LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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AETATIS PATRES BARBARICAE

Breve introduzione ai Padri Latini dei secoli VI, VII e VIII.

Ancor più che per l’Oriente, i secoli dal VI all’VIII sono di cupa decadenza e di inaridimento quasi totale della linfa della cultura e quindi della teologia, che si arroccano nelle scuole d’Italia e, a partire dal VII sec., in quelle dell’Inghilterra sassone cristianizzata dai missionari latini. L’analfabetismo quasi universale, l’oblio del latino parlato, la disintegrazione del sistema scolastico e il crollo della formazione del clero producono in ampie plaghe dell’Occidente una situazione di desertificazione intellettuale quasi completa, come conseguenza delle invasioni barbariche e della crisi che ne derivò. Poche furono le voci, anche se illustri, che si levarono nel silenzio di quest’epoca, i cui maggiori pregi religiosi sono altri: la nascita delle Chiese romano barbariche, quella del monachesimo occidentale e la crescita del prestigio e dell’autorità, prima religiosa e poi civile, del Papato, nonostante il processo di accentramento del governo ecclesiastico nelle sue mani, iniziato nel IV sec., subisse una battuta d’arresto a causa della caduta dell’Impero d’Occidente nel 476.

Il grosso dell’attività intellettuale dell’epoca consiste nella paziente ricopiatura dei testi antichi, sia religiosi che profani, mentre sulle menti esercita una primazia assoluta il magistero di Agostino, del quale sono pressoché tutti discepoli gli autori maggiori di cui andremo a parlare (Vincenzo di Lerino, Fulgenzio di Ruspe, Boezio, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia). Accanto alle loro personalità speculative, si collocano quelle, di minor levatura, che si accontentano di mostrare la loro devozione all’Ipponense mediante la composizione di florilegi delle sue opere, generalmente orientati ad eliminare le contraddizioni esistenti tra le varie fasi del suo pensiero e tra cui i più grandi sono quelli composti da Prospero di Aquitania. In ragione di ciò, nonostante l’oscurità, la teologia latina di questi secoli dibatte su temi di altissimo livello, come quelli della giustificazione, venendo letta ed ascoltata anche in Oriente. Una ulteriore trasformazione della teologia dell’epoca degna di nota è il progressivo sostituirsi del trattato al commentario biblico quale genere prevalente.

SAN VINCENZO DI LERINO

Gallo romano, visse tra il IV e il V sec. Nacque in una data imprecisata a Toul e, dopo una vita spesa nel servizio militare e negli affari del secolo, fu in età matura monaco appunto a Lerino, in francese Lérins, in Provenza. Qui divenne anche presbitero. Morì nel 450. Fu autore di svariate opere delle quali ci è giunto soltanto il Commonitorium, del 434, nonché un trattato in cui compaiono per la prima volta alcuni articoli del Simbolo Quicumque e una silloge cristologica e trinitaria di Agostino, gli Excerpta.

Il Commonitorium è l’opera maggiore del Santo. In esso egli volle fornire criteri certi per distinguere l’errore dall’eresia. Come Ireneo e Tertulliano, Vincenzo di Lerino afferma che la Sacra Scrittura, suscettibile di svariate interpretazioni, ha bisogno di essere affiancata dalla Tradizione che ne fissa il senso e che giunge a noi mediante l’insegnamento degli Apostoli e dei loro successori. Essendo passati tanti secoli da quando questo criterio ermeneutico era stato codificato ed essendo insorte tante polemiche anche tra sedi episcopali di origine apostolica, Vincenzo aggiunse ad esso altri elementi denotativi dell’ortodossia della Tradizione: la sua universalità – cioè ciò che è creduto ovunque – la sua antichità – ossia quanto nella fede risale alla generazione apostolica senza interruzione – e la sua unanimità – ovverosia la definizione comune o quasi unanime dei Padri e dei Vescovi. Questo canone dottrinale con i suoi quattro elementi ebbe una immensa fortuna ed è senz’altro esatto nel senso che esplicitamente afferma, anche se non deve essere inteso in senso assoluto, altrimenti implicherebbe che tutto il deposito della fede dovrebbe essere stato esplicitato sin dall’inizio della Tradizione stessa, mentre invece la Chiesa ha sempre continuato ad attingere da esso mettendo via via in luce quanto conteneva anche in modo implicito. Proprio in relazione all’indispensabile sviluppo del dogma, Vincenzo di Lerino scrisse lucidamente che esso è destinato ad essere via via ad essere più compreso e a svilupparsi nei secoli, per cui, volendosi evitare storture e degenerazioni, bisogna che ciò avvenga senza alterare la natura del dogma stesso, ossia che esso sia oggetto di una comprensione sempre più approfondita ma nel medesimo argomento, nel medesimo senso e nella medesima interpretazione sia da parte dei singoli che della collettività. Diversamente vi è eresia. Il dogma si sviluppa come l’adulto dal bambino e come la pianta dal seme. Tocca alla Chiesa vigilare che il processo avvenga correttamente. I criteri vincenziani sono dunque abbastanza rigidi e ben lontani dal modernismo contemporaneo. In questo contesto si colloca anche la definizione classica di Padre della Chiesa, che abbiamo a suo tempo anche noi riportato e per cui essi sono innanzitutto santi, indi saggi e costanti nella vita e nell’insegnamento secondo la fede e nella comunione cattolica, morendo fedeli a Cristo. Ad essi si deve prestare fede se tutti o almeno nella maggioranza hanno affermato la medesima cosa chiaramente, frequentemente, costantemente e nel medesimo senso, come in un Concilio che si svolge attraverso i secoli.

Nel Commonitorium il Padre tratta sinteticamente e lucidamente temi trinitari, cristologici e mariologici. Tra questi si sofferma contro Nestorio sulla legittimità del titolo di Madre di Dio da attribuire a Maria Santissima.

SAN PROSPERO DI AQUITANIA

San Prospero di Aquitania (400 ca.-463), vissuto nell’ultima, drammatica parte della storia dell’Impero d’Occidente, fu zelante discepolo di Agostino. Nel 425 si recò in Provenza e informò il suo maestro della grande opposizione ivi esistente alla sua dottrina della giustificazione. Perorò questa causa davanti a papa San Celestino I (422-432) ottenendo un suo pronunciamento a favore dell’insegnamento dell’Ipponense. Fu poi segretario di papa San Leone I Magno (440-461), del quale scrisse le lettere cancelleresche. Prospero era un laico la cui teologia aveva il pregio di rappresentare quasi sempre la soluzione moderata nei problemi che trattava. Scrisse le Sententiae, ricavate dalle opere di Agostino, gli Epigrammata, in cui versificava questioni dottrinali, le Enarrationes, sui Salmi dal C al CL, e una Chronica, dal forte impianto teologico, che giunge fino al 455.

SAN FULGENZIO DI RUSPE

Nativo di Telepte, dove venne alla luce nel 467, Fulgenzio apparteneva ad una nobile e ricca famiglia cartaginese, i Gordiani, gravemente danneggiata dall’invasione dei Vandali. Claudio, padre del Santo, rientrando in patria dall’esilio, riuscì a riprendere una parte dei suoi beni e poté procurare al figlio una buona istruzione, tanto che egli divenne giovanissimo procuratore della sua città natale. Dopo qualche anno si fece monaco nel 499, mentre nel 507 fu eletto vescovo di Ruspe. Essendo un niceno, i Vandali lo esiliarono in Sardegna, dove di solito erano mandati gli ortodossi come lui. Per venticinque anni Fulgenzio fu l’avvocato, con la parola e con lo scritto, della fede nicena; per due volte rientrò in patria per esserne poi nuovamente espulso. Ritornò definitivamente nel 531 e morì colà nel 533.

Scrisse in maniera considerevole e di lui ricordiamo il Contra Arianos liber unus, l’Ad Trasamundum regem Vandalorum libri tres e il Contra Sermonem Fastidiosi Ariani, tutte opere antiariane; il De Trinitate ad Felicem notarium, il De Fide seu de Regula Verae Fidei ad Petrum liber unus e il De Incarnatione Filii Dei, contro i monofisiti; dodici lettere su una gran quantità perduta di gran valore teologico e in mezzo a tante forse spurie; dieci sermoni autentici.

Fulgenzio fu una vera e propria enciclopedia vivente del pensiero agostiniano, di cui si fece tramite per le generazioni future; egli conobbe e citò e riprese Cipriano, Tertulliano e Gregorio Nisseno oltre a molti altri Padri.

Nella dottrina trinitaria Fulgenzio non solo riprese l’analogia agostiniana tra le facoltà dell’anima (memoria, intelligenza e volontà) e le Persone Divine, ma insistette talmente sull’unità sostanziale di Esse da affermare che invocando il Padre si pregano anche le altre Due Ipostasi che da Lui promanano e che a Lui sono identiche per la medesima bontà e sapienza. Tanto nel Padre Nostro che nella Messa l’invocazione e l’offerta sono rivolte, mediante il Padre, a tutta la Trinità. Analogamente i Profeti si rivolgevano, pur senza saperlo, a tutta la Trinità. Allo stesso modo, viene chiamato il Padre distintamente ed unicamente solo per evitare il politeismo. Il Padre afferma che il Nome di Dio nell’Esodo pertiene a tutta la Trinità e non solo al Padre come arguivano gli ariani. Diversamente, questo escluderebbe che a manifestarsi sul Sinai, come insegnavano gli autori antichi, fosse stato il Figlio, mentre per il Santo la Trinità tutta si è manifestata là, sia pure mediante una creatura soggetta. Peraltro in seno ad Essa Fulgenzio non vede alcuna subordinazione del Figlio al Padre se non per la Natura Umana, abolendo ogni forma di subordinazionismo. Fulgenzio afferma che le Persone Divine collaborano tutte alle operazioni esterne alla Trinità, compresa la salvezza umana, e sottolinea con vigore la Divinità dello Spirito Santo in quanto Egli procede dal Padre e dal Figlio. Non dal solo Padre, onde evitare una diminuzione del Figlio e quindi una ripresentazione, sotto mentite spoglie, dell’arianesimo.

Agli ariani che gli obiettavano che l’Unità sostanziale di Dio implicava che anche il Padre avesse assunto l’Umanità in Cristo, Fulgenzio rispondeva che, come in Cristo Due Nature non fanno Due Persone, così nella Trinità Tre Persone di cui Una è anche Umana non hanno in comune l’Umanità. In questa apologia Fulgenzio non ha a supportarlo una nozione chiara di Persona, perché egli paragona di fatto l’Unione Ipostatica a quella Naturale tra le Ipostasi divine. Ciò rende insufficiente il suo discorso specie quando deve spiegare che nella Messa e nel Sacrificio Redentore Cristo è sacerdote e vittima in quanto Uomo, mentre in quanto Dio è impassibile. La mancanza in Fulgenzio del concetto di appropriazione della Natura Umana da parte della Persona Divina del Figlio che è propria di Cirillo sembra fare del nostro Padre un nestoriano di fatto, ma è solo una questione di espressione, in quanto egli adopera il lessico di Cirillo stesso senza esitazione.

