidente gli deve tantissimo: nella traduzione di Scoto Eriugena del X sec. le sue opere circolarono e furono commentate incessantemente, tanto che persino Tommaso d’Aquino le chiosò e costruì la sua Somma teologica sullo schema dell’exitus e del reditus areopagitico. GIOVANNI IL GRAMMATICO Di questo misterioso personaggio nulla sappiamo di certo. Forse era originario della Palestina, forse della Cappadocia. Detto anche di Cesarea, con questo toponimo si dovrebbe fare allusione alla città di Palestina e non di Cappadocia, se accettiamo l’ipotesi più plausibile di una sua origine palestinese. Visse nella prima metà del VI sec. e tra gli anni venti e trenta di quel secolo fu scrittore e polemizzò con Severo di Antiochia. Di certo fu contemporaneo di Giovanni di Scitopoli. Scrisse l’Apologia del Concilio di Calcedonia, I diciassette capitoli contro gli acefali e Contro gli aftartodoceti; ci sono giunte due omelie contro i Manichei e la Disputa di Giovanni l’Ortodosso con un manicheo; infine gli ascriviamo i Sillogismi dei Santi Padri contro i Manichei. Alcune di queste opere sono giunte frammentariamente, altre sono oggetto di dubbi, ma la prima è sicuramente sua. Alcuni gli attribuirono la stesura della Lettera sinodale del Concilio di Alessandretta del 514-515, inviata all’imperatore Anastasio I (491-518) per distoglierlo dal Monofisismo, ma tale paternità implicherebbe una sua nascita alla fine del V sec. – cosa non impossibile – e soprattutto necessiterebbe che quel Concilio si fosse realmente celebrato, cosa che invece non è certa. Il Grammatico fa chiarezza dell’ambiguità del lessico cirilliano alla luce del Concilio Calcedonese: la parola fysis usata dall’Alessandrino non può più essere intesa meramente come natura se se ne vuole salvare il senso ortodosso, ma anche come sussistenza, esistenza concreta, ipostasi, che indica a sua volta l’esistenza separata di un ente da quella di un altro. Dunque il Figlio è Ipostasi o Natura unica non perché ha una sostanza, ma perché è distinto dal Padre e dallo Spirito. Che poi dopo l’Incarnazione il Verbo rimanga tanto Uomo quanto Dio lo attesta la Sua doppia Consostanzialità attestata dalla Bibbia e dalla Tradizione: al Padre secondo la Divinità e al genere umano secondo l’Umanità. Ciò non permette assolutamente di accettare il monofisismo e rende giustizia al Concilio di Calcedonia e al suo dogma dell’Unione Ipostatica. Mai l’Umanità di Cristo è esistita fuori della sua Unione con la Divinità. Perciò egli accetta anche la Formula Teopaschita, per cui si confessa che “Uno della Trinità ha sofferto nella Carne”. Il Grammatico dunque rappresenta la teologia del linguaggio neocalcedonese che utilizzava il lessico cirilliano nell’ottica del Concilio stesso. SAN SEVERO DI ANTIOCHIA E’ il grande nemico di Giovanni il Grammatico e il genio teologico del monofisismo del VI sec. Era di Sozopoli in Pisidia dove nacque nel 465 e fu battezzato nel 488 a Tripoli del Libano. Entrò in monastero a Gaza e divenne monofisita, anche se in senso più terminologico che reale. Nel 509 si trasferì a Costantinopoli e perorò la causa dell’eresia approfittando dell’Enotikon di Zenone (474-475; 476-491). Dal 512 al 518 fu Patriarca monofisita di Antiochia, ma Giustino I (518-527) lo depose costringendolo all’esilio in Egitto, da dove continuò imperterrito a difendere le sue idee fino alla morte sopraggiunta nel 538. Le sue opere, anatematizzate da Giustino e da Giustiniano I (527-565), si salvarono in poca parte: Contro Giovanni il Grammatico, tradotto lestamente in siriaco e anticalcedonese; Contro il Grammatico Sergio (che osteggia il monofisismo radicale che implica la fusione delle Due Nature), Critica al tomo di Giuliano, Confutazione delle proposizioni di Giuliano (che confutano l’aftartodocetismo) e le Omelie Cattedrali in numero di centoventicinque. Difese strenuamente il lessico cirilliano e interpretò alla sua luce il dogma e la terminologia calcedonesi. Per Severo, che per questo fu definito padre del monofisismo verbale o appunto severiano, la fysis cirilliana non deve essere reinterpretata, ma è l’hypostasis calcedonese che le corrisponde in tutto. Severo insegna che vi è una sola ipostasi laddove vi è una sola natura nel senso di fysis; perciò il Verbo, quando unisce alla Sua Ipostasi la Natura umana, la unisce anche a quella Divina realizzando una sola Natura Personale che non annulla la sostanzialità dell’Umanità ma rende composta quella del Cristo. Egli è “composto” riguardo alla Carne. Fu un originale ma sfortunato modo di interpretare monofisiticamente il Calcedonese andando marcatamente verso il lessico di Cirillo, ma senza concedere nulla al monofisismo estremo, che anzi combattè risolutamente negando ogni fondamento all’idea che il Corpo di Cristo fosse incorruttibile anche in terra (che è la dottrina appunto conosciuta come aftartodocetismo). Per questo Severo può essere annoverato anche tra i neocalcedonesi. Fu invece un precursore del monoergetismo, ritenendo che essendo unico l’Agente e unica la Sua Natura, unica fosse anche in Cristo l’Operazione o Energheia. LEONZIO DI BISANZIO Egli nacque a Costantinopoli nel 485 circa e frequentò gli ambienti nestoriani. Fu monaco in Palestina e ardente origenista. Nel 531 prese parte ai colloqui preparatori tra severiani e calcedonesi, maturando peraltro il distacco da Origene e iniziando ad esercitare influenza a corte, grazie alla sua difesa del Concilio di Calcedonia. Morì nel 543. Leonzio scrisse tre opere importanti: Contra Nestorianos et Eutichianos, Capitula contra Severum XXX, Epylisis. Nella prima opera Leonzio mostra come il calcedonismo è la via media tra nestorianesimo e monofisismo; tuttavia egli, che tra i neocalcedonesi e nella questione della conciliazione tra il lessico cirilliano e quello calcedonese rappresenta la via media, definisce correttamente l’Unione delle Nature in Cristo secondo l’Essenza, ma retrocede rispetto al Concilio del 451 definendo l’Incarnazione quale atto mediante cui in Cristo esistono due Nature, senza specificare come esse esistono. In realtà per Leonzio il Cristo, che è il soggetto unitario del dogma calcedonese da lui reinterpretato, è l’intelletto non decaduto, unito al Logos, che ha assunto liberamente l’Umanità per riscattarla. Egli è il Signore ed è chiamato Dio e Figlio di Dio nel Logos e mediante il Logos. Queste formulazioni sono in effetti desunte da Origene e scavalcano all’indietro anche Cirillo di Alessandria. SAN ROMANO IL MELODE Romano il Melode nacque verso il 490 a Emesa in Siria. Teologo, poeta e compositore, appresi i primi elementi di cultura greca e siriaca, si trasferì a Beirut, perfezionandovi l’istruzione classica. Ordinato diacono nel 515 circa, fu predicatore per tre anni. Poi si trasferì a Costantinopoli nel monastero presso la chiesa della Theotókos. Qui ebbe luogo un’apparizione in sogno della Madre di Dio che gli ordinò di inghiottire un foglio arrotolato. Risvegliatosi, divenne