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GREGORIANI PATRES Breve introduzione ai Padri della Riforma Gregoriana Quella grande parte della storia della Chiesa che chiamiamo Riforma Gregoriana è in realtà costituita da tre fasi: la Riforma pregregoriana (1049-1073), la Riforma Gregoriana propriamente detta o Lotta per le Investiture (1073-1122) e la Nuova Riforma (1122-1153). In esse si susseguono un profondo rinnovamento dei costumi nel quadro della teocrazia ottoniano-salica rinverdita dalla Casa di Franconia, una prosecuzione di quel rinnovamento contestualmente ad una battaglia per l’emancipazione del Sacerdozio dall’Impero e per l’affermazione del primato del primo sul secondo in seno alla Cristianità e dell’accentramento dell’autorità ecclesiastica nel Papato, una ripresa del processo di rigenerazione spirituale svincolata dai conflitti giuridici e politici propriamente detti. In quanto segue parleremo essenzialmente delle prime due fasi, che sono anche coincidenti con il risveglio della Scolastica dopo l’Età ferrea e un ampio movimento religioso che riguardò sia la vita consacrata che il diritto canonico, entrambe ampiamente rinnovate. Su tutto getta la sua ombra la titanica battaglia tra i due soli, Papato e Impero, inaugurata e definita nei suoi scopi da Gregorio VII, dal quale quest’epoca viene detta gregoriana, ma conclusa vittoriosamente dai suoi successori. E’ questa l’epoca capitale in cui non solo nasce il Medioevo ecclesiastico classico, ma anche in cui la Chiesa diviene definitivamente la monarchia papale accentrata e burocratica che è ancora oggi. Tralasciamo in questa sede le ragioni che giustificavano la riforma ecclesiastica e il grande merito del Papato di averla intrapresa (simonia, nicolaismo, sistema delle Chiese private e dell’Investitura laica, confusione teologica) e non ripetiamo quanto detto in precedenza sulla riforma monastica che preparò quella ecclesiastica ma che mentalmente era ancora nell’età ottoniano-salica. Limitiamoci a trattare come sempre i grandi astri del pensiero teologico dell’epoca. IL BEATO LANFRANCO DI BEC Nato nel 1005 e morto nel 1089, Lanfranco, che fu maestro di Sant’Anselmo e suo predecessore nello scolarcato e nel priorato di Bec ma anche sulla cattedra di Canterbury, fu più conciliante di tanti suoi contemporanei – come i sottoscritti Otlone, Manegoldo e Pier Damiani – verso la filosofia, che pure guardò con diffidenza. Fu lui ad insegnare ad Anselmo che la ragione doveva servire a sostenere e a confermare gli insegnamenti della fede, perché coloro che vedono bene sanno che la dialettica non contraddice i divini misteri. Scrisse il Liber de corpore et sanguine Domini contra Berengarium, prendendo parte alla disputa eucaristica aperta da Berengario di Tours di cui diremo. In tale opera fu il primo a spiegare la dottrina della consacrazione eucaristica come una transustanziazione, facendo la sintesi tra la tradizione ambrosiana che insisteva sulla conversione del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Gesù e quella agostiniana che sottolineava l’aspetto dinamico e simbolico del Sacramento che unisce al Corpo Mistico. Fu autore di un Commento alle Epistole paoline, in cui adoperò l’arte dialettica, di una esposizione della Regola di San Benedetto, di un Liber de celanda confessione e di note In Ioannis Cassiani collationes. È invece perduto il suo commento ai Salmi. Importanti anche alcune sue epistole. OTLONE DI SANT’EMMERANO Rappresenta la prima reazione della teologia monastica alle storture della filosofia dell’epoca, puramente raziocinante e priva di vero contenuto, come si manifesta in Anselmo il Peripatetico, o incapace di argomentare nel quadro del dato rivelato, come si mostra in Berengario di Tours, di cui diremo. Nato nel 1010 e morto nel 1070, Otlone Fu animo sensibile e fine, ma impressionabile; aperto ai più alti ideali, ma turbato e incerto nelle sue convinzioni; vivace spirito e acuta introspezione, ma fisico malfermo. Nei suoi scritti ebbe sempre a cuore l’utilità e l’edificazione del lettore. Per queste caratteristiche particolarmente riuscita è la sua opera nel Liber de tentationibus suis et scriptis, in cui narra i dubbi che a lungo lo tormentarono sull’esattezza delle Scritture e sull’esistenza di Dio, e di come li avesse superati per Grazia divina. Otlone, che pur conosce Platone, Aristotele e Cicerone, afferma che la conoscenza profana può interessare un laico ma non un monaco, e che il credente non solo non ha bisogno, ma deve rifiutare di sottomettere la Rivelazione biblica alla dialettica. Scrisse anche il Dialogus de tribus quaestionibus, Proverbia, un poema dottrinale intitolato De Doctrina Spiritali, alcuni opuscoli dedicati all’interpretazione di sogni e visioni (Liber Visionum, Quomodo legendum sit in rebus visibilibus), il De Cursu Spiritali contro la corruzione del clero, una raccolta di Proverbia desunti da autori sacri e profani (Seneca, Orazio, Lucano, Sallustio, i Disticha Catonis) e alcune vite di santi, nelle quali alternava prosa e versi e da cui traspaiono le sue personali preoccupazioni teologiche, morali e psicologiche. MANEGOLDO DI LAUTENBACH Visse tra il 1040 e morì prima del 1140. Egli sostenne tesi simili a quelle di Otlone e affermò che fede e filosofia sono in disaccordo perché questa sostiene tesi incompatibili con la Rivelazione. Nell’Opusculum contra Wolfelmum Coloniensem, scritta nel 1080 dopo una disputa, contesta duramente l’opinione di Wolfelmo di Colonia il quale sosteneva che il Somnum Scipionis fosse in accordo sotto vari aspetti col Cristianesimo. Nel Liber ad Gebehardum in polemica contro Wenrico di Treviri, difende l'opera riformatrice di Gregorio VII ed enuncia una teoria del potere civile secondo la quale la sovranità è un officium delegato dal popolo al re che, ove venga meno al patto, governando con potere dispotico, sarà denunciato dal papa e cacciato dal popolo stesso, come fedifrago. Non a caso fu arrestato dal 1098 al 1103 circa dagli imperiali e tenuto prigioniero, campione della libertà di espressione. SAN PIER DAMIANI Nacque a Ravenna nel 1007 e perse presto i genitori, venendo allevato dalla sorella Roselinda e dal fratello Damiano, dal quale prese il patronimico. Fu avviato agli studi a Ravenna, Faenza e Parma. Divenne professore delle arti del Trivio e del Quadrivio. Nel 1035 sentì la vocazione monastica ed entrò nell’eremo di Fonte Avellana, di cui poi divenne priore (1043-1057) e nel quale contribuì a conservare lo spirito di San Romualdo, tanto che il vero fondatore della Congregazione Camaldolese può essere considerato lui. Fondò monasteri dipendenti nelle Marche, in Romagna, in Umbria e Abruzzo, costituendo la Congregazione di Santa Columba, dettandone la Regola che appunto manteneva l’ispirazione di Romualdo, del quale scrisse la Vita. Il Santo prese contatti con papa Gregorio VI (1045-1046) e coi suoi Successori per esortarli a combattere il malcostume del clero. Ebbe contatti stretti – ma anche dissapori politici – con San Leone IX (1049-1054), del quale non approvò la guerra santa contro i Normanni, e collaborò con i beati Vittore II (1055-1056) e Stefano IX (1057-1058), il quale, contro la sua volontà, lo volle Cardinale Vescovo di Ostia e Decano del Sacro Collegio nel 1057. Da questa posizione chiave della Curia si battè come un leone per la riforma ecclesiastica e l’emancipazione della Chiesa dal dominio regio ed imperiale. Svolse diverse missioni per i Papi; sostenne Niccolò II (1059-1061) contro l’antipapa Benedetto X (1058-1059) e per conto suo si recò a Milano a sostenere Anselmo di Baggio e il movimento della Pataria. Quando quegli divenne Alessandro II (1061-1073), lo sostenne contro l’antipapa Onorio II (1061-1064) e in suo nome si recò a Cluny per difendere l’abbazia dai soprusi dei vescovi francesi e poi a Francoforte per impedire il divorzio di Enrico IV (1056-1105). I suoi ultimi anni, dal 1067 al 1072, furono segnati dal ritorno all’eremitaggio e alla vita monastica. Morì a Faenza durante un viaggio, nel monastero di Santa Maria degli Angeli. Fu il più grande scrittore del suo tempo, tanto che si doleva del fatto che delle sue lettere si apprezzava più lo stile, l’eloquenza, la dialettica nutrita di sillogismi ipotetici e categorici che il contenuto edificante. Nelle sue opere trasfonde il suo spirito di riformatore e di animatore dell’eremitaggio. I suoi Opuscula sono almeno sessanta (tra essi il Liber Gratissimus, contro la reiterazione delle ordinazioni simoniache, considerate valide ex opere operato, il Liber Gomorrianus, contro la sodomia nel clero ma anche per concedere l’assoluzione ai viziosi pentiti, l’Antilogus contra Judaeos, la Disceptatio Synodalis in difesa della legittimità di Alessandro II, il De Sancta Semplicitate, il De Divina Omnipotentia, il De Institutione monialis contro i costumi dei cristiani d’Oriente, il De bono suffragiorum, il Dominus Vobiscum); le sue Epistolae centosettanta; i suoi Sermones settanta di cui cinquantatrè senz’altro autentici; i suoi Imni mariani ed agiografici e le sue Orationes duecentoquaranta; le sue Vitae sono dei Santi Odilone di Cluny, Mauro di Cesena, Romualdo, Rodolfo di Gubbio, Domenico Loricato. Scrittore le cui opere furono legate essenzialmente alla sua opera di riforma e monastica, autore classico di quella mentalità medievale che disprezza il corpo umano e lo mortifica severamente, Pier Damiani non solo conobbe bene la Scrittura a tal punto da essere chiamato Girolamo il Giovane, ma anche i classici latini sia pagani che cristiani, a cui si ispirò più volte secondo la prassi letteraria dell’epoca. Conobbe benissimo il diritto canonico ed ebbe dimestichezza sia con la filosofia che con la teologia, dibattendo tutte le questioni sul tavolo ai suoi tempi e cercando di risolverle alla luce della Tradizione latina. Pier Damiani polemizzò duramente con i cosiddetti dialettici, ossia con quei teologi e