Fulgenzio obietta agli ariani pneumatomachi che quando si dice che lo Spirito Santo è inviato dal Padre si fa riferimento proprio alla Sua Spirazione da Lui e non ad una Sua presunta inferiorità operativa. La Processione, ossia la Relazione dello Spirito Santo con le altre Due Persone Divine, è unica tanto quanto la Generazione del Figlio, in quanto anch’essa è sola della Terza Persona della Trinità, tanto quanto quella è esclusiva della Seconda. E’ dunque una Relazione che non ha nulla a che fare con quelle di creazione che tutte le creature hanno con Dio. E’ degno di menzione ed elogio che Fulgenzio, sapendo che gli ariani non riconoscevano nessuno dei Concili ecumenici, argomentava a partire dai Padri preniceni.

In cristologia, considerandola quale la definitiva risposta all’arianesimo, Fulgenzio riprende scultoreamente la dottrina calcedonese delle Due Nature in una sola Ipostasi, per cui Cristo è un solo Soggetto agente che nella Umanità prova quanto appartiene agli uomini e nella Divinità non ne viene toccato. Egli ha mantenuto l’unione sia dell’Anima che del Corpo con la Divinità anche quando nella morte esse si divisero, perché la Divinità è ovunque e impassibile. Con questo insegnamento, ripreso forse dal Nisseno, Fulgenzio andò oltre Agostino che invece riteneva che il Corpo di Cristo nella Morte fosse stato separato dalla Divinità.

In ecclesiologia Fulgenzio sostenne le medesime tesi di Cipriano ma nel contempo insegnò che eretici e scismatici, in virtù della validità del loro battesimo, possono aspirare alla salvezza, ed in particolare se tornano alla vera fede, cosa che non è loro preclusa e per cui non è necessario che siano ribattezzati. L’unica Chiesa è tale perché in essa si confessa l’unica fede nella Trinità.

In soteriologia Fulgenzio estremizza le posizioni di Agostino differenziandosi dalla teologia rigorosamente ortodossa. Per Fulgenzio la colpa originale si trasmette per traducianesimo, tutti gli uomini sono indegni della salvezza e votati alla dannazione, il libero arbitrio non può volgersi al bene, la Grazia di Dio è indispensabile per iniziare, continuare e completare le opere buone, essa è concessa da Dio stesso senza che alcuno la meriti e secondo i Suoi piani, le opere dell’uomo sono previste da Dio solo per predestinarlo alla dannazione, la salvezza è universale solo perché i salvati sono di tutti i popoli, i bambini non battezzati vanno all’inferno, la comunione al Corpo di Cristo necessaria alla Salvezza non è quella eucaristica ma quella ecclesiale che si ottiene con la fede e il tempo della remissione è stabilito arbitrariamente da Dio come quello di questa vita sebbene avrebbe potuto estenderlo anche all’eternità. Come si vede, Fulgenzio è un precursore di Lutero e di Calvino se non anche di Ockham, e fu molto diverso da Gregorio Magno e Cesario di Arles. Le sue dottrine non poterono essere bollate come eretiche perché mancava ancora una definizione universalmente vincolante sull’argomento ma, nonostante Fulgenzio fosse considerato da tutti lo specialista sull’argomento e nonostante avesse tolto ogni contraddizione interna al pensiero di Agostino, o forse proprio per questo, le sue sintesi estremistiche non piacquero a tutti né furono ovunque accettate.

SAN CESARIO DI ARLES

Nato nel 470 e morto nel 542, fu uno dei massimi ecclesiastici dell’epoca in Occidente. Fu arcivescovo di Arles e vicario apostolico per le Gallie e le Spagne; svolse un ruolo importante nello sviluppo della Chiesa nazionale merovingia ed esercitò un ruolo anche in quella visigotica, sebbene molto più modesto. Per le sue cariche mantenne rapporti strettissimi coi Papi del suo tempo. Scolaro del classicista Giuliano Pomerio, nei suoi scritti, tutti dottrinali, e specialmente nei suoi Sermones seu Admonitiones – una raccolta di omelie sulla Bibbia che egli stesso fece raccogliere e diffondere in tutta la sua giurisdizione vicariale – mostrò talento scrittorio ed oratorio, ordinando idee, scegliendo fonti ed esprimendosi in modo chiaro e persuasivo, adattandosi ai vari tipi di uditorio, specie quello più incolto, per spingerlo a vivere coerentemente la fede. Le sue opere sono una miniera d’oro per la conoscenza dell’organizzazione e della disciplina ecclesiastica dell’epoca, ma anche della prassi liturgica e sacramentale. Egli inculcò nel clero e nei fedeli i loro doveri morali e cultuali. Le sue omelie attestano la prassi della Confessione privata per i peccati non gravi e dell’Unzione degli Infermi.

Cesario prese posizioni chiare anche in diverse questioni dottrinali. Scrisse un trattato sulla Trinità e un Breviario contro gli eretici, entrambi contro gli ariani. Ottenne dal Concilio di Vaisun del 529 sia l’inserimento del Sanctus nella Messa (il cui trisagio allude alla Trinità consostanziale), sia la formulazione del Gloria Patri nella formula attuale.

Nell’ardua questione della giustificazione il Padre svolse un ruolo chiave spesso sottovalutato. Fedele all’impostazione agostiniana, insegno tuttavia che la volontà umana, debitamente mossa dalla Grazia, è chiamata a collaborare alla salvezza e in modo determinante. Attaccato per il suo agostinismo dai vescovi galli semipelagiani, chiese l’intervento del papa san Felice III (526-530), il quale nel 529 confermò le posizioni di Cesario inviando una serie di capitoli basati su un florilegio patristico. Questi capitoli furono fatti propri dal II Sinodo di Orange dello stesso anno, nel quale i vescovi, presieduti da Cesario, ribadirono l’ereditarietà del Peccato originale, il danno da esso inflitto all’anima oltre che al corpo umano, l’azione preveniente della Grazia per ogni opera buona compresa la Fede, l’impossibilità dell’uomo di fare il bene senza il soccorso divino e di compiere azioni utili alla salvezza senza di esso, l’universalità di questa azione a vantaggio di ogni uomo, mentre non si fa cenno alla predestinazione doppia ed assoluta di Fulgenzio. Cesario nella lettera sinodale che accompagnò i canoni a Roma per l’approvazione di Bonifacio II (530-532), sottolinea il fatto che gli uomini così aiutati hanno il dovere e il potere di adempiere a quanto necessario per la loro salvezza, mentre respinge l’idea di una predestinazione al male da parte di Dio per alcuni. Questo Concilio espresse egregiamente la dottrina cattolica sulla Grazia, fu la bussola di Gregorio Magno in materia e fu utilizzato anche dal Concilio di Trento. E’ oggi di grandissima attualità.

A Cesario si devono altresì due Regole monastiche ispirate a quella di Agostino, una maschile e una femminile, per il monastero della sorella Santa Cesaria (465-525 ca).

SANT’ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO

Nacque a Roma da famiglia senatoria, la gens Anicia, tra il 475 e il 480, divenne presto orfano di padre e fu educato dall’ultimo grande pagano, Quinto Aurelio Simmaco (340 ca.-502 ca.). Studiò filosofia a Roma ed Alessandria, si instradò nella carriera amministrativa e politica, sposò Rusticiana figlia di Simmaco. Teodorico re degli Ostrogoti (474-526) lo conobbe nel 500 a Roma e ne apprezzò la cultura; nel 510 fu nominato console e poi ricoprì altri incarichi compreso quello di principe del Senato. Progettando la conciliazione di Platone ed Aristotele, tradusse diverse opere di entrambi, ma anche di Porfirio e Tolomeo nonché svariati commenti su di esse, mentre scrisse contro Ario ed Eutiche. Nel 513 Teodorico lo nominò maestro di palazzo e Boezio rimase per dieci anni alla sua corte, fino a quando fu ingiustamente accusato di aver partecipato a una congiura cattolica contro il sovrano ariano nel 524. Fu perciò destituito e incarcerato a Pavia, dove compose il suo capolavoro, il De Consolatione Philosophiae. Condannato a morte, fu martirizzato nel 526.

Boezio scrisse, in tempi brevi e difficili, molte opere. Fu grande letterato, sottile teologo e grande filosofo, apripista della Scolastica. Abbiamo i quattro trattati su aritmetica, musica, geometria ed astronomia, discipline che l’autore definì complessivamente come Quadrivio, e dei quali ci sono giunti solo i primi due; abbiamo la traduzione e due commenti dell’Isagoge di Porfirio, la traduzione e due commenti delle Categorie, la traduzione dei Topica e di tutto l’Organon aristotelico, un commento incompleto ai Topica di Cicerone, i trattati sulla logica intitolati De Divisione, Introductio ad Syllogismos categoricos, De syllogismo categorico, De Hypoteticis syllogismis, De differentis topicis. Per questa sua attività filosofica Boezio divenne il maestro di logica del Medioevo, fino a quando l’Organon dello Stagirita non fu ritradotto nuovamente in latino e commentato nel XIII sec. Infine abbiamo i cinque trattati denominati Opuscula Sacra: il De Trinitate (in cui l’Unità e la Trinità di Dio sono illustrate mediante la categoria aristotelica di relazione), il Contra Eutychem et Nestorium (dove sono discussi i concetti di Natura e Persona per enunciare il dogma calcedonese e dove è enunciata la famosa definizione della persona quale sostanza individuale di natura razionale), il De Hebdomadibus (in cui discute la distinzione tra esse e id quod est, nonché quella tra la predicazione per essenza e quella per partecipazione di un attributo), il De Fide Catholica (che è un compendio catechetico), l’Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de Divinitate substantialiter praedicentur (in cui riprende i temi del primo opuscolo, affermando stentoreamente che i Nomi delle Persone designano le Relazioni e non la Sostanza, che si indica come Dio semplicemente). Infine abbiamo il De Consolatione Philosophiae, il capolavoro del Padre, in cinque libri sul male, le sventure dell’innocente, la Provvidenza, il caso, la preghiera, la prescienza divina e la libertà.