omileta e cantore fino alla morte, avvenuta dopo il 555. Romano fu uno dei più grandi autori di inni liturgici. Attraverso le sue composizioni si vede la sua creatività di omileta, di teologo e di innografo. Le sue erano omelie metriche cantate, dette "contaci" (kontákia). Il termine kontákion, "piccola verga", rinvia al bastoncino attorno al quale si avvolgeva il rotolo di un manoscritto liturgico o di altra specie. I kontákia di Romano in nostro possesso sono ottantanove, ma egli ne compose mille. “Ogni kontákion è composto di strofe, per lo più da diciotto a ventiquattro, con uguale numero di sillabe, strutturate sul modello della prima strofa (irmo); gli accenti ritmici dei versi di tutte le strofe si modellano su quelli dell’irmo. Ciascuna strofa si conclude con un ritornello (efimnio) per lo più identico per creare l’unità poetica. Inoltre le iniziali delle singole strofe indicano il nome dell’autore (acrostico), preceduto spesso dall’aggettivo "umile". Una preghiera in riferimento ai fatti celebrati o evocati conclude l’inno. Terminata la lettura biblica, Romano cantava il Proemio, per lo più in forma di preghiera o di supplica. Annunciava così il tema dell’omelia e spiegava il ritornello da ripetere in coro alla fine di ciascuna strofa, da lui declamata con cadenza a voce alta” (Benedetto XVI). Romano usa un greco semplice, vicino al linguaggio del popolo. Un tema fondamentale della sua predicazione è l’unità dell’azione di Dio nella storia, tra creazione e storia della salvezza, tra Antico e Nuovo Testamento. Un altro tema importante è la pneumatologia. Altro tema centrale è naturalmente la cristologia, quella dei grandi Concili. Ma soprattutto è vicino alla pietà popolare. Romano ricorda Maria SS. alla fine di quasi tutti gli inni e le dedica i suoi kontáki più belli: Natività, Annunciazione, Maternità divina, Nuova Eva. Gli insegnamenti morali, infine, si rapportano al giudizio finale. Egli esorta alla conversione nella penitenza e nel digiuno, a praticare la carità e l’elemosina. AUTORI MINORI TRA IL V E L’VIII SEC. Nemesio di Emesa (IV-V sec.) fu un teologo e un filosofo discepolo di Gregorio Nisseno. Egli sostenne che l’uomo è un microcosmo in posizione mediana tra corporeità e materialità, per cui può scegliere se degradarsi o innalzarsi. Sostenne altresì che l’uomo non è una sostanza composta, ma un composto di materia e di una sostanza in sé completa che è l’anima. Questa, proprio per questa sua distinzione ontologica dal corpo, può sopravvivergli. Tuttavia, secondo la lezione di Plotino e di Ammonio Sacca (175-242), Nemesio insegna che essa, come tutte le sostanze intellegibili, può unirsi al corpo pur rimanendone distinta. L’autore elabora una completa filosofia, fisica antropologica gnoseologica e psicologica, che però non ci interessa nella nostra esposizione. E’ degno di nota che egli sosteneva la preesistenza dell’anima al corpo. Sinesio (370 ca.-413 ca.), scolaro di Ipazia (†415), fu essenzialmente un neoplatonico convertito che lesse le dottrine cristiane in modo conforme alla sua filosofia di riferimento. Enea di Gaza (V sec.), autore del dialogo Teophrastus sull’immortalità dell’anima e la Resurrezione dei Corpi, sostenne risolutamente, contro Nemesio, che l’anima non preesiste al corpo e che la metepsicosi non esiste. Infatti non ha senso immaginare che l’anima si incarni per espiare una colpa che però non ricorda. E’ invece logico supporre che attraverso la vita corporea l’anima sia provata per meritare la vita eterna. Zaccaria di Mitilene (465-563), di formazione monofisita e poi probabilmente convertitosi al calcedonismo, nel dialogo Ammonius scritto nel 536, confuta Ammonio Sacca sulla dottrina dell’eternità del mondo che implicherebbe una causalità necessaria e quindi incompatibile con la libertà divina, che invece è salvaguardata nel Cristianesimo con la dottrina della Creazione nel tempo. Giovanni Filopono (†567) è un cristiano aristotelico che rigetta il Concilio di Calcedonia e che appartiene alla fazione monofisitica nostalgica del lessico cirilliano. Usa il pensiero dello Stagirita per contestare la definizione conciliare del dogma cristologico. Sant’Efrem di Antiochia (†545), Sant’Eulogio di Alessandria (†608), Giorgio Piside (VII sec.) e Giovanni di Scitopoli (vescovo dal 536 al 548) furono invece sostenitori energici del dogma calcedonese e della Communicatio Idiomatum nell’Unione Ipostatica. Tra essi spicca anche Teodoro di Faran (morto prima del 649), neocalcedonese autore – per ordine del patriarca Sergio di Costantinopoli (610-638)- di un florilegio patristico favorevole al monoergetismo e che alcuni identificano con quel Teodoro di Raithu (†638/649) che per primo teorizzò quell’eresia, quale postulato impazzito proprio della teologia neocalcedonese, alla ricerca di una quadra nel tentativo di conciliare il lessico cirilliano e quello del Concilio del 451. Sant’Anastasio il Sinaita (†700 ca.) è senz’altro un altro grande esponente della polemica antimonofisita e antimonotelita, ma è anche un qualificato rappresentante della teologia omiletica, avendo influenzato in questo campo tutta la cultura bizantina successiva. Procopio di Gaza (465-528) fu capo di una scuola sofistica cristiana e grande esegeta, sia pure nella forma scolastica delle Catene, peraltro spesso influenzate dal magistero della Scuola di Antiochia. Egli scrisse una Catena sull’Ottateuco che fu di modello per le generazioni seguenti. Commentò anche altri libri del VT. Altri autori di catene furono Leonzio di Gerusalemme, che alcuni identificano con Leonzio di Bisanzio, e Pantaleone. Leonzio di Neapoli (VII sec.) fu invece grande omileta e il maggior agiografo del VII sec. San Germano di Costantinopoli (634-733), patriarca dal 715 al 730, fu il primo Padre a combattere l’iconoclastia e questo gli causò la deposizione dal soglio di Andrea e l’esilio. Sostenne l’Assunzione della Vergine Maria al Cielo. Scrisse tre trattati (Sulla fine della vita, Sui santi sinodi e sulle eresie, Storia ecclesiastica e teoria mistica), quattro lettere sull’iconoclastia e nove omelie, di grande importanza per la mariologia. San Tarasio di Costantinopoli (730-806), patriarca dal 784 all’806, scrisse in difesa delle immagini, della morale cristiana e per magnificare la Vergine Maria. Ai suoi tempi si tenne il II Concilio di Nicea del 787, di cui diremo. Per la celebrazione di tale Sinodo, Tarasio consultò, unico teologo di peso, San Platone di Saccudion (†813), che nella sua attività si era occupato degli stessi temi trattati dal Patriarca. SAN SOFRONIO DI GERUSALEMME Nacque a Damasco nel 550 circa. Maestro di retorica e perciò detto Sofista, fu monaco nella Laura di San Teodosio a Gerusalemme e amico di Giovanni Mosco (550-619), sommo agiografo del periodo. Fu monaco sul Sinai e frequentò la capitale egiziana, poi tornò di nuovo in Palestina. Fuggito davanti all’invasione persiana, si mosse attraverso la Frigia, la