LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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AETAS CAROLINA

Breve introduzione ai Padri dell’Età carolingia

TRA DUE EPOCHE

Avendo deciso di considerare il periodo fino a San Bernardo ancora come Patristica, ci accingiamo a entrare in un’ epoca tutta nuova. Il Medioevo di solito viene fatto iniziare con la Caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476, ma in realtà quella data non significò nulla per i contemporanei. Poco significa anche la divisione tra Alto Medioevo (476-1099) e Basso Medioevo (1100-1492), in quanto la cesura del XII sec. non indica niente di importante. Da un punto di vista storico i mille anni medievali dell’Occidente possono essere divisi agevolmente in quattro epoche (Età barbarica [476-752], Primo Medioevo [752-1050], Alto Medioevo [1050-1190], Basso Medioevo [1200-1350], corrispondenti a quattro fasi di civiltà diverse, la prima di grande regresso, la seconda incentrata sulla rinascita carolingia, la terza su quella posteriore al Mille e la quarta legata alla fioritura del Medioevo classico), l’ultima delle quali trapassa, almeno centocinquanta anni prima della data scolastica, nell’epoca dell’Umanesimo che si configura come autentica chiave che apre la porta della Modernità. Questa periodizzazione ben si addice alla Storia della Chiesa e tutto sommato anche a quella del pensiero teologico. Essa peraltro non è congruente con il Medioevo greco, dove gli eventi giustificano ben altra periodizzazione (Età romano-orientale [410-800], Età aurea bizantina [800-1170 ca.], Età mediana [1170-1204], Età della Dominazione crociata [1204-1261], Età della rinascita e della decadenza [1204-1456]), e con essi anche la scansione interna della storia della Chiesa viene diversificata. Tuttavia la prospettiva da cui narreremo sarà soprattutto occidentale, quindi seguiremo la prima periodizzazione, specificando tuttavia quel che è peculiare per la storia del pensiero teologico.

La prima cosa che va detta è che nell’VIII sec., se proprio non finisce la Patristica, senz’altro termina la fase greco-romana della teologia e quindi anche dei Padri. Sebbene assai diversificato al suo interno tra le regioni barbariche dell’Occidente e quelle civili d’Oriente (a loro volta divise tra la bizantinocrazia e l’islamocrazia), l’universo greco-romano era rimasto religiosamente unito e fino all’avvento del Rinascimento Carolingio esso mantiene in modo uniforme ovunque le stesse coordinate mentali. Nei secoli dal I all’VIII i popoli cristiani appartengono ad una sola Grande Chiesa – eccettuate le Chiese etniche precalcedonesi e nestoriane che pure ne subiscono l’influsso – obbediscono ad un solo Imperatore e quindi hanno una sola teologia.

In questa età avviene la prima grande inculturazione del Cristianesimo, quella nel mondo greco-romano, talmente feconda da essere diventata paradigmatica e normativa per le epoche successive. Una inculturazione che non fu una semplice ellenizzazione, ma piuttosto una appropriazione, da parte del Cristianesimo, di concetti, temi, argomenti, stili e quant’altro ad esso necessario, spesso facendo loro assumere significati completamente nuovi. Se il Cristianesimo si ellenizzò, la Classicità si cristianizzò.

Tramite questo connubio, il Cristianesimo si rinvigorì culturalmente e la Classicità tramandò ai posteri il meglio di sé; su di esso si edificarono due civiltà: la mediolatina e la mediogreca, a loro volta tronconi su cui germogliano le culture delle varie nazioni europee d’Occidente e d’Oriente, che si sono diffuse in tutto il mondo. La Patristica prese dalla filosofia greca l’attitudine sistematica e creò la teologia come scienza trattatistica e non solo come procedimento narrativo; i metodi e i temi della cultura classica diedero alla Chiesa la possibilità di precisare la sua dottrina, di sconfiggere le eresie e di ampliare i suoi padiglioni. I grandi dogmi della Fede, solennemente scaglionati in Sette Concili Ecumenici a cui fanno da corollari ed interludi numerosissime dispute, furono definiti proprio in questo periodo con l’ausilio di menti illustrissime. In questo periodo vi fu una perfetta sinfonia tra la Tradizione, espressa magistralmente dai Padri, e il Magistero che definiva le verità, avendo sullo sfondo la Scrittura il cui senso appariva chiaro nell’uniforme interpretazione che ne veniva data a scapito degli assalti ereticali. Questi Padri, come insegna l’Istruzione sullo studio dei Padri della Chiesa della Sacra Congregazione per l’Educazione Cattolica del 1990, promulgata per volontà di San Giovanni Paolo II (1978-2005), nonostante siano greci, latini, copti, siriaci, armeni, rimangono innanzitutto cattolici, ossia universali, perché universale è il loro insegnamento e soprattutto sempre attuale ed indispensabile per comprendere i contenuti della Fede. Essi sono appunto i pilastri della Tradizione, gli artefici di una cultura che è ancora viva e che non ha avuto soluzioni di continuità.

Nell’epoca successiva, questa cattolicità si mantiene e si diversifica. Si mantiene, perché ancora tantissimi autori sono normativi per i secoli a venire ed uniformemente per tutto il mondo dell’epoca. Si diversifica, perché più netto è lo scollamento e progressivo tra Oriente e Occidente, nonché tra Oriente greco e quello delle Chiese etniche precalcedonesi. Si diversifica altresì perché, attraverso alcuni secoli di travaglio e di crisi, legati alle mutate condizioni politiche e sociali in tutto il mondo mediterraneo, quella cattolicità deve smettere di esprimersi nelle forme patristiche classiche per assumere quelle cosiddette scolastiche, specifiche della civiltà medievale, sia greca che latina.

Le prime avvisaglie si erano avute già con Giovanni Damasceno e con Beda il Venerabile, sia in Oriente che in Occidente. Attraverso la mediazione della teologia monastica, la Patristica trapassa nella Scolastica, che in realtà copre tutta la storia del pensiero filosofico e teologico dall’VIII al XIV sec. La Scolastica prende questo nome dal fatto che essa veniva insegnata soprattutto nelle Scuole, sia abbaziali che cattedrali nel Medioevo anteriore al Mille e specialmente a partire dall’epoca di Carlo Magno – che estese a tutta Europa questa tradizione mai persasi in Italia e nell’Anglia cristianizzata dai missionari di Gregorio Magno – e poi nelle Università dall’XI sec. in poi. Tuttavia l’appellativo “Scolastica” le si addice ancor più per la natura del sapere che trasmette: un sapere rivelato, che è insegnato dal Verbo e in Suo Nome dagli Apostoli e dai loro Successori; un sapere custodito dalla Tradizione e dalla Bibbia, che non può essere modificato e tantomeno discusso a piacimento, incentrato su Dio dal Quale trae tutto quanto gli è necessario non solo per sé, ma per l’edificazione della società cristiana in terra.

Il frutto della Scolastica è quello più maturo dell’albero medievale: periodo che nella sua fioritura (dalla metà dell’XI sec.) raggiunse vette di abbagliante splendore di civiltà – a dispetto delle calunnie degli Umanisti, degli Illuministi, dei Positivisti e dei laicisti – esso ha conservato il meglio del suo pensiero per i posteri proprio attraverso quella elaborazione teologica e filosofica. Se per il Medioevo cristiano è nata la cultura dell’Europa cristiana, senza la quale oggi non avremmo la civiltà come la intendiamo, per la Scolastica è nata la teologia moderna e contemporanea, come del resto la filosofia di queste epoche, in quanto esse, come senza i Padri, non si capirebbero senza i Dottori scolastici.

In questa secolare avventura intellettuale, che almeno fino alla metà del XII sec. è ancora di tutto il mondo cristiano unito e che perciò è Patristica nel senso ampio del termine, noi distinguiamo almeno tre fasi: quella Prima (dal IX al XII sec.), quella Grande (il XIII sec.) e l’Ultima (il XIV sec.). Nella Prima fase, che è pure quella che ci interesserà per completare la storia teologica del Primo Millennio, abbiamo almeno quattro sottofasi, corrispondenti all’età carolingia, alla feudale, a quella dell’XI sec. e a quella del XII.

CARATTERI GENERALI DELL’ETA’ CAROLINGIA

Possiamo parlare di età carolingia e, conseguenzialmente, di teologia carolingia, per un determinato contesto politico, culturale, sociale ed economico, nonché religioso, che è appunto quello determinato dall’azione di Carlo Magno ([768] 800-814). Il grande Imperatore fondò l’Occidente, portandolo fuori dalle nebbie dell’età barbarica e liberandolo dalla soggezione intellettuale verso il mondo bizantino. Egli, che a giusto titolo si considerava il legittimo successore dei Cesari sia perché padrone di Roma sia perché Bisanzio era usurpata dall’imperatrice Irene (797-802), riprese il modello teocratico costantiniano-giustinianeo, ma lo adattò alla mentalità occidentale e latina, convivendo col Primato petrino, evitando di avocare all’autorità imperiale le questioni dottrinali irrisolte o di sollevarne di nuove e fondando così un paradigma regale e sacrale che non a caso fu detto “teocrazia carolingia”. Impegnatissimo nell’espansione evangelizzatrice della Chiesa, nella riforma dei costumi del clero dei religiosi e dei laici, nell’organizzazione ecclesiastica, nella cristianizzazione delle leggi e della società, Carlo sentì anche il dovere di rilanciare tutta intera la vita culturale. Sebbene analfabeta, l’Imperatore ordinò, col Capitulare de Scholis del 799, che presso ogni diocesi e abbazia – la cui provvista canonica spesso spettava a lui stesso per il patronato regio e per il sistema delle Chiese proprie – sorgessero delle Scuole per la formazione del clero e dei laici, che però le frequentarono molto meno. Nacquero anche scuole parrocchiali e arcipretali, specie nelle campagne. In esse si alfabetizzava la popolazione, mentre nelle migliori si impartiva l’insegnamento delle discipline del trivio e del quadrivio, a loro volta propedeutiche allo studio teologico, considerato il vertice della formazione. Come si vede, la scuola carolingia riprese il programma educativo di Cassiodoro.

Quasi come università, sorsero poi presso la Corte di Aquisgrana, la Nuova Roma, una Scuola e una Accademia, entrambe palatine, la prima per la formazione del personale di corte, la seconda per quella dell’alto clero e degli alti burocrati dello Stato. Alle lezioni di questi organismi spesso partecipava lo stesso Imperatore, sebbene non abbia mai imparato a scrivere. I maestri, di cui la scuola franca aveva tanto bisogno – l’attività letteraria si era quasi completamente fermata nei secoli VII-VIII nelle Gallie ed in Germania – furono reclutati anche oltre i confini dell’Impero, e tra essi si distinsero sia gli Italiani (ossia i Romani, ancora etnicamente consapevoli della loro distinzione dai barbari sia Franchi che Longobardi) sia gli Anglosassoni, approdati sul continente per volontà esplicita di Carlo.