In quest’ultima opera Boezio affronta la questione classica, rapportata alla sua infelice condizione: Si Deus, unde malum? Per affrontarlo l’autore ricorre alla pura ragione, simbolicamente espressa nella filosofia la cui allegoria è una bella signora che viene a visitarlo. Grazie ad essa, Boezio trova soluzione al problema mediante sei asserzioni apparentemente in conflitto tra loro: il sommo bene che appaga l’uomo è Dio e nessun altra cosa; il male non è una sostanza ma una privazione; il male non trae origine da Dio ma dalle creature in quanto finite o perché usano male la libertà; l’uomo è libero e responsabile conseguenzialmente del conseguimento del sommo bene; Dio è la causa prima di tutto quel che accade e quindi dell’essere e del sussistere delle cose; l’azione della Provvidenza non è sospesa dalla libera azione dell’uomo. Apparentemente la quarta e la sesta asserzione sono in contrasto, perché non sembra possibile conciliare la sovranità assoluta di Dio con la libertà dell’uomo. Per risolvere questa contraddizione Boezio distingue tra previsione e predeterminazione, nonché tra condizione temporale e condizione eterna. Dio prevede ma non predetermina il male, in quanto conosce ed opera sul piano dell’eternità e non su quello temporale. La conoscenza delle cose future non implica nessuna necessità delle stesse, per cui Dio, pur conoscendo il male che gli uomini faranno, da un lato non né è responsabile, dall’altro se ne serve per raggiungere il bene. Dio, essendo eterno, intuisce in modo semplice sia il passato che il presente che il futuro, ai quali è esterno. Nel contempo, tutte le cose sono e sussistono in virtù della sua azione causativa, per cui nulla sfugge alla Sua signoria. La vita umana dunque scorre alla presenza di un Giudice che tutto vede e che perciò le conferisce una altissima dignità e responsabilità, in quanto alla sua origine e al suo fine ultraterreno. Dunque, posto dinanzi a Dio quale causa prima e termine ultimo, Boezio trasforma il ragionamento filosofico in preghiera e proprio con un appello ad essa chiude il De Consolatione. Un trattato singolarissimo perché con una metodologia razionale e quindi laica affronta e risolve problemi universali servendosi di concetti cristiani, attingendo peraltro a piene mani al pensiero di Agostino. Del resto per Boezio la filosofia è l’amore della Sapienza e la Sapienza è una Persona, il Logos che regge l’universo, lo produce, sussiste in Sé senza aver bisogno di altro per farlo e che suscita con l’amore l’attrazione dell’uomo verso di Lei, dopo che, illuminandolo, gli si è fatta conoscere.

Proprio il metodo razionale distingue Boezio dagli altri Padri, in quanto egli fu più filosofo che teologo perché incentrò il suo discorso teologico sulle ragioni necessarie molto più che sui dati biblici e della Tradizione, portando a compimento lo sforzo di Clemente ed Origene di fare del Cristianesimo una filosofia. In tal senso più precisamente Boezio è il padre del metodo teologico scientifico, inteso aristotelicamente, mediante dimostrazioni rigorose di tipo deduttivo, in cui dati i principi o assiomi, definiti in modo previo o per evidenza in filosofia o per rivelazione in teologia, si arriva per sillogismi a determinati risultati. Il rischio di un eccessivo formalismo e razionalismo è, in questo tipo di teologia che sfocerà nella Scolastica, bilanciato dai pregi della precisione, del rigore, della chiarezza, della lucidità, della obiettività e della sistematicità, che solo apparentemente sono offuscate da una freddezza astratta ed astorica che in fondo contraddistingue qualsiasi scienza.

Come filosofo, Boezio divide la sua disciplina in due parti: teorica e pratica, speculativa e attiva. La speculativa si divide in tante scienze quanti sono le classi degli esseri da studiare. Gli esseri conoscibili sono di tre tipi: quelli che esistono fuori dalla materia o intellettibili, quelli che sono concepibili dal pensiero ma sono nei corpi o intellegibili, quelli che sono corporei o naturali. I primi sono Dio e gli angeli ed eventualmente le anime separate dai corpi e sono studiati dalla teologia; i secondi sono le anime in quanto racchiuse nei corpi e la scienza che li studia non ha un nome boeziano, anche se Gilson la chiama psicologia; i terzi sono i corpi biologici e fisici, studiati dalla fisiologia o fisica. Essa a sua volta si divide in quelle discipline, aritmetica, geometria, astronomia e musica, che Boezio per primo definì quadrivio o appunto quadruplice via alla sapienza e a cui dedicò i quattro trattati che ho citato. In quanto alla filosofia pratica, essa si divide in base agli atti che si devono compiere, per cui o insegna ad acquisire le virtù, o ammaestra a reggere lo Stato con quelle cardinali di prudenza giustizia fortezza e temperanza, o presiede all’economia domestica.

Alle discipline del Quadrivio Boezio associa la grammatica, la logica e la dialettica riunendole nel Trivio, inteso come triplice via alla Sapienza, che però passa attraverso il modo e non il contenuto della conoscenza. La logica per Boezio è un’arte e quindi tecnicamente si distingue dalla scienza filosofica, però, siccome serve a distinguere il falso dal vero, è uno strumento di cui la filosofia stessa non può fare a meno, come qualsiasi disciplina.

Proprio in campo logico, cercando di interpretare Aristotele alla luce del platonismo mediato da Porfirio, Boezio – che per questo fu oggetto di ampie dispute nel Medioevo – affrontò e impostò il problema degli Universali. Lo stesso Porfirio aveva affermato che, pur discorrendo dei generi e delle specie, solo in un secondo momento avrebbe stabilito se essi fossero realtà sussistenti o meri concetti mentali, così come avrebbe dopo definito se, qualora fossero sussistenti, fossero corporei o incorporei, mentre ancor dopo avrebbe giudicato se, qualora fossero risultati incorporei, essi sarebbero esistiti separatamente dalle cose singole o uniti ad esse. Proprio per rispondere a queste domande che Porfirio lasciò inevase, Boezio prese la penna. Dimostrò anzitutto che gli Universali non sono delle sostanze, in quanto, essendo comuni a più individui, non possono essere individuali anch’essi. Tuttavia, essendo oggetto di pensiero, essi devono per forza vertere su qualcosa che evidentemente è la loro stessa natura, per cui non possono essere delle mere formulazioni concettuali avulse dalla realtà, dei meri nomi. In ragione di ciò, imitando Alessandro di Afrodisia, Boezio afferma che l’uomo, mediante astrazione, trae dai corpi le loro caratteristiche comuni ricomponendole nelle forme pure loro proprie, che sono appunto gli Universali. Essi dunque sussistono presso i sensibili ma si comprendono attraverso i corpi e oltre essi. Boezio elaborò così la soluzione mediana del problema degli Universali, il realismo moderato. Dopo averla fornita in questi termini nel commento all’Isagoge, Boezio la rese più radicale nel De Consolatione, dove afferma senza mezzi termini che oltre la funzione astrattiva dell’intelletto agente che coglie gli Universali attraverso i corpi, l’intelligenza contempla la forma pura di per sé, che quindi altro non è che l’Idea che Dio ha della cosa corrispondente e che risiede nel Suo Logos, come aveva insegnato Agostino.

Su Dio in quanto tale, Boezio dice che l’uomo ne ha una conoscenza innata che Lo qualifica quale Bene supremo; afferma altresì che la Sua esistenza è indubitabile perché l’imperfetto postula il perfetto di cui è una diminuzione, per cui nell’universo i vari enti diversamente perfetti si dispongono in una gerarchia il cui vertice è la perfezione suprema comunicata per gradi a ciò che le è progressivamente inferiore. Questo Perfetto è Dio. In quanto perfetto è beatitudine e l’uomo può aspirare ad essa solo se Dio gli permette di partecipare ad essa, definito “stato perfetto derivante dall’unione di tutti i beni”. In quanto perfetto, Dio è di per Sé tutto quanto Egli è e quindi è l’Uno supremo e indivisibile, per forza di cose inconoscibile, del Quale si può dire più come regge il mondo che cosa Egli sia realmente.

Relativamente alle anime, Boezio afferma che esse in origine furono unite agli angeli ma poi degenerarono al rango di intellegibili perché unite ai corpi. Egli dunque ne sostiene la preesistenza, collegandola alla dottrina platonica della Reminiscenza. Le anime devono santificarsi per giungere alla beatitudine, mentre quelle malvage saranno tormentate in eterno; quelle che invece moriranno in uno stato di parziale purificazione passeranno per il Purgatorio.

Per quanto riguarda i corpi, Boezio ne afferma l’origine da un atto di amore di Dio Che orna di forme una primitiva materia caotica, come sosteneva il Timeo platonico. La legge con cui Dio regge il mondo è la Provvidenza, che vista dalla parte delle creature è detta destino, anche se non annulla, ma ricomprende in sé, la libertà umana.

Affrontando il tema metafisico del rapporto tra l’essere delle cose e quello di Dio, Boezio apporta un contributo originale. Per lui come per Agostino l’Essere e il Bene coincidono tanto quanto il male e il non essere. Ma se tutte le cose che sono, proprio per il loro essere sono buone, la differenza della loro bontà sostanziale da quella di Dio dove risiede? Boezio argomenta distinguendo negli enti l’essere da ciò che un ente è. Ciò che un ente è corrisponde alla sua essenza, l’essere dell’ente è ciò che permette alla sua essenza di esistere realmente. Ora, mentre in tutte le creature l’essere e l’essenza sono per natura divisi, in quanto nessuna essenza ha in sé la ragione della sua esistenza, in Dio coincidono perfettamente in quanto Egli è allo stesso tempo Se stesso e la ragione del proprio Essere. Questa perfetta unità è la semplicità stessa di Dio, mentre la distinzione di essere ed essenza è la radice della complessità degli altri enti, che proprio per questo, in quanto ontologicamente non autosufficienti, sono composti. Tale composizione si rintraccia anche in ciò che ogni ente è, in quanto ognuno è sempre un sinolo di materia e forma, delle quali solo la seconda fa sì che il composto sia ciò che è. Ma pure la forma da sola non può esistere, se non come partecipante dell’essere dell’Idea divina corrispondente. Perciò la bontà delle cose nell’ordine dell’essere è sostanziale ma non autosufficiente e quindi radicalmente diversa da quella di Dio.

Proprio per la sua attività di traduttore di testi capitali della scienza e della filosofia greche e di trattatista enciclopedico, nonché per l’introduzione del metodo dimostrativo in teologia e la definizione in essa di capitali concetti, Boezio fu uno dei Padri della civiltà medievale e, come dicevamo, della Scolastica.

Letterariamente, Boezio ha diverse sfumature. Quando tradusse l’Isagoge, usò una forma attraente desunta dalle cornici dei grandi dialoghi filosofici antichi. In quasi tutte le altre traduzioni si servì del metodo letterale. Nei trattati e in alcuni opuscoli teologici adopera uno stile semplice e piano e una lingua grammaticalmente e lessicalmente scolastica, con costrutti del tipo dico quoniam e termini tecnici abbondanti. Nel De Consolatione invece il Santo sfoderò una grande eleganza, espressa dall’uso del dialogo tra il prigioniero e la Filosofia personificata, di fonti raffinate (come Platone, Plotino, Aristotele e Seneca) e di trentanove parti poetiche ispirate alle tragedie senechiane mescolate alla prosa come nelle satire menippee.

FLAVIO MAGNO AURELIO CASSIODORO SENATORE

Cassiodoro nacque a Squillace nel 490 circa, da una famiglia originaria della Siria che ricopriva tradizionalmente cariche statali. Lo stesso Cassiodoro divenne, assai giovane, questore. Succedette poi a Boezio nella carica di maestro degli uffici e poi di prefetto del pretorio (533-537). Curò la pubblicazione delle lettere e dei rescritti regi da lui redatti in uno stile pesantemente retorico col titolo di Variae. Nel 537 lasciò la corte perché animata sempre più da sentimenti antiromani e si ritirò a vita privata. Concepì con papa sant’Agapito I (535-536) il progetto di fondare una scuola superiore di teologia a Roma sul modello di quelle alessandrina e antiochiena ma non riuscì a realizzarlo sia per la morte del Pontefice che per l’insorgere della Guerra Gotica. Cassiodoro dovette allora ripiegare su un piano più modesto, fondando un monastero nel cuore dei suoi possedimenti calabresi e chiamandolo Vivarium. In esso allestì una grande biblioteca e concepì un piano di studi sul modello di quello della Scuola di Nisibi in Alta Mesopotamia, a prova di come anche in età barbarica erano stretti i contatti tra i dotti del mondo cristiano. Sebbene non è sicuro che diventasse monaco anch’egli, Cassiodoro condivise con i religiosi molte pratiche di vita e nobili intenti scientifici. Morì nella sua fondazione intorno al 583.