Siria, la Cilicia, l’Africa del Nord e ancora l’Egitto. Nella Proconsolare conobbe Massimo il Confessore col quale visse cenobiticamente; in Egitto poi si adoperò per la conversione dei monofisiti. Tornato in Palestina, dovette fuggirne di nuovo per sfuggire ai Persiani e si rifugiò a Roma. In occidente combattè energicamente il monoergetismo e il monoteletismo e fu considerato maestro da Massimo il Confessore. Disputò personalmente coi patriarchi Sergio di Costantinopoli (610-638) e Ciro di Alessandria (630-640). Tornò in Palestina dove fu eletto Patriarca di Gerusalemme nel 634. Ancora combattè il monoteletismo dalla sua sede. Negoziò una resa onorevole di Gerusalemme agli Arabi invasori e morì nel 639. Egli scrisse un trattato perduto contro il monoteletismo, dieci omelie, la vita dei martiri Ciro e Giovanni che l’avevano guarito dalla cecità e i loro miracoli, oltre a venti poemi in versi anacreontici. Nella sua azione contro le eresie cristologiche Sofronio agì con logica, rigida ed energica conseguenzialità. Il Concilio di unione tra ortodossi e monofisiti in Egitto del 633 presieduto dal patriarca Ciro aveva presentato una formula che affermava che Cristo era un Essere unico e medesimo – non una Persona- divino e umano operante con un’unica energia teandrica. Quest’espressione era desunta da Dionigi l’Areopagita, ma egli era, come si credeva all’epoca, vissuto prima del Concilio di Calcedonia. Dopo di esso, suonava quanto meno ambigua. Ad essa reagì Sofronio recandosi da Sergio di Costantinopoli e argomentando che, essendo Cristo dotato di due Nature, ognuna di esse, per essere veramente perfetta e completa, deve avere la sua Energia. La cosa convinse il Patriarca e i due concordarono nel professare la fede in un solo soggetto agente unitario, ossia il Cristo. Con questo intervento, il monoergetismo era debellato. Solo che Sergio, scrivendo a papa Onorio I (625-638), non solo abiurò il monoergetismo ma gli propose il monoteletismo, che invece Sofronio rigettava. Sergio proponeva che nel Cristo vi fosse una sola volontà, mentre il Papa intese che egli affermava che la volontà di Cristo era unica in ordine all’oggetto voluto. In ogni caso Papa e Patriarca diedero la stura al monoteletismo e Sofronio ribattè all’uno e all’altro. Quando però l’Ekthesis (638) di Eraclio (610-641) adottò il monoteletismo come dottrina di Stato, Sofronio era già tagliato fuori dalla disputa, perché gli Arabi nello stesso anno presero Gerusalemme dopo aver invaso la Palestina dal 636. Tuttavia le sue argomentazioni ebbero una grande importanza nella ritrattazione dell’editto da parte dell’imperatore nel 641, sebbene già fosse sorto l’astro teologico di Massimo il Confessore, ancor più luminoso nella polemica antimonotelita. SAN MASSIMO IL CONFESSORE E’ il massimo teologo del VII sec. greco, vetta anche della filosofia e della mistica. Fu senz’altro l’ultimo grande esponente della Patristica greca classica, che esercitò un grande fascino sui contemporanei, fu poi misconosciuto ed oggi è stato riscoperto. Nacque tra il 579 e il 580 in Palestina, da nobile famiglia – nonostante alcune fonti tentino di minimizzarne i natali mosse da livore teologico – fu educato in monastero e divenne monaco, conobbe il pensiero di Origene e, giunto a Costantinopoli nel 614, fu funzionario imperiale di altissimo grado, arrivando ad essere segretario personale dell’imperatore Eraclio. Visse in monastero a Crisopoli sul Bosforo e cominciò ad interessarsi al dibattito cristologico. Prese energica posizione contro il monoteletismo e il monoergetismo favoriti dal suo sovrano e si trasferì in Africa per sfuggire alla minaccia persiana nel 626. Nell’antica Proconsolare conobbe San Sofronio e stette fino al 645, quando, dopo diversi Sinodi di cui era stato l’anima, nel Concilio cartaginese di quell’anno, Massimo ottenne una recisa condanna dell’eresia. Trasferitosi a Roma nel 646, partecipò al Concilio Lateranense che, sotto papa San Martino I (649-655), nel 649 anatematizzò il monoteletismo. Tuttavia la violenta reazione di Costante II (641-668), il quale col suo Typos del 647 aveva vietato ogni discussione sulla questione delle Volontà in Cristo, si abbattè sia sul Papa – deposto, flagellato e mandato in esilio – che su Massimo, a cui il despota, dopo aver invano tentato di far cambiare idea perché riconosceva in lui il vero capo del partito dioteleta ortodosso, fece mozzare la lingua e tagliare la mano destra che avevano parlato e scritto in difesa delle Due Nature di Cristo. Il Confessore, che a questi orrendi tormenti deve questo appellativo, morì in esilio a Lazica nel Caucaso nel 662, il 13 agosto. Autore molto prolifico, Massimo scrisse undici opere contro il Monofisismo e ventitrè contro il Monoteletismo. Scrisse altresì alcuni commenti alle opere di Dionigi l’Areopagita e di Gregorio Nazianzeno. Tra questi scritti sono particolarmente rilevanti il Liber Asceticus, i D Capita theologica, i Capita gnostica, gli Ambigua. Quest’ultima opera esamina tesi oscure di Origene e Gregorio di Nazianzo cercando di scioglierne i misteri; essa influenzerà il Sic et Non di Abelardo nell’XI sec. Speculativo neoplatonico, seguace di Origene del quale ripropone in modo ortodosso le dottrine correggendo in esse quanto incompatibile col dogma oramai definito, Massimo pone al centro del suo pensiero l’unificazione di tutti i modi dell’essere e di tutte le essenze create nel Logos fatto Carne. Su questo impianto Massimo sviluppa tutto il suo pensiero mediante lo schema dell’exitus e del reditus. Lo sforzo polemico contro le eresie è forte ma non primario nel Confessore. Egli elabora una teologia trinitaria di stampo platonico assai profonda. Dio è innanzitutto la Monade suprema, quell’Unità che è fonte indivisibile e immoltiplicabile del molteplice, che da Essa deriva senza alterarne la purezza. La Monade ha un movimento divino, per il quale il Suo essere e la Sua essenza si manifestano a chi è capace e reso capace di conoscerla. Il primo movimento genera il Logos, il Quale è la piena manifestazione della Monade e perciò con essa costituisce la Diade. Indi sempre il primo movimento supera la Diade mediante la Processione dello Spirito Santo, col Quale costituisce la Triade e che salda il cerchio in quanto amore del Padre e del Figlio. Il secondo movimento divino è la Creazione. Essa avviene tramite il Logos, nel Quale sono tutte le essenze alle quali Dio ha deciso di dare l’esistenza. Al momento stabilito ognuna di esse viene posta in essere al di fuori del Logos stesso. L’atto di creazione è, per Massimo, una autentica rivelazione di Dio. Ogni creatura così creata non ha altra possibilità di essere se non quella che la sua essenza le assegna, con l’eccezione dell’uomo e degli spiriti, in quanto essi, essendo liberi, possono migliorare o peggiorare se stessi e meritare premi o castighi. Il Confessore forgia una completa cosmovisione. Per essa esistono cinquecento divisioni