Questa scuola carolingia svolse un compito immane, di capitale importanza per la storia della cultura. Il latino era stato completamente dimenticato in Occidente, con l’eccezione dell’Italia e delle Isole Britanniche, e anche qui aveva subito trasformazioni morfosintattiche che avevano bisogno di essere codificate. La grande impresa di rialfabetizzazione fu quella di ricreare le leggi stesse della lingua scritta e parlata, che ormai per la maggioranza della popolazione, compresa quella colta, era una lingua non viva ma veicolare, un poco come l’inglese odierno. La morfologia, la grammatica, la sintassi furono riscritte, sulla base delle modificazioni occorse e sulla base delle trasformazioni che sembravano più corrette agli intellettuali che svolsero l’impresa. Con questo nacque il latino medievale, come operazione a tavolino, che spezzò l’evoluzione naturale della lingua che tuttavia non avrebbe potuto sopravvivere diversamente proprio perché quasi completamente scomparsa. Con questo strumento linguistico – privo di riscontri contemporanei perché tra il VII e l’VIII sec. anche in Oriente il latino era stato soppiantato dal greco bizantino negli atti pubblici – l’età di Carlo Magno forgiò il suo rinascimento: poesia, drammaturgia, storiografia, filosofia, scienza e teologia conobbero una ripresa importante e per certi aspetti sorprendente. Quel latino fu anche la rinnovata lingua cancelleresca, sia papale che imperiale, e giuridica. Ovviamente non tutte le discipline rifiorirono in modo originale, ma dall’età carolingia l’Europa non conobbe più un eclisse completo della propria lingua dotta né un oblio indifferenziato di tutte le discipline, anche dopo che la terza ondata delle invasioni barbariche del primo millennio ebbe distrutto il Sacro Romano Impero. Quel latino fu il basamento di un edificio culturale che, per la prima volta, aveva come sua unica struttura la religione cristiana, pur utilizzando ampiamente quella parte del patrimonio classico che gli era giunto – ossia quasi tutto quello dell’Occidente e pochissimo di quello greco. Non a caso la disciplina più prepotentemente rinata dalle nebbie dell’oblio in questo periodo fu proprio la teologia. Nutrita di pochissima filosofia greca (si conosceva solo parte della logica aristotelica), essa seppe tuttavia alimentarsi di quella latina e cristiana, che ne aveva metabolizzato una larghissima parte, e pure suscitò accanto a sé una filosofia carolingia.

I centri di irradiazione della cultura teologica carolingia furono essenzialmente quattro: l’Accademia palatina di Aquisgrana, le Abbazie di San Martino a Tours e di Corbie e lo Studium di Orlèans. Da esse venivano gli input che animavano il dibattito teologico nelle scuole abbaziali, di gran lunga migliori di quelle impiantate nelle città. Tra esse ricordiamo quelle di Bobbio, Montecassino, Verona, San Gallo, Lione, Saint-Riquier, Fleury, Reichenau, Fulda, Corvey, Lorsch e Magonza.

Il metodo teologico carolingio consistette essenzialmente nella lettura, interpretazione e commento della Sacra Scrittura. L’esegesi avveniva secondo i quattro sensi classici della Patristica: letterale, allegorico, morale ed anagogico, quest’ultimo orientato a sviluppare la speranza dei beni celesti. La Sacra Scrittura era interpretata secondo gli insegnamenti delle autorità: la Tradizione testimoniata dai Padri – specialmente Agostino, Girolamo, Ambrogio e Gregorio Magno – e dal Magistero ecclesiastico. Ai Padri si ricorre essenzialmente per ragioni esegetiche e assai raramente per questioni dogmatiche. Non li si legge direttamente ma attraverso flores, deflorationes, excerptationes, ossia sillogi e antologie, come del resto nell’età precedente. Le maggiori antologie patristiche furono il De Luminaribus Ecclesiae dello Pseudo-Beda, le Beati Augustini Sententiae de Praedestinatione e i Collecta ex sententiis Patrum di Floro, nonché la silloge di mille estratti da centocinquanta opere fatta da Incmaro di Reims nel suo terzo trattato sulla predestinazione.

Nel Rinascimento carolingio il patrimonio classico e patristico viene riscoperto, riassimilato e usato per un processo di rinnovamento. I teologi carolingi, come Clemente di Alessandria, Gregorio di Nazianzo e Agostino, ritengono che i cristiani debbano prendere dalla cultura classica tutto quanto di vero vi sia e di utile vi possa essere per essi, orientandola alla conoscenza del Vero Dio. Vi fu dunque nell’età di Carlo Magno una nuova, originale, sana, ortodossa, eloquente e ricca inculturazione del Cristianesimo, anche se meno profonda e forte di quella greco-romana. Era quella romano-germanica. O almeno la sua prima forma. Fedelissima alla Rivelazione e al Magistero.

ALCUINO DI YORK

Nato a York nel 735 da nobile famiglia, educato nella scuola cattedrale della sua città, fu monaco e sacerdote; divenuto direttore della sua stessa scuola, divenne tanto celebre che Carlo Magno, avendolo conosciuto a Parma nel 786, lo chiamò ad Aquisgrana a guidare la Scuola Palatina. Divenne così il ministro della cultura dell’Imperatore. Influì più di ogni altro su di lui nelle questioni spirituali e intellettuali, presiedette moralmente il cenacolo ristretto dei grandi dotti carolingi (Pietro da Pisa [735-799], che fu grammatico e di cui quindi qui non parleremo, Paolino di Aquileia e Paolo Diacono, che invece hanno un posto in quanto segue) e pianificò l’attività culturale dell’Impero, preparando la correzione dell’ortografia e della pronunzia, la ripresa della grammatica classica per quanto possibile, l’ammodernamento dei libri di scuola e l’approfondimento della conoscenza degli antichi autori. Nel 796 fu eletto abate di Tours, dove fino alla morte, avvenuta nell’804, egli diresse la scuola di emendazione ed edizione testuale da lui fondata colà.

Alcuino influì direttamente sui tre secoli successivi al suo con la sua azione culturale. Distinse sistematicamente le Sette Arti Liberali del trivio e del quadrivio teorizzandone e praticandone l’applicazione agli studi biblici e patristici, nonché approfondendone molti problemi. Nel dialogo De Virtutibus Alcuino asserì che la coltivazione delle scienze, delle arti e delle lettere è di per sé una cosa meritoria che i cristiani sono tenuti a fare, sia elaborandone di proprie sia conservando quelle degli antichi, anche se pagani, estrapolando da esse quanto necessario per la comprensione e il servizio della Fede. Il maestro si poneva quindi nella scia del progetto intellettuale del De Doctrina Christiana di Agostino. Platonicamente, l’Anglosassone diceva che i dotti non avevano creato le loro discipline né tantomeno le loro verità, ma le avevano solo scoperte, in quanto Dio stesso le aveva poste nel Creato perché venissero svelate.

Il progetto educativo di Alcuino era modellato su quello delle Scuole anglosassoni, la cui organizzazione fu il modello di quella delle loro omologhe carolingie. Esso prevedeva lo studio dell’uomo, tramite grammatica retorica e dialettica, della natura, mediante aritmetica astronomia geometria musica, e di Dio, attraverso la teologia.

Alcuino scrisse il De Ratione Animae, riecheggiando fiaccamente e con poca originalità temi platonici ed agostiniani; fu mediocre poeta (tra le sue opere il De Regibus et Sanctis Eboracensis Ecclesiae e il De Clade Lindisfarnensis Monasterii) e filosofo di scarso valore; anche come teologo fu poco originale; il suo talento fu quello dell’uomo di scuola, sia come organizzatore che come autore di manuali, per cui si mosse sulla scia dell’esempio del Venerabile Beda: il De Grammatica, che attingeva a Prisciano, Donato ed Isidoro; il De Ortographia, che riprendeva il Venerabile Beda; il Dialogus de rethorica, modellato su Cicerone; il De Dialectica, che aveva come fonti Boezio ed Isidoro. La sua maggiore opera teologica è il De Sanctae et Individuae Trinitatis, in cui confuta l’adozionismo di Felice di Urgel (†818) e di Elipando di Toledo (†817), i quali distinguevano in Cristo tra il Figlio adottivo in quanto Uomo e il Figlio proprio in quanto Dio, con una formula che, sebbene in sé fosse ortodossa, fuori della Spagna poteva suonare nestoriana. A questa formula Alcuino contrappone quella di Uomo Assunto dal Verbo. L’eresia adozionista sarebbe stata condannata nel Concilio di Francoforte del 794 con l’approvazione di papa Adriano I (772-795) e poi da papa san Leone III (795-816). Sempre nella stessa opera Alcuino dimostra la Processione dello Spirito Santo dal Padre e dal Figlio. Scrisse altresì di astronomia, musica, esegesi biblica, missionologia, diritto e matematica.

SAN TEODULFO DI ORLẾANS

Alcuino ebbe diversi collaboratori: Giuseppe Scoto, morto in un anno imprecisato tra il 790 e l’804, autore di diversi carmi morali e cristiani, enigmi poetici e di una abbreviazione del Commento ad Isaia di Girolamo; Dungal, anch’egli irlandese, attivo in Italia e in Gallia nella prima metà del IX sec., autore di una Lettera a Carlo Magno sulle eclissi, di una Cronaca universale, di alcune Note astronomiche, di otto Lettere, di una Epistola in versi, di un epigramma preghiera per la cappella dei Martiri dell’abbazia di Saint-Denis a Parigi, di una poesia, dei Responsa contra perversa Claudii Taurinensis Episcopi sententias (di contenuto iconodulo), del Sermo de Translatione Sancti Syri Ticinensis Episcopi, dei dieci esametri scolpiti sull’altare d’oro di Sant’Ambrogio a Milano e del suo stesso epitaffio, curatore a Saint-Denis di una biblioteca patristica e poetica i cui codici revisionò spesso personalmente e di argomento prevalentemente esegetico, innografico, epigrammatico ed epigrafico; Beornrad, morto nel 797, abate di Echternacht e Arcivescovo di Sens; Clemente Scoto, vissuto tra l’VIII e il IX sec., autore di una grammatica. Ma il nome più importante dei suoi discepoli fu quello di Teodulfo (760-821), visigoto in esilio dalla Spagna moresca, abate di Fleury e poi vescovo della città di Orlèans.

Egli fu immensamente colto, ebbe un buon gusto innato, un raro senso estetico, fu poeta ispirato e personale nonostante la bravura nell’imitazione dei classici come Ovidio. Fu il tipo perfetto del letterato di epoca carolingia. Ma soprattutto fu un grande teologo e lo dimostrò nella controversia iconoclastica.

Infatti, sebbene l’imperatrice Irene avesse restaurato il culto iconico col II Concilio di Nicea del 787, il fatto che non vi avesse invitato i vescovi franchi era stato avvertito come un affronto da Carlo Magno; quando poi gli atti sinodali gli furono spediti da papa Adriano I in una traduzione difettosa in cui l’adorazione e la venerazione erano confuse, tanto da sembrare che i Greci volessero fare delle icone degli idoli, l’Imperatore nel 790 incaricò Teodulfo di redigerne una confutazione dettagliata, il Capitulare de Imaginibus. Avendo poi il Papa difeso il Concilio, nel 791, sulla scorta delle osservazioni romane ma senza abdicare alle posizioni franche, Teodulfo redasse i Libri Carolini, diffusi a nome di Carlo Magno. In essi non solo il Goto difendeva l’ortodossia così come era in effetti contenuta negli Atti niceni nella loro versione originale a lui ignota, ma rigettava l’idea platonizzante e bizantina che faceva delle immagini qualcosa di consustanziale all’archetipo, patrocinando una concezione razionale dell’arte che sfociava in uno spiritualismo fondato sulla Parola rivelata, i cui simboli – l’Arca dell’Alleanza e la Croce – erano considerati di gran lunga superiori a qualunque icona.

