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SCHOLAE MAGISTRORUM Breve introduzione ai maestri del XII sec. Non si può chiudere questa trattazione sintetica del pensiero patristico, prolungata sino a San Bernardo, se non si parla degli avversari dello stesso Abate di Chiaravalle, avversari che non furono Padri ma maestri, ossia pensatori – filosofi e teologi – che seguivano quel metodo scolastico che segnò la fine della Patristica stessa. Essi, quali interlocutori di quella generazione di ultimi autori sacri, sono parte integrante della loro epoca e quindi meritano di essere trattati. LA SCUOLA DI CHARTRES Prenderemo in considerazione dapprima gli autori della Scuola di Chartres, che come dicemmo a proposito dei Tempora Pressurorum, era stata fondata da San Fulberto nel 990. Assurta a grande splendore proprio nel XII secolo, essa fu caratterizzata da spirito umanistico, da apprezzamento del sapere scientifico, da apertura al dialogo culturale – inteso come confronto con fonti di civiltà diverse – verso la Sinagoga, la Moschea e ovviamente il mondo greco-bizantino, da attenzione alla cultura classica, dall’uso di tutti i mezzi della logica aristotelica riscoperta e infine da una spiccata propensione al razionalismo. Per i maestri di Chartres la fede è punto di arrivo e partenza della speculazione, perché la verità è contenuta nella fede ed è dovere del pensatore cristiano esplicitarla ed enunciarla chiaramente, non per essere accademico ma autenticamente credente in Cristo. La Scuola di Chartres è una accademia platonica, di quel platonismo che era stato di Agostino, Boezio e Dionigi, ma anche di quel platonismo che essa poteva conoscere mediante il Timeo di Platone medesimo, più volte commentato in quella sede e utile alla causa intellettuale del Cristianesimo per la sua idea di Dio quale Bene supremo e per la concezione esemplarista in esso contenuta. Ancora una volta dei pensatori cristiani riconducono la filosofia di Platone alla loro fede e usano l’esemplarismo creazionistico attribuendolo al grande filosofo greco. Per superare poi l’ostacolo costituito dalla concezione dell’eternità della materia contenuta nel Timeo, essa veniva interpretata scindendo lo stato della materia creata e l’ordine assunto successivamente dalle cose. Dio quindi venne concepito quale Creatore, Causa e Principio primo di ogni realtà, Unità da cui promana ogni molteplicità, Essere immutabile da cui è ogni essere mutevole. Bernardo di Chartres, nato in una data imprecisata nella seconda metà del secolo XI e di origine bretone, morto intorno al 1130, fu maestro a Parigi e a Chartres stessa, di cui fu cancelliere e della cui prima grandezza fu artefice, consegnandola poi a Gilberto Porretano suo discepolo. Maestro, oltre che di costui, di Giovanni da Salisbury e di Guglielmo di Conches, commentò Porfirio, fu docente di grammatica e di teologia, prese posizione sulla questione degli Universali in modo simile a quello di Boezio, tramite cui conobbe Platone, insegnò che esistono tre tipi di essere: quello di Dio, quello delle idee e quello della materia, asserì che quelle sono il pensiero divino (eterne ma prodotte in seno a Dio stesso e quindi non coeterne a Lui come sono tra Esse le Tre Persone della Trinità) e questa è creata da Dio stesso. Di Bernardo purtroppo nulla ci giunse e quanto sappiamo a suo proposito lo dobbiamo a Giovanni di Salisbury. Fu considerato il più perfetto platonico dei suoi tempi (nonostante il suo platonismo sia composito, in quanto prende sia da Platone e Agostino sia da Dionigi ed Eriugena) e l’erede della tradizione umanistica esemplificata in Quintiliano. Teodorico di Chartres, fratello di Bernardo, nato in data imprecisata e morto prima del 1155, cancelliere della Scuola, fu autore di un importantissimo Heptateuchon, raccolta di testi su cui fondava il suo enciclopedico insegnamento delle arti liberali. Nel De Septem Diebus et Sex Operum Distinctionibus Teodorico commentò il racconto della Creazione alla luce della fisica e della metafisica. La Creazione si basa su quattro elementi, aria acqua fuoco e terra, prodotti da Dio appunto dal nulla. Egli creò la materia dal primo istante, facendo sì che i quattro elementi prendessero ciascuno il proprio luogo naturale come insegnava Aristotele, che però Teodorico non conosceva. Egli aveva letto Calcidio e i quattro elementi erano per