Simile a Boezio per l’intento di mettere a disposizione delle generazioni future tutto il patrimonio culturale greco e latino mediante traduzioni, commenti e sistematizzazioni enciclopediche, Cassiodoro fu uno scrittore enciclopedico che redasse personalmente una serie di manuali per i suoi monaci studenti, a cui offrì corsi di studio differenziati di livello in tutte le discipline conosciute all’epoca. Pose così ulteriori basi per la nascita della cultura latina e cristiana del Medioevo. Una prima opera da menzionare sono i due libri delle Institutiones divinarum et saecularium litterarum, nelle quali traccia un piano di studi basata su due cicli generali, l’uno sul trivio e l’altro sul quadrivio, e uno specialistico, incentrato sulla teologia. Cassiodoro mostra così la sua convinzione che il sapere profano debba diventare parte integrante della formazione teologica e della cultura monastica, seguendo la scia di Origene e di Agostino. In effetti, senza i rudimenti nelle humanae litterae, quelle divinae sarebbero incomprensibili. Una seconda opera degna di essere ricordata è il De Artibus ac disciplinis liberalium litterarum, anch’essa destinata allo studio dei monaci. Un terzo testo, capolavoro enciclopedico del genere, fu la raccolta di commentari biblici di Padri greci e latini, tutti tradotti ovviamente nella lingua dei Romani da Cassiodoro stesso e dai suoi stretti collaboratori, fatta in nove codici emendati da Cassiodoro stesso e vertenti rispettivamente sui primi otto Libri della Bibbia (dalla Genesi ai Due Libri di Samuele considerati tutt’uno), sui Libri dei Re, sui Profeti, sul Salterio, sui Libri Sapienziali di Salomone, sugli Agiografi (Ester Giuditta Tobia), sui Vangeli, sulle Lettere degli Apostoli, sugli Atti e l’Apocalisse. Una quarta opera di Cassiodoro è la raccolta di diverse opere patristiche introduttive alla Bibbia, fatta in un apposito codice anch’esso emendato da lui stesso. Dalla terza e dalla quarta opera si evince come i Libri biblici di maggior pregio per Cassiodoro sono il Salterio, i Profetici e le Lettere degli Apostoli; da esse si evince anche il suo metodo filologico, che sceglie le lezioni garantite da almeno due o tre codici antichi, calcato sul metodo esegetico di Origene che a sua volta considerava una dottrina fondata sulla Bibbia sulla scorta di almeno due o tre testimoni, come Gesù aveva insegnato nel Vangelo.

Cassiodoro raccomanda ai suoi studenti un metodo serio nello studio biblico: bisogna prima leggere gli autori che introducono alla Bibbia come Agostino, poi coloro che la espongono e infine quelli che hanno concepito testi sotto forma di domande e di risposte. Per questo va letta tutta la letteratura patristica disponibile, per poi conversare a viva voce con un maestro anziano esperto. A tutti quei monaci che poi non erano adatti allo studio teologico approfondito Cassiodoro impartiva insegnamenti tecnico pratici legati soprattutto all’orticoltura, avendo a disposizione per tale fine nella biblioteca una ricca letteratura specifica.

Cassiodoro scrisse un commento ai Salmi, la Expositio Salmorum, che riprende concetti da Agostino e da Origene, da Girolamo e molti altri, usando una esegesi allegorica volta ad evidenziare la presenza di Cristo nel triplice senso divino, umano ed ecclesiale, con un procedimento sistematico e con uno stile sintetico. Nelle sue opere bibliche, in genere il Padre mostra un interesse esclusivamente spirituale, meditativo e contemplativo.

Alla penna di Cassiodoro si deve anche il De Anima, un trattato di antropologia inserito nelle Variae perché scritto alla corte di Teodorico. In questo trattato, ispirato a Tertulliano, Gregorio di Nissa e ad Agostino, Cassiodoro in modo chiaro completo e sistematico espone tutte le questioni sull’anima. Essa è una sostanza creata da Dio, spirituale, individuale, razionale, immortale, vivificatrice del corpo e libera, così da potersi volgere o al bene o al male. E’ creata direttamente da Dio, è della stessa natura della luce perché è fatta del suo stesso elemento, è una sostanza semplice la cui spiritualità si desume dall’assenza di dimensioni e dal tipo di azioni che compie (puramente razionali) e si distingue dal corpo che pure pervade in quanto quest’ultimo è una sostanza completa. Da questa distinzione sostanziale tra anima e corpo di stampo platonico, Cassiodoro deduce facilmente l’immortalità della prima, in quanto essa non è minimamente legata alla sorte del secondo; come ulteriore prova dell’immortalità dell’anima il Padre adduce poi quella per cui essa, essendo ad immagine e somiglianza di Dio, non può essere mortale. Cassiodoro non disdegna poi di enumerare le altre prove dell’immortalità dell’anima addotte dai filosofi: la sua semplicità, la sua razionalità, la sua capacità di muoversi. Il De Anima fu per secoli uno dei testi più importanti di psicologia razionale del Medioevo latino, assieme alle opere simili di Agostino e di Aristotele.

A Cassiodoro si devono poi alcuni commenti a trattati patristici e un grande repertorio degli storici della Chiesa dei primi secoli, compreso Eusebio di Cesarea, denominata Historia Ecclesiastica Tripartita.

FACONDO DI ERMIANE

Vescovo africano del VI sec., prese la penna per difendere i Tre Capitoli dall’autocrazia dogmatica di Giustiniano I (527-565), il quale tra il 543 e il 545, spinto dal suo consigliere teologico Teodoro Askida, emanò un decreto che anatematizzava le persone e le dottrine di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Ciro e di Iba di Edessa. Prima che il II Concilio di Costantinopoli nel 553 rendesse irreversibile la condanna dei tre Padri siriaci di scuola antiochiena, grande fu il dibattito nella Chiesa occidentale – che del resto per lungo tempo ricusò di ricevere gli atti dello stesso Sinodo, riconosciuto solo a Roma per l’approvazione di Vigilio (537-555) e Pelagio I (556-561), per cui si aprì uno scisma che si estinse definitivamente solo nel 700. Nel corso di questo dibattito si distinse appunto Facondo di Ermiane, che redasse la Defensio dei Tre Capitoli in ben dodici libri. Il Padre condivide con l’Imperatore la fede in Uno della Trinità che fu crocifisso nella Carne e in Maria Madre di Dio, ma aggiunge che nel Figlio vi sono reali e distinte, complete e non sminuite, due Nature: l’Umana e la Divina. Facondo afferma che la condanna dei Tre Capitoli non serve ad evitare interpretazioni nestoriane del Concilio di Calcedonia, ma a screditarlo e a favorire lo scivolamento verso il monofisismo, inteso come esasperazione e tradimento del genuino magistero di Cirillo Alessandrino, che invece a parole gli impugnatori dei Tre Capitoli dicevano di voler difendere nel suo significato autentico. Facondo peraltro afferma che a Calcedonia si sarebbe approvata la Lettera di Iba, mentre in realtà il Sinodo aveva solo riaccolto nella comunione canonica sia lui che Teodoreto, senza condannare nessuna loro opera e accettandone la professione di fede, cosi come essi avevano accettato l’insegnamento cirilliano rettamente inteso. Di valore più polemico che teoretico e di maggior pregio disciplinare che dottrinale, Facondo fu senz’altro un importante esponente della teologia dogmatica dell’epoca, sebbene le sue argomentazioni fossero respinte dal Concilio di Costantinopoli. Sulla sua falsariga si mosse anche il diacono Pelagio, prima di diventare Papa, quando scrisse anch’egli la sua Defensio dei Tre Capitoli riprendendo argomenti del Vescovo di Ermiane. Solo che Pelagio stesso, resosi conto che il II Costantinopolitano non costituiva una svalutazione del Calcedonese e che l’approvazione di Vigilio aveva creato una situazione nuova, abbandonò il fronte filotricapitolino, sebbene da Papa egli non espresse nessuna valutazione su Teodoro di Mopsuestia e difese le persone di Teodoreto e di Iba.

RUSTICO DI CARTAGINE

Fu senz’altro l’autore che con maggior maestria argomentò nella controversia tricapitolina, a favore dei Tre anatematizzati e soprattutto contro ogni interpretazione monofisitica del Concilio di Calcedonia. Diacono romano e nipote di papa Vigilio, deposto e scomunicato da questi per la sua irriducibile opposizione al II Costantinopolitano, trovò rifugio nella capitale orientale all’interno del monastero degli Acemeti, dove tradusse in latino gli atti del Concilio di Efeso usandoli come arma nella Disputatio contra Acephalos che è il suo capolavoro. Compose un’opera sulle definizioni andata perduta, studiò attentamente Aristotele e Boezio, Agostino e i Padri greci, ebbe colloqui con teologi esperti a Costantinopoli, ad Antinoe e ad Alessandria.

Maggiormente legato al pensiero patristico greco che a quello latino, fondò la triplicità delle Persone divine non sulle Relazioni ma sulle Proprietà. In cristologia superò il pensiero boeziano: per lui infatti la persona non è la sostanza razionale individuale, ma la sussistenza razionale individuale, è cioè il soggetto in quanto tale e realmente esistente. Ossia, la persona per essere tale deve innanzitutto sussistere, indipendentemente dalla sua sostanza, purchè lo faccia munita di ragione. Per questo essa può essere descritta, mentre la sostanza può essere definita. La persona è dunque la confluenza di tutto quanto la sussistenza razionale descrive, quindi in linea di principio può contenere anche più di una sostanza. Con questa impostazione, da un lato Rustico scarta l’ipotesi antiochiena per cui ad ogni sostanza corrisponde una sussistenza, dall’altro elimina quella monofisita per cui in ogni sussistenza deve esserci una sola sostanza per la tendenziale identificazione dell’una con l’altra. La dottrina cirilliana dell’appropriazione viene rielaborata e nel Cristo Rustico insegna che la Persona Divina è il solo ed unico soggetto, il quale, dapprima solo di Natura Divina, ha poi assunto una Natura Umana che quindi non è essa stessa soggetto ma all’interno di esso. In altri termini, la Natura Umana sta al Soggetto divino come l’accidente sta alla sostanza nel pensiero aristotelico, in quanto quest’ultimo avrebbe potuto anche non incarnarsi, ma avendolo fatto, è ad un tempo veramente Uomo e veramente Dio. Il Redentore non è dunque un composto, come diceva Teodoro di Mopsuestia, ma la sua Persona unitaria è tuttavia con due Nature distinte, per possibilità logica poi divenuta reale e a dispetto di quanto dicevano i monofisiti. La distinzione tra esse ed id quod est di Boezio viene dunque pensata più profondamente, in quanto non è più solo quella che passa tra l’essenza e la sua esistenza individuale, ma tra l’essenza e l’esistenza individuale in sé, ipoteticamente anche plurisostanziale. Se la Scolastica avesse conservato la definizione di persona che è in Rustico, la sua elaborazione del concetto di persona sarebbe stata migliore di quella che Boezio le garantì. Probabilmente fu un travisamento della teologia rusticiana a favorire la nascita del lessico apparentemente monotelitico di papa Onorio I (625-638).