filosofi che invece di approfondire i misteri della fede cercano di svuotarli con le sottigliezze della logica; ad essi il Santo rinfaccia che l’uomo non solo non può conoscere i misteri di Dio con la sua mente, ma nemmeno quelli della natura e della storia. Gli studi profani non servono alla salvezza, questa si ottiene più sicuramente diventando monaci e ai monaci quegli studi dunque non devono interessare affatto. Essi devono solo conoscere e seguire la Scrittura. Ecco perché Dio, come dice nel De Divina Omnipotentia il nostro Santo, non ha mandato filosofi ma pescatori a convertire il mondo. La filosofia è dunque farina del diavolo, corrotta dalla grammatica. Celebre l’invettiva contro di essa, inutile e dannosa per la fede tanto quanto il poter declinare il nome Deus ad un inutile plurale, quei dii nei quali satana promise ad Adamo ed Eva che sarebbero diventati se avessero peccato, ingannandoli. Tuttavia anche il nostro, che pure per il suo antidialettismo a volte cadde in forme grossolane di credulità, indulse a volte alla mera speculazione e nell’opuscolo De Divina Omnipotentia denuncia la teoria per la quale Dio, sebbene possa tutto, non può cambiare il passato in futuro o far sì che non sia ciò che Egli ha già voluto. Pier Damiani, polemizzando con San Girolamo che aveva sostenuto questa tesi e al quale dà la parola nel fittizio convivio con cui inizia l’opera, afferma che Dio può tutto e quindi potrebbe, se volesse, anche mutare il passato, in quanto Egli stesso vive al di fuori del tempo. Questo teologumeno apre la strada che porterà al volontarismo di Ockham e anche di Lutero e Calvino. In quest’opera il Santo mostra come il cristiano deve servirsi della filosofia, ossia come di una ancella che si vuole sposare, mettendola al suo servizio nella fede. Nel Contra Errores Graecorum de Processione Spiritus Sancti Pier Damiani costruisce la teologia trinitaria sui termini processione, relazione e persona, mostrando come la Terza Ipostasi trinitaria proceda sia dal Padre che dal Figlio, usando un cospicuo armamentario biblico e patristico. Nel De Fide Catholica il Padre illustra la sua cristologia in modo lucido, completo ed esauriente, pur senza apportarvi alcuna novità. Il tema più frequentemente trattato da Pier Damiani in teologia è l’ecclesiologia, che affiora un po’ ovunque nei suoi scritti. Egli, quale membro del Corpo Mistico che è la Chiesa, si sente autorizzato a parlarne. Sebbene eremita, sulla scorta della sua formazione teologica mai il Santo si astenne dal predicare e dallo scrivere sull’argomento, che almeno finchè fu in quello stato qualcuno avrebbe potuto obiettare che non era di sua spettanza. Mistero e sacramento di salvezza, realtà teandrica e prolungamento dell’Incarnazione, la Chiesa è presente intera in ogni suo membro e in tutti loro. Grazie alla sacramentalità che le è propria, la Chiesa fa sì che la Trinità abiti non solo in se stessa nel suo complesso ma in ogni cristiano in stato di Grazia. In ragione di ciò, chi detiene un ufficio in essa, a partire dal Papa passando per i Cardinali e sino ai Vescovi, ai Presbiteri e ai Diaconi, deve vivere in modo coerente con il Vangelo ed essere testimone della sua predicazione. La condanna della simonia è in Pier Damiani totale ed estensiva, in quanto egli individua tre tipi di munera, di doni, con cui possono essere comprate le cose sacre: a manu, perché con essa si elargisce denaro; ab obsequio, perché con esso si offre obbedienza a chi non è preposto a riceverla; a lingua, perché con essa si concede adulazione. In ragione di ciò, non è solo simoniaco chi paga per ottenere una cosa sacra, ma anche chi la ottiene con la professione di fedeltà a chi non ha il diritto di concederla o per chi non è degno di riceverla (e in questo caso il Santo pensa sia ai Re che esercitano l’investitura ecclesiastica sia ai prelati che la ottengono immeritatamente), nonché colui che la riceve per le blandizie verbali verso i superiori o i preposti, sia ecclesiastici che laici. L’unico titolo esigitivo per le res sacrae, in particolare per i sacri ordini e per gli uffici ecclesiastici, è la forma di vita, quella sequela che non si inganna e che solo si può realizzare seguendo la Parola di Dio. Perciò la forza della Chiesa sta in ciò che predica e in ciò che vive, attraverso i suoi ministri innanzitutto, i quali predicano proprio in virtù della spinta interiore che la santità di vita imprime loro. Tuttavia, con una importantissima puntualizzazione fatta nel Liber Gratissimus, Pier Damiani afferma, sulla scia di Agostino, che proprio per salvaguardare la sacramentalità della Chiesa, che discende da Cristo stesso che opera in essa, anche i sacramenti impartiti ai e dai simoniaci sono validi, anche se chi li riceve è sacrilego e indegno. Essendo la Chiesa al servizio della salvezza umana, Pier Damiani vorrebbe che essa mai ricorresse alla scomunica, in quanto tale pena rompe il legame che vi è tra Dio e l’uomo. Quest’ultimo è l’oggetto di ogni premura materna della Chiesa. A lui essa insegna che se non libera se stesso da ogni schiavitù mondana, idolatria, peccaminosità non potrà giungere alla perfezione. Se invece arriva a questa, l’uomo offre a Dio il suo omaggio integrale e completo, il suo culto spirituale, in ogni cosa e in ogni tempo. Il tema mariologico è pure importante in Pier Damiani. Devotissimo della Vergine, il Santo ne mostra con solide prove le prerogative, i privilegi e le attribuzioni salvifiche, specie nei Sermoni. La concezione politica di Pier Damiani fu strettamente teocratica. Egli sostenne che il Papa elegge l’Imperatore mediante l’unzione che gli conferisce, affidandogli la missione sussidiaria di guidare i popoli verso il loro destino eterno applicando ad essi le leggi della Chiesa e garantendo loro la serenità necessaria per prendersi cura della loro anima. Essendo tuttavia un predecessore della concezione di Gregorio VII, Pier Damiani non riesce a distinguere bene ontologicamente Stato e Chiesa, e siccome sa bene qual è il fine di quest’ultima, non riesce a spiegarsi quale sia quello proprio del primo. Impero e Sacerdozio, i due poteri della Chiesa, sono uniti come le Due Nature nell’Ipostasi di Cristo e ovviamente il Sacerdozio sta alla Divinità come l’Impero all’Umanità, essendone lo strumento. L’Imperatore governa i corpi e il Papa le anime. Il Papa è il padre dell’Imperatore. Non esiste dunque un popolo distinto dalla Chiesa, ma un popolo cristiano di cui la Chiesa è la forma e l’anima. Ragione e ordine naturale sono uguali per il Dottore: non esistono separati dalla fede e dall’ordine soprannaturale. Nell’ambito della riforma ecclesiastica, Pier Damiani prese una posizione molto chiara nei confronti delle ordinazioni simoniache. Pur considerandole, assieme agli altri riformatori e come ogni simonia, un tradimento del mistero della Chiesa e un ostacolo all’azione dello Spirito Santo, una mistificazione del rapporto tra Cristo e la Chiesa e un meretricio di quest’ultima, il Santo non la considerò una eresia diretta ma solo una offesa indiretta alla fede. Non condivise i motivi teologici di quei riformatori che, come Umberto di Silva Candida o papa San Leone IX, ritenevano che i vescovi simoniaci non potessero impartire ordinazioni valide né la prassi dello stesso Pontefice di riordinare, per cautela, i chierici e i prelati simoniaci. Sostenne nel Liber Gratissimus che le ordinazioni, anche se simoniache, erano valide ex opere operato, conservando l’insegnamento agostiniano che gli era giunto tramite Ausilio. La sua trattazione fu la più completa all’epoca ma non potè sciogliere tutti i nodi per la mancanza di una chiara distinzione nella teologia dell’epoca tra sacramentum , res et sacramentum, res sacramenti. Bisognò aspettare la teologia del secolo successivo per affermare l’assoluta validità delle ordinazioni simoniache e dei sacramenti amministrati da simoniaci, nonostante l’illiceità di tali azioni. Il più grande elogio che si può fare di Pier Damiani è che ebbe uno spirito talmente intensamente raccolto in Dio da poter rimanere eremita anche nel turbine degli affari ecclesiastici e da poter sprezzare la sapienza umana pur padroneggiandola con maestria. UMBERTO DI SILVA CANDIDA Nato in data imprecisata, morì nel 1061. Fu uno dei cinque grandi riformatori del XII sec. con Pier Damiani, Gregorio VII, Stefano IX e Ugo il Bianco, poi passato agli imperiali. Entrato nel 1015 nel monastero benedettino di Moyenmoutier (dal cui nome spesso è anche designato), fu fautore della riforma della Chiesa e fu chiamato a Roma da Leone IX nel 1049 di cui fu consigliere e dal quale fu creato cardinale vescovo di Silva Candida (oggi Porto e Santa Rufina), durante il Concilio Romano. Fu poi eletto arcivescovo della Sicilia, allora sotto l’islamocrazia. Umberto scrisse l'Adversus Graecorum calumnias durante lo scisma di Michele Cerulario. Fu inviato da Leone IX a Bisanzio con Federico di Lorena, ma la missione non raggiunse risultati positivi e terminò con la scomunica del Patriarca. Bibliotecario della Chiesa sotto il papa Niccolò II, nel 1059 partecipò al Concilio Lateranense che proibì per la prima volta le investiture laiche e riservò l’elezione del Papa ai Cardinali. Fu anche al Concilio di Melfi, dove si stabilì l'accordo fra il papato e i Normanni. Fu con Leone IX convinto sostenitore dell’invalidità delle ordinazioni simoniache. Sebbene il Papa non riuscisse a far prevalere la sua tesi nel Concilio romano del 1049 e si limitasse a riordinare i chierici e i prelati simoniaci oltre che a deporli dal loro ufficio, Umberto scrisse l’Adversus Simoniacos nel quale argomentò a favore di questa tesi rigorista. In esso polemizzò con Ausilio e si rifece all’insegnamento di San Cipriano, che sebbene opposto a quello di Agostino era pur sempre parte della Tradizione ecclesiastica. Umberto fu anche canonista. All’epoca esistevano già raccolte di fonti giuridiche, comprendenti