Nei Libri, Teodulfo prese posizione anche sulla questione della Doppia Processione dello Spirito Santo, difendendo l’aggiunta del Filioque al Credo niceno-costantinopolitano fatta da Ambrogio e dal Concilio di Toledo nel 589, in chiave antiariana. Dal Simbolo visigotico tale aggiunta era entrata in quello Franco e Teodulfo lo difese come esplicazione del mistero della Trinità consostanziale in aperta polemica con i Greci che lo rifiutavano. Papa Leone III avrebbe poi autorizzato l’aggiunta del Filioque nel Credo recitato nell’Impero, ma non a Roma.

I Libri Carolini erano anche l’occasione per enunciare una concezione più rappresentativa del Concilio Ecumenico, che non poteva essere solo l’insieme dei vescovi della Pentarchia convocati dall’Imperatore romano d’Oriente, ma piuttosto l’assise di tutti i vescovi del mondo o almeno dei loro rappresentanti, che dovevano deliberare in stretta comunione col Papa, la cui Chiesa soltanto custodisce la piena Tradizione.

Sempre quei Libri rigettavano le forme esasperate della sacralizzazione dell’Imperatore in Oriente e contestavano il diritto di Irene a sedere sul soglio imperiale, mentre rivendicavano a Carlo, non solo politicamente, ma anche giuridicamente e teologicamente, la primazia augustea sul mondo cristiano, che in effetti dopo qualche anno gli sarebbe stata riconosciuta.

Accanto a questo capolavoro della teologia romano-germanica, Teodulfo scrisse anche una raccolta di testi patristici sulla Trinità, il De Ordine Baptismi, i Sermones e l’Interpretatio Missae, nonché diversi componimenti poetici come il Gloria laus et honor, in trentanove distici elegiaci. Tra le sue composizioni profane ricordiamo il poema De libris quos legere solebam, in cui sostiene l’interpretazione morale dei poeti antichi, citando i suoi amati Virgilio, Orazio, Ovidio, Lucano e Cicerone.

Teodulfo morì imprigionato ad Angers perché coinvolto nella rivolta di Bernardo (810-818) re d’Italia contro Ludovico il Pio (814-840), nell’821.

PAOLO DIACONO

Nobile longobardo nato in Friuli nel 720, il cui nome originario era Paolo Varnefrido, fu educato alla corte del re Rachis (744-749; 756-757), divenne benedettino a Civate di Monza e si trasferì a Montecassino nel 799. Entrato in corrispondenza con Carlo Magno grazie a Pietro da Pisa, ricevette incarichi culturali dall’Imperatore. Morì nel 799. Alla sua penna si deve la monumentale Historia Langobardorum, originale, precisa, profonda ed erudita, ma anche una Historia Romana, redatta in gioventù con estratti di vari autori come Girolamo, Orosio, Isidoro e Beda. Commentò con una certa originalità la Regola benedettina, fece il Compendium del lessicografo romano Festo, compose un poemetto abbecedario sulla coniugazione, la biografia di Gregorio Magno e raccolse il Grande Omiliario Carolingio. Infine compose diverse poesie, tra cui un celebre inno a San Giovanni Battista.

SAN PAOLINO DI AQUILEIA

Nacque nel Friuli intorno al 730, fu insegnante di grammatica ed ebbe la stima di Carlo Magno e di Alcuino. Fu Patriarca di Aquileia dal 787, legato di papa Adriano I al Concilio di Aquisgrana del 789 nel bel mezzo della tempesta innescata dalla difettosa traduzione degli atti del Secondo Niceno in latino, per cui alla Chiesa Franca sembrava che quella Greca fosse caduta nell’idolatria delle immagini. Partecipò ai Sinodi di Ratisbona e Francoforte mentre presiedette quelli di Cividale ed Altino in cui condannò l’eresia adozionista. Convertì i pagani della Stiria e della Carinzia. Compose il Sacrosyllabus contro Elipando, i Libri Tres contra Felicem, il Liber Exhortatorius per Enrico del Friuli, conte palatino, di argomento ascetico ma anche politico giuridico, e la Regula Fidei, in esametri, contro i negatori della Divinità di Cristo. Scrisse altresì inni, secondo il sistema ritmico, e lettere.

AUTORI MINORI DELLA PRIMA E DELLA SECONDA GENERAZIONE CAROLINGIA

L’abate goto Beato di Liébana (730-798), autore dei Commentari all’Apocalisse poi finemente miniati, ed Eterio di Osma, nato intorno al 783 e morto nel IX sec., discepolo del precedente, furono i primi a denunciare le deviazioni dell’eresia adozionista.

San Benedetto di Aniane (750-821), visigoto, fu educato alla corte carolingia e fu poi monaco benedettino a Digione. Fondò un monastero di rigoroso ascetismo, ma poi si riavvicinò all’autentico spirito benedettino promuovendo, con una nuova fondazione, il suo rinnovamento in tutto l’Impero. Benedetto, nominato supervisore di tutti i monasteri dello Stato da Ludovico il Pio, fu l’ispiratore del Capitulare institutum della Dieta dell’817 sul monachesimo e l’autore del Codex Regularum Monasticarum et Canonicarum nonché della Concordia Regularum.

Sant’Amalario di Metz (780-850), discepolo di Alcuino, vescovo di Treviri, abate di Hornbach, ausiliare di Metz e arcivescovo di Lione, fu il massimo liturgista della sua epoca, revisore e artefice dei Libri liturgici imperiali franchi, autore del Liber Officialis, con cui interpreta allegoricamente la maggior parte dei riti dell’anno liturgico, le consacrazioni, i paramenti, la Messa e le letture. Amalario aprì la controversia eucaristica della Chiesa carolingia sostenendo una triformità del Corpo di Cristo in relazione alle parti dell’Ostia, ossia il Corpo Glorioso, quello Mistico della Chiesa Trionfante e quello Mistico della Chiesa Militante. Per questa dottrina sarebbe stato poi condannato dal Concilio di Quierzy dell’838, che però diede una interpretazione tendenziosa della sua opera.

Agobardo di Lione (769-840), arcivescovo di questa città ma di origine gota, fu uno dei massimi esponenti del razionalismo carolingio, portò la sua sede ad un alto fastigio culturale mediante la sua scuola cattedrale, rivendicò la libera elezione dei vescovi, il foro ecclesiastico e l’emancipazione della Chiesa dall’autorità imperiale. Scrisse contro l'adozianismo l’Adversus dogma Felicis episcopi Urgellensis, il Contra libros IV Amalarii abbatis e il De divina psalmodia contro le interpretazioni liturgiche di Amalario di Metz, diverse opere contro gli Ebrei, svariati scritti pastorali contro le superstizioni, vari scritti contro Lodovico il Pio e diverse altre opere, anche poetiche, spesso interessanti. Sostenne un culto liturgico di stretta derivazione biblica e respinse sia la poesia che l’allegoria liturgiche, mostrando freddezza anche per le chiese intitolate ai Santi, per cui voleva memoriali appositi, e per le reliquie.

Giona di Orlèans (780 ca.-844 ca.), vescovo d'Orléans nell'818, intervenne con gli scritti nelle più vive polemiche. Con i De cultu imaginum libri tres confutò l’iconoclastia, con il De institutione laicali combattè la depravazione. Il De institutione regia tratta dell’Impero e delle sue funzioni spirituali e temporali. Compose anche una Vita S. Huberti, seguita da una Historia translationis del Santo.

IL BEATO RABANO MAURO

Nacque a Magonza nel 780 circa, divenne da ragazzo monaco benedettino a Fulda e fu discepolo di Alcuino a Tours. Fu poi scolarca e indi abate (822) a Fulda, la cui scuola e la cui biblioteca furono da lui enormemente migliorate. Infine divenne arcivescovo di Magonza, dove promosse l’istruzione e la riforma dei costumi del clero e del popolo. Nell’850 si distinse per la sua carità distribuendo la maggior parte delle rendite del suo episcopato ai poveri colpiti dalla carestia. Fece condannare dal Concilio di Magonza dell’848 il maggior eresiarca dell’epoca, Godescalco (800-869), in quanto fautore della Doppia Predestinazione, sia alla Salvezza che alla Dannazione. Prese posizione nella disputa eucaristica, in cui si discettava sul modo in cui Cristo era presente nel Sacramento, e sostenne che quest’ultimo avesse un valore figurativo, simbolico, sulla scia di quanto insegnato da Agostino, a sua volta interpretato come se il Corpo storico del Redentore non fosse identico a quello sacramentale, ossia con minore acume di quanto l’Ipponense meritasse e con i mezzi filosofici disponibili all’epoca. La teologia eucaristica di Rabano non concepiva la transustanziazione e quindi doveva per forza dedurre che il Corpo eucaristico di Cristo, sebbene reale, non potesse essere quello storico e quindi andasse considerato come suo simbolo, ossia come segno che lo porta dentro di sé ma non è esso stesso. Non insensibile alla filosofia, desunse da Epicuro e dagli Stoici che tutte le creature, compresi gli Angeli, sono corporee. Nell’856 Rabano Mauro morì.

Il Beato fu chiamato precettore della Germania per il suo De Clericorum Institutione. Fu teologo poco originale, autore spesso impersonale e superficiale, ma erudito di immensa cultura, tra i maggiori dotti che collegarono la Patristica alla Scolastica, nonché pastore d’anime e pedagogo eccezionalmente dotato, desideroso di diffondere talmente la cultura da tralasciare l’approfondimento dei problemi, l’originalità, la cura formale, preferendo rimaneggiare, riassumere, facilitare i contenuti.

Le sue opere sono un classico del latino carolingio. Scrisse numerosi commenti biblici sotto forma di catene di sentenze, manuali di sapere profano e sacro, moltissime poesie e svariati inni sacri, compreso il Veni Creator Spiritus. Il De Laudibus Sanctae Crucis è il capolavoro poetico di Rabano, un meraviglioso carme figurato. Con il trattato De Rerum Naturis, detto anche De Universo, Rabano Mauro pose una pietra miliare nel percorso storico dell’enciclopedismo medievale, continuando l’opera di Isidoro. Scrisse anche il De Inventione Linguarum, che come il De Rerum e il De Clericorum, desume dai Padri e in particolare da Gregorio Magno e Isidoro, ma anche da vari grammatici, svariati brani scelti secondo un ordine preciso. In filosofia si distinse non tanto per il suo opuscolo De Anima quanto per le sue glosse all’Isagoge di Porfirio e al De Interpretatione di Aristotele.

INCMARO DI REIMS

Nacque nell’806 da nobile famiglia a Reims e fu educato a Saint-Denis di Parigi dall’abate Ilduino. Fu poi tesoriere abbaziale e nell’845 divenne Arcivescovo di Reims. Fu uno dei maggiori leader dell’episcopato imperiale per la sua competenza giuridica, teologica ed amministrativa, fino alla morte avvenuta nell’882. Tutti gli Imperatori succedutisi nella Casa Carolingia lo tennero in enorme considerazione. Egli prese posizione contro il divorzio imperiale di Lotario (840-855) da Teutberga con il De Divortio Lotharii Imperatoris et Theuthbergae Reginae; nell’866 incoronò l’imperatrice Imiltrude e nell’869 l’imperatore Carlo II il Calvo (875-877).