SAN GREGORIO I MAGNO

E’ l’ultimo grande Padre dei quattro della Chiesa Latina, con Ambrogio Girolamo e Agostino. Nacque dalla gens Anicia intorno al 540. Tra i suoi avi vi erano san Felice III (483-492) e Agapito I. Ebbe la migliore formazione culturale dell’epoca, conoscendo la teologia, la filosofia, il diritto, il latino e il greco. Fu prefetto di Roma dal 572 al 574 e poi monaco nel palazzo di famiglia da lui trasformato in un monastero alla morte del padre Gordiano. Eresse monasteri in vari suoi possedimenti in Sicilia e intraprese una rigida vita monastica. Ordinato diacono da Benedetto I (575-579) nel 578, fu nominato apocrisiario apostolico a Costantinopoli da Pelagio II (579-590). Nel 590 fu eletto Papa nonostante la sua riluttanza. Resse il Pontificato fino alla sua morte nel 604. Fu amministratore energico ed efficiente del patrimonio pontificio, assunse responsabilità nel governo civile di Roma e dell’Italia lasciate a se stesse, difese il primato papale dalle pretese del Patriarca di Costantinopoli, impose la disciplina ecclesiastica ed estese l’autorità pontificia in tutto l’Occidente, gettò le basi per la conversione dei Longobardi e degli Angli, raccolse i frutti di quella dei Visigoti, combattè lo scisma tricapitolino e favorì l’evangelizzazione dell’Africa. Sostenne il monachesimo, riformò la liturgia redigendo il Sacramentario gregoriano e instaurando il canto liturgico che porta il suo nome, liberò schiavi, accolse profughi, nutrì affamati, respinse invasori e, cosa che ci interessa da vicino, scrisse fecondamente di teologia.

Autore pratico, esegetico e morale, il grande Papa ebbe un inesauribile zelo pastorale per l’istruzione religiosa di tutti i cristiani. Scrisse molte opere esegetiche. La prima che ricordiamo sono i Moralia in Job. Indi abbiamo quaranta Omelie sui Vangeli appositamente raccolte e pronunziate nei primi due anni di pontificato. Poi abbiamo due libri di Omelie su Ezechiele, l’uno di dodici e l’altro di dieci testi. Ancora possediamo un commento sui primi otto versetti del Cantico dei Cantici e uno in sei libri sui primi sedici capitoli del Primo Libro dei Re, derivanti entrambi da conferenze fatte ai monaci nel monastero della casa paterna, dedicato a Sant’Andrea. Scrisse altresì ottocentocinquantaquattro lettere a destinatari laici ed ecclesiastici, fonti di primo ordine sulla storia dell’epoca e sul pensiero del Papa. Alla sua penna si devono anche i quattro libri dei Dialoghi, in cui narra le vite di molti Santi italiani di tempi recenti, compreso San Benedetto, e che destinò alla formazione spirituale della regina Teodolinda (529-627). Il suo capolavoro è la Regula Pastoralis, che fu anche la sua opera programmatica d’inizio pontificato. Essa si divide in quattro parti: la prima tratta della sublimità e della difficoltà dell’ufficio pastorale, considerato come l’arte più importante, spiegando come ci si debba preparare ad esso e chi debba essere ammesso ad esercitarlo e chi no; la seconda tratta della condotta del pastore d’anime e delle sue virtù; la terza tratta del modo di predicare e di come ammonire i vari tipi di fedeli; la quarta richiama il Vescovo alla riflessione e al rinnovamento quotidiano dell’anima, per evitare che il suo ministero lo porti alla superbia.

Gregorio afferma che il governo pastorale è difficile, impegnativo e pericoloso, in quanto espone al rischio di farsi sommergere dagli affari esterni disperdendo quell’unità dello spirito che è prodotta dal timor di Dio. Il Papa comprende chi vorrebbe rifuggire da tale compito ma è anche vero che chi è chiamato ad esso ha anche la responsabilità di tutti coloro che, in caso di suo rifiuto, sarebbero privati della salutare predicazione che avrebbe potuto fare e di cui avrebbero avuto bisogno. Costoro sono cattivi tanto quanto quelli che invece esercitano il ministero dando cattivi esempi. E’ dunque giusto che chi è chiamato esca dal suo isolamento come Gesù uscì dal Padre per venire nel mondo stando in mezzo a noi. In tal modo, la dignità episcopale non è cercata, non è voluta, ma è esercitata con obbedienza ed umiltà. Chi dunque assume il governo delle anime si fa servo dei servi di Dio, esattamente come per primo si appellò Gregorio in quanto Papa. La Regula fu tradotta presto in greco dal patriarca di Antiochia sant’Anastasio (559-599), per cui fu diffusa sia in Oriente che in Occidente. Universalmente letta, fu il manuale per la formazione dei Vescovi e dei sacerdoti per tutto il Medioevo.

Appassionato, come dicevamo, lettore della Bibbia, Gregorio la studiava per uno scopo pratico, come nutrimento dell’anima e come regolo di condotta. Volerla comprendere solo per cultura è uno snaturamento di essa e un fomite di eresia, in quanto gli eretici sono tali spesso per orgoglio. L’umiltà è la disposizione di spirito normale per leggere la Bibbia e affianca quella dello studio perché sia proficuo.

Nei Moralia, Gregorio I imposta spesso la sua trattazione su dei binomi eloquenti: sapere e fare, parlare e vivere, scienza e azione. L’ideale morale è la coerenza tra ognuno di questi aspetti con un accento marcato sull’azione. Meditando sull’esempio di Giobbe, il Papa liberamente crea una summa della morale cristiana parlando di doveri e diritti della vita cristiana in un modo tanto completo da redigere un testo che fu fondamentale per lo studio nei secoli successivi.

Nell’ambito delle dispute teologiche dell’epoca, il grande Pontefice prese posizioni chiare. Attestò il suo impegno antiariano chiamando Cristo Giudice e Creatore, considerandolo Autore e Redentore del genere umano, attribuendoGli la creazione degli Angeli, asserendo che Egli è il Dio Sublime a Cui allude Ezechiele, che è il Dio continuamente operante Che infonde la Grazia interiormente ed esteriormente attira gli uomini a Sé. Afferma altresì che senza Cristo nulla l’uomo di buono può fare.

Il Pontefice seguì la linea di Agostino e di Cesario di Arles nella soteriologia. Ribadisce il medesimo insegnamento sul Peccato originale; dalla responsabilità collettiva nella colpa deduce che i bambini senza Battesimo vanno all’Inferno; afferma che la sessualità è la roccaforte del peccato e che la concupiscenza è di per sé una macchia. Insegna altresì che il primo avvio alla conversione è un dono di Grazia, la quale si unisce al libero arbitrio perché questo deve conformarsi ad essa. In ragione di ciò l’uomo acquisisce dei meriti per grazia divina, che quindi poi sono premiati. Non vi è una dottrina della predestinazione in Gregorio, il cui agostinismo, come si vede, è soprattutto pratico.

Nell’ambito della Controversia dei Tre Capitoli, Gregorio in quanto Papa difese il II Concilio di Costantinopoli, ma precisò che esso trattava di persone su cui il Concilio di Calcedonia non si era espresso mentre non si occupava di dogmatica.

Come agiografo, nei Dialoghi Gregorio affastella le vite di Santi quasi sconosciuti ad eccezione di Benedetto e di Paolino di Nola; l’opera serve a mostrare come anche l’Occidente ha avuto i suoi taumaturghi e non solo l’Oriente. Essa non va disprezzata come fonte storica ed è ricca di puntualizzazioni esegetiche e dogmatiche, esemplificate proprio da casi delle vite dei Santi stessi. E’ poi dai Dialoghi che prende le mosse la tradizione delle Trenta Messe di suffragio dette appunto gregoriane.

Come letterato, Gregorio, pur ostentando indifferenza e disprezzo per la cultura fine a se stessa e interesse per essa solo se orientata alla comprensione della Bibbia, mostra una maestria enorme grazie alla sua altezza di idee, all’ampiezza di vedute, chiarezza di impostazione, alla rettitudine, alla misura, alla dolcezza, alla cura del particolare; il Papa esprime personalmente pensieri e sentimenti, in modo assai originale, con penetrazione psicologica che esercita una grande attrazione sul lettore. Degno di nota che il Pontefice abbia affermato che il modello letterario e linguistico del latino per il cristiano non è quello dei classici ma quello della Scrittura. E’ la prova che, senza soluzione di continuità, il latino tardoantico si andava evolvendo in quello medievale, che ne è la viva continuazione.

Come musicologo, Gregorio raccolse, riformò e portò a perfezione i canti in uso. A tale scopo riordinò i canti liturgici nell’Antifonario, riorganizzò la Schola Cantorum, diffuse il canto romano detto appunto gregoriano. L’Antifonario era la raccolta dei canti destinati al servizio liturgico nel corso dell’anno. Fu scritto in notazione neumatica. Il Papa stesso fu compositore di Inni, come l’Audi Benigne Conditor, l’Ecce jam nostis, la Nocte Surgentes, il Primo Die quo Trinitas. La teoria musicale di Gregorio, ai cui tempi si era adottato il sistema degli otto modo di cui quattro autentici e quattro plagali, rimasti tutti nella sua grammatica e riconoscibili negli otto toni della Salmodia, ridusse l’estensione delle scale fatta da Sant’Ambrogio.

SAN GREGORIO DI TOURS

Nato nel 538 e morto nel 590, fu il massimo storico dei Franchi in età merovingia e il maggior agiografo dell’epoca. Autore dell’Historia Francorum, introduce parzialmente nella storiografia, nella predicazione e nell’agiografia forme popolari. In effetti spesso egli, senza nessuna indagine sui nessi causali, giustappone fatti particolari raccontandoli ingenuamente. Ciò ha messo in imbarazzo molti critici, non sapendo come valutare la veridicità del suo resoconto, ma l’opera gregoriana rimane un testo notevole, sia per la documentazione che per il taglio drammatico e per la presenza della Provvidenza che rende meno cupe le umane vicende. L’opera gregoriana è anche importante perché attesta come dal VI sec. in Occidente e nelle Gallie cresca il culto dei Santi, dapprima martiri e poi asceti. Sulle loro tombe si costruivano santuari e le loro reliquie erano usate per impetrare le grazie di guarigione; la devozione fioriva dunque in ambienti liturgici ma anche privati, spesso anche molto distanti dalle chiese stesse. Il culto prevedeva la celebrazione eucaristica nel giorno esatto della morte del Santo, con la vigilia notturna; la funzione era alle nove del mattino e in essa si leggeva la Passio o la Vita del Santo. La sua immagine era ostesa ed oggetto di venerazione.

Gregorio prese anche energiche posizioni contro l’arianesimo proveniente dalla Spagna.