soprattutto quei testi che, tratti dai Registri pontifici, dagli Ordines romani, dal Liber diurnus, dagli atti conciliari, dagli scritti dei Padri, dalle opere storiche, dai privilegi imperiali e dal diritto giustinianeo, fino a quel momento erano stati inutilizzati. Gli anonimi autori di queste miscellanee disordinate e ora perdute (sopravvive solo la Collectio Britannica, che si avvicina abbastanza a tale modello) avevano come scopo la purificazione e il ritorno alle origini della vita della Chiesa. Essi consideravano insufficiente le raccolte precedenti come quella di Burcardo di Worms. Ma la messe dei canoni così raccolta esigeva sistemazione e concordanza. Ebbene Umberto fu il primo a tentarla nelle Sententiae Diversorum Patrum, in settantaquattro titoli e che molto plausibilmente fu opera sua, scritta ancor prima del papato di Gregorio VII. Dopo di lui, altri avrebbero provato, scegliendo tra due criteri: o l’ammissione esclusiva di quelle leggi approvate dai Papi – che però si rivelò impraticabile – o l’accettazione in un diritto comune logicamente concepito di tutte quelle norme che, senza contraddizione tra loro, culminassero in una affermazione esplicita del Primato papale. L’impostazione rigida di Umberto sulle ordinazioni simoniache dipese dal fatto che egli fu soprattutto canonista e non teologo. Infatti all’epoca non si distingueva la potestà di ordine da quella di giurisdizione nell’episcopato e i canonisti, cui premeva soprattutto la seconda potestà, affermavano che il Sacramento dell’Ordine conferito da simoniaci erano non solo invalido ma inefficace, in quanto l’ordinante era privo di Spirito Santo e incapace di trasmettere la virtus Sacramenti. Egli pretendeva, come i suoi colleghi giuristi del resto, che i simoniaci venissero sottoposti all’imposizione delle mani, che pochi soltanto tra loro intesero come assoluzione e la maggioranza come nuova ordinazione. SAN GREGORIO VII Egli è la maestosa personalità che riformò la Chiesa medievale e fondò definitivamente la monarchia pontificia, la sintesi vivente della spiritualità dell’epoca, intesa ad un tempo come fuga dal mondo e dominio di esso, il monaco integrale e il Papa ideale, il dominatore nato. Di nome Ildebrando e di probabile origine longobarda, nacque a Soana da umile famiglia nel 1020. Trasferitosi a Roma da bambino, venne educato nel monastero di Santa Maria dell’Aventino e nel Palazzo Lateranense. Da accolito e in qualità di cappellano papale, accompagnò il deposto Gregorio VI (1045-1046) nel suo esilio a Colonia. Defunto il Papa, Gregorio si ritirò nel 1047 a Cluny. Da qui lo chiamò a Roma San Leone IX che lo ordinò suddiacono e lo nominò tesoriere della Chiesa Romana e priore del monastero di San Paolo. Ildebrando entrò così nella cerchia intima del Papa e nel gruppo nobile dei riformatori, con Umberto di Silva Candida, Ugo il Bianco, Federico di Lorena poi Stefano IX e lo stesso Pier Damiani. Fu legato apostolico in Francia nel 1054 e in Germania nel 1057. Nel 1059 divenne Arcidiacono della Chiesa Romana e fu il più intimo consigliere sia di Niccolò II che di Alessandro II, sia in temporalibus che in spiritualibus. Nel 1073, il 22 aprile, alla morte di Alessandro, il popolo lo acclamò Pontefice praticamente costringendolo ad accettare. La grande determinazione, la vasta esperienza, l’eccezionale cultura e la fortissima intelligenza, nonché la notevole abilità del Papa traspaiono dalle lettere del suo Registrum, nel quale il tema predominante è la Riforma. Ad essa si dedicò con abnegazione e determinazione assolute: nel 1074 e nel 1075 nei suoi Sinodi quaresimali ripristinò la legge del celibato del clero sguinzagliando in tutta Europa i suoi Legati per attuarla a dispetto delle forti opposizioni; dal 1075 in poi vietò espressamente l’Investitura laica, ossia tolse ai sovrani il diritto di conferire l’abilitazione al potere ecclesiastico ai Vescovi e agli Abati eletti, restaurando le norme per la loro libera elezione. Ciò implicava la fine delle Chiese private, delle avvocature ecclesiastiche, del patronato regio sulle Chiese e naturalmente della feudalità ecclesiastica. Il re Enrico IV fu il capofila dell’opposizione a queste leggi e continuò imperterrito ad esercitare il diritto di designare i prelati alle sedi episcopali, anche in Italia. Essi venivano poi docilmente eletti ed investiti alla fine dal sovrano. Il Papa riprese il sovrano e per reazione questi nel Conciliabolo di Worms (1076) lo fece deporre. Gregorio allora fulminò la scomunica contro Enrico e, avendolo escluso dalla comunione con gli altri cristiani, sentenziò che non poteva governarli e lo depose, per la prima volta nella storia della Chiesa, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà. I principi tedeschi elessero allora un nuovo re nella persona di Rodolfo di Svevia (†1080) e chiesero al Papa di recarsi in Germania per fare da arbitro della questione. Gregorio si accinse a partire. Enrico, stretto nella morsa tra i feudatari ribellatisi e il Papa, dovette sottomettersi a questi a Canossa nel gennaio del 1077. Gregorio, che si trovava in quella città ospite della sua potente fautrice Matilde di Toscana in attesa di riprendere il viaggio per la Germania, lo assolse ma non lo autorizzò a risalire sul trono. Dopo che Enrico, sedate le rivolte, ricominciò a praticare le investiture, il Papa lo scomunicò e lo depose nuovamente nel 1080, riconoscendo come sovrano Rodolfo di Svevia, che però morì poco dopo. Enrico IV reagì questa volta con maggior sagacia: non solo tenne il Concilio di Bressanone che invalidò la nuova sentenza papale, ma fece eleggere l’antipapa Clemente III (1080-1100), che divenne il catalizzatore di tutti gli oppositori di Gregorio, a cominciare dagli ecclesiastici che, pur essendo riformatori, non condividevano questo scontro frontale con l’Impero. L’esercito tedesco nel 1084 scese in Italia, assediò Roma, la prese corrompendo le guardie e costringendo il Papa a trincerarsi in Castel Sant’Angelo; tenne poi la città, dove Clemente incoronò Enrico imperatore, fino a quando Roberto il Guiscardo (1015-1085), alleato del Papato, scacciò gli occupanti. Messala al sacco, i Normanni provocarono la rivolta dei Romani, per cui dovettero fuggire portandosi dietro Gregorio, il quale morì in esilio a Salerno il 25 maggio 1085. Nel corso del suo tumultuoso papato Gregorio fronteggiò anche gli altri sovrani europei come Filippo I di Francia (1060-1108) e Guglielmo il Conquistatore di Inghilterra (1066-1087) per la questione delle Investiture, sebbene dovette moderarsi in quanto non poteva permettersi di combattere contemporaneamente su più fronti. Gregorio allacciò anche rapporti con l’imperatore romano d’Oriente Michele VII Ducas (1071-1078), in vista di una riunificazione delle Chiese, di una affermazione del primato romano su quella bizantina e di una armoniosa convivenza dei due Imperi in una sola Cristianità retta dal Papato. Questo ampio disegno previde anche l’organizzazione di una spedizione militare per soccorre Bisanzio attaccata dai Turchi e che poi doveva giungere a liberare Gerusalemme, guidata dallo stesso Papa, in qualità quindi anche di supremo condottiero. Tuttavia né le sue aspirazioni unionistiche né il grande progetto precrociato si realizzarono, ma servirono da presupposti alle più solide realizzazioni di Urbano II. In realtà Gregorio, sviluppando l’iniziativa di Leone IX contro i Normanni e di Alessandro II contro i Mori di Spagna, non solo incoraggiò a prendere le armi contro i nemici di Cristo e della Chiesa, ma rivendicò a quest’ultima il diritto di reclutare eserciti e di condurre direttamente delle guerre giuste, determinate sulla scorta della dottrina di Agostino in materia. Il Papa riteneva da un lato che la Chiesa, quale res publica fidelium, avesse diritto alla potestas coactiva materialis, dall’altro che la sorte della lotta tra bene e male si dovesse decidere anche in questo mondo. Fu infine sempre Gregorio a porre fine alla disputa eucaristica con Berengario di Tours (†1088), il quale aveva insegnato che l’Eucarestia è simbolo e figura del Corpo di Cristo ma non lo contiene sostanzialmente, sebbene la presenza dello stesso in essa sia reale. Per Berengario dove non vi è la sostanza non possono sussistere i relativi accidenti. Perciò non credeva possibile che il pane e il vino fossero Cristo, continuando ad apparire tali e non come il Redentore. Questa sottile formula, già condannata da Leone IX nel 1055 e dal Concilio Lateranense di Niccolò II Nel 1059 da Niccolò II. Gregorio VII lo riconvocò a Roma e nel 1079 ottenne da lui nel corso di un nuovo Sinodo tenuto nella stessa basilica una ritrattazione che confessava la presenza di Cristo nell’Eucarestia in modo sostanziale e che avveniva per transustanziazione, aprendo la strada alla definizione dogmatica del IV Concilio Lateranense del 1215. L’opera più importante di Gregorio VII è costituito dal Dictatus Papae, un insieme di brevi preposizioni che avrebbero dovuto preludere ad uno sviluppo sistematico dei temi in esse trattati. Dettato nel 1075, è di capitale importanza: segna il punto di arrivo dello sviluppo della canonistica precedente sulle prerogative del Papato e della riflessione teologica, giuridica e politica sui rapporti tra Impero e Sacerdozio nella Chiesa. Per quanto concerne il primo aspetto, Gregorio, in nome della successione a Pietro, Principe degli Apostoli, rivendica al Papa la plenitudo potestatis, la pienezza del potere, su tutta la Chiesa, avendo Pietro da solo tutta quella autorità che gli altri Apostoli avevano solo insieme a lui e sotto di lui. Il Papa ha la pienezza del Sacerdozio e quindi tutta la auctoritas sacrata pontificum vive e sussiste in lui. Egli solo ha una giurisdizione universale; la tradizione della sua Chiesa è normativa e vincolante per tutte le altre, in quanto per promessa divina essa è incorrotta e la stessa Chiesa Romana è infallibile. Al Papa