fondamentali nella natura – oggetto della prima delle opere citate di Massimo; di queste, la prima è quella che distingue la Natura increata ossia Dio dalla natura creata ossia l’universo; la seconda separa il mondo intellegibile da quello sensibile; la terza divide il sensibile in mondo celeste e terrestre; la quarta scinde nell’ultimo l’Eden dalla zona abitata dall’uomo dopo il Peccato; la quinta distingue l’uomo in maschio e femmina. Tocca all’uomo realizzare la sintesi dei contrari in se stesso e ricondurre il mondo a Dio. Ciò avviene a partire dall’abbattimento della distinzione tra i sessi, intesa come concupiscenza, che riporta l’uomo all’innocenza adamitica. Questa riunificazione riporta l’uomo in uno stato simile a quello dell’Eden; ciò abbatte la differenza tra il mondo terrestre e il celeste; da questo deriva l’unione del sensibile con l’intellegibile. L’ultima implica la divinizzazione della natura umana, intesa non come mescolanza di essenza, ma come piena trasfusione di Dio nell’uomo e nel cosmo. Questo movimento discensivo ed ascensivo è senz’altro platonizzante, ma la ferma professione della Fede cristiana e dei suoi dogmi trinitario, cristologico e soteriologico impedisce a Massimo di precipitare nel panteismo. Dio per Massimo è talmente trasparente nel mondo da poter essere conosciuto infallibilmente attraverso l’ordine, la bontà e la bellezza di esso; tuttavia la Sua Essenza rimane assolutamente incomprensibile a chiunque in terra e in cielo perché infinita. L’uomo è il grande artefice del cosmo e la copula del mondo terrestre e celeste. Egli è un essere composto di anima e corpo, di un elemento immateriale e quindi indivisibile e immortale, e di uno materiale, divisibile e perituro. Essi non possono esistere separati: l’anima non può preesistere al suo corpo e il corpo non può esistere senza l’anima. Questa sta nel corpo sin dalla fase embrionale della vita corporea prenatale ed è creata da Dio al momento del concepimento. Diversamente, si cadrebbe nell’errore mostruoso di Origene, per cui Dio non solo punirebbe le colpe delle anime facendole incarnare, ma avrebbe fatto dei corpi le loro prigioni, così che tutta la corporeità sarebbe cattiva e la punizione divina sarebbe inflitta a chi è inconsapevole della colpa commessa. La creazione dell’uomo è un atto libero di Dio, Che ama sia le anime che i corpi nelle sue creature. L’uomo si costituisce mediante una triade: la genesi, il cambiamento e la quiete. Essa si consegue attraverso una lunga trafila di trasformazioni e purificazioni. Una seconda triade esplicativa è costituita dall’essere, dal benessere e dall’eternità. Essi sono i tre modi universali dell’essere. Il primo e il terzo sono dono di Dio; il secondo, che pure è orientato al terzo, dipende dal libero arbitrio umano. L’uomo mira al benessere, ma può conseguirlo solo nell’eternità. Il benessere è l’anelito naturale, l’eternità il dono soprannaturale con cui Dio lo realizza. L’uomo infatti tende, ma non può giungere, alla contemplazione di Dio. Anzi egli, orientandosi con il suo intelletto e il suo volere invece che all’Unità divina, a Cui la prima facoltà era congiunta nell’Eden, al molteplice, a cui invece era unito il suo corpo, ha fatto decadere la sua stessa natura. Infatti ogni natura è uguale a sé in quanto partecipe dell’Unità divina; se dunque l’uomo tralascia di tendere all’unità per puntare alla molteplicità, si dissolve e si disperde, degradando se stesso e perdendo le sue libere facoltà. In questa prospettiva Massimo elabora la sua soteriologia e la sua cristologia. Dio, Che si muove solo immobilmente in Sé mediante le Relazioni tra le Ipostasi trinitarie, decide di muoversi al di fuori di Sé e nella Persona del Logos si incarna e si fa Uomo, riparando la rottura dell’Unità e restaurando le articolazioni disgiunte dal peccato. Cristo rende possibile all’uomo il benessere che lo conduce all’eternità, il buon agire premiato col cielo, la capacità di purificarsi e trasformarsi fino alla quiete. L’uomo è redento perché la natura umana è unita a quella divina in Cristo. Egli assumendo tutto della natura umana fino alla Morte, la salva. All’uomo è dato di conseguire nuovamente il suo fine e gli è indicata la via. Dio è il riposo dell’uomo, e a Lui deve tendere chi ha da soffrire sotto il peso della carne. Conoscendo Dio, l’uomo lo ama; amandolo, tende a Lui ed esce da Sé. Arriva all’estasi ma non smette di protendersi verso di Lui se non quando sarà completamente immerso, circoscritto e rinchiuso in Colui Che ama. In effetti ogni uomo tende a riunificarsi a Dio risalendo al proprio archetipo, all’essenza di ognuno di noi che è essa stessa in Dio in quanto suo pensiero. E se ogni essenza umana nella Mente divina ha come archetipo Cristo stesso, è altrettanto vero che ogni uomo è in un certo senso parte di Dio perché la sua essenza originaria è in Lui. Il processo di unificazione terminerà nell’eternità e grazie ad esso non solo l’uomo, ma tutto il creato che culmina in lui ritornerà a Dio e alla Sua Unità. Siccome tutto questo avviene grazie a Cristo Redentore, il Confessore medita sui misteri del Verbo Incarnato e li contempla; la sua dogmatica nutre la sua vita spirituale. Egli rifiuta il monoteletismo perché non garantisce la perfezione delle Due Nature definita a Calcedonia: ogni natura deve avere la sua volontà per essere completa. Uno è l’oggetto voluto, una è l’azione del soggetto agente, Cristo, ma due sono le Volontà delle altrettante Nature che vogliono entrambe la medesima cosa. Massimo distingue due tipi di volontà: la fisica o naturale e la gnomica o razionale, detta anche proairetica o libera. La prima tende naturalmente al bene, la seconda ci arriva per ragione vincendo l’ignoranza. Cristo ha solo la Volontà naturale perché non ha ignoranza da superare. Così sempre potè uniformare la Volontà Umana alla Divina, riunificando l’Umanità in Se stesso al Padre e, in essa, tutto il mondo. Cristo è dunque la causa meritoria ed esemplare della nostra salute e della nostra deificazione: Egli è la via maestra da percorrere, il modello da imitare, il rivelatore della Natura semplice ed infinita di Dio, Uno e Trino. SANT’ANDREA DI CRETA Andrea nacque a Damasco nel 660 circa. A quindici anni, a Gerusalemme, entrò nel monastero di San Saba e del Santo Sepolcro. Delegato al Concilio Costantinopolitano III (679-681), durante il soggiorno nella capitale Andrea ricevette l’ordinazione diaconale e gli fu affidata la gestione di un orfanotrofio e di un ospizio per anziani. Nell’anno 700 circa fu eletto alla carica episcopale presso Gortina, sede arcivescovile metropolitana dell’isola di Creta. Il Padre cretese fu celebre predicatore e compositore di inni sacri. Ci sono tramandati una cinquantina di sermoni a lui attribuiti e la tradizione gli ha attribuito l’introduzione del tipo di inno noto come “Kanon”, perché ne scrisse molti, alcuni dei quali cantati ancora oggi, notevoli per l’originalità