Incmaro prese una dura posizione contro la Doppia Predestinazione di Godescalco, facendolo anatematizzare dal Concilio di Quierzy nell’849. Biasimò severamente i vescovi provenzali e lionesi che seguivano l’agostinismo unilaterale di quell’eresiarca ma non riuscì a trovare una formula compromissoria che piacesse a tutti, evidentemente dimentico, come i suoi avversari, del magistero del II Concilio di Orange ai tempi di Cesario di Arles. Incmaro compose ben tre trattati sulla Predestinazione, oltre che i Capitula del Concilio di Quierzy, e nell’ultimo di essi citò ampiamente anche i Padri greci. Tuttavia la resistenza dei vescovi della Gallia lionese costrinse l’autoritario metropolita a rivolgersi a papa Niccolò I il Grande (858-867), che però non fece in tempo a pronunziarsi prima della morte di Godescalco, avvenuta tra l’866 e l’870, ponendo fine alla disputa.

Incmaro compose un trattato trinitario, il De Una et non Trina Deitate, con il quale giustificava il suo rifiuto di far adoperare in liturgia l’invocazione Trina Deitas, ritenendo che la Natura Divina non fosse trina di per sé ma solo nelle Ipostasi, così da rintuzzare le accuse di sabellianesimo rivoltegli da Godescalco e da Ratramno di Corbie.

In queste dispute Incmaro rivela una buona conoscenza biblica e patristica, una sincera preoccupazione pastorale e una premura per formule dottrinali chiare e atte a favorire l’unione dei fedeli.

GIOVANNI SCOTO ERIUGENA

Come Origene, Giovanni Scoto Eriugena esercitò una influenza enorme sulla storia del pensiero cristiano, ma non potè liberarsi dalla macchia dell’eresia, che forse egli contrasse più consapevolmente del suo predecessore alessandrino e che fu definitivamente sanzionata da papa Onorio III (1216-1227) nel 1225, quando prescrisse il capolavoro filosofico del Nostro, il De Divisione Naturae. Ma questa condanna si dovette più al modo in cui i seguaci di Eriugena facevano, nel XIII secolo, uso del suo insegnamento che a questo stesso.

Speculativo sistematico di stampo neoplatonico, Eriugena creò una filosofia che armonizzava Cristianesimo e filosofia, non senza molte concessioni alla seconda e non senza ereditare un patrimonio concettuale tale da influenzare, dopo essere stata tramandata ai posteri, la filosofia fino all’Idealismo tedesco passando mediante il panteismo di Bruno e di Spinoza.

Nacque in Irlanda in una data imprecisata, forse nell’810, e da famiglia sconosciuta, come attesta il soprannome Eriugena, posto nella parte incipitaria delle sue traduzioni delle opere di Dionigi l’Areopagita. Fattosi monaco giovanissimo, divenne celebre per la sua cultura e si rifugiò alla corte di Carlo II il Calvo per sfuggire alle invasioni danesi in Irlanda.

Incmaro chiese il suo aiuto nella disputa sulla Doppia Predestinazione ed egli ne fornì una così radicale confutazione, nel De Praedestinatione, da essere tacciato di pelagianesimo ed essere censurato dai vescovi di Laon e Reims, nonché dai Concili di Valence e Langres.

Ripiegatosi sui suoi studi, commentò il Vangelo di Giovanni, scrisse un’omelia sul Prologo dello stesso Vangelo e tradusse dal greco in latino non solo il Corpus Areopagiticum ma anche il De Hominis Opificio di Gregorio di Nissa e gli Ambigua di Massimo il Confessore. Queste meravigliose opere, sconosciute a chiunque altro in Occidente (una prima traduzione dell’Areopagita si doveva ad Ilduino di Saint-Denis [775-840]), suggestionarono talmente l’Eriugena da spingerlo a creare sulla loro scorta un sistema cristiano neoplatonizzante nel quale sintetizzava l’insegnamento dei suoi diversi maestri apportando loro alcune modifiche e diversi approfondimenti.

Il punto di partenza per capire la riflessione eriugeniana è la concezione dei rapporti tra fede e ragione. Di suo l’uomo è inclinato alla conoscenza di Dio, ma il peccato gli ottunde la mente e da solo può al massimo elaborare una fisica; tuttavia da quando Dio si manifestò a Mosè l’uomo ebbe il soccorso della Rivelazione che culminò con Cristo: essa permette all’individuo di ricevere la Verità che da solo mai scoprirebbe; a servizio di essa pone la ragione naturale che la esplora e la concretizza in atti; il tutto in attesa di quella visione beatifica in cui fede e ragione cederanno il passo alla contemplazione diretta. Tuttavia, finchè rimaniamo in questa vita, la ragione collabora con la fede perché se Dio parla è assurdo non prestargli ascolto; Egli comanda una fede pura, una vita conforme ad essa e una ragione speculativa che la esplori. La fede non è statica, ma tende a svilupparsi dunque in una conoscenza più perfetta. La filosofia non è altro che il prolungamento del suo sforzo, in ordine alla conoscenza del medesimo oggetto ma in modo differente. Questo oggetto è contenuto soprattutto nella Bibbia, alla cui perfetta comprensione Eriugena orienta tutta la sua attività e che considera il suo premio e la sua felicità, in quanto solo la contemplazione attraverso la Scrittura conduce, in questo mondo, a Dio. Ordunque Eriugena non ha mai sostenuto che la fede debba sottomettersi alla ragione come in passato si credette, ma il contrario. Lo Scoto non discute l’inerranza della Parola di Dio, ma afferma che le interpretazioni che gli uomini ne hanno date devono essere esse stesse passate al vaglio, e che nessuno deve coprire queste ultime della stessa infallibilità della prima. Eriugena riconosce l’autorità dei Padri, ma semplicemente perché, leggendoli, constata la loro razionalità nelle cose che dicono. Libertà dunque verso gli autori umani, anche se di fatto Eriugena fu completamente affascinato e soggiogato dai Padri orientali che aveva tradotto.

Nel De Praedestinatione Giovanni Scoto Eriugena imposta il metodo dialettico: la divisione che dal genere supremo arriva all’individuo e l’analisi che da questo risale all’unità prima. Non sono solo due leggi del pensiero ma le regole stesse dell’essere. In questo senso la dottrina logica di Eriugena non è una vera logica ma una fisiologia, ossia una filosofia della natura.

Eriugena nel suo De Divisione Naturae desume da Massimo il Confessore quattro divisioni fondamentali dell’Essere di tutte le cose, denominato Natura: la prima è quella della Natura non creata e che non crea, ossia Dio considerato in Sé stesso; la seconda è la Natura non creata e creante, ossia Dio che crea tutte le cose concependole nel Suo Logos in modo unitario; la terza è la Natura creata e creante, ossia le Idee divine che fungono da archetipi; la quarta è la Natura creata e che non crea, ossia il molteplice sensibile. Vi è quindi un processo discensivo dall’Uno ai Molti ma anche un processo ascensivo razionale dai Molti all’Uno, secondo la più pura tradizione platonica. Questa divisione è una autentica creazione in quanto la Natura non è il genere sommo di tutte le cose e quindi il pensiero eriugeniano non è interpretabile panteisticamente.

Nella prima divisione Eriugena parla dunque di Dio, inteso come Uno ineffabile, per cui di Lui si può parlare sia in modo positivo attribuendogli tutto quanto è conforme alla Sua trascendenza, sia ancor meglio in modo negativo, negando che Egli possa identificarsi pienamente con qualsiasi principio categoriale. Dio è dunque essenza o essere, ma ancor più è al di là dell’essenza e dell’essere, è iperessenziale ed è Colui Che è più dell’Essere. E cosa Egli realmente sia noi non sappiamo.

Nella seconda divisione abbiamo visto che si collocano le Idee divine, le quali sono nel Logos e pertanto sono coeterne a Dio, ma non hanno in sé la causa del loro essere. Siccome il Logos è l’idea principale, la ragione e la forma di tutto quanto esiste, le Idee in Lui non hanno distinzione; essa si manifesta soltanto nelle cose prodotte su imitazione di esse. Il Logos è la causa semplice e molteplice dell’universo creato. Solo dunque in quanto coeterne a Dio le Idee sono considerate da Eriugena increate; diversamente, esse sono del tutto simili alle altre creature e così devono in effetti essere considerate. Attraverso esse Dio manifesta Se stesso in una prima teofania interna e poi in quella esterna costituita dalla Creazione visibile.

Ciò è quanto accade nella terza e nella quarta divisione. Dio, incomprensibile di per Sé, al di fuori agisce solo per manifestarsi. Questo atto di automanifestazione o teofanico è tale perché permette a Dio di farsi comprensibile agli esseri intelligenti, che Egli stesso ha creato. Ogni creazione è una teofania e ogni teofania è una Rivelazione. Per Dio creare e rivelarsi sono la stessa cosa. Forzando il linguaggio e la dottrina, Eriugena dice che Dio, creando gli esseri, crea se stesso. Nella produzione intellettuale delle Idee la Natura divina, che è inconoscibile di per Sé anche a Se stessa, si finitizza e si rende comprensibile. Il lettore che conosce la filosofia vede qui ciò che verrà unilateralizzato da Bruno e da Spinoza, ma anche da Fichte. In realtà è la nozione di conoscenza che in Eriugena crea questa ambiguità ereticale, in quanto essa coincide con quella di nozione finita. Sembra che Eriugena non capisse che solo la mente infinita di Dio può comprendere la Sua stessa Natura infinita.

In ogni caso, la processione dall’Uno al molteplice delle Idee è opera del Padre nel Verbo, mentre quella delle cose molteplici dagli archetipi è opera dello Spirito Santo passando dal generale al particolare. L’universo così creato è una fonte inesauribile di luce per le creature stesse che in essa vedono Dio: esso cesserebbe di esistere se Dio cessasse di irradiare. Ogni cosa è segno e simbolo. La natura è una rivelazione come la Bibbia; essa è il linguaggio di Dio adoperato verso ogni uomo. Anche qui il lettore attento di filosofia riconosce una anticipazione di Berkeley e del suo immaterialismo gnoseologico.

Le teofanie che costituiscono l’universo si dividono in tre mondi: quello delle sostanze immateriali o Angeli, quello delle sostanze materiali e quello mediano dell’uomo partecipe dell’uno e dell’altro. Esse sono tutte create dal nulla del proprio essere da quel Dio Che, in quanto iperessenziale, è un Nulla Egli stesso. Dio è l’essere delle cose perché ogni cosa è il dono divino dell’essere stesso che ognuna è. La creazione illuminazione segue dunque un ordine gerarchico che dà via via meno luce e meno essere dall’alto al basso.