spetta la supremazia su tutti i prelati, che egli può all’occorrenza eleggere, investire, consacrare, trasferire, deporre, degradare e reintegrare, anche se Gregorio VII non avocò subito a sé tutte queste competenze, che però furono esplicitate dai suoi Successori. Al Papa spetta la determinazione delle circoscrizioni ecclesiastiche e la loro modifica, sebbene anche in questo campo Gregorio non trasse subito delle conseguenze universalmente vincolanti. Al Papa spetta la ratifica degli atti di tutti i Concili e la convocazione di quelli generali ed ecumenici. Al Papa spetta la giurisdizione su tutti e ciascuno dei fedeli, ecclesiastici religiosi e laici, i quali possono rivolgersi a lui e a cui spettano direttamente tutte le cause maggiori. E’ in nome del Papa che i Metropoliti, i Primati e i Patriarchi agiscono come capi degli Episcopati delle loro circoscrizioni ecclesiastiche. Infine, è la Chiesa Romana che ha il primato su tutte le Chiese, senza distinzioni di culto e di diritto. Proprio in queste materie il Papa non è il semplice custode della Tradizione, ma può anche agire innovando, mediante una interpretazione e un accrescimento delle norme. Il Pontefice diventa così il sommo legislatore della Chiesa e il massimo regolatore del culto. Pietro vive in lui e opera al servizio di Cristo che gli ha conferito il suo stesso potere. In quanto al secondo, Gregorio rivendica risolutamente al Papa una supremazia imperiale su tutti i principi i re e lo stesso Imperatore. Infatti, essendo i regnanti e in particolare l’Imperatore effettivamente consacrati per l’esercizio di un potere che è sacro, essi dipendono da colui che del sacro è custode e mediatore in terra, ossia il Pontefice. In ragione di ciò, questi può eleggerli come può deporli, sciogliendo i sudditi dal giuramento di fedeltà verso di essi. Può escluderli dalla Chiesa con la scomunica ed assolverli. Può investirli, se vassalli della Chiesa – e in tal senso il Papa si adoperò molto per estendere i diritti feudali della Santa Sede – e può guidare la loro azione politica, laddove siano in discussione il bene delle anime o il giudizio di qualche peccato. Alle spalle di questa concezione, impropriamente definita teocratica pontificia e che correttamente è ierocratica, vi è la nozione di Cristianità. Essa come abbiamo detto è la comunità dei cristiani che vivono nel tempo secondo i principi della loro fede. Abbraccia quindi tutti i Regni cristiani e lo stesso Impero vi è contenuto, perché i confini della Cristianità vanno oltre quelli degli Stati, sia in senso fisico che in senso morale. Infatti i membri della Cristianità sono tali perché battezzati e le norme che essi mettono alla base del loro agire sono dettate loro dalla Chiesa. Questa contiene in sé la Cristianità perché si estende anche laddove i cristiani non sono una comunità temporale ma una minoranza e soprattutto perché essa è destinata a comprendere tutta la terra. La Chiesa è dunque la Città di Dio ad un tempo invisibile, perché per salvarsi bisogna appartenere ad essa secondo la Grazia che non si vede, e visibile, perché la manifesta con le sue strutture. La Cristianità ne è inglobata e il potere civile, l’Imperium, che la regge, è dunque esso stesso parte e funzione della Chiesa. In essa l’Imperium è distinto e subordinato al Sacerdotium, che è il vero potere che la contraddistingue, e deve esserle soggetto gerarchicamente, derivando per suo tramite la sua autorità da Dio. Anche da un punto di vista naturale l’Imperium, che pure esiste indipendentemente dalla Chiesa, è soggetto al Sacerdotium, perché l’uomo carnale è sottoposto allo spirituale che lo giudica, mentre questo risponde direttamente a Dio. Nella concezione gregoriana quindi, che è a sua volta uno sviluppo di quella agostiniana, la Chiesa è superiore all’Impero e alla Cristianità che lo contiene. La concezione teocratica costantiniano-giustinianea, quella carolingia e quella ottoniano-salica vengono superate, in quanto si basano sul presupposto che la Chiesa stia nell’Impero come in un guscio protettivo, che i confini dell’una si allarghino insieme a quelli dell’altro e che la legislazione religiosa sia una parte del diritto pubblico. Invece per Gregorio VII la legislazione canonica è competenza esclusiva del Sacerdozio e la Chiesa ha una piena sovranità su tutti gli aspetti della sua organizzazione che siano temporali (come per esempio quelli finanziari o giudiziari). Il capovolgimento gregoriano dei rapporti tra Impero e Sacerdozio era necessario per salvaguardare la Libertas Ecclesiae, l’unico motivo per cui essa abbia mai fatto politica nella sua storia bimillenaria, in quanto il sistema teocratico imperiale aveva sacrificato le esigenze spirituali a quelle temporali e anzi, nell’età barbarica, aveva quasi perduto la nozione della distinzione tra Chiesa e Stato. L’antica cooperazione suggerita da Papa Gelasio I, e ancora oggi valida, era stata superata dal modello teocratico, e al sottotipo imperiale subentrò quello pontificio. Nella società medievale, in cui tutti erano cristiani, non era concepibile né una relazione concordata né una separazione delle sfere, cosa, quest’ultima, che peraltro la Chiesa ha sempre e ancora oggi rifiuta. Ovviamente questa impostazione concettuale di Gregorio VII portò con sé non solo la Lotta per le Investiture ma anche la prima Lotta tra Papato – inteso come Sacerdozio- e Impero – inteso come potere politico. Esse erano inevitabili per il miglioramento spirituale della Chiesa e del mondo cristiano. E’ stato detto che in quella lotta avevano ragione sia il Papato che l’Impero (Joseph Lortz), e in effetti ognuno aveva dalla sua parte una concezione di Chiesa sostanzialmente valida. Inoltre l’Investitura, che il Papa voleva sottrarre all’Impero, era un unico atto che abilitava sia all’esercizio della potestà ecclesiastica che a quella temporale, per cui giustamente l’Imperatore non voleva cedere al Papato l’atto formale con cui egli esercitava la sua sovranità feudale. Ma va detto che era stato l’Impero a sovrapporre un significato politico all’investitura meramente religiosa, e che l’idea della Chiesa imperiale era oramai incrostata dalla corruzione e dall’anacronismo, mentre quella della Chiesa gregoriana era vitale, pura e dinamica. Inoltre i Successori di Gregorio VII e di Enrico IV arrivarono poi alla distinzione delle Investiture per ciascun potere. Fu dunque Gregorio VII non solo a salvaguardare la specificità della Chiesa nel Medioevo cristiano ma anche a porre le basi della sua distinzione e indipendenza dallo Stato anche nelle successive età di progressiva secolarizzazione, così da salvarne la specificità. SANT’ANSELMO DI LUCCA Nacque nel 1035 e morì nel 1086. Nipote di Alessandro II (autore anche lui di una collezione canonica) che lo creò cardinale, fu strenuo assertore della riforma e partigiano di Gregorio VII. Vescovo di Lucca, fu autore di una Collectio canonum (detta anche Apologeticus) in tredici libri, volta a dimostrare il primato del pontefice romano sulle altre autorità sia ecclesiastiche sia laiche, e la necessità, per gli ecclesiastici, di una vita fondata sulla povertà evangelica. Egli fu uno dei continuatori del processo di armonizzazione dei canoni che era stato iniziato da Umberto di Silva Candida e che sarebbe stato compiuto definitivamente solo da Graziano. GUITMONDO DI AVERSA Nacque in data imprecisata e morì nel 1094. Teologo benedettino e discepolo di Lanfranco alla scuola di Bec, condiscepolo di Anselmo, fu vescovo di Aversa sotto Urbano II. Il più significativo dei suoi scritti è De corporis et sanguinis Domini veritate libri tres, nel quale, in polemica con Berengario di Tours, espone in modo compiuto la dottrina della transustanziazione sviluppando l’insegnamento del maestro. I CARDINALI CANONISTI Attone, cardinale presbitero di Alessandro II e arcivescovo di Milano dal 1070, fu autore tra il 1075 e il 1083-1092 (decade in cui avvenne la sua morte), di una collezione di canoni, denominata Breviarium o Capitulare. Creato cardinale presbitero di San Pietro in Vincoli da Gregorio VII, morto tra il 1097 e il 1100, Deusdedit fu autore di un Libellus contra invasores et simoniacos et reliquos schismaticos interessante pure dal punto di vista giuridico e di una Collectio Canonum in quattro libri. Più tardi, entro il 1092, anno della sua morte, Gregorio, creato cardinale presbitero di S. Crisogono da Urbano II, redigeva gli otto libri del Polycarpus. Alcuni lo datano al 1104, per cui il prelato dovrebbe essere sopravvissuto fino a quell’anno. BERNOLDO DI COSTANZA Nacque nel 1054 e morì nel 1100. Monaco a Saint-Blasien e poi a Sciaffusa, fu partigiano di Gregorio VII e autore di lettere e trattati. Fu canonista che tentò la concordanza dei canoni, storico e teologo che intese la impositio manuum ai chierici e prelati simoniaci come atto penitenziale e non come una riordinazione, mostrando così di credere nella validità delle ordinazioni simoniache. SANT’IVO DI CHARTRES Nacque nel 1040 circa e morì nel 1116. Vescovo di Chartres, fu fautore della riforma e sostenne il Papato nella Lotta per le Investiture, mostrando però moderazione. Compose due importanti raccolte canoniche: il Decretum e la Panormia, in cui, dietro l'esempio di Burcardo, riunì le fonti legislative dell’epoca che sarebbero state usate anche dai compilatori successivi come Graziano. Compose anche la Collectio tripartita, nelle cui due prime parti raccolse le auctoritates sulle quali si deve edificare la legge. La terza parte della Collectio raccoglie testi patristici e legislativi secondo argomenti specifici e sembra essere un estratto del Decretum. Questo organizza sistematicamente le auctoritates raccolte nei primi due libri della Collectio, e utilizza largamente Burcardo di Worms. La Panormia si presenta come un ordinario sunto delle auctoritates del Decretum. Il Santo scrisse anche opuscoli teologici e lettere. Fu proprio Ivo