SANT’ISIDORO DI SIVIGLIA

Nacque a Siviglia intorno al 560 da nobile famiglia ispano-romana e fu educato nella cultura classica, cristiana, ecclesiastica e monastica. Fratello di San Leandro (534-600), gli successe quale vescovo di Siviglia. Presiedette il II Concilio di Siviglia e il IV Concilio di Toledo in cui si gettarono le basi più proficue per la relazione tra Chiesa e monarchia nel Regno dei Visigoti. Fu un grande organizzatore che incise sulla liturgia, sulla disciplina del clero e su quella monastica. Dottissimo, sia pure nei limiti e nei canoni dell’epoca, volle lasciare ai posteri tutta la sua erudizione e lo fece con opere che, se difettano di originalità in molti casi, non mancano di rilevanza storica e teologica. Morì nel 636.

Tra i suoi scritti ricordiamo innanzitutto il De Natura Rerum e il De Ordine Creaturarum. Esse sono di argomento filosofico e riprendono la tradizione degli opuscoli di cosmografia greco romani; tuttavia in essi l’autore, oltre a descrivere i fenomeni scientificamente, li legge allegoricamente in senso religioso partendo da fonti bibliche ed esegetiche.

Il suo capolavoro sono le Originum sive Etymologiarum libri XX, usata in tutto il Medioevo e che fu la maggior enciclopedia latina dell’Alto Medioevo. Scritta alla fine della vita del Padre e lasciata incompiuta, fu pubblicata da San Braulio di Saragozza (590-651). In quest’opera Isidoro espone in modo enciclopedico e sistematico tutto il sapere dell’epoca, partendo da una etimologia spesso arbitraria delle parole volta ad interpretarle alla luce del principio per cui esse sono la chiave delle cose.

Di Isidoro abbiamo anche le Sententiae, in tre libri di ispirazione agostiniana. La teologia che essi contengono è dogmatica, spirituale e morale in una sorta di compendio della dottrina concepita su misura del Regno dei Visigoti. Altro manuale di teologia isidoriano fu il De Fide Catholica. Sempre per la formazione teologica scrisse le Differentiae. Degno di nota che egli non accettò l’anatema sui Tre Capitoli fulminato da Giustiniano e non lo riconobbe, per questo, nemmeno quale imperatore. In soteriologia, pur accettando la predestinazione, non esclude che essa sia stata decretata anche per chi apparentemente è fuori dalla Chiesa visibile.

Il Padre fu anche uno storico, contemporaneo nella sua Historia Regum Gothorum et Vandalorum e universale nel suo Chronicon, ed un biografo con la sua continuazione del De Viris Illustribus di Girolamo. Scrisse inoltre forse anche una raccolta di canoni ecclesiastici (Collectio Hispana) e di certo trattati biblici (De ortu et de obitu Patruum, Allegoriae, Quaestiones in Vetus Testamentum), opuscoli teologici polemici, dogmatici, morali e pastorali (De Ecclesiasticis Officiis), nonché diverse lettere.

Isidoro proprio per questo suo sforzo di conservazione del sapere è ad un tempo uno degli ultimi dei classici e una delle colonne su cui si sarebbe edificato il Medioevo prossimo venturo, assieme a Boezio e a Gregorio Magno, sebbene ad essi inferiore teoreticamente.

AUTORI MINORI

Sono degni di menzione anche altri nomi dell’età barbarica. Il primo è quello di Sant’Avito, (450-523), già imperatore romano e poi, deposto, vescovo di Vienne dal 494, autore di un poema biblico di ispirazione virgiliana, il De Spiritalis Historiae Gestis.

Draconzio, poeta africano vissuto tra il 455 e il 505, trattò temi biblici con grande sensibilità poetica nel De Laudibus Dei.

San Magno Felice Ennodio (473-521), maestro di retorica, poi Vescovo di Pavia dal 513, autore di lettere, esortazioni, controversie, biografie, composizioni poetiche di imitazione virgiliana, che nelle sue opere considerò indegna della sua dignità la naturalezza di espressione mostrando quanto ancora era vivo della tradizione letteraria tardoromana.

Aratore (490 ca.- ?) mise in versi gli Atti degli Apostoli e li fece leggere in pubblico a San Pietro in Vincoli a Roma nel 544. Fu tecnicamente abile e ricco nella terminologia, echeggiando Virgilio, Orazio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Claudiano.

San Martino di Braga (520-580) fu un vescovo lusitano che compose opere morali di sapore senechiano come il De Ira o il De Paupertate o il De Quattuor Virtutibus.

San Venanzio Fortunato (530-600) è il solo poeta italiano di quest’epoca che imita i classici con consapevolezza artistica per esprimere la propria malinconia esistenziale che cerca conforto proprio nella bellezza espressiva. Trevigiano, partito per un pellegrinaggio a Tours, lungo il tragitto si fermò presso diversi anfitrioni a cui offriva i suoi versi. A Poitiers conobbe la regina Santa Radegonda ([518] 540-550 [587]) che lo fece suo segretario e lo volle Vescovo della città. Qui, all’arrivo dei Frammenti della Vera Croce che Giustino II (565-578) inviò alla sovrana, il Santo compose due celebri inni ancora in uso, di vibrante e commossa ispirazione. Accanto ad essi ricordiamo alcune malinconiche elegie, intense di sentimento e belle di immagini, mentre meno validi sono i componimenti di occasione e le biografie in prosa di Venanzio, che spesso sacrificava la verità storica ai pregi formali.

In Anglia, Sant’Aldelmo di Malmesbury (640-709) fu autore di un poema intitolato De Laude Virginum, ma anche di un epistolario e di una raccolta, tipicamente insulare di Aenigmata.

In Ispagna, San Giuliano di Toledo (642-690) si distinse quale conoscitore del greco, come autore dell’Ars Grammatica e come continuatore del De Viris Illustribus di Girolamo e di Isidoro. Egli scrisse un Apologeticum Fidei con cui accompagnò la traduzione latina degli atti del III Concilio di Costantinopoli del 680-681 e rafforzò l’autonomia della Chiesa visigotica.

In Germania, si distinse il grande apostolo e martire San Bonifacio (675-754), autore di sermoni, lettere e di un Ars Grammatica, con cui sovrintese alla formazione spirituale del suo popolo di elezione.

OCCIDENTALIUM PATRES MONACHORUM

Breve introduzione ai Padri del Monachesimo Occidentale

Anche in Occidente come in Oriente si sviluppa il monachesimo e la letteratura spirituale che lo accompagna, avente caratteristiche più o meno simili a quelle descritte a proposito dei Padri Pneumatici. Il movimento monastico occidentale fino alla metà del IV sec. non ebbe una fisionomia propria e nemmeno l’eremitismo, vivendo fino a quel momento di vita propria solo un ascetismo fortemente individuale. La forte urbanizzazione dell’Occidente e la mancanza di vaste aree anecumeniche come i deserti contribuì a questo ritardo e a far si che chi volle intraprendere la via della perfezione lo dovette fare alla sequela dei maestri d’Oriente, più o meno fedelmente imitati. Tuttavia ben presto sorsero figure di prestigio anche nel mondo latino. Esse con i loro scritti, i loro detti e le biografie che furono scritte su di loro ammaestrarono i fedeli. Alcune di queste personalità poi emersero come grandi teologi di matrice monastica, in particolare Beda il Venerabile.

I PADRI LATINI E IL MONACHESIMO.

Abbiamo citato il ruolo svolto nella formazione del monachesimo occidentale da diversi grandi Padri, che ora sommariamente ricordiamo: Girolamo, Ambrogio, Agostino, Rufino, Zenone di Verona, Paolino di Nola, Eusebio di Vercelli. Le grandi figure di fondatori si aprono significativamente con nomi femminili.

Santa Melania Maggiore (341/342-410), cugina di Paolino di Nola, fondò con San Rufino un monastero doppio assieme a San Rufino; esso si distinse subito per l’attenzione alla letteratura ascetica e teologica. La sua vita è descritta da Palladio nella Historia Lausiaca.

Santa Paola Maggiore (347-406) assieme a San Girolamo fondò un monastero maschile e uno femminile con un ospizio per pellegrini annesso. Centro di grande vitalità intellettuale per la presenza del grande Padre, questa fondazione, alla morte di Paola, fu diretta nel suo ramo femminile da sua figlia, Santa Eustochio (368-419), collaboratrice di Girolamo nell’opera di traduzione della Bibbia, e dopo di lei dalla sorella Santa Paola Minore (380 ca.-419/420), anch’essa zelante discepola del gran Dalmata.

Santa Melania Minore (383-439), nipote della Maggiore, e suo marito San Piniano (†432), dopo una lunga esperienza anacoretica in Egitto maturata in seguito ai contatti con Rufino e Agostino, fondarono un monastero femminile a Gerusalemme. La Santa, alla cui opera aveva collaborato anche la madre Albina (†431), venerata anch’essa dalla Chiesa, dedicò moltissimo tempo alla redazione di manoscritti contenenti le traduzioni greche e latine della Bibbia. Alla morte del marito, la Santa fondò anche un monastero maschile, il cui primo abate, Geronzio, fu anche il biografo della fondatrice. Dopo la morte delle loro fondatrici, queste floride comunità latine in Palestina passarono sotto il controllo dei monaci e delle monache greche, in tempi più o meno rapidi.

In Gallia, si distinse il celeberrimo San Martino di Tours (316-397), che fu dapprima asceta, poi eremita, indi abate di anacoreti e infine di un cenobio al quale diede una Regola, ispirata al monachesimo egizio di Nitria e di Antonio il Grande, ma anche fortemente missionaria. Fu infine vescovo di Tours. I monasteri da lui fondati a Ligugè e a Marmoutier furono il vero nucleo fondativo del monachesimo occidentale. Tra i suoi discepoli spiccò quel San Sulpicio Severo (360-420) che non solo fu abate anch’egli di un monastero da lui fondato a Primuliaco, ma anche biografo di Martino (con la Vita Martini) e autore di una Historia Sacra (una cronaca dalla fondazione del mondo al 400), di almeno tre lettere e del Gallus, formato da due dialoghi che mettevano a confronto i miracoli martiniani con quelli dei Santi egiziani. Anche San Victricio di Rouen (†417), che diffuse il monachesimo nella sua arcidiocesi, fu discepolo di Martino. Fu autore tra le altre cose di un De Laude Sanctorum. In genere, molti discepoli martiniani divennero vescovi.