della loro forma metrica e musicale. Tra di essi rifulge quello detto “grande kanon”, di carattere quaresimale e formato da duecentocinquanta strofe. Le sue omelie esaltarono la Vergine Madre di Dio quale Immacolata ed Assunta in Cielo. Sant’Andrea di Creta morì nell’isola di Lesbo nel 740. SAN GIOVANNI DAMASCENO Nacque a Damasco intorno al 675, era di famiglia araba cristiana ricca e nobile (il padre era tesoriere del Califfo) e ricevette una educazione letteraria e filosofica di gran pregio. Il suo nome vero era Yuḥannā ibn Sarjūn Fu funzionario dell’amministrazione califfale subentrando al padre per un certo tempo nella sua carica. Caduto in disgrazia presso il Califfo per la sua difesa della Fede, subì il taglio della mano sinistra, che secondo la tradizione la Vergine Maria, a Cui Giovanni l’aveva offerta, gli riattaccò al braccio. Si ritirò poi nel monastero di San Saba a Gerusalemme per seguire la sua più autentica vocazione e fu ordinato sacerdote nel 725. Si dedicò sempre alla divulgazione e alla difesa della Fede con la parola e gli scritti, in quanto possedeva una conoscenza eccezionale della teologia, che non smise mai di approfondire. Quando l’imperatore Leone III (717-741) iniziò la sua persecuzione iconoclastica Giovanni prese la penna per difendere il culto iconico. Morì nel 750 ca., poco prima del Conciliabolo di Hieria del 754, che Costantino V (741-775) avrebbe convocato per imporre l’eresia alla Chiesa universale. Sebbene le opere di Giovanni non ebbero una influenza immediata nella restaurazione del culto iconico sancito dal II Concilio di Nicea (787), il capitale teologico del Damasceno fu investito dalla Chiesa in modo determinante per la fissazione della dottrina ortodossa sulle immagini. Egli scrisse diverse opere. Le Tres Orationes pro sacris imaginibus furono composte per difendere l’iconodulia; i Sacra Parallela sono un’opera sulla teologia morale ed ascetica; la Fons Cognitionis o Pēghē Gnōseōs è una summa teologica; scrisse altresì diversi trattati (De Natura Composita contra Acephalos, De Fide Contra Nestorianos, Adversus Nestorianos, Dialogus contra Manichaeos) contro i nestoriani, i monofisiti, i manichei ed altri eretici, nonché svariate opere minori, diverse omelie e molti inni. Gli è attribuita, non senza controversie, la Storia di Barlaam e Iosafat. Chiamato il “San Tommaso d’Oriente” per la sua sintesi teologica in cui vengono adoperati elementi filosofici, desunti dalla cultura araba, dai Padri greci, da Aristotele (in logica e metafisica), da Platone e da Plotino, Giovanni Damasceno ha trasfuso il grosso del suo pensiero nella Fons Cognitionis, che è senz’altro il suo capolavoro, scritto in lingua greca, nonostante il suo autore conoscesse anche il siriaco e l’arabo. Essa è divisa in tre parti: i Capitula philosophica (o Dialectica), che tratta della filosofia (logica, trattata secondo l’insegnamento aristotelico; filosofia speculativa constante di teologia, fisiologia e matematica; filosofia pratica); il Liber De Haeresibus, che confuta gli errori, elencando centouno eresie delle quali l’ultima è la religione maomettana; il De Fide Orthodoxa, che espone la dottrina cristiana. Quest’ultima parte a sua volta si divide in quattro libri. Il primo tratta dell’esistenza di Dio, della Sua ineffabilità e unità, della Trinità, della Generazione del Figlio e della Processione dello Spirito Santo, nonché della Natura Divina. Il secondo tratta della Creazione del mondo e dell’uomo, dell’ordine del primo e della natura del secondo, della Provvidenza, della prescienza divina e della Predestinazione. Il terzo e il quarto vertono sulla cristologia, sull’Incarnazione, sull’Unione Ipostatica e le Due Nature del Cristo, sulla Redenzione e i suoi effetti, sul culto iconico. Questa esposizione sistematica ed ordinata del Damasceno ha fatto sì che egli fosse il primo degli autori scolastici. Lo stile è sobrio, chiaro ed essenziale; la rielaborazione è personale sebbene i riferimenti alla Bibbia e ai Padri siano costanti, per cui nel corso della sua opera il Damasceno è spesso rapito da nuove visioni e toccato da ispirazioni nuove sulla Fede di sempre, della quale quindi egli è testimone prima che elaboratore concettuale. Giovanni di Damasco insegna che l’esistenza di Dio è una verità ovvia, sebbene Egli in Se stesso sia ineffabile e incomprensibile; è Dio medesimo che ha infuso in ogni uomo la conoscenza naturale della Sua esistenza. A coloro che si ostinano a negarla, Giovanni adduce tre prove che la suffragano: quella del divenire, perché tutti gli enti creati – che passano dal nulla all’essere e da uno stato all’altro – sono stati necessariamente prodotti da Qualcuno, e pertanto è necessario che esista un Autore increato; quella della conservazione e dell’unità dell’universo, perché Dio fa esistere e contiene e conserva l’universo stesso e sempre provvede ad esso; quello dell’ordine del cosmo, che rimanda ad una Mente ordinatrice. Gli argomenti addotti, desunti dalla Tradizione patristica, attestano che Dio esiste ma non esplica la Sua Natura, che è inaccessibile alla mente umana e inesprimibile con le parole. Di Dio si può parlare soprattutto in termini negativi, come incorporeità, immutabilità, incorruttibilità, infinità ecc., per cui Giovanni Damasceno dice scultoreamente che tutto ciò che di Dio si dice affermativamente non riguarda la Sua Natura ma il Suo Agire. Come il Bene di Platone, anche il Dio di Giovanni Damasceno è inconoscibile perché metaessenziale; proprio in quanto tale, Dio è l’Essere, così come si è presentato a Mosè e come lo hanno definito i Padri, quando lo hanno appellato “Oceano di Realtà”. Infatti accanto alle prove razionali, Dio fornisce quelle storiche della Sua Esistenza: la Rivelazione mediante la Legge, i Profeti e Gesù Cristo, nonché i miracoli che l’accompagnano e la seguono. Nella teologia trinitaria Giovanni Damasceno ribadisce l’eterna Generazione del Figlio dal Padre, l’eterna Processione dal Padre dello Spirito Santo, Che permane e mostra la Sua Esistenza nel Figlio, mentre non viene presa in considerazione l’idea della Doppia Processione ex Patre Filioque. In antropologia teologica, il Padre insegna che l’uomo è stato creato ad immagine e somiglianza di Dio, ma che il Peccato ha deturpato questa immagine, che viene restaurata in Cristo mediante la Grazia, la quale aiuta l’uomo a compiere gli atti meritori, specie quelli delle tre Virtù Teologali. In cristologia il Damasceno ribadisce con profondità e chiarezza rigorose i dogmi di Nicea, Efeso e Calcedonia, utilizzando il linguaggio aristotelico più frequentemente di quello platonico. L’uomo è chiamato alla deificazione integrale mediante la partecipazione a Cristo trasfigurato, la Cui esperienza è offerta a tutti tramite la liturgia, di cui l’icona è parte integrante. Nella sua apologia del culto iconico Giovanni ha scritto pagine insuperate. Il sensus fidei che unisce i grandi Padri fece sì che Giovanni