lui quelli del Timeo. Di essi spiegava cineticamente le qualità. La cosmogonia teodoriciana era matematizzante, in quanto il numero è il fondamento delle scienze del quadrivio, a loro volta indispensabili per capire il Genesi. Il numero è per sua natura mutevole e l’unità è immutabile, per cui il primo si identifica col mondo sensibile e la seconda con Dio medesimo. L’unità è costitutiva dell’essere e della verità, in quanto l’essere è uguale a sé e la verità anche. Quindi l’essere genera la verità, che è perfettamente uguale al primo. Essendo Dio l’Unità, la Verità è Dio anch’essa. In ragione di ciò l’una e l’altra si distinguono come Persone, ma non come sostanza. Il Padre è l’Essere, il Figlio la Verità. A Teodorico di Chartres Bernardo di Tours detto Silvestre dedicò un’opera prosimetra, il De Mundi Universitate Sive Megacosmus et Microcosmus, in cui descrive poeticamente la Creazione del mondo e dell’uomo. Bernardo fu quindi anch’egli un autore vicino all’ambiente della Scuola di Chartres, e visse pure nel secolo XII, tra il 1100 e il 1169 circa. Guglielmo di Conches, nacque verso la fine dell’XI sec. in Normandia, studiò a Chartres sotto Bernardo, gli successe e insegnò colà per vent’anni, abbandonò poi la cattedra per le accuse di eresia mossegli dal Beato Guglielmo di San Teodorico, si ritirò alla corte dei Duchi di Normandia dove fece il precettore degli eredi al trono e dove morì in data imprecisata. Guglielmo commentò il De Consolatione Philosophiae di Boezio, il Timeo di Platone e le Institutiones di Prisciano; scrisse altresì la Philosophia Mundi, il suo trattato sui principi della filosofia e sulla cosmologia. Guglielmo, a chi gli rinfacciava i nuovi orientamenti razionalisti del suo pensiero, obiettava che lo studio delle cause scientifiche sia fisiche che metafisiche non danneggia ma giova alla Gloria di Dio Che le ha poste e che gli autori biblici non trattano del modo in cui è fatto il mondo e quindi non vengono contraddetti dalla ricerca razionale, in quanto i primi vogliono edificare le anime e la seconda vuole conoscere la realtà nelle sue strutture. Anticipava così gli argomenti apologetici di Galilei contro i letteralisti del suo tempo. Guglielmo, per affrontare il tema dell’esistenza, della natura e degli attributi di Dio, inizia affermando che attorno ad ogni cosa si pongono undici questioni, consistenti anzitutto nella sua esistenza, poi nella sua sostanzialità e poi in ciascuna delle sue qualità accidentali individuate sulla base dell’enumerazione di Aristotele. Queste categorie sono tuttavia insufficienti per Dio, sia perché in Lui nulla è accidentale, sia perché in Lui nulla è limitato. Posta questa premessa sulla natura limitata della conoscenza e del linguaggio, Guglielmo dimostra che Dio esiste con la prova teleologica e con l’affermazione che tutto il molteplice si riconduce ad un primo principio unitario. Segue cioè Agostino e Anselmo. Dopo aver trattato degli attributi divini e delle operazioni di Dio, Guglielmo tratta la Creazione del Mondo, la sua origine e la natura delle cose. Lo fa leggendo la Genesi alla luce del Timeo. Il mondo è per lui eterno nelle sue cause efficiente, formale e finale, che si identificano con lo Spirito Santo, col Figlio e col Padre, ma non lo è nella sua causa materiale, essendo la materia creata insieme al tempo. Perciò Dio è eterno e il mondo è perpetuo, perché senza inizio e fine nel tempo stesso. Le creature ontologicamente sono molteplici e diverse e si oppongono a Dio quale Unità e Identità; questa contrapposizione tra i due statuti ontologici è superata tramite il Verbo, in Cui si trovano le idee archetipe e mediante Cui il Padre crea tutte le cose. Il mondo è quindi come uno specchio di Dio e al suo centro c’è l’uomo, che sussume in sé tutte le sue ricchezze. Vi è una significativa anticipazione del platonismo rinascimentale. Guglielmo afferma che l’anima del mondo, concetto anch’esso del Timeo, esiste realmente e corrisponde all’ordine del cosmo stesso, sia come struttura che come destino. Negli ultimi suoi anni Guglielmo fu essenzialmente dedito a questioni scientifiche come quelle desunte da Lucrezio o Costantino l’Africano, che lo indussero ad una concezione atomistica dei quattro elementi del mondo. Si occupò delle maree, attribuendole all’influsso lunare e alle correnti del mare, queste ultime prese in considerazione