a teorizzare la soluzione canonica della Lotta per le Investiture, partendo da una idea di per sé non nuova e già alla base dei compromessi che in Inghilterra e Francia avevano posto fine al conflitto. Il Santo spiegò che il trasferimento dell’ufficio episcopale è interdetto ai laici perché sacramentale, ma la concessione dei beni temporali può essere senza difficoltà riservata al Re perché è un atto temporale anch’esso che peraltro può essere compiuto in qualunque forma e che il sovrano ha anche qualche diritto di fare, perché secondo Sant’Agostino la proprietà ha un fondamento giuridico statale e anche quella delle chiese deve i suoi possessi alla concessione regia. Ivo ebbe indubbie qualità di scrittore che lo collocano negli autori mediolatini di rilievo di quest’epoca, afferenti all’area francese e franco-normanna, che è tra le maggiori delle letterarie dell’epoca. ALTRI CANONISTI Algero da Liegi (1055-1132), tra il 1099 e il 1121, sotto l'influsso della Tripartita, scrisse il De misericordia et iustitia, che si vuole abbia a sua volta ispirato Graziano. Ugo di Fleury († dopo il 1118), discepolo di Ivo, riprese le sue idee risolutorie della Lotta per le Investiture nel Tractatus de regia potestate et sacerdotali dignitate, dedicato al Re di Inghilterra. Costui fu anche storico dei Franchi con il Modernorum Regum Francorum Liber. Sempre ispirandosi ad Ivo e ad altri canonisti gregoriani, sorse in Ispagna la Collectio Caesaraugustana, tra il 1110 e il 1120, da cui dipendono a loro volta altre pubblicazioni. SAN BONIZONE DA SUTRI Nacque nel 1045 e morì, martire della riforma, nel 1090 come vescovo di Parma. Scrisse il De Ordinibus Indiciorum, il Liber ad Hugonem Schismaticum e un Decretum o Liber de Vita Christiana, concepito come un vero trattato, nel quale le fonti raccolte dovevano essere accordate attraverso distinzioni e soluzioni. Il più importante fra gli scritti di Bonizione è il Liber ad amicum, in nove libri. Alla questione, perché la Chiesa sia perseguitata, egli risponde che essa è tanto più libera quanto più conculcata; tanto più cresce quanto più è diminuita. Bonizone è una fonte di prim'ordine per la storia dei tempi suoi, anche se a volte faziosa. Alla seconda questione, se sia lecito prendere le armi in difesa del dogma, egli risponde, in breve, affermativamente. IL BEATO URBANO II Fu il grande Papa che avviò il movimento crociato. Nacque a Châtillon-sur-Marne nel 1035 da nobile famiglia e si chiamava Oddone. Studiò alla scuola di San Bruno di Colonia, fondatore dei Certosini, di cui parleremo brevemente innanzi. Fu monaco a Cluny dal 1068 e ne divenne priore. Gregorio VII lo creò cardinale vescovo di Ostia nel 1080 e lo mandò come Legato Apostolico in Germania. Oddone rimase fedele al Papa e da Quedlinburg in Concilio anatematizzò l’antipapa Clemente III. Il 12 marzo 1088 fu eletto Papa a Terracina come successore del Beato Vittore III (1086-1087). Continuò l’opera riformatrice nel Concilio di Melfi (1089) ma con più tatto per consolidare la sua posizione. Rientrò a Roma cacciando l’antipapa, mentre la posizione dell’Imperatore si andava facendo più difficile. Tenne le posizioni della Chiesa in Francia e Inghilterra. Nel Concilio di Piacenza del marzo del 1095 e nel Concilio di Clermont nel novembre dello stesso anno, oltre a legiferare sulla riforma e contro gli scismatici clementini, deliberò sulla Crociata per soccorrere la Chiesa d’Oriente e liberare il Santo Sepolcro. Celebrò il Concilio di Bari (1098) per unire la Chiesa Greca alla Latina. Erudito canonista, morì il 15 luglio 1099, quindici giorni dopo la presa cristiana di Gerusalemme. Il Papa ebbe il merito di concepire teologicamente la Crociata, che sarebbe stata uno dei pilastri della civiltà cristiana fino al XVIII sec. La chiamò iter, ossia pellegrinaggio, e la progettò sulla base di una intelligentissima simbiosi di elementi differenti. Riprese la dottrina agostiniana della guerra giusta, la quale, pur essendo sempre un male, poteva essere moralmente lecita in vista dell’obiettivo e delle circostanze, quando la situazione non poteva essere affrontata diversamente. Questo insegnamento giustificava senz’altro l’aiuto ai Bizantini assaliti dai Turchi in nome della solidarietà pancristiana, ma anche il progetto, di per sé non nuovo ma risalente a Silvestro II e a Gregorio VII, di liberare i Luoghi Santi e i fedeli ivi residenti dalla plurisecolare oppressione araba. Ma Urbano vi aggiunse di suo l’esemplificazione della guerra che andava organizzando sul modello biblico del pellegrinaggio in armi, quello stesso che gli Ebrei, usciti dall’Egitto, tennero per entrare in possesso della Palestina, data loro da Dio, e dalla quale scacciarono i Cananei. Questa equiparazione tra la Chiesa, Nuovo Israele, e quello Antico, tra i musulmani e i Cananei e tra il pellegrinaggio esodale e quello contemporaneo fece sì che il Papa non solo potè autorizzare l’uso delle armi nel quadro di un atto di devozione ma anche ottenere altri due risultati. Il primo fu quello di riservare alla Chiesa stessa la facoltà di bandire la guerra, considerato atto di tutta la Cristianità e quindi, nel quadro della riforma gregoriana, spettante alla supervisione papale. Il secondo fu quello di reclutare moltissimi pellegrini in armi, ai quali promise l’indulgenza plenaria. Da secoli la Chiesa riconosceva il valore penitenziale ed espiativo delle guerre fatte per difendere la fede e i Papi carolingi avevano promesso il paradiso a chi sarebbe morto combattendo contro i pagani e i musulmani, nemici dell’Impero ma anche della Religione. Ora, ponendo come meta del pellegrinaggio in armi Gerusalemme stessa, ossia il luogo più santo del mondo, il Papa, forte del fatto che da secoli i pellegrini credevano, raggiungendo una meta tanto nobile, di ottenere la remissione delle pene, poté prometterla a chiunque avesse semplicemente partecipato all’impresa. Questa poi fu presentata come opera di carità, in quanto il crociato esponeva la vita per salvare quella dei suoi fratelli di fede minacciati. Su questa base teologica, finemente esposta nei Sermones del Concilio di Clermont e più sinteticamente contenuta nelle sei Lettere sull’argomento contenute nel suo Registrum, Urbano costruì il più grande successo del Papato medievale, cingendo un alloro che i suoi Predecessori non avevano avuto, sebbene sia Leone IX contro i Normanni sia Gregorio VII contro svariati nemici e anche per liberare il Santo Sepolcro si fossero industriati di organizzare delle spedizioni sacre, concepite però senza il ricorso al pellegrinaggio. Urbano poi equiparò all’iter verso Gerusalemme la guerra della Reconquista in Ispagna, considerandolo iter verso la tomba di San Giacomo e gettando le basi per una maggior fioritura di quell’altra epopea in armi che già Alessandro II aveva arricchito dell’indulgenza plenaria. SANT’ANSELMO DI AOSTA Fu il genio che ricostruì la scienza teologica dopo secoli di oscurità dandole un metodo e degli strumenti, come le rationes necessariae, ripristinandone l’autonomia e la dignità epistemologica sulla scia dei grandi Padri del Tardo Antico. Con Anselmo la filosofia e la teologia si distinguono: la prima analizza il mondo naturale e le verità accessibili alla sola ragione, la seconda esplora e sistematizza le verità rivelate; inoltre la teologia smette di essere un semplice commento biblico per avanzare mediante i ragionamenti deduttivi. La fede dunque subordina a sé la ragione, anche se questa le offre la possibilità di vedere i suoi oggetti soprannaturali in un modo nuovo e strutturato. Fides quaerens intellectum, ottenendone l’ausilio fondamentale per l’enunciazione sistematica dei suoi contenuti. Il credere con Anselmo assume un contenuto razionale molto più forte e marcato, specificamente scolastico. Il Santo nacque ad Aosta nel 1033. Quando gli morì la madre, a causa di aspri contrasti col padre lasciò la casa dove non gli si permetteva di seguire la sua vocazione monastica. Dopo alcuni anni di vagabondaggio in Francia settentrionale, Borgogna e Normandia, entrò in monastero nel 1060 presso Lanfranco di Bec. Nel 1063, trasferitosi costui a Caen, gli successe come priore e direttore della scuola monastica. Per l’insegnamento compone il Monologion e il Proslogion rispettivamente nel 1076 e nel 1078, anno in cui diviene abate. Tra il 1080 e il 1085 scrive il De Grammatico, il De Veritate, il De Libertate Arbitrii e il De Casu diaboli. Nel 1039 fu eletto arcivescovo di Canterbury alla morte di Lanfranco di Bec. In questa sede entra in contrasto con il re Guglielmo il Rosso (1087-1100) per la questione delle Investiture. Costretto ad appellarsi a Urbano II (1088-1099), viene accolto da questi con grande rispetto e riceve giustizia. Si trasferisce temporaneamente in Calabria nel monastero di San Salvatore dove completa il Cur Deus Homo (1098), in attesa di recarsi a Bari per un Concilio di unione tra le Chiese Latina e Greca. In questa sede, sempre nello stesso anno, persuade i Greci ad aderire alla dottrina della Doppia Processione dello Spirito Santo, sulla quale scrive l’opuscolo De Processione Spiritus Sancti. Nel 1106 torna in Inghilterra dove muore nel 1109. Anselmo ha scritto, oltre alle opere che abbiamo menzionato, l’Epistula de Incarnatione Verbi – detta anche De Mysterio Trinitatis- il De Conceptu Virginali, l’Epistula de Sacrificio Azymi, l’Epistula de Sacramentis Ecclesiae, il De Concordia Prescentiae et Praedestinationis et Gratiae Dei cum libero arbitrio, le Orationes sive Meditationes, le Epistulae e forse il Libellus Cur Deus Homo, che poté essere la prima stesura del Cur Deus Homo summenzionato. Come teologo, Anselmo non ha mai parlato sistematicamente del rapporto tra fede e ragione o tra teologia e filosofia, né ha mai definito le une o le altre, pur usando prevalentemente la ragione teologica. Ad essa, come abbiamo detto, ha affidato il compito di confermare le verità teologiche