continuasse in questo l’opera di Massimo il Confessore. Come questi mostrò sapientemente l’intima unione delle Nature e delle loro Operazioni in Cristo, unico soggetto agente, così Giovanni argomentò a favore dell’azione che l’Immagine metafisica di Cristo stesso compiva tramite l’immagine artistica. Proprio perché ci manca una certa raffigurazione del Redentore, la Sua immagine iconica diviene mezzo di rivelazione e grazia. Così come Dio si mostra ai gradi via via più bassi della Creazione mediante i Nove Cori angelici gerarchicamente disposti gli uni sotto gli altri a gruppi di tre, analogamente Egli si mostra ai credenti nel mondo sensibile con la mediazione delle Icone benedette. Esse sono il mezzo che fa in un certo modo tutt’uno con l’azione compiuta da coloro che raffigurano: esse non solo effigiano, ma replicano, sebbene non per grazia propria ma come sacramentali, i mediatori tra Dio e l’uomo: Cristo, Uomo e Dio, Unico Mediatore; Sua Madre, Mediatrice subordinata; i Santi, mediatori occasionali. In tal maniera il Cielo si inarca e squarcia il velo delle cose sensibili, manifestandosi al mondo. Ma anche il mondo si sublima: la materia bruta di cui è fatta l’opera d’arte e le forme disegnate che la determinano sono indissolubilmente unite in un prodotto finito che per grazia diventa strumento di grazia. Tutto l’universo, anche quello inanimato, partecipa così della liturgia che celebra il Creatore. E pienamente diviene epifania di Dio, soprannaturalmente, esso che già lo è naturalmente come prodotto della Sua potenza e sapienza. Inoltre, con grande finezza, Giovanni addita in Dio l’inventore dell’immagine sacra. E’ Lui che ha stabilito che le anime dei giusti e i Santi si mostrassero in forme visibili e sempre uguali ai pii devoti che hanno la grazia di contemplarli. Le forme che assumono non sono sostanziali, ma sono tuttavia indispensabili perché essi siano conoscibili e contemplabili. Tali immagini epifaniche sono l’archetipo delle immagini iconiche, e la Chiesa diviene la custode dei canoni dell’arte sacra in cui si rispecchia quella celeste del Divino Bezaleel. Ciò implicò, ad iconomachia finita, una minore libertà espressiva degli artisti, una irregimentazione della loro creatività, perché rispecchiassero in terra le forme celesti attestate dalla Tradizione. Si vede neanche tanto in filigrana l’insegnamento dello Pseudo Dionigi l’Areopagita. In questo sta essenzialmente la grandezza di Giovanni: egli sintetizzò le formule tradizionali in una nuova struttura di pensiero. Questo sia nell’Ekthesis akribēs, la sua concisa esposizione della Fede, sia nelle altre opere che con questa compongono la Pēghē Gnōseōs e negli scritti minori. Questo complesso di testi, che come dicevo fu sconosciuto a Bisanzio durante la Prima iconoclastia, una volta conosciuto, risultò fondamentale per la formazione dei teologi successivi; anzi il suo apporto fu importante anche per la Scolastica latina. Infatti egli distinse sapientemente i capitoli teologici da quelli filosofici del suo lavoro. Infine in mariologia Giovanni Damasceno scrisse pagine di luminoso splendore, dimostrando l’Immacolata Concezione, la Perpetua Verginità e l’Assunzione in Anima e Corpo al Cielo della Beata Vergine Maria. La Pēghē Gnōseōs servì come manuale in Oriente durante il Medioevo bizantino e fu tradotta in latino, a causa del suo vocabolario aristotelico. Il suo abbozzo di sistematizzazione teologica rese possibile il compito dei Grandi Scolastici occidentali, mentre in Oriente nutrì la spiritualità esicastica, in quanto rendeva possibile il salto dall’adorazione del Dio sconosciuto della teologia alla celebrazione del Dio comunicantesi mediante la bellezza della liturgia e dell’arte sacra. Lo stesso Giovanni, mediante il canto liturgico, diffuse nel popolo la teologia patristica greca. PATRES PNEUMATICI Breve introduzione ai Padri del Monachesimo orientale Il monachesimo è un fenomeno caratteristico delle grandi religioni e anche del Cristianesimo. L’ascesi nacque nelle Chiese attraverso gli Ordines, Viduarum e Virginum, anche con delle componenti maschili. L’esempio di Cristo, povero casto obbediente, suscitò da subito degli emulatori e la stessa prima Chiesa di Gerusalemme viveva secondo una consuetudine monastica. Il fenomeno dell’eremitismo, anch’esso attestato almeno dal II sec., espresse in modo ancora più radicale l’istanza della santificazione integrale, separando chi lo praticava dalla vita sociale. Chi segue Gesù nell’ascesi dell’apostasi dal mondo materiale – ossia il distacco – e nell’apatia – ossia il dominio delle passioni mediante la temperanza o encratia – immola se stesso in un martirio continuo, per cui il monaco diventa il modello alternativo a quello del martire e, alla fine delle persecuzioni, l’unico modello di perfezione cristiana. In quanto segue vedremo innanzitutto i grandi nomi dei fondatori del monachesimo orientale e la loro attività essenziale; indi passeremo, sempre brevemente come nostro costume, alla disamina della cosiddetta teologia monastica, ossia a quella teologia che pone le basi della vita religiosa e che tratta, da questo angolo visuale, di altri svariati temi. Questi autori possono essere detti Padri Pneumatici, perché la loro produzione è eminentemente spirituale ed è orientata alla direzione delle anime: essi sono cioè dei Padri spirituali. I PADRI DEL DESERTO Sono essenzialmente i Padri fondatori del monachesimo egiziano. Antichissimo in forma eremitica, esso divenne anacoretico e poi cenobitico. Gli anacoreti, ossia coloro che si davano all’ascesi allontanandosi dalle famiglie e dalla città ma senza spingersi in zone disabitate, ben presto tesero a riunirsi in gruppi spontanei attorno ad una guida spirituale. Ciò fece nascere il cenobio, strutturatosi sin dall’inizio come un vero e proprio villaggio monastico, le cui case ospitano gruppi di monaci disposte attorno alla chiesa. I Padri del Deserto hanno tramandato il loro insegnamento in tre modi: il primo è costituito dalle loro poche opere letterarie; il secondo è costituito dalla tradizione orale delle loro gesta messa per iscritto nelle Vite dei rispettivi Santi o nelle opere storiche dedicate al monachesimo in genere, come la Historia Lausiaca di Palladio di Elenopoli (419-420) – così detta perché dedicata al ciambellano bizantino Lauso - o la Historia Monachorum di Timoteo di Alessandria (400 ca.); il terzo è formato dalla raccolta delle sentenze dei Padri, disposti nell’originale greco in ordine alfabetico, detta Apophtegmata Patruum. Spesso sono massime ascetiche o narrazioni di azioni a contenuto simbolico, spesso l’una e l’altra in forma di aneddoto. Queste sentenze furono tramandate all’inizio in vari modi e poi intorno al 500 radunate in una sola opera. I due maggiori centri di insediamento monastico furono i Deserti di Nitria e di Sketis nel Basso Egitto e la Tebaide. Tra questi Padri citiamo i maggiori. Sant’Antonio il Grande o l’Abate (251-356), che visse nella Tebaide, fu il primo grande esponente del monachesimo eremitico e poi anacoretico. Le sue venti lettere furono i primi testi di letteratura copta. La sua Vita fu scritta da Sant’Atanasio, del quale Antonio era stato un sostenitore. San Pacomio (292-348), padre del monachesimo cenobitico e autore della Regola che porta il suo nome, visse anche egli nella Tebaide. Mise la koinonìa o santa comunità al centro della sua Regola, nutrendola della lettura biblica, dell’uguaglianza dei monaci, della povertà e dell’obbedienza. Fu forse conosciuta da Basilio Magno e di certo dagli Occidentali nel V sec. Sant’Orsiesi fu il secondo successore di Pacomio e resse l’Ordine dal 347 a dopo il 386, quando morì in una data imprecisata. Scrisse il Liber Orsiesii che inculca nei monaci i doveri del loro stato e i principi della loro spiritualità. San Teodoro Abate fu vicario di Orsiesi dal 350 al 368 e autore di importanti catechesi. San Shenouda di Atripe (333/334-451), autore di scritti parenetici in saidico, sermoni e lettere rudi e vigorosi che sono le sole scritture originali copte giunteci, fu artefice di un inasprimento della Regola pacomiana nel suo Convento Bianco in Alto Egitto. San Serapione di Thmuis (300-370) fu prima monaco e poi vescovo della città di Thmuis. Fu autore di un commento ai Salmi, di un trattato contro i Manichei e di cinquantacinque lettere. San Macario il Grande (300-391) fu invece abate di Scete in Egitto. Gli Apophtegmata contengono le sue omelie che potrebbero essere autentiche, ma i sette Opuscola Ascetica che gli sono attribuiti sono opera di Simeone il Logoteta, che a sua volta è la stessa persona di Simeone Metafraste (†950). Sono forse autentiche alcune opere minori come l’Epistula ad Filios Dei, alcune lettere e preghiere. Il suo modo di scrivere è ovviamente quello dei mistici e degli autori spirituali, mentre la sua antropologia e la sua soteriologia è di stampo agostiniano. Sant’Arsenio il Grande (354-445) eremita in Egitto ma nato a Roma, fu autore di due trattati sull’ascetica e visse anch’egli nel Deserto di Scete. Sant’Isaia di Gaza (†491) fu autore di un Ascetikon. Asceta nel Deserto di Scete, ebbe un ruolo importante nella trasmissione degli Apophtegmata. San Barsanufio il Recluso (†540) fu autore di una silloge di domande e risposte sulla formazione spirituale dei monaci e degli eremiti, dotato di una grande capacità di direzione spirituale. L’Abate Doroteo, suo contemporaneo, tenne numerose conferenze spirituali che furono poi apprezzate anche nel monastero degli Studiti di cui diremo. Il monaco libico Talassio (VII sec.) ripropose i temi della mistica di Evagrio Pontico (di cui diremo a breve) in un modo ortodosso, contribuendo alla sua rifioritura. ALTRI FONDATORI E MONACI D’ORIENTE Tecnicamente non sono Padri del Deserto i grandi nomi del monachesimo palestinese, siriano e microasiatico, in quanto sia la loro vita sia la loro produzione letteraria avvenne in forme differenti da quelle dei Copti. In Terra Santa meritano di essere menzionati San Caritone di Faran (†350), la cui Vita gli attribuisce la fondazione della prima Laura, tipico monastero palestinese in cui la vita è semianacoretica e le celle sono poste una vicino all’altra attorno alla chiesa in cui i monaci si riunivano sabato e domenica; Sant’Ilarione (291-371), discepolo di Sant’Antonio, anacoreta a Maiuma e poi monaco errante, la cui Vita fu scritta da San Girolamo; Sant’Eutimio il Grande (377-473), missionario e fondatore del celebre cenobio che porta il suo nome e che introdusse la norma per cui il monaco prima deve condurre vita cenobitica e solo dopo essersi temprato passare al semianacoretismo della laura; San Saba (439-532), discepolo del precedente e fondatore della famosa Laura che porta il suo nome, nonché pugnace calcedonese; Pietro Ibero (409-491), influente archimandrita monofisita. In Siria menzioniamo, a parte l’influsso di Giovanni Crisostomo, di Efrem, di Teodoreto di Ciro con la sua Historia Religionum, di Rabbula di Edessa e di Narsete di Nisibi, di cui abbiamo parlato in precedenza, le figure carismatiche di San Simeone il Vecchio lo Stilita (390-459) e del suo omonimo nipote detto il Giovane (521-597). Il monachesimo siriano è una via di mezzo tra eremitaggio e cenobitismo, perché in esso gli anacoreti hanno di solito una comunità. In Asia Minore svolge una funzione importante, come dicemmo a suo tempo, Basilio Magno, anche nel correggere gli eccessi dei discepoli di Eustazio di Sebaste (300-380), che pure egli considera una figura importante del monachesimo coevo, nonostante la sua pneumatomachia. La Regola basiliana è infatti una delle più importanti del monachesimo cristiano. A Costantinopoli e dintorni spiccano soprattutto i nomi dei fondatori dei monasteri maggiori o dei loro primi abati (Maratonio, Ipazio, Isacco, Alessandro ecc.). Una menzione particolare meritano coloro che si batterono contro gli eccessi dei Messaliani, monaci fanatici che appestarono la vita religiosa nella seconda metà del IV sec. Furono in particolare, oltre ad autori a noi già noti (Epifanio, Teodoreto, Efrem, Gregorio Nisseno), Letoio di Mitilene (IV sec.), Sant’Anfilochio di Iconio (340 ca.-403) – autore dell’Epistola Synodica, dei Giambi di Seleuco e di diverse omelie, amico di Gregorio Nazianzeno, di Basilio e di Girolamo – Flaviano di Antiochia (320-404) - che fu egli stesso un asceta – e Diadoco di Foticea (V sec.) – illustre scrittore mistico autore del De Perfectione Spirituali Capita Centum, che esercitò grande influenza sulla formazione della dottrina e della terminologia mistica e della teologia mistica, del Discorso sull’Ascensione (opera calcedonese), del Dialogo con San Giovanni Battista sulla conoscenza per visione beatifica e di una Catechesi. SANT’EVAGRIO PONTICO Nacque ad Ibora nel Ponto nel 345. Fu diacono e amico di Basilio e Gregorio di Nazianzo. Confutatore di tutte le eresie, cadde in una relazione adulterina, per sfuggire alla quale si ritirò a Gerusalemme. Qui cedette alla tentazione della vanagloria, perciò, dopo una lunga malattia, si trasferì in Egitto e conobbe Macario il Grande. Praticò una rigidissima ascesi e conobbe il pensiero di Origene tramite l’eremita Ammonio. Morì nel 399. Scrisse diverse opere, e siccome sostenne molte controverse tesi origeniste in seguito condannate dal II Concilio di Costantinopoli del 553, esse furono in blocco ingiustamente censurate; tuttavia spesso sopravvissero perché copiate in siriaco ed armeno o perché attribuite ad altri. Sono il Praktikon, contenente consigli nella lotta ai vizi che lui ben conosceva e trattò eloquentemente; lo Gnostikon, per chi ha raggiunto l’apatia e vuole proseguire il cammino spirituale, i Kephalaia Gnostika, in centurie, contenente le dottrine di Origene condannate dalla Chiesa ma da lui professate, le Rerum Monachalium Rationes, sulle buone condizioni che deve avere l’aspirante monaco; il Tractatus ad Eulogium