sulla scorta dell’insegnamento di Macrobio. Anche Guglielmo fu oggetto delle polemiche degli autori tradizionalisti, in particolare dei maestri di San Vittore. Giovanni di Salisbury nacque in questa città tra il 1115 e il 1120, fu educato da uno strambo prete dedito in occulto alla magia e poi mandato in Francia a completare gli studi; frequentò i corsi di Abelardo e di Roberto di Melun, si impadronì della dialettica e della logica, iniziò a seguire i corsi di Guglielmo di Conches a Chartres, vi conobbe Bernardo e il suo discepolo Gilberto Porretano, ritornò a Parigi ancora per studiare, rientrò in Inghilterra nel 1148 dove fu collaboratore degli Arcivescovi di Canterbury, specie di San Tommaso Becket (1117-1170), parteggiò per quest’ultimo nella lotta contro Enrico II (1154-1189) pur tentando una conciliazione tra i due, fu mandato in esilio dopo il martirio del suo presule nel 1170 e giunse in Francia nuovamente, dove Luigi VII (1137-1180) lo volle Arcivescovo di Chartres. In tale veste partecipò al III Concilio Lateranense del 1179 e morì nella sua sede nel 1180. Giovanni scrisse il Metalogicon, sulla logica, il Policraticus, sulla politica, l’Entheticus, storia della filosofia in versi, l’Historia pontificalis, contenente la storia ecclesiastica dei suoi tempi da lui stesso vissuta, le Epistolae e le biografie di Sant’Agostino e San Thomas Becket. Giovanni fu uno dei massimi esponenti della Scuola di Chartres e uno dei maggiori letterati dell’epoca. Non scrisse nulla di teologia, ma l’introduzione della nuova logica aristotelica, l’apologia del trivio e del quadrivio, la difesa dell’unità del sapere e del connubio tra eloquenza e sapienza, tra filologia e filosofia fecero sì che egli desse allo studio sacro un importante contributo indiretto. Nel Metalogicon Giovanni difese l’importanza della grammatica e della retorica, scagliandosi contro coloro che usavano sofisticamente l’arte dialettica, chiamandoli cornificiani; difese la logica, mostrandone la funzione propedeutica nella conoscenza della verità; elogiò ampiamente Aristotele la cui intera opera logica Giovanni fu il primo conoscitore; affrontò e risolse il problema degli Universali schierandosi con lo Stagirita e definendoli concetti ricavati dall’intelletto astraente. Nel Policraticus esamina le concezioni di governo proprie dei politici e burocrati professionisti, chiamati curiali e individuati sia nello Stato che nella Chiesa, e dei filosofi; alla prima attribuisce corruzione e frivolezza, alla seconda attribuisce la vera valenza politica, considerando il filosofo uomo virtuoso, il cui rovescio è rappresentato invece dal tiranno. Quest’opera è senz’altro la più elaborata ed ampia dell’enciclopedico autore. Sia nel trattato di logica che in quello di politica Giovanni afferma che l’uomo, per agire bene, deve conoscere il suo fine e questo gli è possibile solo tramite la ragione e la Rivelazione; una volta che ha scoperto che tale fine è la felicità, l’uomo deve agire virtuosamente per essere premiato conseguendola. La fede in un Dio onnipotente, onnisciente e buono è il fondamento non solo della religione cristiana, ma anche di quella naturale ed è condivisa da tutti gli uomini in ogni epoca. Su Dio Giovanni si esprime poeticamente, considerandolo non solo Creatore e principio, ma anche materia, nel senso di fondamento della realtà e della vita, di tutto l’universo. Dio ha creato il mondo esemplificandolo sulle Sue ragioni eterne, ossia le Idee, che in Lui sono ad un tempo differenti ed unite e che sono contenute nel Verbo, mediante Cui ha posto in opera il Suo eterno progetto. L’uomo è strettamente legato a Dio, in quanto vive per Sua volontà ed è unito a Lui per Sua grazia. In filosofia Giovanni sostenne spesso posizioni ciceroniane, affermando che non si deve credere se non a ciò di cui i sensi, la ragione e la fede danno una sicurezza incontestabile, lasciando perdere sterili controversie tipo quella degli Universali. Gilberto Porretano o de La Porré nacque a Poitiers verso il 1075; studiò a Chartres da Bernardo, poi a Parigi e a Laon; fu maestro e cancelliere a Chartres, insegnò a Parigi teologia e dialettica e poi fu vescovo di Poitiers nel 1142. Accusato da Gualtiero di San Vittore e da Gerloch di Reichersberg di essere, con Abelardo e Pietro Lombardo, un cattivo maestro di teologia, fu citato in giudizio da alcuni suoi