Sviluppando alcuni spunti di Origene e Gregorio di Nissa, l’Eriugena insegna che la creazione materiale, la natura corporale dell’uomo e la divisione sessuata sono un ampliamento della moltiplicazione gerarchica indicata nella quadruplice scansione prima indicata e avvenute in conseguenza del Peccato originale. Diversamente, l’uomo si sarebbe riprodotto per pullulazione istantanea come gli Angeli. Tale ampliamento, anche con queste conseguenze, ha ritardato il movimento di ricapitolazione della Creazione, il cui ritorno a Dio è il suo vero fine, che si è compiuto solo grazie al Sacrificio di Cristo. Questa Redenzione è talmente efficace da cancellare ogni traccia di peccato e colpa, così da rendere ad un certo punto superflua la dannazione, per cui nell’anima dei già riprovati da Dio rimarrà solo un generico rimorso.

Come possa accadere che la Caduta, cronologicamente posteriore alla Creazione materiale, l’abbia causata, può comprendersi solo se interpretiamo la Genesi in modo tale da affermare che il mondo è stato creato da Dio nell’Uomo inteso come archetipo e non come essere composto di anima e corpo prodotto dopo Sei giorni. Siccome l’illuminazione va dall’alto verso il basso, venne prima la creazione dell’Adamo perfetto e poi quella del mondo, in lui; indi la Caduta, che avviene all’interno del mondo intellegibile, produce il mondo materiale. Ne conseguono alcuni principi base del sistema eriugeniano, non nuovi nel platonismo cristiano.

Primo, che la materia, senza gli intellegibili che la rendono comprensibile, non esisterebbe. Infatti essa è la mescolanza dei principi immateriali della sostanza e degli accidenti, che di per sé non sono sensibili né corporei. La materia è fatta di intellegibili coagulati. Cosa questa familiare ai conoscitori di Leibniz ma anche della filosofia dell’intelligenza artificiale.

Secondo, che la creazione delle Idee è solo apparentemente anteriore a quella del molteplice, perché il secondo è possibile solo insieme alle prime.

Terzo, che la fantasmagoria dei corpi che ci circonda è atto di misericordia divina che dà all’Uomo caduto una conoscenza mediante i sensibili, in un certo senso dispiegati attorno a lui non più rimasto tra gli intellegibili.

Eriugena pone l’uomo al centro del cosmo, quale essere intellegibile in quanto anima e sensibile in quanto corpo. Dell’uomo solo Dio conosce in modo esauriente la nozione, in quanto egli corrisponde pienamente alla volontà del Suo Creatore e a Lui tende. L’uomo è immagine di Dio nella sua anima, che tende a Lui mediante tre movimenti: uno sensibile mediante i corpi, uno razionale attraverso l’anima, uno con l’anima verso Dio direttamente, inteso quale Essere trascendente. Questo ultimo movimento è dono di grazia e suppone che l’uomo si liberi dal corpo. E’ uno schema trinitario che gravita attorno alla Trinità Divina, e che propriamente andrebbe esposto a partire dall’ultimo, perché esso solo dà senso e compimento agli altri due precedenti.

La riunificazione dell’Uomo con Dio avviene però a partire dalla morte. Essa, nell’uomo come in ogni vivente e come nella distruzione di ogni esistente, è l’espressione di quella tensione verso l’unità che Eriugena chiama informità. Essa è l’atto mediante cui il non essere tende all’Essere, perdendo la sua solo apparente individualità. Come il fiume torna alla sorgente seccando le sue acque nel suolo, così l’Uomo perde la sua materialità e si libera dei vincoli che impediscono alla sua anima di tornare a Dio. Il corpo stesso si divide nei suoi elementi costitutivi.

Con la Resurrezione della Carne ogni anima riprende il suo corpo che viene spiritualizzato. I sessi sono aboliti. Allora l’uomo torna alle sue cause archetipiche spirituali: la vita diviene senso, il senso ragione e la ragione pensiero puro. Il corpo si reintegra così nell’anima. L’anima rientra nell’archetipo suo proprio. Infine, tutta la natura torna a Dio come in una meravigliosa processione, al termine della quale essa assume una condizione migliore perché spirituale. Infatti nell’uomo tutti gli intellegibili, di cui sono fatte le cose materiali, rientrano in Dio stesso. I cieli, rientrando gli uni negli altri, tutti insieme ritornano nel Paradiso. Come dicevamo, in questa prospettiva di massima efficacia della Redenzione, alla quale sola si deve il processo di riunificazione, l’eternità delle pene dei dannati non sono accettabili, per cui Eriugena cade nell’eresia dell’apocatastasi, considerando impossibile che l’Inferno sia eterno in un cosmo che torna tutto intero a Dio.

Singolare è anche un altro schema di divisione della Natura: quello per cui essa che unisce in sé tutte le cose che non sono: ogni essere infatti è il non essere di qualcosa. Il non essere in quanto tale è di cinque tipi: ciò che sfugge ai sensi per l’eccellenza della sua natura, ossia Dio e le essenze archetipe e le sostanziali che si desumono solo dai loro accidenti; ciò che non è in quanto incompatibile, in ogni ente, con quanto esso è; ciò che non è ancora in quanto potenziale; le cose soggette al divenire in quanto tale; l’uomo in quanto difforme dall’immagine di Dio.

Un simile sistema si presta molto alle condanne di varie eresie di cui sembra collettore, ma in realtà, anche se in modo originale e in parte estremo, Eriugena si limitò a ricapitolare Origene, Dionigi, Massimo, Gregorio di Nissa, Ambrogio e Agostino, così che le ambiguità soteriologiche e cosmologiche del suo pensiero appaiono meno gravi.

AUTORI MINORI DELLA TERZA GENERAZIONE CAROLINGIA

Valafrido Strabone (809-849), educato a Reichenau e a Fulda, fu precettore di Carlo II il Calvo e abate della stessa Reichenau. Poeta originale nella trattazione di temi tradizionali, rielaborò in versi, mescolando ispirazione cristiana e sensibilità umana, un testo in prosa che divenne la Visio Wettini, in cui si descrivono fantasiosamente Inferno, Purgatorio e Paradiso, con un viaggio che continua la tradizione degli Imrana irlandesi e prelude alla Divina Commedia e ai suoi omologhi nei vari volgari prossimi venturi. Fu poi l’autore a cui venne attribuito il commento integrale della Bibbia, la cosiddetta Catena Aurea, sebbene in essa confluissero parti realizzate da altri autori. Ricordo anche il suo poema Hortulus, che descrive bucolicamente il giardino del monastero e se ne serve per innalzare l’anima a Dio. Sono da ricordare tra le sue opere anche il Libellus de exordiis et incrementis quarundam in rebus ecclesiasticis rerum, ricco di notizie sul culto dell’epoca; le vite di svariati Santi, alcune in prosa (Gallo e Othmar), altre in versi (Mammete e Blaithmair); nonché, sempre in poesia, il Versus de Imagine Tretici, che esalta il Sacro Romano Impero.

Vandalberto di Prüm (813-850 ca.), monaco a San Goar in quella città, scrisse la Vita Sancti Goaris e un Martyrologium in esametri, con cui narrava la virtù dei Santi di ogni giorno accompagnandole con poesie di vario argomento, tra cui quelle dedicate ai lavori dei campi nelle varie stagioni sono particolarmente ispirate.

Sedulio Celio, poeta irlandese, soggiornò a Liegi dall’848 all’859 e, ai fini del nostro discorso, si distinse per aver raccolto citazioni neotestamentarie nel Collectaneum; inoltre compose un trattato di politica, il Liber de Rectoribus Christianis, e il noto Certamen Rosae Liliique in versi.

Floro di Lione (†860), discepolo di Agobardo, diacono e scolarca della sua diocesi, scrisse un De electione episcoporum, per l’indipendenza delle nomine ecclesiastiche; varie opere contro Amalario e le sue riforme liturgiche, contro Scoto Eriugena, contro Godescalco; un commento a s. Paolo; aggiunte al Martyrologium di Beda; una collezione canonica; lettere e poesie. Nella disputa eucaristica sostenne una concezione unitaria e dinamica del Sacramento contro le posizioni di Amalario di Metz, della cui condanna fu artefice. Egli sviluppò l’insegnamento di Agostino, di Gregorio Magno e di Beda. Floro fu dottissimo filologo, correttore del Salterio, di alcune opere agostiniane e patristiche, esegeta di alto livello.

San Pascasio Radberto (792-865), abate di Corbie, fu il grande teologo eucaristico dell’epoca. Nel Liber de Corpore et de Sanguine Domini dell’831 il Santo afferma chiaramente il carattere memoriale del Sacramento, vero sacrificio incruento rinnovato quotidianamente per il quale pane e vino sono trasformati in Corpo e Sangue di Cristo, anche se non spiega come ciò avvenga, essendo lontano dal concetto di transustanziazione. Andava dunque oltre Rabano Mauro, che in effetti accolse con perplessità le posizioni di Pascasio, il quale però fu il più acuto interprete dell’ortodossia e il più lungimirante osservatore di dove poteva giungere l’esplicitazione del dogma. Scrisse anche un Commento alle Lamentazioni, il De Partu Virginis sulla Verginità di Maria nel parto, la Lettera Cogitis Me sull’Assunzione della Madonna, un Commento a San Matteo e una lettera a Fredgardo di Saint-Riquier sull’Eucarestia. Gli si debbono inoltre il De Fide, Spe et Charitate e le biografie in stile ciceroniano e senechiano intitolate Vita Sancti Adhalardi e l’Epithaphium Arsenii.

Ratramno di Corbie (800-860), monaco in quell’abbazia, col De praedestinatione si schierò contro Godescalco; scrisse Contra graecorum opposita Romanam Ecclesiam infamantia libri IV, difendendo la Doppia Processione dello Spirito Santo, il celibato ecclesiastico e il primato del Papa. Contro Pascasio Radberto, Ratramno respinse la dottrina del mutamento di sostanza eucaristica, pur mantenendo intatta la fede nella Presenza Reale e paragonandola a quella dello Spirito Santo nell’acqua battesimale (De corpore et sanguine Domini). A queste obiezioni Pascasio rispose con ulteriori precisazioni che chiarirono il suo pensiero attenuando alcuni aspetti che sembravano troppo materialistici. Tra le altre opere di Ratramno sono da ricordare molte lettere, il De Nativitate Christi, un De quantitate animae, nel solco della tradizione agostiniana, e un secondo scritto sullo stesso argomento (Liber de anima).

San Prudenzio di Troyes (†861), di origine franca, discepolo di Teodulfo, vescovo poi di Orlèans e indi di Troyes appunto, fu storico, agiografo e poeta, che prese delle moderate difese di Godescalco nella controversia sulla Predestinazione.

Lupo Servato di Ferrières (805-862), umanista di eccezionale livello, prese anche egli delle prudenti difese di Godescalco; fu un filologo di eccezionale valore, amante di Sallustio, Svetonio, Cesare, Gellio, Cicerone e tanti altri. Scrisse le Epistulae, la Vita S. Wigberti, il Liber de tribus quaestionibus, la Vita Maximini episcopi Trevirensis, il Collectaneum de tribus quastionibus, il De Varietatibus Carminum Boetii e il De Crucis Adoratione.

Enrico di Auxerre (841-876), discepolo di Lupo Servato, commentò Persio, Giovenale, Orazio, Prudenzio e raccolse estratti di autori classici e patristici nelle Sententiae Sapientium, Philosophorum et Procerum, avvalendosi anche della conoscenza del greco. Scrisse in versi la Vita Sancti Germani e diverse glosse, alle Categoriae Decem dello Pseudo-Agostino, al De Dialectica dell’Ipponense, al De Interpretatione di Aristotele e all’Isagoge di Porfirio.