monachum e il De Diversis Malignis Cogitationibus, attribuiti per copertura a San Nilo; l’Antirretikon e il De Octo Spiritibus Malitiae sui vizi capitali; il De Oratione; l’Epistolario di sessantaquattro lettere e altri frammenti sparsi. Il suo insegnamento ebbe vasta eco nel mondo monastico antico. SAN GIOVANNI CLIMACO Nacque in Siria nel 575 circa ed è detto, oltre a Climaco, anche Sinaita e Scolastico. A sedici anni si fece monaco sul Sinai; fu poi eremita dedito allo studio e alla penitenza più aspra per vent’anni; tornò poi in monastero e solo in vecchiaia, a settantacinque anni, fu eletto abate di Santa Caterina sul Sinai, incarico che lasciò dopo quattro anni per tornare eremita e prepararsi così alla morte, che avvenne nel 650. Già da vivo godette di tale fama che persino Gregorio Magno si raccomandò alle sue preghiere. Giovanni è detto Climaco dalla sua opera maggiore, la Klimax tou Paradeisou, la Scala del Paradiso, che ebbe una immensa diffusione, frutto della personale esperienza eremitica e abbaziale dell’autore. Un’altra sua opera è il Liber ad Pastorem, dedicata al ministero dell’Abate e ispirato alla Regula Pastoralis di Gregorio Magno. Nella Klimax, Giovanni in trenta capitoli spiega i vizi pericolosi per i monaci e le virtù che li devono caratterizzare; egli paragona la sua opera alla Scala di Giacobbe e ai trent’anni di vita di Gesù. Le cose su cui insiste Giovanni Climaco sono l’obbedienza, la penitenza, la compunzione, le lacrime, la dolcezza, l’umiltà, il silenzio, il discernimento degli spiriti, la conoscenza della guerra invisibile contro i pensieri cattivi. Il percorso ascetico ha come traguardo la quiete interiore, denominata esichia, e l’assenza delle passioni o apatia. Se le virtù elencate prima occupano la parte iniziale dell’opera, esichia e apatia sono primeggianti negli ultimi capitoli. Giovanni Climaco distingue due tipi di esichia: quella fisica o iniziale che mette ordine nei comportamenti e nei sentimenti, e quella spirituale che mette ordine nei pensieri e disciplina la mente. La prima allontana i rumori del mondo per non farsi sconvolgere, la seconda non li teme. Il progredire dell’esichia rende amabili e perciò inclini ad ogni forma di carità, fa diminuire la loquacità e non fa muovere a sdegno. Essa aiuta a circoscrivere nel corporeo l’incorporeo mediante la sorveglianza accorta di ogni pensiero. L’esicasta è come gli angeli: non è accidioso né pusillanime, riempie la sua orazione di desideri d’amore, celebra coi suoi compagni la liturgia esattamente con la stessa coralità con cui la celebrano gli spiriti in cielo e coltiva in sé relazioni di amore verso gli altri monaci, non si cura della materia né di ciò che l’alimenta. L’apatia è la condizione celeste del cuore spirituale dell’uomo; per essa vincere satana è un gioco; essa rende colui che la possiede tutto puro nella carne e sublimato rispetto ad ogni creatura; essa è una compiutezza incompiuta, perché perfeziona i perfetti distaccandoli dalla materia e conducendoli all’estatica visione di Dio mentre ancora sono nel corpo, così da possederLo sin da quaggiù. Per l’apatia Dio vive nell’anima e la guida interiormente conducendola in alto con la Sua stessa Voce. La preghiera è meravigliosamente descritta dal Santo quale dialogo mistico con Dio, sostegno del mondo e riconciliazione con Lui, causa e prodotto delle lacrime, propiziatrice per i peccati, difesa dalle tentazioni, baluardo contro le tribolazioni, vittoria nelle lotte, impegno angelico, alimento degli esseri incorporei, gioia nell’attesa, attività senza fine e sorgente di virtù, luogo di giudizio di Dio in cui Egli ci invita al discernimento prima del Giudizio definitivo. L’esicasta prega assiduamente e alimenta la sua orazione con letture illuminate dallo Spirito Santo. Prega di notte e lavora di giorno; legge libri pratici che lo introducono alla preghiera; cerca lumi sulla sua salvezza nella sua stessa esperienza; fugge i libri cattivi. La forma perfetta della preghiera è l’orazione monogistòs, l’invocazione e il ricordo del Nome di Gesù. Esichia, apatia e preghiera conducono l’uomo al vertice del misticismo, che fa vedere Dio e la Sua Luce e fa essere conquistati dal Suo Amore. Allora il corpo sente bisogno di soli alimenti incorruttibili perché la castità lo ha reso in un certo senso incorruttibile anch’esso. Giovanni Climaco conobbe la lezione di Evagrio Pontico e la fece propria, fu noto come dicevamo in Occidente come in Oriente e lui stesso lesse i testi monastici dei maestri suoi predecessori e suoi contemporanei come Giovanni Cassiano e Gregorio Magno; egli fu senz’altro il padre degli esicasti e uno dei più influenti autori della spiritualità greca. SAN TEODORO STUDITA La sua figura si colloca nel quadro della restaurazione basiliana del monachesimo esicastico, caduto in sregolatezza dopo la morte del Climaco. Nato nel 759 a Bisanzio e morto nell’826 nell’Isola di Acrita in Bitinia, fu nipote di Platone di Saccudion, sotto la cui direzione si ritirò a ventidue anni in quel monastero con i fratelli e gli zii. Fu ordinato prete nel 787 e divenne abate di Saccudion nel 794. Prese parte alle grandi controversie ecclesiastiche dell’epoca, opponendosi alla politica ecclesiastica indulgente di San Tarasio e al divorzio e alle seconde nozze di Costantino VI (780-797), che tentò di placarne l’opposizione con doni e con la flagellazione in carcere. L’ascesa al potere dell’imperatrice Irene ([780] 792-802) gli diede libertà e maggiore tranquillità e nel 798 assunse il governo del monastero di Studion, che ereditava la tradizione di quella di Saccudion. Teodoro risollevò quel cenobio costantinopolitano facendone il primo della capitale. Nel periodo di Irene Teodoro fu assai potente a corte, ma alla sua caduta egli si oppose al nuovo patriarca San Niceforo (806-815) e soprattutto alla politica ecclesiastica di Niceforo I Logoteta (802-811), che aveva obbligato il patriarca a non entrare in comunione con Roma e a riconoscere il matrimonio di Costantino VI, per cui fu mandato in esilio. Rientrato in città, si riconciliò con il Patriarca e lo sostenne nella Seconda Lotta Iconoclastica contro l’Imperatore che oramai propendeva per quella fazione politico-religiosa, patendo un ennesimo, definitivo esilio, dal quale continuò a scrivere indefessamente, resistendo fino alla morte. Compose una nuova Regola, detta Studita, sulla scorta di Pacomio e Basilio Magno, che fu adottata da centinaia di monasteri greci e slavi. La concezione del monachesimo dello Studita è meno mistica di quella di Giovanni Climaco: nella Piccola e nella Grande Catechesi per i suoi monaci egli insegna l’obbedienza, la vita liturgica, il lavoro e la povertà personale. Teodoro fu anche un ispirato innografo. Egli difese le sacre icone in tre Antirretikos, in svariati trattati e moltissime lettere, argomentando dalla cristologia e dalla raffigurabilità della Umanità di Cristo. Theorèin - Novembre 2016 |