chierici per la sua dottrina trinitaria, ma sottoscrisse subito i capitoli correttivi di essa sottopostigli da San Bernardo di Chiaravalle e da Goffredo di Auxerre (†1188) al Concilio di Reims del 1148. Gilberto morì nel 1154. Gilberto scrisse commenti ai cinque opuscoli teologici di Boezio, ai Salmi, alle Lettere di San Paolo, al Credo apostolico e il Liber de sex principiis. Egli fu il massimo rinnovatore del pensiero teologico e filosofico dell’epoca, surclassò Abelardo nella conoscenza della metafisica, completò la logica aristotelica col suo Liber, conobbe i Padri greci meno noti e fu maestro universalmente venerato per la sua dottrina. Il suo metodo teologico fu quello dell’argomentazione, che introdusse per primo, abbandonando l’allegorizzazione e seguendo lo schema logico di Boezio, da lui commentato con eccezionale acutezza. Gilberto fissò i termini chiave della metafisica e della teologia scolastica, fornì una completa divisione delle scienze, dividendo le pratiche dalle speculative e classificando queste ultime come naturali, matematiche e teologiche. Fissò alcune distinzioni chiave del pensiero scolastico. La prima è tra sostanza e sussistenza. La sostanza è intesa da Gilberto aristotelicamente come realtà concreta individuale immutabile che sostiene gli accidenti. La sussistenza è la proprietà per cui una cosa è ciò che è senza bisogno di accidenti. Sono quindi sussistenze i generi e le specie, perché di per sé non hanno bisogno di accidenti per essere quel che sono ma, non essendo soggetto di alcunchè, non sono sostanze. Ora in ogni ente vi è la sussistenza per cui esso è simile al proprio genere e le proprietà accidentali che lo fanno essere in un certo modo, ossia lo fanno essere qualcosa; sussistenza e proprietà accidentali sono unite in ogni ente formandone la sostanza. La sostanza, a differenza della sussistenza, può avere degli accidenti, ma non ne ha la necessità, per cui esistono anche sostanze semplici o pure o separate che sono gli Angeli, oltre che Dio stesso. La seconda divisione gilbertina è tra essere e ciò che è. Il primo è l’essenza, il secondo è la sostanza individuale. Il primo è ciò che fa essere la cosa, il secondo ciò che la cosa è. In Dio sono la medesima cosa, nelle creature sono unite, essendo il secondo peraltro bisognoso di principi di individuazione per determinarsi concretamente. Gilberto infine chiama essenza non la natura dell’ente, distinguendola così dal ciò che è, ma la perfezione assoluta e illimitata dell’Essere, che quindi appartiene solo a Dio. Proprio il significato che Gilberto dava a sostanza e sussistenza gli provocò i guai in teologia trinitaria: la prima era la Divinità ma anche le Persone, rimanendo le sussistenze alle nozioni astratte delle Relazioni. Il rischio del triteismo spinse il papa Eugenio III (1147-1154) e San Bernardo a chiedere precisazioni in ordine alla distinzione tra Dio e la Divinità, all’Unità sostanziale delle Tre Ipostasi e alla non convertibilità della proposizione per cui Dio è la Divinità e la Divinità è Dio. Gilberto sottoscrisse senza reticenze e ricevette a richiesta l’incarico di emendare lui stesso il suo commento all’opuscolo trinitario di Boezio, cosa che fece egregiamente. In campo filosofico, Gilberto divise le dieci categorie di Aristotele in due gruppi: sostanza qualità quantità e relazione da una parte, luogo tempo stato abito azione e passione dall’altra quali rispettivamente forme inerenti e forme accessorie. Le prime sono appunto o la sostanza medesima o inerenti ad essa indipendentemente dai suoi rapporti con le altre. Le seconde invece sono quelle che determinano proprio queste relazioni. Proprio in questo contesto nacque l’incertezza del pensiero gilbertino sul tema della relazione, la quale essendo unita alla sostanza spingeva a chiedersi se essa fosse reale o mero ente di ragione. Nella sua cosmologia, Gilberto afferma che alla base delle sostanze sensibili si trovano quelle pure o idee, delle quali quattro sono le fondamentali, ossia aria acqua fuoco e terra. La produzione delle cose implica tre termini: la materia prima, l’Essenza del Creatore e le idee dei sensibili. Su di esse si esemplificano le forme sostanziali dei sensibili che appunto ordinano la materia. Proprio su queste forme sostanziali si formano, per astrazione, gli universali mediante una doppia intenzione, esattamente come