GLI AUTORI ROMANI DEL RINASCIMENTO CAROLINGIO

L’Italia, che a causa della forza attrattiva della Corte imperiale fu depauperata delle sue intelligenze migliori e che ancora di più declinò a causa delle invasioni saracene a partire dalla metà del IX sec., ebbe ancora alcuni nomi importanti nella cultura religiosa.

Agnello di Ravenna (801-854) fu l’autore del Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis.

Anastasio il Bibliotecario (815-878), esponente del clero romano, dopo essere stato nell’855 competitore per il Soglio pontificio di Benedetto III (855-867) come candidato del partito franco, fu riabilitato da Niccolò I che lo fece Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, carica che mantenne sotto Adriano II (867-872) e Giovanni VIII (872-882). Fu anche legato apostolico e diplomatico esperto nelle trattative con la Costantinopoli di Fozio. Traduttore abilissimo di atti ufficiali e di opere letterarie e agiografiche, collaborò al Liber Pontificalis e alla Chronographia Universalis, una storia completa della Chiesa.

Giovanni Diacono o Immonide (825-880), distintissimo dignitario della Curia di Giovanni VIII, collaborò anch’egli alla Chronographia, compose una biografia di Gregorio Magno e rielaborò, dandole forma poetica, la Cena Cypriani, enigmatica opera anonima del IV-V sec., la cui forma esteriore è quello del libretto di una pantomima a cui partecipa una folla di personaggi biblici. Il mimo fu l’unica forma drammatica che sopravvisse nel Medioevo e quest’opera ne è l’unica attestazione diretta.

Giovanni VIII (872-882) fu il grande Papa al cui magistero si dovette la diffusione del concetto di Cristianità, ossia dell’insieme dei popoli cristiani i quali vivono nel tempo secondo i principi della loro fede costituendo una autentica comunità, nella quale sono compresi tutti gli Stati cristiani, incluso l’Impero, e che a sua volta è inglobata nella Chiesa, estesa a tutta la terra. In questo concetto, affacciatosi alla ribalta della storia per la prima volta con il Constitutum Constantini ai tempi di papa Adriano I (772-795), erano contenuti i presupposti per un profondo ripensamento dei rapporti tra Impero e Sacerdozio, intese come due funzioni sacramentali in una sola Chiesa, gerarchicamente disposti e complementari tra loro. Perché questo accadesse bisognò tuttavia aspettare la Riforma di Gregorio VII.

I DECRETALISTI

L’età carolingia offrì al Papato la seconda occasione storica di centralizzare il governo ecclesiastico, dopo quella costituita dall’età costantiniana. Sia l’una che l’altra furono interrotte dalle invasioni barbariche e perché la programmazione ecclesiastico-universale si compisse bisognò aspettare l’età della riforma gregoriana, ma nell’epoca che ci riguarda alcuni testi canonici, di rilevanza notevole, gettarono nuove e più solide basi per l’esercizio giurisdizionale del primato di Pietro. L’occasione per promuoverlo fu la lotta per la Riforma dei costumi, il cui patrocinatore doveva essere il Pontefice. La Chiesa Romana era nel IX sec. considerata la madre di molte Chiese della Gallia, mentre la dottrina, il culto e il diritto della Chiesa imperiale erano provenienti proprio dalla Sede di Pietro. Dal momento in cui l’Impero carolingio fu diviso, questa promozione dei diritti petrini, che supponeva una già compiuta ideologia ecclesiastica, non conobbe soste e, come tutti i movimenti di rinnovamento del Medioevo, fu presentato come un ritorno al passato. Le idee dei canonisti carolingi si rivestirono di capitolari dei Grandi carolingi e di decretali di antichi Papi, i cui principi erano ampiamente sviluppati e messi in capo agli antichi autori.

Le collezioni di canoni occidentali erano iniziate nel sec. V. Prima d'allora la vita della Chiesa occidentale era regolata dai Canoni dei concili di Nicea e di Sardica. Le più antiche raccolte erano la Collectio Hispana o Isidoriana (attribuita a Sant’Isidoro di Siviglia) e la Collectio Prisca o Itala. Esse contengono canoni orientali tradotti dal greco e perciò avevano avuto il nome di Versio. La Collectio Concilii Carthaginiensis XVII o Collectio Canonum Ecclesiae Africanae del 419 riuniva i canoni africani precedenti. Altre collezioni furono gli Statuta Ecclesiae Antiqua di San Cesario d'Arles, la Breviatio Canonum Fulgentii Ferrandi del sec. VI, che raccoglieva canoni orientali e africani per mano di un diacono della chiesa di Cartagine, la Concordia canonum della fine del sec. VII, opera sistematica del vescovo Cresconio. In Italia era stata redatta l’autorevolissima Collectio Dionisiana e la Collectio Avellana, scoperta in un codice del monastero in Fonte Avellana, compilazione d'uso privato, d'autore ignoto, fatta forse a Roma, contenente epistole di papi, vescovi, imperatori e praefecti urbis. Nella Spagna erano nate la Collectio di Martino di Braga, detta spesso Capitula Martini, del sec. VI, opera sistematica contenente canoni greci e spagnoli; in Gallia la raccolta sistematica del sec. V, detta Codex Canonum Ecclesiae Romanae; la Collectio Dacheriana e la Collectio Quadripartita. In Inghilterra la Collectio Hibernica o Hibernensis, sistematica, del principio del sec. VIII.

Tra le collezioni canoniche si potevano, sotto un certo aspetto, annoverare i Libri poenitentiales; nelle regioni occidentali i primi esemplari di questi libri si rintracciano in Inghilterra e in Irlanda, nei secoli VI, VII e VIII; uno di essi è attribuito a San Colombano, un altro al Venerabile Beda. Diversi furono compilati nel sec. IX in Germania e in Francia. In Italia, e particolarmente a Roma ce ne furono vari col nome di Poenitentiale Romanum.

Ebbene tutte queste collezioni furono ampliate da quelle dell’età carolingia, di incalcolabile valore e di maggior impatto. Queste opere, considerate pseudoepigrafiche, sorsero tra l’847 e l’852.

La prima di esse fu esse fu la Collectio Hispana. Essa, che amplia quella summenzionata attribuita ad Isidoro, è una raccolta cronologica composta in vari tempi e completata alla fine del sec. VII o al principio del sec. VIII. Fu la collezione autentica della Chiesa spagnola. È preceduta da un compendio sistematico di tutti i canoni, in versi, col titolo Excerpta canonum; sono in essa contenuti canoni conciliari ed epistolari di sedici papi fino a San Gregorio Magno. Nella sua versione di Autun ebbe diverse interpolazioni di età carolingia, atte a suffragare la programmazione ecclesiastica ed universale di cui dicevamo.

La seconda è costituita dai Capitula Angilramni attribuiti ad Adriano I e consegnati ad Angilramno di Metz (†791).

La terza è fatta dai capitolari di Benedetto Levita per Otgar di Magonza (†847). La quarta, che forse fu la prima cronologicamente, consta delle Decretali di Isidoro Mercatore, di papi da Clemente Romano a Gregorio Magno, poi incluse nella Collectio Anselmi dedicata dell’882-896, dedicata all’arcivescovo di Milano Anselmo II (†882). Quest’ultima opera, la quinta, è la maggiore.

In quanto ai principi sostenuti dai decretalisti, essi erano sostanzialmente i seguenti: i Metropoliti agivano essenzialmente come delegati del Papa, naturale capo di tutto il Collegio Episcopale e quindi anche delle sue singole parti; i Concili provinciali dovevano essere ratificati dal Papa; le cause maggiori erano di spettanza della giurisdizione papale e tra esse si annoveravano tutte le questioni relative ai vescovi; i processi canonici dei vescovi dinanzi ai Metropoliti potevano essere interrotti in qualsiasi momento con un appello al Pontefice; i Metropoliti non potevano a piacimento processare i suffraganei; i Primati erano i vescovi della diocesi più importante di ciascuna antica provincia romana e avevano il diritto di ricevere l’appello di secondo grado; anche essi erano sostanzialmente delegati papali nell’esercizio delle loro funzioni.

Non è questa la sede per mostrare con quanta lentezza queste idee si affermarono, ma si può affermare che esse furono essenziali per sviluppare la riflessione canonica.

In quanto alla pseudoepigrafia, mi preme sottolineare come essa non abbia alcun fondamento. Per quanto concerne Benedetto Levita e Isidoro Mercatore, sono due personalità talmente evanescenti nel IX sec. da poter benissimo essere esistite. Chi attribuirebbe a due sconosciuti opere che aspirano ad influire sul mondo intero? Il contenuto e non l’autore fanno la differenza. Il primo era un diacono magontino e il secondo un vescovo non ben identificato. In quanto ad Adriano I, è sotto il suo Papato che, come dicevo e come io stesso ho dimostrato nel mio libro Tra Roma e Bisanzio, che viene redatto il Constitutum Constantini, per cui non mi meraviglierei se lo stesso Papa avesse redatto una collezione canonica manipolata.

TEMPORA PRESSURORUM

Breve introduzione ai Padri del secolo X

Con la fine dell’Impero Carolingio (888) inizia un secolo di ferro che terminerà ufficialmente con l’incoronazione di Ottone I il Grande (951-973) nel 962. In realtà, specie per la Chiesa Romana, la situazione nebulosa – iniziata un poco prima con l’assassinio di Giovanni VIII (872-882)- sarebbe durata ancora a lungo e terminata solo nel 1046, con un nuovo, più forte e più proficuo assoggettamento del Papato all’Impero, che l’avrebbe definitivamente liberato dal predominio delle grandi famiglie aristocratiche romane.

In questo secolo oscuro, come fu pure definito, non soltanto versarono in una crisi profonda tutte le istituzioni (Papato, Impero, monarchie nazionali), non soltanto l’universo latino occidentale si frantumò in una pletora di micropatrie di tipo feudale, non soltanto si riversarono sull’Europa un ultima muta di popoli barbari e ostili da nord a sud (Ungari, Normanni, Arabi), ma ovviamente anche la cultura si rattrappì fino quasi a paralizzarsi e in particolare l’atrofia colpì quasi del tutto la filosofia e la teologia. Solo qualche luce si accende a rischiarare questa notte oscura, in attesa di una più gloriosa e nuova alba. Sono luci che si accendono di solito o nei castelli – centri di cultura letteraria – o nelle scuole cattedrali ed abbaziali – centri di cultura filosofica e teologica. Da essi, per una ristretta cerchia di lettori, di solito promana un sapere che conserva più che arricchire la cultura del passato. Ancora si studiano trivio, quadrivio e teologia, ancora si imitano, si commentano e si tramandano i classici, ma raramente si diceva qualcosa di nuovo, specie in teologia. In essa, coltivata soprattutto nelle grandi scuole abbaziali di Fulda, San Gallo e Cluny, ma anche in quella cattedrale di Reims, i generi letterari adoperati sono soprattutto il commento e il trattato. Una significativa eccezione di creatività viene dall’incipiente rinnovamento, sia spirituale che culturale, del mondo monastico e dalla prosecuzione della riflessione giuridica.