che la ragione naturale o la fede stessa hanno acquisito all’uomo. Nel Proslogion e nel suo sottotitolo Fides quaerens Intellectum la ragione non scopre, ma certifica, corrobora, verifica la verità. Essa giustifica un asserto mediante la sussunzione sotto principi universali. Anselmo fa ciò per esplicita richiesta dei suoi studenti monaci, i quali gli avevano chiesto di sviluppare dimostrazioni che non usassero la Bibbia ma solo il ragionamento, chiaro, necessario, piano, accessibile a tutti e atto alla discussione pacata. Il Santo procede in questa direzione con un metodo speculativo e raziocinante. In un certo senso Anselmo è una vetta del razionalismo, una sorta di Cartesio medievale e teologico, che vuole dimostrare la necessità anche di alcuni dogmi di fede che forse più appropriatamente vanno fondati sulla semplice volontà deliberatrice di Dio. Proprio su di Lui Anselmo scrive le sue pagine migliori, per dimostrarne l’esistenza e per descriverne le caratteristiche naturali. Nel Monologion l’Aostano adduce le prove a posteriori dell’esistenza di Dio legate alla contingenza degli enti finiti e ai gradi di perfezione dell’essere, secondo la tradizione di Agostino e Boezio. Anselmo parte dalla constatazione che due fonti di conoscenza sono a disposizione degli uomini, la ragione e la fede. Bisogna fondarsi saldamente in quest’ultima, onde comprendere le verità soprannaturali con l’ausilio della prima. Infatti si crede per intendere e non il contrario. Con questo il Padre redarguiva i dialettici. Tuttavia Anselmo rifiuta anche l’idea che la Rivelazione non abbia bisogno della ragione per essere intesa più approfonditamente. L’inesauribilità della verità, la continua ispirazione dello Spirito e il fatto che capire la propria fede significa avvicinarsi alla vista stessa di Dio sono tre valide ragioni per respingere la diffidenza aprioristica degli antidialettici verso la ragione e il suo uso in teologia. Partendo da questa asserzione, di fatto Anselmo non pone, come dicevo, alcun limite ai traguardi che la ragione umana può raggiungere in teologia, cercando di mostrare che in tutti i dogmi c’è almeno la necessità razionale di credere che essi siano come sono e non diversamente. Una strada, questa, che per esempio Tommaso d’Aquino non vorrà percorrere considerandola contraddittoria ed impossibile. Ciò avvenne perché nell’epoca anselmina della filosofia classica si conosceva solo la dialettica aristotelica, per cui il Santo non doveva calibrare i dogmi su un sistema filosofico completo, ma solo dimostrarne le ragioni necessarie, peraltro mantenendo sempre vivo il senso del mistero e dell’inconoscibilità di esso. Come dicevamo, Anselmo riprende le prove agostiniane, ma con più rigore. Esse suppongono per il Santo due principi: che le cose siano ineguali in perfezione e che tutto ciò che possiede più o meno una perfezione ce l’ha per partecipazione alla forma assoluta che questa perfezione ha in sé e che è sussistente. A partire da ciò l’Aostano argomenta a proposito del fatto che l’uomo desidera godere del bene. Tuttavia egli si interroga da dove vengano tutte le cose che egli considera buone e se esse abbiano principi differenti o uno solo ed unico da cui derivano. Notando che ogni cosa buona è tale perché partecipa ad un medesimo principio che ne è la causa, non solo Anselmo afferma che tutte le cose sono buone per un solo principio che è la causa di ogni perfezione, ma che esso dev’essere buono di per sé, non potendo dipendere da nessun altro. Esso è dunque non solo sommamente buono ma anche sommamente grande, tanto che non può avere nulla sopra di sé nella sua stessa bontà. Tale principio è quindi quello che chiamiamo Dio, considerato come fonte e grado supremo di ogni perfezione e quindi sommo bene. Estendendo il ragionamento a quella forma di perfezione fondamentale che tutti gli enti hanno alla stessa maniera anche se in gradi differenti e che è l’essere, Anselmo afferma che anche in questo ordine si deve ammettere che esso o scaturisce per tutte le cose da un solo principio, o da più principi distinti o da più principi interagenti. Il Dottore afferma che la causa dell’essere dev’essere di per sé per il medesimo ragionamento fatto per il bene. Or dunque, se ci fossero più principi che sono di per sé e che danno l’essere agli altri enti, essi sarebbero tutti sotto la causa del loro essere, ossia quella stessa che li fa esistere di per sé, che quindi sarebbe al di sopra di essi e il loro medesimo principio. Se invece i principi si producessero gli uni con gli altri, avremmo l’assurdo di una causa che è prodotta dal suo stesso effetto. Diversamente dobbiamo ammettere che esiste un solo principio dell’essere, che esiste per sé e produce tutti gli altri. Questo principio ontologico primo è l’Essere supremo, il Creatore, che chiamiamo Dio. Lo stesso schema Anselmo adopera per una prova che parta dalla constatazione dell’esistenza di più essenza (ossia di modi di essere) o nature ognuna più perfetta dell’altra, perché ciascuna partecipa di tale perfezione in modo più pieno. Dagli esseri più umili a quelli più sublimi, tutti si dispongono in una gerarchia di perfezione sempre più alta nella quale si può sempre immaginare un grado maggiore, ma al cui vertice non si può non dedurre che ci sia una essenza prima che è perfettissima perché senza limiti. Anche se immaginassimo che più essenze perfettissime siano la causa delle meno perfette sotto di esse, dovremmo riconoscere che esse sarebbero accomunate da una medesima natura e che quindi questa stessa sarebbe l’essenza suprema a cui sarebbero subordinate. Dunque si deve ammettere che esiste una sola essenza suprema, che esiste senza alcuna limitazione e che è appunto il vertice della gerarchia delle nature. Con queste tre prove, peraltro abbastanza complesse, Anselmo ha trovato Dio quale causa del bene, dell’essere e delle nature delle cose, il primo comunicato, il secondo creato e le terze commisurate su di Lui. Nel Proslogion l’allora Abate di Bec formula la prova ontologica, che sarebbe stata oggetto di dispute secolari. Essa dimostra che Dio esiste a partire dalla Sua stessa definizione, desunta dalla fede, e partendo dal presupposto universalmente condiviso che l’ordine ontologico è superiore a quello del pensiero, nel quale però vi è un modo sia pur meno perfetto di essere che esiste veramente. Anche lo stolto del Salmo che nega l’esistenza di Dio, quando la nega ne ha la nozione. Tale nozione è quella dell’Essere del Quale non si può pensare uno maggiore. Ma se questo Essere viene pensato in tali termini, essi implicano che Egli abbia tutte le perfezioni. Tra le perfezioni, la fondamentale è l’esistenza, condizione per cui tutte le altre possano essergli attribuite. In ragione di ciò, essendo impossibile che l’uomo nella sua mente abbia un Essere la cui nozione è superiore a quella di tutti gli altri ma che nel contempo in realtà non esista, si deduce dalla stessa definizione di Dio che Egli esista veramente e per forza. Al contrario la realtà sarebbe inferiore al pensiero e nella realtà dovrebbe esistere un Essere più grande di quello del quale non se ne può pensare uno maggiore. A questa celeberrima e fulminante prova essenzialista l’abate Gaunilone († 1083) obiettò che non si può mai dedurre da una essenza la sua esistenza, altrimenti basterebbe supporre l’esistenza e dare la definizione delle isole beate perché anche queste esistessero realmente. A costui il futuro arcivescovo ribattè dicendo che non da tutte le essenze pensate si può dedurre l’esistenza, ma solo dall’Essenza di quell’Essere del Quale nulla si può pensare di maggiore, proprio per non entrare nell’assurdo della superiorità assoluta del pensiero sull’essere e del fantastico sul reale, oltre che nella contraddizione di un Essere supremo che nella realtà è superato non solo da qualcosa di sconosciuto e indefinibile, ma da qualsiasi ente che abbia la qualità dell’esistenza. E’ dunque la stessa possibilità di pensare Dio che implica che Egli debba esistere per forza. Questa prova platonizzante fu accettata da tutti i deduttivisti, da Cartesio a Leibniz a Hegel, e respinta dagli induttivisti, da Tommaso d’Aquino a Kant. Per i primi non vi è salto tra pensiero ed essere nell’impostazione anselmina, per i secondi sì. La singolare condizione della definizione dell’Essere supremo e l’ancor più singolare suo statuto ontologico giustificano a mio avviso la validità della prova, che ha una sua valenza razionale esterna alla teologia rivelata e non meramente corroborativa come pensava Karl Barth. Trovato Dio con queste prove, Anselmo può dedurne gli attributi principali. Dio non può non esistere e quindi è l’essenza per eccellenza, la pienezza dell’essere, la realtà plenaria, come del resto si arguiva dalla prova dei gradi delle essenze. Dio è l’Essenza pura e semplice, senza limitazioni. Da Lui dipende, come dicevamo, l’essere di ogni ente. Questo accade perché vi sono due modi diversi di esistere: il primo è quello in cui essere ed essenza si confondono, perché il primo è implicato dalla seconda ed è proprio di Dio; il secondo è quello in cui l’essere appartiene ad essenze che però non devono esistere necessariamente. Questo modo è possibile perché Dio conferisce l’essere a tali essenze. Ciò potrebbe accadere o se Dio è la causa produttrice dell’universo o la materia di cui è fatto. Ma se Dio fosse la materia di cui è fatto l’universo, Egli si sarebbe degradato in quanto avrebbe peraltro contraddittoriamente prodotto una realtà corruttibile a differenza Sua. Dunque non solo Dio non è la materia dell’universo, ma lo crea dal nulla, in quanto qualunque cosa preesistente all’universo non può che essere Dio stesso e quindi è inutilizzabile per fare il mondo così com’è. Non esiste dunque il panteismo, in quanto esso è contraddittorio. Per creare il mondo, Dio non ebbe bisogno che di volere. Egli proferì nel suo Verbo le creature