insegnava Aristotele, ricavando la sussistenza specifica e quella generica. Gilberto tenne una scuola in senso morale, nella quale si formarono il canonista Simone di Tournai (1130-1201), sostenitore di una piena integrazione dell’ordine temporale in quello spirituale, Nicola di Amiens (1147-1200) - discepolo di Gilberto Porretano, autore d'una Ars catholicae fidei (per il metodo paragonata all'Ethica di Spinoza), di una Defensio orthodoxae fidei e di una cronaca latina, compilatoria, fino al 1204 - e il Beato Alano di Lilla. Questi fu figura di grande prestigio, che diede alla teologia metodo, oggetto e regole proprie, nonché una impostazione sistematica di tipo neoplatonico. Nacque nella prima metà del XII sec.; studiò a Chartres e fu discepolo di Gilberto Porretano, insegnò a Parigi, fu missionario presso i Catari e divenne cistercense. Scrisse a Parigi le sue Regulae e morì a Citeaux nel 1203. Scrisse il De Arte Praedicatoria, presentando la predicazione come il massimo grado della perfezione cristiana, basata sul ragionamento e l’autorità, di cui lo stesso autore dà esemplificazione citando per ogni tema di predicazione una sentenza patristica. Scrisse altresì la Summa Quoniam Homines, di grande rigorosità logica. Il De Fide Catholica contra Haereticos è una somma contro Catari, Valdesi, Giudei e maomettani, confutandone le dottrine con ragione e autorità. Le Regulae de Sacra Theologia summenzionate sono un manuale di epistemologia teologica e di teologia sistematica; costituiscono il capolavoro di Alano. Le Distinctiones dictionum theologicarum sono un repertorio alfabetico di termini, con spiegazioni letterali e metaforiche. La Summa de arte praedicatoria è un trattato normativo con esempi. Scrisse inoltre dei Sermoni, un De sex alis Cherubini, una Eluci¬datio in Cantica Canticorum, traboccante di de¬vozione alla Vergine, un Liber poenitentialis d'interesse canonico, e altri scritti teologici isolati o frammentari. A questi vanno aggiunti gli scritti poetici. Il De Planctu Naturae è un prosimetro in cui la Natura lamenta l’ingratitudine e la riottosità dell’uomo, opera notevole per coerenza di ingegno ma di lettura impervia per la sovrabbondanza dell’elocuzione. L’Anticlaudianus è un poema in cui sempre la Natura convoca le virtù per formare l’uomo perfetto, costruito con espressione varia ed equilibrata costruzione, ispirato alle opere di Claudio Claudiano che aveva delineato l’uomo peggiore in Rufino. Il Doctrinale minus o Liber parabolarum è una antologia di parabole in distici elegiaci, Alano afferma senza mezzi termini la bontà della natura, l’armonia tra fede e ragione, la loro distinzione ed autonomia, nonché i medesimi rapporti tra sacro e profano. Alano è un umanista e un naturalista che sottolinea come la natura ha dato all’uomo la ragione, per cui essa è principio del retto operare e della virtù, per cui quando viene abbandonata genera il vizio. Il Dottore ha il grande merito di aver abbandonato del tutto il metodo allegorico in teologia e di aver distinto questa disciplina dall’esegesi, dotandola dei suoi assiomi rigorosamente dimostrati con metodo deduttivo. Le regole teologiche, a causa del loro oggetto, sono assolute ed immutabili. Le maggiori tra esse sono che la Monade è ciò per cui ogni ente è uno, che nei sovracelesti vi è unità nei celesti alterità e nei subcelesti pluralità (identificati con Dio Angeli e mondo materiale), che a Dio appartiene sostanzialmente tutto ciò che Gli appartiene, che in ogni semplice coincidono essere e ciò che è, che il semplice è forma senza soggetto materiale e sostanza senza predicato formale. Alano ha delle regole di impianto neoplatonico desunte dagli autori patristici di quell’indirizzo oltre che dai filosofi antichi, e le dimostra tanto rigorosamente da anticipare Spinoza e Wittgenstein. Il Dottore spiega che le ragioni assolute valgono solo per la metafisica, in quanto l’Economia salvifica, essendo storica, ha bisogno di mere ragioni di convenienza. In ogni caso le regole alanine sono centoventicinque. Commentando i Nomi Divini, Alano afferma che nessuno di essi va preso alla lettera in quanto tutti indicano una forma mentre Dio non ha forma ed è superiore ad ognuna di esse. Essi sono quindi trasnominativi e non denominativi, in quanto negli enti si distingue ciò che è denominato e ciò da cui è denominato, mentre in Dio questo non