RATERIO DI VERONA

Nacque nell’887 nelle Fiandre. Fu educato nel monastero di Lobbes dove prese i voti. Giunto in Italia nel 926, Fu tre volte vescovo di Verona (931; 946-948; 961-968) dalla quale altrettante volte fu esiliato e da cui, dopo il primo episcopato, uscì prigioniero di re Ugo di Provenza (926-946), divenuto anche sovrano d’Italia. Eletto anche arcivescovo di Liegi (952-955) e abate nella Bassa Lorena, finì i suoi giorni in patria, dove si era ritirato esausto per una vita di lotte, nel 974. Dotato di grande cultura, conoscitore della letteratura latina pagana e patristica, considerato in Sassonia il primo dei filosofi palatini, fu rigido nel condannare l’immoralità del tempo e zelante del ritorno alla purezza della vita cristiana. Poco adatto alla carica episcopale, Raterio fu un grande scrittore che però prese la penna soprattutto per difendersi o per riflettere tormentosamente su se stesso.

Scrisse i Praeloquiorum Libri Sex, l’Itinerarium Ratherii Romam euntis, i Synodica, il De Contemptu Canonum, l’Excerptum ex dialogo confessionali, il De Nuptu Illicito, il Conflictus Duorum, numerose omelie, svariate lettere, tutte di eleganza classicheggiante e ricche di notizie storiche importanti. Nei Praeloquia impartisce istruzioni morali a tutte le categorie del popolo cristiano (nel primo libro al Re e al vescovo, nel secondo al feudatario e al servo della gleba, nel terzo al maestro e al discepolo, nel quarto al ricco e al povero) e poi alla comunità nell’ultimo volume. Nei Synodica impartisce gli insegnamenti elementari sui loro doveri ai sacerdoti veronesi. Nel De Contemptu Canonum spiega agli stessi ecclesiastici veronesi, ribelli ai suoi comandi, quali solo i diritti del vescovo. Nell’Excerptum Raterio racconta la sua vita sulla scia di Sant’Agostino. Nel De Nuptu stigmatizza la clerogamia e l’illecito matrimonio dei preti, specie quello tra essi e le figlie dei loro stessi confratelli nel sacerdozio.

SANT’ATTONE IL GRANDE

Nacque in data imprecisata dalla stirpe del re longobardo Desiderio; dal 924 al 950 fu vescovo di Vercelli; fu stimato dal re Ugo e dal suo successore Lotario II (946-950), del quale forse fu arcicancelliere; morì nel 961. Il suo impegno di pastore e l’ampia testimonianza sulla vita ecclesiastica del tempo tramandata nelle sue opere fecero sì che egli meritasse il titolo di “Grande”. Cercò in ogni modo di potenziare la funzione educativa della Chiesa.

Attone scrisse lettere, sermoni (Conciones), una raccolta di canoni detta Capitulare per il suo clero e il De Pressuris Ecclesiasticis. In quest’opera originalissima il Santo vescovo descrisse l’occupazione di chiese e diocesi da parte degli aristocratici, le loro prepotenze durante le sedi vacanti e oppose loro i diritti canonici della Chiesa. Condannò l’incontinenza del clero, la pratica dell’usura, la frequentazione di osterie e di spettacoli da parte dei chierici e soprattutto la simonia e l’intrusione dei laici nell’elezione dei vescovi. Raccomandò ai sacerdoti di vigilare sulla formazione intellettuale del popolo e dei chierici, perché l’ignoranza faceva attecchire ogni eresia. Scrisse anche il Polipticum quod appellatur perpendiculum, in cui descrisse con intensità la situazione di anarchia dello Stato italiano intravedendo come sua conseguenza la tirannide e l’occupazione straniera. Altra sua opere fu l’Expositio in Epistulas Pauli, uno dei pochi commenti biblici dell’epoca.

SANT’ABBONE DI FLEURY

Nacque ad Orlèans nel 945. Fu oblato benedettino e poi monaco a Fleury e colpì i suoi maestri per le sue dot. Frequentò le scuole anche a Parigi, a Reims (dove insegnava Gerberto di Aurillac) e nella sua città natale, studiandovi teologia, astronomia e musica. Organizzò la scuola abbaziale di Ramsey a York su invito dell’arcivescovo locale. Fu ordinato poi sacerdote in Francia ed eletto nel 987 abate di Fleury. Ecclesiastico eminente coinvolto in tutte le vicende dell’epoca, ottenne da Gregorio V (996-999) l’esenzione per il suo monastero. Nel 1004, durante una delle sue tante missioni di mediazione tra i conflitti monastici, Abbone, che si trovava nel monastero di La Rèole, morì in seguito ad una rissa tra monaci e servi nella quale si trovò suo malgrado coinvolto.

Abbone fu chiamato magister famosissimus totius Franciae. Nella Collectio canonum trattò, in cinquantuno capitoli, della necessità dell’autorità regia, del compito dei sovrani di difendere la fede, dei diversi stati all’interno della Chiesa, degli abusi simoniaci, dei soprusi dei vescovi contro i monasteri e di altre cose. Scrisse diverse opere di calcolo e di astronomia (tra cui il De Computo), un’Epitome della vita di novantuno Papi e diversi studi sulla logica, la grammatica e sui trattati di Boezio.

ALTRI AUTORI DELL’ETA’ FERREA

Nokter il Balbo (840 ca.-912) fu uno storico, un agiografo e un poeta, che in quanto tale diede inizio alla sequenza, conferendole la definitiva sistemazione. Utilizzò tentativi, che erano stati fatti in Francia, di sostituzione dei vocalizzi dell’Alleluia conclusivo del graduale della Messa con sillabe di parole che costituivano frasi in prosa e poi anche in poesia. Dalla produzione di Nokter affiora un’alta ispirazione, un vivo senso poetico, una vitalità artistica che eliminano ogni virtuosismo scolastico. Il suo sistema metrico preferito fu quello ritmico che dalla sequenza passò all’inno, comune a molti altri autori minori.

Nella fioritura delle opere agiografiche di questo periodo (composizioni prosastiche ma anche poetiche, sotto forma di Vitae e di Translationes) ci sono i presupposti per la fioritura di autori come Radbodo di Utrecht (†917), vescovo, compositore di antifone in onore di San Martino, di un Carmen allegorico in onore di San Suitberto e di un’Ecloga pro Sancto Lebuino, unica nel suo genere perché composta in strofe tristiche di due ottonari piani seguiti da un settenario sdrucciolo, in cui le parole sono scelte col criterio per cui possono essere lettere in ordine inverso sotto forma di esametri quantitativi. A questi può essere accostato Letaldo di Micy, vissuto tra i secoli X e XI, autore di svariate opere agiografiche – segnalo i Miracula Sancti Maximini – ma anche di un originalissimo poema, il Within Piscator, che narra le gesta di un pescatore finito nel ventre di una balena. Nel genere menziono anche Gualtiero di Spira (†1031), autore della Vita et Passio Sancti Christophori Martyris – in versi e prosa – Purcardo di Reichenau (vissuto nella seconda metà del X sec.), che scrisse il De Gestis Witigowonis Abbatis; Flodoardo di Reims (893-966), noto soprattutto come storico (Historia Remensis Ecclesiae) ma che pure compose il poema agiografico De Triumphis Christi; Adsone di Montier-en-Der (†999), vissuto verso la metà del X sec., alla cui penna si deve la sistemazione delle leggende sull’Anticristo e la fine del mondo (De Adventu Antichristi), che esercitò una enorme influenza sull’escatologia successiva.

Remigio di Auxerre (841 ca.-908), discepolo di Enrico di Auxerre, insegnò a Saint-Germain, a Reims e a Parigi. Maestro di Oddone di Cluny, raccolse in opuscoli le sue lezioni commentarie a Donato, Prisciano, Marziano Capella, Beda, Boezio, Valerio Massimo, Terenzio, Giovenale, Sedulio Celio, lo Pseudo-Catone dei Disticha. Scrisse commenti alla Genesi e ai Salmi, ma anche ad alcune Lettere di Paolo. Redasse glosse alla Dialectica dello Pseudo-Agostino, un commentario a Marciano Capella e agli Opuscula e al De Consolatione di Boezio. Fu considerato il maggior dotto della sua epoca.

Reginone di Prüm (†915) fu autore di una importante Cronaca, la raccolta di canoni De Synodalibus Causis e l’Epistola de harmonica institutione, di teoria musicale.

Ausilio (870 ca.-920 ca.), soggiornò in Napoli e prese parte alla contesa per la legittimità dell'elezione di papa Formoso (891-896), con il libro In defensionem sacrae ordinationis papae Formosi, del 908, in polemica contro il papa Sergio III (904-911); con l’ In defensione Stephani episcopi; col dialogo Defensor et infensor, sullo stesso argomento; col De ordinationibus a papa Formoso factis (circa 911), che è una raccolta di documenti. Scrisse anche opuscoli di argomento grammaticale, tra cui uno, i Flosculi, di etimologia. Ausilio ha parola chiara ed efficace e nel dialogo ritrae dal vero con vigorosa eloquenza. Mantenne viva la memoria della retta dottrina della validità dei Sacramenti ex opere operato, dimenticata quasi totalmente in quest’età barbarica persino a Roma. Sostenne il primato papale, passando da una posizione molto favorevole ad una più temperata, necessaria per polemizzare contro gli abusi del Papato tra IX e X sec., difficilmente difendibili.

Il principale autore del periodo è tuttavia una donna, Hrotsvitha di Gandersheim (935-973), monaca nel monastero di quella cittadina. Fu il clamor validus Gandershemensis. Fu agiografa, che versificò storie dell’Ascensione, della Vergine, dei Santi, dei Martiri in esametri e distici; fu poetessa epica (Gesta Othonis, Primordia Coenobii Gandersiani); fu drammaturga (sei drammi in prosa rimata di ispirazione terenziana aventi contenuti moralmente edificanti) e infine poetessa (Maria, tratto dal Protovangelo di Giacomo; il Lapsus et conversio Theophili vicedomini, il più antico travestimento in versi della leggenda di Faust).

Gregorio di Tortona, verso la fine del X sec., scrisse un trattato eucaristico con considerazioni cristologiche secondarie, desumendone le argomentazioni da Pascasio Radberto e aggiungendovi un paio di racconti miracolosi. Più originale è il trattato coevo e del medesimo argomento di Beringero di Lobbes.

Gerberto di Aurillac (945-1003), fu il maggior dotto enciclopedico della sua epoca. Educato nella città natale, studiò matematica in Ispagna, fu insegnante a Reims, abate a Bobbio, maestro alla corte di Ottone II, precettore di Ottone III, arcivescovo di Reims, arcivescovo di Ravenna e Papa col nome di Silvestro II dal 999. Conobbe perfettamente le discipline del Quadrivio, la filosofia, la teologia e la letteratura classica, i cui testi furono da lui diligentemente cercati. Scrisse il De Rationali et ratione uti, sulla validità logica delle preposizioni, un De Geometria e un Liber de Astrolabio.

Il suo discepolo San Fulberto (†1029) avviò la fama di Chartres come scuola. Uomo di grande dottrina, ci restano di lui alcuni scritti agiografici, componimenti poetici, trattati e centoventotto lettere, importanti come modelli di stile e per la storia della liturgia.