ed esse esistettero, in un modo che pallidamente può essere paragonato a quello in cui i nostri pensieri esistono nella nostra mente perché pensati e le parole perché pronunziate. Prima che tale creazione avvenissero, le idee di Dio esistevano in Dio stesso semplicemente come Suo Pensiero e quindi come Dio stesso. Create da Dio, tutte le cose continuano ad esistere perché Lui le vuole. Non vi è quindi nulla o alcun luogo dove Dio non sia presente ed operante. Dove Egli non è, là non c’è nulla. A questo Essere supremo vanno attribuite tutte le perfezioni positive e queste soltanto, e tra esse solo quelle che sono le più elevate (per cui non è materia ma solo spirito, ad esempio) e sempre predicate in senso assoluto e mai relativo. Infatti Dio le avrebbe anche se il mondo non esistesse e non ne partecipasse. Egli, ad esempio, non è propriamente il Bene più grande, ma soprattutto ed esclusivamente il Bene in sé. Tutte queste perfezioni si identificano tra loro in Dio senza alterarne la semplicità; Egli, essendo per sé stesso e non essendoci in Lui distinzione tra essenza ed esistenza, è eterno, immenso, immutabile ed unico; Egli è la sostanza ed è individuale, anzi è più che sostanza, perché in quanto tale è al di là di ogni modo specifico: tutto, in confronto a Lui, non è veramente essere. In merito alla questione della Natura divina Anselmo dovette prendere posizione contro il nominalismo di Roscellino di Compiègne (1050-1120), il quale negava l’esistenza degli universali e asseriva che le idee generali altro non sono che le mere parole che le designano. Applicando questa concezione alla Natura divina, il filosofo aveva sentenziato che le Tre Persone della Trinità non avevano una Natura una e medesima, in quanto ognuna ne aveva una propria simile a quella delle altre. Fu dunque tecnicamente un triteista, che usò il termine Ipostasi nel senso di Sostanza, secondo uno dei suoi significati greci, e lo usò al posto della parola Persona nella teologia trinitaria. Anselmo stigmatizzò con forza questa eresia, che fu condannata al Concilio di Soissons dove Roscellino, correttamente, abiurò. L’uomo è, nel pensiero anselmino, l’immagine di Dio perché ha memoria, intelligenza e amore di sé, imitando la Trinità secondo il sigillo che questa gli ha impresso. Anselmo riprende la gnoseologia dell’illuminazione agostiniana come ne aveva ereditato l’antropologia. L’uomo conosce attraverso i sensi riconoscendo in esse le idee innate. In opposizione a Roscellino, Anselmo afferma che gli universali, ossia le Idee di Dio, sono realmente esistenti e fa del realismo ontologico una condizione stessa di ortodossia. In merito al tema della libertà, il Padre asserisce che essa non è la facoltà che ci fa scegliere tra bene e male, in quanto tale funzione viene assolta dopo il Peccato originale, ma quella che ci permette di agire rettamente e operare il bene. L’uomo è libero solo se fa il bene, anche se per preservarlo deve scegliere sempre tra esso e il male. Ogni volta che l’uomo fa il male, cosa che accade perché la sua capacità di conservare il bene è di per sé imperfetta e peraltro danneggiata dal peccato, compie una scelta che non arricchisce ma indebolisce la sua libertà, in quanto egli non è fatto per compiere il male ma appunto il bene. Definita la libertà, il Dottore spiega nel De Concordia come essa si concili con la prescienza divina e la predestinazione e soprattutto con la Grazia, in tre distinti trattati. La prescienza divina sa tutto in anticipo; essa perciò conosce gli atti liberi che l’uomo farà e li predestina, concedendo la Grazia che servirà a compierli o togliendola quando essi la demeritano. La prescienza divina non precede le libere azioni umane perché Dio non ha successione di tempo ma è eterno, come aveva insegnato Boezio. Inoltre la predestinazione divina non annulla la libertà umana perché essa stabilisce che avvenga ciò che la prescienza del Signore conosce. Ossia, Dio sa quello che accadrà per libera scelta e lo rende possibile, ma non lo necessita in senso assoluto. La necessità di quello che Dio ha preconosciuto e predestinato non implica dunque che le scelte umane non siano libere, ma solo che esse si realizzino esattamente come Egli le ha conosciute onde permettere il compimento del Suo piano. E’ dunque una mera necessità ipotetica. Il tema, definito talmente nobile da Anselmo da esser secondo solo a quello dell’esistenza e della natura divine, dell’Incarnazione è al centro del Cur Deus Homo. In esso il grande Dottore si domanda se è possibile spiegare perché Dio doveva salvare il mondo passando per l’abbassamento nella natura umana. In effetti, implicando l’Incarnazione la miseria, la morte, il dolore e senz’altro una diminuzione ontologica, ci si può chiedere: Dio non poteva fare diversamente, essendo onnipotente? Se non l’ha fatto, allora non lo è. O ci si può chiedere: Dio non sapeva fare diversamente, essendo onnisciente? Non è forse possibile che Egli non lo sia, non avendolo fatto? Il teologo deve dunque dimostrare che Dio doveva, ragionevolmente, redimere l’uomo mediante l’Incarnazione. Anselmo lo fa scolpendo nelle sue sentenze scolastiche alcuni concetti fondamentali della soteriologia. E’ inaccettabile che una creatura tolga al Creatore quanto Gli è dovuto, come ha fatto Adamo con il Peccato originale e come fanno tutti gli uomini con le loro colpe. Perché essi siano perdonati è indispensabile che sia data soddisfazione a Dio, mediante espiazione. Ma l’uomo, essendo un essere finito, non può soddisfare un Essere infinito. La soddisfazione può avvenire solo se compiuta da Dio stesso, il Quale compie azioni di valore infinito ed è infinitamente santo. Ma Dio non può soffrire e quindi non può nemmeno espiare e soddisfare. In ragione di ciò il Figlio, volendo fare la volontà del Padre, dovette assumere una Natura umana nella quale compiere la soddisfazione. Questa soddisfazione è offerta da Cristo per misericordia a vantaggio dell’uomo, ma Dio non avrebbe potuto perdonare l’uomo senza di essa, perché la soddisfazione restaura l’ordine alterato dal Peccato. Dio avrebbe potuto non salvare l’uomo, ma avendolo creato per la salvezza non avrebbe avuto senso se non lo avesse perdonato. Se Dio avesse perdonato senza che alcuna soddisfazione Gli fosse offerta, Egli non avrebbe agito secondo giustizia e non avrebbe mantenuto nel cosmo l’ordine che Lui stesso aveva costituito. La soddisfazione offerta da Cristo è gradita al Padre in quanto Egli è Uomo perfetto ma sovrabbondante rispetto a quanto doveva sanare perché il Redentore è anche Dio. Cristo dunque ha meritato il perdono, la santificazione e questo non ha esaurito la potenza salvifica dei Suoi meriti infiniti. Ecco perché la Redenzione doveva essere compiuta da Cristo, Uomo e Dio. Questo Cristo diventa Uomo proprio per espiare nella carne la colpa di coloro che l’hanno commessa in essa, ne assume la natura per operare in essa, a vantaggio di tutti, la salvezza che essi hanno compromesso con la colpa. Nasce da una Vergine di Spirito Santo perché in questo modo è veramente Uomo ma non eredita il Peccato e si circonda di purezza. Non si incarnano tutte e tre le Persone perché uno solo doveva essere il Salvatore e perché non potevano assumere tutte insieme una singola Natura umana. Una Persona, il Padre, doveva ricevere la soddisfazione offerta dall’altra, il Figlio, per azione della Terza, lo Spirito, che inabita l’Umanità del Redentore e costruisce il Suo Corpo Mistico per comunicare agli uomini i meriti di Cristo. Questi, essendo Figlio di Dio, viene sulla terra come Uomo per restaurare la vera somiglianza degli uomini con Dio stesso, perduta per acquisire quella con il diavolo. Cristo è perfetto e impeccabile, per cui non solo può meritare perfettamente ma lo fa attivamente a vantaggio dell’umanità. Cristo è immune dalla morte perché santo ma accetta di morire per salvare gli uomini, in quanto li ama. Dando a Dio come Uomo la Sua morte, che non era tenuto a patire, Cristo non solo soddisfa, ma onora sommamente il Padre, più di quanto si potesse fare in qualsiasi altro modo. Questa Morte, libera immensa e gratuita, è il dono unico che si poteva fare a Dio, in quanto è l’unica cosa che una creatura non era tenuta a dargli. Essa ha più valore di infiniti mondi. Redime chi nacque prima e chi nascerà dopo di essa, rende immacolata la Madre ed è causa efficiente di santificazione oltre che di riparazione. Per essa non solo è perdonabile ogni peccato, non solo è fattibile tutto il bene fatto e da farsi, ma è anche preservato il mondo da tutto il male che si poteva fare e che non si è fatto. La concezione anselmina della soteriologia è meravigliosa, nonostante la tendenza giuridicizzante e quantificatoria che la sottende. Anselmo supera poi la bizzarra teoria dei “diritti del diavolo” che alcuni avevano formulato per giustificare il riscatto come qualcosa versato a satana. Il Dottore infatti insegna che il demonio non ha diritti e che quelli che detiene li usurpa, mentre non ha alcuna libertà dinanzi a Dio al Quale è completamente soggetto. Toccherà all’epoca successiva perfezionare la soteriologia dell’Aostano. Questi fu, come si è visto, il solo vero grande teologo della sua epoca e non a caso segna la cesura e il passaggio dalla Prima alla Grande Scolastica. Ma fu anche un grande filosofo, come dicevamo, sebbene abbia sviluppato solo la teologia razionale. Egli la innestò in una concezione metafisica della verità, per la quale una conoscenza è tale solo se è corretta, secondo il modo in cui è e deve essere realmente. Ogni cosa infatti è vera perché è ciò che deve essere secondo la sua idea in Dio. Analogamente, la volontà è vera se è retta e una azione è tale per lo stesso motivo. Concludendo, la verità è la conformità alla regola dell’Essenza creatrice, per cui per Anselmo la verità di tutte le verità è Dio. L’unica cosa che manca al pensiero anselmino, solido e fermo, è una