avviene perché Dio è la stessa Divinità. In Lui l’Essere è immutabile, e Alano quando lo afferma commentando l’Esodo sembra presagire la dottrina dell’analogia dell’essere di Tommaso, perché afferma che Dio e gli enti esistono in un senso simile ma distinto. Grazie ad Alano la teologia divenne una scienza che vive di vita propria e che desume i propri veri dalla Rivelazione ma anche dalla filosofia e dalla grammatica. Il suo limite fu la estrema formalizzazione della logica teologica, che sembrava preludere alla manipolazione matematica delle verità della fede e della teologia razionale, un rischio scongiurato da Tommaso d’Aquino. PIETRO ABELARDO Massimo esponente di quei maestri che, non legati esclusivamente ad una sola scuola, nel periodo ebbero nuovi metodi come la lectio e la quaestio, nuovi strumenti come l’argomentazione, la deduzione e il sillogismo, nuovi contenuti in dogmatica, sacramentaria e morale, tanto che essi chiamarono per primi la scienza divina col nome di teologia, Abelardo è una delle figure più significative del secolo. Nacque a Pallet presso Nantes nel 1079. Discepolo prima del nominalista Roscellino e poi del realista estremo Guglielmo di Champeaux, prese posizione contro di essi abbracciando il realismo moderato e il metodo dialettico del Sic et Non. Fu docente di grammatica dialettica e teologia a Notre Dame di Parigi e a San Vittore, si innamorò di una sua allieva, Eloisa, che gli diede un figlio e che quindi sposò. Nonostante Abelardo fosse un maestro di enorme successo, il canonico Fulberto di Chartres, zio di Eloisa, si vendicò dell’affronto subito da lui facendolo evirare e separando i due amanti. Entrambi allora abbracciarono la vita monastica, nel 1118, rispettivamente lui a Saint Denis di Parigi e lei ad Argenteuil. Accusato di eresia per la sua teologia trinitaria, fu condannato nel Concilio di Soissons nel 1121 e di Sens nel 1140. Ebbe come implacabili avversari Bernardo, Guglielmo di San Teodorico e i loro seguaci. Già dal 1122 dovette lasciare la scuola di Notre Dame e fondarsene una propria presso Nogent-sur-Seine, nel convento del Paraclito da lui voluto. Abate di San Gildasio dal 1125, fu poi nel 1135 ad insegnare nuovamente a Parigi. Dopo la seconda condanna conciliare avrebbe voluto appellarsi al Papa ma Pietro il Venerabile lo dissuase inducendolo non solo a sottomettersi ma anche ad incontrare San Bernardo che gli fece aprire gli occhi sulle sue responsabilità nella perturbazione della pace teologica nella Chiesa. Riconciliato con tutti, morì a Cluny nel 1142. Abelardo scrisse molto e le sue opere principali sono il De Unitate et Trinitate Dei (condannata a Soissons), la Theologia Christiana, anch’essa sulla Trinità, la Theologia Scholarium o Introductio ad Theologiam, il Sic et Non (raccolta di testi biblici e patristici che esprimono pareri opposti sulle medesime questioni e usata da Abelardo per le sue lezioni), l’Expositio in Hexaemeron sul brano della Creazione nella Genesi, il Commentarium sulla Lettera ai Romani, le Glosse letterali alle opere logiche di Aristotele, all’Isagoge di Porfirio, a Boezio, l’Ethica seu Scito teipsum, la Dialectica sulla filosofia del linguaggio che è il suo capolavoro filosofico, l’Historia Calamitatum, un’autobiografia della sua drammatica vita, un mediocre Hymnarium e canzoni d’amore oramai perdute. Il metodo del Sic et Non è in assoluto il maggior contributo abelardiano alla teologia. In esso le sentenze opposte di importanti autori su determinati temi sono comparate mediante una mera elencazione, onde spingere il lettore o l’uditore all’uso della ragione critica. Questo gli attirò l’accusa di voler mettere in discussione ogni cosa, e in effetti la ragione di Abelardo, sebbene ancora inclusa nel recinto della fede, sembra voler trattare con essa pariteticamente presa da una voluttà di disputare. In filosofia Abelardo non ha elaborato alcun sistema ma ha discusso originalmente il problema degli Universali e quello dell’intenzione nell’etica. Per il primo, il filosofo rifiuta l’ipostatizzazione ontologica dell’Universale come la sua riduzione a mero fatto linguistico. Per Abelardo l’Universale è un concetto che ha somiglianza con le cose a cui si riferisce. Se il realismo estremo fa dell’Universale qualcosa di non sostanzialmente distinguibile dagli individui e se il nominalismo lo svuota di ogni unità di