Burcardo di Worms (965-1025) fu il massimo canonista dell’epoca, grazie alla sua collezione in venti libri di leggi ecclesiastiche. Fu anche legislatore del suo principato arciepiscopale. Sostenitore senza mezzi termini del primato papale, egli ne affermò l’origine divina, il diritto di essere la massima istanza nelle cause maggiori (intese soprattutto come questioni tra vescovi), la validità normativa delle decretali, il diritto di convocare e ratificare gli atti dei Concili ecumenici, la natura vincolante della tradizione della sua Chiesa Romana, il diritto di approvare i libri canonici, la prerogativa per cui ogni giudizio sinodale sui vescovi vale fatta salva la sua autorità, il diritto di appello dei vescovi davanti a lui, la prerogativa di eleggerli e destituirli, quella di approvarne il trasferimento – all’occorrenza al posto del Concilio provinciale. Burcardo sostenne anche il diritto del Papa ad una parziale giurisdizione diretta sui singoli fedeli.

San Bruno di Würzburg (1000-1045) scrisse un Commento ai Salmi ispirato ad Agostino e a Cassiodoro, nonché altre opere minori.

Bernone di Reichenau (†1048), musicolo e teologo, trattò del digiuno delle quattro tempora, delle quattro domeniche di avvento, della liturgia della messa (De Officio Missae, De Varia Psalmorum, De Consona Tonorum, Tonarium).

San Gerardo di Czanád (†1046), vescovo missionario e martire, compose una Deliberatio supra Hymnun Trium Puerorum. Scrisse altri commenti biblici e qualche altro trattatello non giuntici e alcuni sermoni mariani.

GLI ABATI DI CLUNY

Il grande movimento cluniacense nacque nel X sec. e si sviluppò in esso, anche se continuò ben oltre i suoi confini cronologici. Qui lo trattiamo per completezza soprattutto in relazione alle figure di quei Santi abati che, come i loro omologhi egiziani e orientali, ammaestrarono i popoli con le opere e l’esempio, contenuto nelle loro Vite, piamente scritte e diligentemente copiate.

Cluny perfezionò alcuni aspetti della riforma di Benedetto di Aniane, come il silenzio e il prolungamento della preghiera corale, enfatizzando la celebrazione liturgica, che divenne splendida e solenne. Il lavoro manuale e anche lo studio ne furono svantaggiati, ma questo da un lato favorì il reclutamento di monaci anche tra i nobili e dall’altro non interruppe l’attività intellettuale tipicamente monastica. Il diritto dell’Abate di scegliersi un successore e la formazione di una Congregazione fece si che la disciplina si conservasse a lungo e bene. Questa Congregazione ebbe vincoli sempre abbastanza blandi, anche se all’inizio furono ancora più tenui. L’Abate cluniacense, col titolo di Abate Generale, riceveva il giuramento di fedeltà degli altri Abati, mentre nominava dei Priori nelle fondazioni monastiche che egli stesso aveva allestito e che mantenevano questo stato di sottomissione anche quando si accrescevano. L’Abate Generale poteva visitare le Abbazie sottomesse e prendere opportuni provvedimenti in caso di infrazioni delle Regole. Il vincolo tra i monasteri fece sì che il patrimonio monastico non potesse essere alienato e si accrescesse sempre più. Sebbene prettamente inserito nel sistema ecclesiastico ottoniano-salico, basato sulle Chiese private, di cui fu una grande possidente, Cluny di fatto favorì la riforma ecclesiastica perché, posta sotto la protezione del Papa, ne sostenne sempre il primato, sia prima sia durante la Riforma Gregoriana. Inoltre l’irradiazione del suo influsso spirituale raggiunse anche diversi monasteri che solo per breve tempo furono soggetti all’Abbazia madre, ma che conservarono anche dopo i suoi insegnamenti.

Il Beato Bernone, fondatore dell’Abbazia di Cluny, nacque da nobile famiglia borgognona intorno all’850 e morì nel 927. Entrò come monaco a San Martino di Autun ed estese la riforma di Benedetto di Aniane all’Abbazia di Baume-les-Moines nell’886 e a quella di Gigny nell’890, da lui fondata. Quando Guglielmo di Aquitania (865-918) fondò Cluny nel 909, Bernone ne divenne abate e vi introdusse la riforma di Benedetto modificandole opportunamente. Nacque così la Regola di Cluny.

Sant’Oddone nacque nell’878 circa e morì nel 942. Chierico giovanissimo, divenne poi monaco e a trent’anni entrò a Cluny entusiasta della riforma di Bernone. Fu suo collaboratore per diciassette anni e nel 927 divenne lui stesso Abate di Cluny fino alla morte, ricevendo la guida della casa madre, di Dèols e di Massay. Svolse una frenetica attività, essendo chiamato a riformare le abbazie dell’Aquitania e del Lazio, o a fondarne di nuove. Nel 937 la sua Congregazione contava diciassette abbazie, legate tra loro da vincoli assai blandi, di cui solo alcune dipendevano direttamente da Cluny, ma di cui tutte avevano la stessa regola. Le sue propaggini arrivavano fino a Napoli e a Salerno.

Oddone scrisse varie opere morali, dottrinali e storiche. Compose il poema in esametri Occupatio e le Collationes, attingendo ai Padri e commentando il problema del male nel mondo. Fu teorico della musica, facendo cominciare la serie dei suoni dalla nota la, rifacendosi all’uso antico e portando a ventuno il numero delle note nella serie completa. Per l’eptacordo basso usò le lettere latine maiuscole, per quello medio le minuscole e per i suoni più acuti usò le lettere greche che i suoi scolari cambiarono nelle doppie minuscole. Il suo sistema rimase a lungo in uso anche dopo che la prima nota divenne il do.

Il Beato Aimardo nacque nel 910, divenne abate di Cluny nel 942, si prese come coadiutore Maiolo perché diventato cieco nel 948, abdicò nel 954 e morì nel 965. Sotto di lui Cluny ebbe una prodigiosa espansione.

San Maiolo nacque a Valensole nel 910; fuggito dalla Provenza per le guerre in cui morirono i genitori, divenne sacerdote e, dopo aver studiato a Lione, divenne canonico e arcidiacono di Mâcon. Nel 943 entrò a Cluny. Fu coadiutore del predecessore dal 948 e abate dal 954 fino alla morte avvenuta nel 993. Ebbe strette relazioni con la famiglia imperiale (l’imperatrice Adelaide [931-999], Ottone I, Ottone II [973-983], Ottone III [983-1002]) e con il Papato. Favorì la diffusione ulteriore dello spirito cluniacense portandolo al suo splendore ed estendendone le propaggini fino a Pavia, Ravenna, Roma, Marmoutier, Fleury, Sens, Auxerre, Digione e Payerne. Uomo di grande cultura, intensificò l’azione intellettuale di Cluny.

Sant’Odilone nacque in Alvernia verso la metà del X sec. e morì a Souvigny nel 1049. Abate di Cluny per oltre cinquant’anni (993-1048), estese la riforma cluniacense nonostante le tante difficoltà con l’appoggio di papa Giovanni XIX (1024-1032). Mediatore in diverse contese e uomo di grande carità, lasciò tra le altre cose lo Statutum De Defunctis, con cui istituiva per la sua Congregazione la Commemorazione dei Defunti al 2 novembre, che poi fu estesa a tutta la Chiesa. Fu autore anche dell’Elogio funebre dell’imperatrice Adelaide – avendo come modello San Girolamo – di varie biografie, di sermoni e di lettere, in cui attesta la conoscenza della retorica classica e il gusto dell’armonia della frase, basata sulla nuova tecnica della prosa rimata.

Sant’Ugo il Grande nacque a Semur nel 1024 da nobile famiglia e morì nel 1109. Entrò giovanissimo a Cluny e fu sacerdote a vent’anni. Nel 1049 fu eletto Abate e lo rimase fino alla morte. Riorganizzò la sua obbedienza ed estese la Congregazione in Inghilterra, Germania, Spagna, Polonia, Boemia e in Oriente. Fece pubblicare nel 1068 le nuove Regole. Fu consigliere di Enrico III, padre di diversi importanti Concili e tentò più volte una mediazione tra Gregorio VII ed Enrico IV, pur essendo un fautore del primo.

GLI ALTRI PADRI DEL MONACHESIMO

San Gerardo di Brogne (890-959) fondò in questa località un monastero tra il 913 e il 914, che fu il centro di un rinnovamento che si estese alla vita monastica dell’Hennegau e delle Fiandre.

San Giovanni di Gorze, nato intorno al 900 e morto nel 973, fondò nel 933, su mandato dell’arcivescovo Adalberone di Metz (905/910-962), un monastero a Gorze che fu centro di irradiazione monastica in tutta la Lorena e in Inghilterra.

Vanno ricordati anche i riformatori San Poppone di Stablo (978-1048), Immo di Reichenau (abate in questa sede dal 1006 al 1008), Richerio di Montecassino (†1055), Riccardo di Saint Vanne (1005-1046).

Sant’Alferio Pappacarbone nacque nel 930 da nobile famiglia longobarda a Salerno. Fu discepolo di Odilone di Cluny. Nel 1011 tornò in patria e fondò l’Abbazia di Cava dei Tirreni, che costituì una forte Congregazione riformatrice estesa in tutta l’Italia meridionale. Il Santo morì nel 1050 nella sua Abbazia.

San Nilo di Rossano nacque in questa città nel 910.Vi fondò una comunità nel 950. Indi eresse quello di Valleluce e poi l’eremo di Serperi. Amico di Ottone III, fu da questi designato Abate delle Tre Fontane. Il Santo fondò poi l’Abbazia di Grottaferrata, dove morì nel 1004. Nonostante egli fosse di rito greco e nonostante guardasse all’esperienza anacoretica orientale con maggior attenzione di quanto non facesse con quella cenobitica occidentale, Nilo esercitò una grande influenza sul monachesimo italiano e latino.

San Romualdo, figlio del Duca di Ravenna, nacque nel 972 e divenne monaco nel 992 a Sant’Apollinare in Classe. Si fece poi eremita a Venezia; entrò poi nel monastero catalano di Cuxà dove fece l’anacoreta per dieci anni. Nel 988 tornò in Italia dove continuò la sua vita ascetica che esercitò un enorme fascino su tutti. Ottone III lo investì Abate di Sant’Apollinare in Classe nel 998, ma l’anno dopo Romualdo rinunciò al titolo e si diede alla riforma di svariati monasteri, fondandone uno suo a Camaldoli. Morì nel 1027 a Valdicastro in eremitaggio. Nelle sue fondazioni la vita eremitica e quella cenobitica convivevano in spazi contigui, ma la prima era considerata la migliore. Non si può parlare di una vera regola camaldolese fatta da Romualdo, in quanto una codificazione in tal senso fu fatta da Pier Damiani.

San Giovanni Gualberto (985/995-1072), dopo una drammatica conversione che lo spinse a perdonare l’assassino di suo fratello, fu monaco a San Miniato e poi, a causa dei contrasti col clero e con l’abate simoniaco, eremita a Vallobrosa. Fu il fondatore dell’Ordine Vallobrosiano, avente la Regola di San Benedetto debitamente adattata e dotato di un governo accentrato. Fu precursore della Riforma gregoriana e lottò senza risparmiarsi per emendare i costumi del clero.


Theorèin - Gennaio 2017