filosofia della natura che metta insieme gli elementi sparsi e non prettamente teologici che si trovano nel suo pensiero. ODO DI CAMBRAI Nacque ad Orlèans nel 1060, nel 1092 divenne monaco e nel 1105 divenne vescovo di Cambrai. Non potè insediarsi perché rifiutò l’investitura imperiale. Dal 1106 al 1110 tenne la sua cattedra e applicò la riforma gregoriana. Mandato in esilio, morì nel 1113. Applicò la dialettica anselmina alla trattazione dogmatica, specie per dimostrare come il Peccato di Adamo si sia propagato a tutta la specie umana che fu colpevole nel suo progenitore. Scrisse De blaphemia in Spiritum Sanctum, De canonibus evangeliorum, De peccato originali libri tres, Disputatio contra Judaeum, Expositio in canonem Missae. Prese parte alla disputa sugli universali sostenendo la posizione realista. ANSELMO DI LAON Nato nel 1050 e morto nel 1117, fu l’autore del primo Libro di Sentenze (Liber Pancrysis), ossia di raccolte di testi patristici classificati per materie. Ispirò alcune raccolte col suo insegnamento orale e anche le Sententiae Anselmi, certo posteriori alla sua morte, forse opera del fratello. Legato a posizioni tradizionali, alieno da ogni razionalismo, Anselmo trattò argomenti teologici secondo criteri "monografici" (la creazione, il peccato originale, i sacramenti), che tuttavia indicano già una certa sistematicità e permettono d'individuare le linee di una definita teologia. Per questo, e per la sua opera di esegesi (specie per il concorso alla formazione della Glossa interlinearis e della ordinaria), si ravvisano oggi nella scuola di Anselmo gli inizi della teologia scolastica. SAN BRUNO DI SEGNI Nacque nel 1045 a Solero di Alessandria, studiò a Bologna e divenne canonico, forse a Siena o ad Asti. Fu chiamato a Roma da Gregorio VII col quale collaborò proficuamente. Nominato vescovo di Segni nel 1079, dopo aver contribuito alla confutazione delle eresie di Berengario, fu coinvolto nella Lotta per le Investiture e imprigionato dagli imperiali. Liberato, si ritirò a Montecassino dove divenne Abate. Papa Pasquale II (1100-1118) lo inviò legato in Francia, permettendogli di mantenere sia l’abbazia che la diocesi. Schieratosi energicamente contro il Privilegio di Ponte Mammolo del 1111 con cui Pasquale concedeva all’imperatore Enrico V (1105-1125) il privilegio dell’Investitura per la quale tanto si era combattuto, Bruno fu deposto dall’abbazia dal Papa, che pure l’anno dopo ritrattò la concessione, e rimase solo vescovo di Segni. Morì nel 1123, dopo la conclusione della Lotta per le Investiture. Scrisse numerose opere. Il Libellus de Symoniacis comprende una vita di papa Leone IX e un trattato sulla validità delle consacrazioni dei simoniaci. Nella Vita il Santo difendeva Leone IX dall'accusa di aver ingiustamente condotto la guerra del 1053 contro i Normanni, esaltando il papa e il suo esercito - in conformità con gli ideali della Crociata - come campione della Chiesa. La seconda parte dello scritto parte dalla constatazione che prima delle riforme di Leone IX, a stento si poteva trovare un ecclesiastico che non fosse simoniaco o consacrato da un simoniaco; se a tutte queste consacrazioni conferite da simoniaci fosse mancata l'efficacia della grazia divina, non vi sarebbero più stati sacerdoti ordinati validamente; il che significa che la successione apostolica sarebbe rimasta interrotta. Bruno dunque stabilisce che le consacrazioni conferite da simoniaci dovevano essere riconosciute nel caso in cui il consacrato non sia stato a conoscenza della simonia del consacrante. Scrisse anche una Vita di San Pietro di Anagni (†1105), una Traslatio Sancti Stephani, dei versi In laudem Sanctae Mariae, un commento al Salterio gallicano e uno a quello Romano, una esposizione del Cantico dei Cantici, un Commentario ad Isaia, all’Apocalisse, al Pentateuco, a Giobbe, ai Proverbi (in parte), ai Vangeli, ai Giudici e ai Re, riallacciandosi ai commenti patristici e altomedievali ma con una sua personale e vivace scrittura letteraria. Scrisse anche centocinquanta omelie, sei libri di Sentenze anch’esse di valore omiletico, il trattato De Sacramentis Ecclesiae, quello De Trinitate e forse quello De Incarnatione et Sepultura Domini, nonché una Lettera a Leone di Bisanzio sugli Azzimi. Sebbene fosse prolifico e dotto, non avendo usato il metodo scolastico fu ignorato largamente dai suoi contemporanei. Due eccezioni a questo suo metodo furono il De Trinitate e il De Incarnatione, dove seguì la rassicurante lezione di Sant’Anselmo, che gli permise di usare la dialettica senza troppi patemi d’animo. GLI AGIOGRAFI Sono una categoria a sé della letteratura dell’epoca, in cui annoveriamo specialisti ma anche autori versati in altre discipline, specie le storiche. Le composizioni del genere hanno uno schema generalmente sempre uguale nella vita del Santo: nascita, infanzia, giovinezza, crescita della santità, carriera, viaggi, consacrazione della missione, opposizione dei malvagi, acquisto delle reliquie, grazie e favori del taumaturgo, morte e canonizzazione. I tipi sono schemi fissi: missionario – spesso martire- vescovo, vergine, taumaturgo, tutti chini verso i poveri peccatori e miseri. Tipico anche il catalogo delle virtù su cui spicca la prudenza tra le cardinali mentre le teologali sono trattate insieme. L’elemento meraviglioso prende il sopravvento spesso e si moltiplicano quindi leggende e vite di Santi rispetto a biografie. Ademaro di Chabannes (†1034) scrisse una Epistula de apostolatu Sancti Martialis nella quale sostenne l’origine apostolica della diocesi di Limoges, fondata da San Marziale discepolo di Pietro. Fu anche storico. Guaiferio di Salerno visse verso la metà del secolo e nella sua produzione agiografica echeggiò i classici e le leggende troiane. Alfano di Salerno (†1085) fu autore di opere agiografiche, di inni, traduttore di opere greche e medico. Nella sua agiografia mostra entusiasmo cristiano ma anche per la classicità, imitando le forme della poesia latina pagana e patristica di Virgilio, Ovidio, Prudenzio e Ambrogio. Usò in modo più che apprezzabile la metrica quantitativa. Ekkeardo IV di San Gallo (†1060) compose poesie di argomento sacro nel Liber Benedictionum Sigeberto di Gembloux (†1112) fu agiografo in versi e prosa; fu storico del suo monastero con le Gesta Abbatum Gemblacensium e autore di una Chronographia che continuava l’opera di Eusebio e Girolamo, scritta con esattezza proporzione e imparzialità, poi ulteriormente continuata dopo la sua morte; scrisse un interessante e singolare De Viris Illustribus, che per la prima volta dopo Girolamo e Isidoro tratta degli autori letterari dei secoli precedenti, sistemati cronologicamente e giudicati con acume. Tale opera ebbe un enorme successo all’epoca perché colmava una grande lacuna della cultura. I RIFORMATORI MONASTICI Santo Stefano di Thiers (1046-1124) fu il fondatore dell’Ordine di Grandmont. Come eremita a Muret presso Limoges attirò attorno a sé molti discepoli; tra il 1080 e il 1081 fondò una nuova comunità sulla scia della tradizione eremitica calabrese, proibendo ogni proprietà e adottando come norma di vita interna il Vangelo. Stabilì che i suoi figli spirituali fossero solo dediti alla penitenza. A dare una regola al nuovo Ordine fu Stefano di Liciac, quarto priore (1139-1163). Il Beato Roberto di Arbrissel (1047-1117), prete, eremita e predicatore ambulante, attirò grande folla di devoti di entrambi i sessi per i quali creò il monastero doppio di Fontevrault (1100-1101), sotto la cui primazia pose tutte le altre fondazioni analoghe che eresse. Nacque così l’Ordine di Fontevrault, la cui caratteristica fu che a reggere le abbazie era sempre una donna. La regola fu data nel 1116. Fondatori di Ordini doppi furono anche San Bernardo di Abbeville (1046-1117; Ordine di Tiron), San Vitale di Savigny (†1122; Ordine di Savigny) e il Beato Giraldo di Salles (†1120, Ordine di Cadouin). San Giovanni Scalcione di Matera (1070-1139) fu l’eremita fondatore del Monastero di Pulsano sul Gargano nel 1120 e della Congregazione degli Eremiti pulsanesi. Fondò anche un monastero a Foggia. Adottò la regola benedettina rendendola più severa. San Guglielmo di Vercelli (1085-1142) fu anch’egli eremita e fondatore del Monastero di Montevergine e di altri monasteri, riuniti nella Congregazione verginiana dell’Ordine di San Benedetto. San Bruno di Colonia (1030-1101) fu scolarca di Reims ed eremita dal 1084 nella Valle di Chartreuse assieme a degli amici. Urbano II, suo discepolo, lo chiamò a Roma, dalla quale il Santo si allontanò per fondare l’eremo di Squillace in Calabria e le sue filiazioni. Il suo stile di vita divenne una regola grazie alla stesura che ne fece Guido di Chastel (1083- 1137), che nel 1128 fissò le caratteristiche dell’Ordine Certosino: anacoretismo unito a cenobitismo, austerità estrema e senso del sopportabile, organizzazione efficiente che si avvaleva dei fratelli laici e della costituzione cistercense. Alla sua penna si devono anche le Meditationes, di intensa e profonda spiritualità, la Vita Sancti Hugonis e le Consuetudines Guidonis, che rielaborano appunto gli insegnamenti di San Bruno. Le Meditationes sono una perla della letteratura spirituale del Medioevo: l’autore esamina i problemi dell’esistenza e il suo modo di rapportarsi alle domande che pongono, esponendo pensieri ricchi di umanità e di carità, alimentata da una fede cristiana profonda. San Roberto di Molesme nacque nel 1024 e morì nel 1111. Fondò il Monastero di Molesme e, quando questi si contaminò con le usanze della Chiesa Imperiale, il Monastero di Citeaux mescolandovi eremitaggio rigidamente povero e tradizione benedettina e cenobitica. Costretto a finire i suoi giorni a Molesme, fu l’iniziatore dell’Ordine Cistercense, le cui regole furono perfezionate da Sant’Alberico (abate dal 1099 al 1108, quando morì) e soprattutto da Santo Stefano Harding (1109-1033). Theorèin - Febbraio 2017 |