significato, la posizione di Abelardo ha il pregio di ricalcare quella aristotelica, anche se rimane incompleta in quanto non poggia su una metafisica precisa. L’Universale ha un significato e non è un puro nome, ma il significato non è la cosa in sé, ma un prodotto della mente. I punti di arrivo del pensiero abelardiano in materia sono dunque i seguenti: gli Universali non esistono se non nell’intelletto ma significano esseri reali; sono corporei in quanto emissioni di fiato e incorporei in quanto al significato; siccome designano le forme sensibili, sono sussistenti nei sensibili ma esistono al di là di essi perché sono separati da essi per astrazione; i loro significati esisterebbero anche in mancanza dei sensibili di riferimento. Per il secondo problema, quello dell’intenzione morale, Abelardo non ha esitato ad affermare che essa sola determina la moralità dell’atto, a dispetto della natura dell’atto stesso. Per evitare di cadere in un eccessivo formalismo etico, il filosofo ha messo anche in evidenza che l’intenzione può essere retta solo in una coscienza bene educata, capace di discernere il bene dal male. Abelardo, ponendo come Anselmo nell’interiorità la radice e lo scopo della moralità, cercò di soddisfare quell’esigenza di genuinità morale che la sua epoca cercava e che la tradizionale dottrina di Agostino, che faceva del desiderio della beatitudine la molla dell’azione morale, non sembrava più riuscire a soddisfare. Il rapporto tra fede e ragione in un pensatore razionalista come Abelardo è trattato con particolare attenzione. Il filosofo insegna che la ragione serve a chiarire, comunicare, spiegare le ragioni della fede a chi non le conosce, non le capisce e non le comprende. Il rapporto tra fede e ragione è simile, in Abelardo, a quello che è impostato da Giustino, da Clemente e dai Padri greci che considerano la filosofia una preparazione al Vangelo e la ragione umana come una ragione partecipata di quella divina che è il Verbo stesso. A differenza di Anselmo Abelardo non parla mai delle ragioni necessarie dell’agire divino non volendo penetrare l’insondabilità del pensiero di Dio, ma preferisce parlare di ragioni oneste, di motivazioni sufficienti per capire perché anche alla fragile ragione umana possano sembrare opportune le azioni divine. Tuttavia Abelardo ha una grande fiducia nella potenza della ragione umana. Egli di fatto ha, con questa impostazione, preparato il lavoro della Scolastica vera e propria, quella grande ed ortodossa, ma ha sbagliato perché ha spesso mescolato i piani di azione della ragione stessa nell’esercizio della sua funzione interpretativa. Peraltro anche il suo lessico spesso era impreciso. In unione al fatto che per il filosofo la ragione non ha scopi dossologici o contemplativi nella sua interazione con il contenuto della fede, ma solo predicatori, apologetici ed esplicativi, tutto questo fa capire come mai anche in questo campo Abelardo fu guardato con sospetto dai suoi contemporanei. In teologia quello che fu il principale libro di Abelardo, il De Unitate et Trinitate Divina, contestò il triteismo di Roscellino per correre il rischio di essere modalista. Anche in cristologia la dottrina dell’Incarnazione è enunciata con accenti adozionisti. Ma nell’uno e nell’altro caso è più lo zelo del filosofo che la vanità dell’eretico che crea confusione. In soteriologia Abelardo fonda tutta l’azione salvifica sull’amore di Dio per noi in Cristo, anche se, posta questa nobile premessa, il filosofo non riesce a svilupparne tutte le implicazioni come vorrebbe. Abelardo inoltre afferma che i pagani possono essersi salvati se hanno seguito gli insegnamenti morali naturali dei filosofi greci, che egli considera come depositari di importanti verità di ragione. Infine in teodicea, Abelardo non solo afferma che Dio, sebbene onnipotente, non possa fare il male e il contraddittorio, ma anche che non poteva fare il mondo migliore di come esso è, anticipando Leibniz. Nel complesso si tratta di un personaggio di grande rilievo per la storia della cultura, meno per quella dello sviluppo reale della filosofia e di quello della teologia, nella quale, se fu di fatto sempre ortodosso tranne che per qualche divagazione, di fatto contribuì soprattutto e solo alla marcia inarrestabile verso la Grande Scolastica. PIETRO LOMBARDO Del genere delle Sententiae abbiamo già fatto cenno, in