Dalla Provenza si irradiò invece il monachesimo di Lerino, partito dall’esperienza eremitica e poi cenobitica di Sant’Onorato (370-430), poi vescovo di Arles, che dettò, almeno oralmente, la Regola locale. Esso ebbe un’impronta aristocratica e dotta che si riflesse nei personaggi maggiori che uscirono dalle sue fila: Sant’Ilario di Arles (401-449), successore in quella sede di Onorato suo cugino del quale scrisse il Sermo de vita; San Massimo (†455), secondo abate di Lerino e poi vescovo di Riez; San Fausto (408 ca.-495 ca.), terzo abate lerinese e poi presule a Riez anche lui e autore di diversi Sermones, di dodici lettere, di un trattato De Spiritu Sancto, dei due libri del De Gratia (sostanzialmente semipelagiani), del De Ratione Fidei e forse dell’Adversus Arianos et Macedonianos, tutte opere caratterizzate da uno stile adatto all’insegnamento, breve, perspicuo, personale, soave e distinto; Sant’Eucherio (380-449), poi vescovo di Lione, autore del De Laude Eremi, del commentario biblico intitolato Formularium Spiritalis Intelligentiae, di due lettere ascetiche, della Passio Agaunensium Martyrum, di un estratto delle Collationes di Cassiano di cui diremo e di due libri di Instructiones per gli educatori dei suoi figli; infine naturalmente il summenzionato San Vincenzo di Lerino. Da Lerino la lezione di Onorato si spinse quindi ad Arles e a Lione, fino a giungere al Giura, impreziosito da numerosi ed esemplari Santi monaci, la cui esistenza è descritta nelle Vitae Patrum Jurensium. Moltissimi vescovi vennero da Lerino e gli insegnamenti dei Padri delle fondazioni del Giura erano lette come le opere di Basilio e di Pacomio.

Una menzione particolare merita San Giovanni Cassiano (360-435). Nato nella Scizia romana, fu monaco di lingua latina prima a Betlemme per dieci anni e poi nel Deserto della Scete. Divenne poi diacono di Giovanni Crisostomo e presbitero ad Antiochia. Per due volte si recò a Roma e conobbe Leone Magno prima che diventasse Papa. Nel 416 andò a Marsiglia in circostanze non chiare e fondò il monastero di San Vittore, maschile, a cui seguì una fondazione femminile. Qui Cassiano compose le sue opere sull’ordinamento e sulla spiritualità del monachesimo d’Oriente, ossia gli Instituta Coenobiorum del 424 circa e le Collationes del 426-428 circa. Da qui prese parte alla disputa sul nestorianesimo e a quella sulla Grazia, assumendo una posizione di fatto semipelagiana. Cassiano propone ai monaci della Gallia di adottare le regole pacomiane, con i debiti adattamenti. Egli considerava giustamente l’anacoretismo come la forma maggiore di monachesimo, ma proprio per la sua impegnatività si volse al cenobitismo peraltro nel suo monastero cittadino. Giovanni Cassiano conquistò il futuro per il suo monachesimo, grazie ai giudizi accorti e prudenti, al colpo d’occhio su tutto quanto e solo è possibile nella vita ascetica, alla purezza di ideali e allo stile avvincente.

In Ispagna va menzionato San Bachiario (†425), che abbracciò il monachesimo itinerante, autore del De Fide e del De Lapso, quest’ultimo di chiara matrice tertullianea, ciprianea e gerolamina.

Nel Norico invece operò San Severino (410-482), evangelizzatore, monaco presumibilmente di formazione orientale sebbene latino, poi abate e taumaturgo, la cui biografia fu scritta dal discepolo Eugippo (465 ca-dopo il 563), autore anche di una silloge agostiniana, di lettere e di una Regola monastica.

In Irlanda, San Patrizio (†461/492), proveniente dalla Britannia come vescovo missionario ma che aveva conosciuto la Gallia e l’Italia, non solo fondò la Chiesa insulare ma le diede quella fisionomia monastica che la rese unica, per un influsso britannico innestatosi sulla tradizione di Patrizio e gettando le basi del primato degli Abati sui Vescovi che contraddistinse a lungo il Cristianesimo dell’antica Hibernia. Patrizio scrisse la Confessio sulla sua vita e i suoi Dicta furono diligentemente raccolti. Dall’Irlanda, dove questo modello si andava anch’esso sviluppando proprio, si dipanò l’influenza di San Brendano (460/484-567/583), a cui viene attribuita una mistica Navigatio nell’Oltretomba scritta in realtà nel X sec.; di San Finniano (470-549/552), autore forse di un Penitenziale; di San Comgall (516-622) e di San Colombano il Vecchio (521-597). Egli fu l’Apostolo della Scozia.

L’ETA’ DI SAN BENEDETTO

Dal V al VII sec. il monachesimo latino conosce un ulteriore sviluppo. Vi contribuiscono molti autori che abbiamo citato, da Fulgenzio a Gregorio Magno a Cesario a Cassiodoro a Isidoro e Vincenzo di Lerino.

In Italia gli Apophtegmata dei Padri Egiziani sono tradotti in latino come Verba Seniorum da diversi autori, tra cui i futuri papi Pelagio I (556-561) e Giovanni III (561-574). In Italia venne scritta la Regula Orientalis, attribuita ad un certo Vigilio altrimenti sconosciuta, nel VI sec. Nello stesso secolo è composta la Regula Magistri, anonima, all’incirca tra il 500 e il 530, utilizzando la letteratura apocrifa, la Bibbia, le opere di Giovanni Cassiano, di Cipriano.

Le è posteriore la Regola di San Benedetto da Norcia (4807490-550/560), tre volte più breve e senza riferimenti significativi agli apocrifi, in ossequio al Decretum Gelasianum de libris recipiendis et non recipiendis, scritto agli inizi del secolo VI. La Regola Benedettina è la Magna Charta del Monachesimo latino. Ha le medesime fonti di quella detta Magistri, ma attinge anche alle Vite dei Padri, alla Regola basiliana, a quella pacomiana, alla Historia Monachorum e alla Regola di Agostino. San Benedetto, dopo aver studiato a Roma da ragazzo, fece l’eremita a Subiaco e raccolse attorno a sé tanta devozione da avere discepoli da lui gestiti attraverso dei cenobi di tipo pacomiano. Alla fine, per realizzare il suo modello di perfezione, fondò il monastero di Montecassino dove morì. Alla sua opera collaborò la sorella Santa Scolastica (480-547), che fu la madre del monachesimo femminile benedettino. La Regola benedettina è rigorosamente cristocentrica, perché il monaco entra in monastero solo per servire nella militia Christi e compie i doveri di obbedienza e di carità solo per amore di Cristo, a Cui ambisce a somigliare nella sofferenza e nelle virtù. La pratica liturgica ha lo scopo di assicurare questa centralità di Gesù nella vita dei monaci, mediante la lettura della Parola di Dio e la stabilità della sede. La comunità monastica, destinata a trascorrere insieme tutta la vita, deve praticare la carità fraterna per raggiungere questo scopo. Il connubio tra lavoro e preghiera fu nella Regola davvero demiurgico: diventando dovere religioso, il primo espresse le aspirazioni più profonde della seconda e permise una evangelizzazione che fu anche civilizzazione del presente e del futuro.

Una certa influenza fu esercitata sul monachesimo italiano da quello iro-scozzese, quando nel nostro Paese giunse San Colombano il Giovane (543-615), la cui rigida Regola si irradiò dal monastero di Bobbio da lui fondato e solo nell’VIII sec. fu soppiantata del tutto da quella di San Benedetto. San Colombano, monaco e primo maestro a Bangor in Irlanda, intraprese la peregrinatio pro Christo e abbracciò il monachesimo itinerante a scopo missionario. Passato nelle Gallie, scrisse per i monasteri da lui fondati ad Annegray, Luxeuil e Fontaine la Regula Monachorum – sugli atteggiamenti fondamentali del monaco – e la Regula Coenobialis – sulle penitenze per i trasgressori della precedente. In quella si scorge il tratto fondamentale, serio, rigoroso, intimista del monachesimo di Colombano, ordinato minuziosamente e dedito alla preghiera. Il magistero colombaniano fu prevalente nei Regni franchi, fino a quando la Regola originaria fu contaminata con quella benedettina. Come dicevamo, Colombano si portò anche in Italia e anche qui esercitò il suo benefico influsso. A lui peraltro si dovette la diffusione della confessione auricolare e del suo sistema più umano di penitenze. A Colombano si deve una celebre Preghiera, diciassette Sermoni, sei Lettere e cinque componimenti poetici.

In Gallia, oltre a Colombano e a Cesario, esercitarono influenza diverse regole anonime: quella dei Quattro Padri, la Seconda Regola, la Terza Regola, mentre non va sottovalutato l’apporto di Sant’Aureliano di Arles. Sono regole miste, ossia che usano ampie parti di regole precedenti, quella Ferioli, Tarnatensis, Pauli et Stephani. Merita di essere citata la Regola di San Ferreolo di Uzès (553-581) e quella di San Donato di Besançon (624-660), entrambe influenzate da quelle di Cesario.

In Ispagna, oltre a Martino di Braga già menzionato, svolsero una importante funzione per lo sviluppo del monachesimo Sant’Eutropio di Valenza (†610), autore del De Discrictione Monachorum, e San Leandro di Siviglia, autore del De Institutione Virginis, per la sorella Florentina, nella quale echeggia Girolamo, Cassiano e Agostino. Lo stesso Sant’Isidoro scrisse una Regola, chiara armoniosa ponderata e strutturata, che echeggia Pacomio, Macario, Cassiano, Gerolamo, Cesario e Benedetto. Altri autori di Regole furono San Giovanni di Gerona († prima del 621) e San Fruttuoso di Braga (†665), che scrisse una Regola dei Monaci e forse anche una Regola detta Comune, per quelli che praticavano il monachesimo con tutta la famiglia unendosi ad altri col medesimo ideale.

In Anglia e in Caledonia si distinsero, specie per la realizzazione di una Chiesa monastica, sant’Illtud Abate (480-540) e i suoi discepoli San Davide di Menevia (512-601), San Sansone di Dol (465-595), San Gildas (494-570), autore del De Excidio et Conquestu Britanniae (la più importante fonte storica sulla Britannia in età barbarica) e di alcuni Canoni di Disciplina.

SAN BEDA IL VENERABILE

Fu il maggior teologo monastico d’Occidente. Nacque nel 673 circa, fu diacono, presbitero e monaco. Per cinquant’anni visse in monastero a Wearmouth. Fece solo tre viaggi nella sua vita e morì nel 735. Fu il massimo enciclopedista del suo tempo e l’ultimo vero rappresentante della Patristica classica latina, scrivendo ancora in una lingua che almeno nel suo paese era viva e con uno stile semplice, diretto e spoglio. Le sue opere sono di quattro generi.

Le esegetiche constano di commenti al Pentateuco, ai Salmi, ai Sinottici, agli Atti. In esse il Padre segue il testo della Vulgata. Beda dedicò il grosso della sua vita allo studio biblico e le sue opere in materia sono le più numerose nella sua produzione. Egli praticò l’esegesi spirituale, ma non trascurò la letterale, della quale si servì per quella allegorica, anagogica e morale. In esegesi come del resto in teologia Beda echeggiò Agostino, Girolamo, Ambrogio e Gregorio. Condivise l’idea agostiniana che fosse bene che molti scrivessero opere in cui attestassero in modi differenti la medesima interpretazione del testo sacro e la stessa tradizione del dogma, per cui nei suoi scritti mescola l’autorità degli antichi con considerazioni sue proprie. Per questo magistero egli fu stimato dai contemporanei e San Bonifacio lo considerava tra i massimi esegeti della Scrittura mai esistiti.

Le opere storiche di Beda sono insostituibili per la conoscenza della storia britannica. Del resto Beda fu il massimo esponente della cultura celtica britannica e irlandese. La sua Historia Ecclesiastica Gentis Anglorum va da Cesare al 751 e contiene notizie e documenti fondamentali sull’argomento. Di minore rilievo l’Historia Sanctorum Abbatum Monasterii in Wiremutha et Gyrvum, nonché la Vita, sia in versi che in prosa, di San Cuthberto.

Le opere grammaticali e scientifiche sono il frutto del suo insegnamento e abbracciano tutto il Trivio e il Quadrivio. Vi annoveriamo il De Metrica Arte, il De Ortographia, il Liber de loquela per gestis digitorum, il De Schematibus et Tropis, il De Temporibus, il De Temporibus Ratione, il De Ratione Computi e il De Rerum Natura, quest’ultima vera enciclopedia di modello isidoriano ma più ampia e sistematica, vertente su storia, geografia e scienza.

Vero canale di trasmissione del sapere classico al Medioevo, egli più di Boezio fu ultimo classico e primo scolastico e può essere paragonato a Giovanni Damasceno per il ruolo svolto nella cultura mediolatina a confronto di quello del Padre siriaco in quella mediogreca. Fu maestro di Alcuino a cui trasmise la cultura che servì al Rinascimento carolingio e fu considerato una delle autorità teologiche maggiori dagli Scolastici. Beda fissò in modo chiaro i quattro sensi della Bibbia: letterale, allegorico, morale e antropologico, soffermandosi su questo tema nel De Tabernaculo et vasis eius. Egli dimostrò la superiorità letteraria della Bibbia su tutti i capolavori della classicità nel De Schematibus. Fu un critico testuale attento che operò mediante il confronto delle varie recensioni. Riconobbe l’importanza dell’intelligenza spirituale della Scrittura senza lasciarsi sedurre da un eccesso di allegorismo. Per Beda tutta la Bibbia è piena di figure, anche nei nomi e nelle posizioni spaziali, ed è ripiena di misteri tipici neotestamentari nel Vecchio Testamento. Bisogna evitare tuttavia di esercitare l’esegesi traslata a discapito del senso storico del testo sacro. La sua teologia sapienziale era il nutrimento che propinava ai suoi monaci e la realizzazione del suo ideale di vita, per cui il monaco deve stare quieto tra le mura del monastero e servire Cristo con sicura libertà, attraverso una contemplazione di cui la scienza è una manifestazione. E’ questa una salubre vita teologica, che inizia in terra e continua in Cielo.

VESTIGIA LITURGICA

Breve introduzione ai testi liturgici dei Padri

La Liturgia è, come ho detto altre volte, una delle manifestazioni più importanti della Tradizione. Sebbene non sia nostro compito trattare del suo sviluppo storico, siccome molti suoi testi sono collegati alla Patristica, è opportuno fare cenno a questi ultimi onde rendere più esauriente la trattazione dell’argomento.

TESTI LITURGICI TRA I E III SEC.

Sono le opere stesse dei Padri Apostolici, come la Didakè o il Pastore di Erma o le Lettere di Ignazio di Antiochia, ad informarci della vita liturgica del I sec. Se l’uso della Bibbia era prescrittivo, le regole per le orazioni erano molto elastiche e lasciavano spazio alla creatività.

Nel II sec. le fonti sono gli Apologeti come Giustino la nostra fonte privilegiata. Tra le Orazioni liturgiche, l’Anafora tende ben presto a precisarsi in una formula invariabile o in un riassunto descrittivo del suo contenuto.

Una fonte importante del III sec. è la Didascalia Siriaca, scritta in greco sulla scorta di tradizioni fatte risalire al Concilio di Gerusalemme e poi tradotta in siriaco e latino, accanto alle notizie date dai Padri come Tertulliano o Ippolito nella Traditio Apostolica. Il secondo è assai importante per la conoscenza della liturgia in uso a Roma, che era ancora in greco. La Depositio Martyrum, è il primo calendario dei martiri della Chiesa Romana e risale al III sec.

TESTI LITURGICI TRA IV E V SEC.

La differenziazione delle liturgie avviene a partire dal IV sec. come conseguenza sia della formazione di grandi circoscrizioni patriarcali di origine apostolica sia della necessità di ridurre l’arbitrarietà delle celebrazioni sottraendola ad infiltrazioni ereticali. L’emancipazione del Cristianesimo favorì l’inculturazione etnica e locale contribuendo a questo processo, nel corso del quale anche le Chiese nestoriana e precalcedonesi si diedero una loro liturgia.

Il nucleo più antico della liturgia d’Oriente è la Liturgia Apostolica della Siria Orientale, giunta a forma compiuta in siriaco nel V sec. e rimasta rito ufficiale per le Chiese Assira, Caldea e Malabarese. Tra i suoi testi citiamo le Anaphorae Syriacae.

La Liturgia di Giacomo, nata a Gerusalemme sulla scorta della Tradizione risalente a questo Apostolo ed attestata da Cirillo di Gerusalemme e da Girolamo, fornì il formulario di base alla Liturgia della Siria occidentale, nota per la sua ricchezza di anafore. Essa divenne il rito della Chiesa Siriaca ed è già sviluppata nel V sec. quando la riscontriamo nell’anonimo Testamentum Domini nella versione siriaca.

Ad Antiochia nacquero anche la Liturgia Clementina attestata dalle Constitutiones Apostolicae attribuite allo Pseudo Clemente Romano e la siriaca Anafora dei XII Apostoli. Questa a sua volta fu il modello della Liturgia di San Giovanni Crisostomo, nata anch’essa in Antiochia prima del Concilio di Efeso e risalente appunto al magistero del grande Padre, anche se così denominata solo dal X sec.

La Liturgia di Marco è il formulario più antico dell’Egitto, attestato dal IV sec. e risalente alle tradizioni dell’Evangelista. Essa influenzò l’Euchologion di San Serapione ed è il rito ufficiale della Chiesa Copta, che la definisce Liturgia di Cirillo, in riferimento al fatto che il gran Patriarca l’usò e la regolò.

In Asia Minore nacque la Liturgia di San Basilio (che rielaborò il rito di Cesarea) e in Siria quella di San Gregorio di Nissa, che poi influenzarono il rito copto. Questo passò agli Etiopi che lo tradussero e lo arricchirono di numerose anafore.

I formulari di Basilio e di Giovanni Crisostomo sono alla base della Liturgia bizantina. Nestorio rielaborò il secondo, giunto nella capitale prima del Concilio di Efeso. Il formulario basiliano ebbe predominanza rispetto al secondo. La liturgia bizantina fu la più diffusa anche perché fu adottata dagli Slavi perché tradotta essa stessa in paleoslavo.

Queste liturgie hanno un senso mistico e anagogico altissimo: esse vogliono partecipare al rito perenne celebrato in Cielo dagli Angeli, si sviluppano con un cerimoniale misterico in forma drammatica, danno rilievo alle azioni salvifiche del Redentore e all’onnipotenza del Logos divino, diventano immagini e simboli della verità dell’opera salvifica realizzata nella storia, specialmente dalla Risurrezione. Ciò è attestato esplicitamente sia da Giovanni Crisostomo sia da Teodoro di Mopsuestia.

In Occidente in origine esisteva una formula liturgica soltanto, basata sul latino. Da essa si differenziò per prima proprio la Liturgia Romano-africana e poi la Liturgia Gallicana. Questa ebbe diversi sottotipi: la Liturgia spagnola antica, la Liturgia Ambrosiana, la Liturgia Gallica antica e la Liturgia Celtica. Fu poi influenzata dai riti orientali. Il rito gallicano ha un ordinamento unitario della Messa, preghiere poco diverse, formulari domenicali e per ogni festa, nessun canone fisso. Le sue preghiere sono diverse da quelle più antiche: il Prefazio è supplice e non di ringraziamento, ad esempio. Lo stile orante è prolisso e patetico, mentre la sontuosità riflette le citate influenze d’Oriente, come la Presentazione dei Doni prima della Messa stessa. La controversia ariana ha influenzato la Liturgia gallicana nei suoi tipi e sottotipi perché essa ha preghiere rivolte direttamente a Cristo e pratica l’adorazione della Trinità in modo particolare, come nel rito bizantino. Invece la Liturgia Ambrosiana è più influenzata dalla Romana, perché ai tempi di Ambrogio adottò il Canone di quest’ultima.

La Liturgia Romana ha una origine greca ma comincia ad essere tradotta in latino dal III sec. e nel 370 circa ha il canone in questa lingua. La sua grande caratteristica è il riferimento alla Mediazione di Cristo, per cui le sue dossologie si concludono sempre con la formula Per Christum Dominum Nostrum.

I TESTI LITURGICI TRA V E VII SEC.

E’ questo un periodo importante specie per la Liturgia Romana, che raggiunge la configurazione definitiva. Abbiamo tre grandi Sacramentari di quest’epoca.

Il primo è il Sacramentarium Leonianum o Veronense, detto così perché attribuito a Leone Magno e in quanto il suo codice più antico è di Verona. Fu un compendio di singoli opuscoli separati, contenenti diversi formulari di Messe per le medesime feste del Signore e dei Santi. Tali opuscoli erano le trascrizioni delle varie orazioni composte di volta in volta dai Papi per quelle feste e poi conservate in Laterano. Il Sacramentario va da aprile a dicembre perché la parte iniziale è perduta. Qua è là l’intento erudito che è alla base della compilazione tradisce sviste di carattere cronologico, identificando erroneamente feste e orazioni differenti tra loro. Ciò fa dubitare che sia opera di un presbitero romano.

Il secondo è il Sacramentarium Gelasianum, attribuito a papa Gelasio I, nella sua forma giuntaci proviene dalla Gallia, nella quale a sua volta era stato importato dopo aver assunto una struttura definitiva ai tempi di Gregorio Magno. Tale struttura ebbe tuttavia nelle Gallie altre integrazioni. Ogni Messa gelasiana ha due o tre orazioni, non da scegliere ma da recitarsi insieme, e suppone più di due letture. E’ diviso in tre libri: il Proprio del Tempo, dei Santi e le Messe Votive.

Il terzo è il Sacramentarium Gregorianum, realizzato da Gregorio Magno ma edito una prima volta da Onorio I (625-628) e nella sua forma definitiva da San Gregorio II (715-731), il quale raccomandò che i riti romani si adottassero in tutto l’Occidente. Esso è detto Hadrianum nella redazione che papa Adriano I (772-795) inviò nell’Impero Carolingio dove fu poi completato per le Messe domenicali, e Paduense in quella forma che, redatta nel Sacro Romano Impero, giunse a Verona dove vi fu aggiunta la Messa di San Zenone e poi fu rinvenuto a Padova. I formulari del Gregoriano contengono fino a tre orazioni e qualche volta una in più a scelta, hanno prefazi concisi, hanno stile chiaro lucido e comprensibile, sono disposti in ordine cronologico per i vari giorni dell’anno e non tematico. Sono dunque chiaramente opera della mano e della mente di Gregorio Magno, che così riordinò anche da questo punto di vista la vita della Chiesa. Nel Gregoriano compare la Liturgia Stazionale Romana, mentre solo Gregorio II vi aggiunse i formulari delle Messe dei giovedì di Quaresima.

Le istruzioni liturgiche romane, assenti dai Sacramentari, sono contenuti negli Ordines Romani, redatti nel VIII sec.


Theorèin - Dicembre 2016