quanto di origine patristica; esse nella seconda metà del secolo XII vanno differenziandosi dalle Summae, sebbene spesso ancora i due termini sono usati come sinonimi per indicare le medesime opere. Se le seconde portano sempre più l’impronta personale dell’autore, le prime sono senz’altro esemplificate al meglio nell’opera di Pietro Lombardo, i Libri Quattuor Sententiarum. Il loro autore nacque a Novara alla fine dell’XI sec., fu accolto tra i canonici di San Vittore a Parigi per raccomandazione di San Bernardo nonostante le sue umili origini e divenne presto celebre teologo. Esaminò nel Concilio di Reims le dottrine di Gilberto Porretano e nel 1159 divenne Arcivescovo di Parigi dove morì l’anno dopo. Le sue Sententiae sono un autentico capolavoro della teologia dei maestri, la prova che ormai quella nuova forma di sapere teologico era matura e poteva soppiantare il metodo patristico, come in effetti avvenne. Erano talmente organiche, semplici, chiare, ortodosse, ordinate, schematiche, complete da diventare il libro di testo della teologia fino al XVI secolo e da essere commentate da tutti i grandi teologi dei secoli successivi, compresi nomi del calibro di Tommaso d’Aquino, di Bonaventura, di Duns Scoto, di Alberto Magno. Nelle Sententiae Pietro Lombardo raccoglie per ogni questione una documentazione preziosa che attraversa tutta la Patristica e tutta la storia del pensiero teologico, giungendo sino ai contemporanei come Ugo da San Vittore e Abelardo. Il testo non indulge a questioni filosofiche né a dispute, è conciliante nella sua linea argomentativa e fedelissimo alla dottrina, tanto che persino il IV Concilio Lateranense nel 1215 lo approvò ufficialmente. I quattro libri delle Sententiae sono rispettivamente sulla Trinità e Unità di Dio, sulla Creazione e la Grazia, sull’Incarnazione la Redenzione le virtù e i Comandamenti, sui Sacramenti e i Novissimi. Il metodo del Lombardo si può esemplificare a proposito della questione sull’esistenza di Dio. Per dimostrare che la ragione umana non può da sola giungere alla conoscenza di Dio, il Lombardo adduce quattro argomenti che formula con le parole di Ambrogio e Agostino. Ad esempio, la prima ragione consiste nel fatto che nessun uomo né altra creatura ha potuto produrre il cosmo, per cui bisogna riconoscere che esso è opera dell’Essere supremo, Dio appunto, che si rende manifesto mediante le Sue opere. La seconda invece consiste nel fatto che l’uomo, cercando l’origine dei corpi, la trovano nell’immateriale, così come cercando il fondamento del mutevole, lo trovarono nell’immutabile, per cui sia l’uno che l’altro si identificano con Dio. La terza e la quarta sono anch’esse desunte dalla tradizione agostiniana. Un simile metodo a florilegio lasciava ai docenti molta libertà nel commentare i passi del testo e ampia possibilità di apprendimento agli studenti. In sacramentaria Pier Lombardo ha lasciato un’orma destinata a durare nei secoli. Definisce il Sacramento quale segno della Grazia di Dio, forma visibile della Grazia invisibile, in modo da portarne l’immagine ed esserne la causa. Perciò distingue in esso un elemento materiale e uno formale, ossia la formula pronunziata dal ministro quando lo impartisce. La causalità sacramentale è il tratto distintivo di questa teologia, che non si ferma più al mero dato del segno. Inoltre il Lombardo, quando ancora Bernardo aveva detto che i Sacramenti sono tantissimi, perché impastoiato nella concezione simbolica di essi, sentenziò senza incertezze che essi sono solamente sette: Battesimo, Cresima, Eucarestia, Penitenza, Unzione degli Infermi, Ordine Sacro e Matrimonio. ROBERTO DI MELUN Roberto di Melun, teologo e vescovo inglese, nato alla fine del secolo XI e morto nel 1167, successore di Abelardo nell’insegnamento dialettico a Parigi e poi maestro di teologia a Melun, prese posizione, come dicevamo, contro Gilberto Porretano e la sua teologia trinitaria nel Concilio di Reims del 1148; divenne poi vescovo di Hereford in Inghilterra. Dovremmo considerarlo più tra le fila degli autori tradizionali, ma ne parliamo in questo capitolo per ragioni di congruenza. Commentò il Vangelo di Matteo e le Lettere di Paolo, scrisse una raccolta di Sententiae nelle quali, pur ammirando i grandi teologi dell’epoca, dai Vittorini al Lombardo, spesso si stacca da essi con posizioni personali. Theorèin - Aprile 2017 |