LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
Entra nella sezione FILOSOFIA

Se vuoi comunicare con Vito Sibilio: gianvitosibilio@tiscalinet.it

DOCTOR ANGELICUS

Brevissima introduzione a San Tommaso d’Aquino

San Tommaso d’Aquino è chiamato Dottore Angelico per la sua angelica purezza e Dottore Comune perché tutti si rifanno alla sua autorità. Egli è stato il maggior filosofo cristiano in assoluto, in quanto punto di arrivo insuperabile della filosofia classica che parte da Parmenide ed Eraclito, passa per Socrate, Platone, Aristotele, Plotino, si cristianizza con Agostino e appunto con l’Angelico arriva a compimento, mediante una geniale e definitiva soluzione del problema ontologico. Sebbene il genio di Agostino sia stato più eclettico del suo, Tommaso ha una importanza maggiore proprio per la sintesi ontologica che raggiunse. Egli inoltre, pur non avendo la pienezza creatrice dell’Ipponense in tanti ambiti, produsse un sistema che diede stabilità definitiva anche a molte intuizioni geniali di Agostino e che quindi si configurò come pienamente aderente alle necessità intellettuali della Chiesa. Tommaso fu poi, sempre con Agostino, il massimo teologo della Cristianità.

Egli iniziò la sua carriera accademica nel 1252 a Parigi proprio quando i veti antiaristotelici delle autorità ecclesiastiche erano appena caduti, per cui in un quinquennio le opere dello Stagirita irruppero nelle Facoltà della Sorbona diventando testi di studio e di esame. Resosi conto come Alberto Magno che oramai non si poteva più prescindere dal pensiero aristotelico in nome di anacronistici divieti, Tommaso non solo si gettò su di esso per comprenderlo e interpretarlo in modo consono al senso cattolico, ma per annetterlo alla Fede facendone la materia intellettuale con cui realizzare la seconda grande inculturazione teologica cristiana dopo quella platonica, ossia quella appunto aristotelizzante. L’Angelico compì questa operazione attraversando quelle regioni del pensiero filosofico, come quella araba e quella giudaica, che già avevano assimilato e utilizzato il magistero aristotelico e, nel farlo, assoggettò anch’esse alla Fede cattolica, utilizzandone i concetti ai fini della formulazione del suo pensiero. In tal modo la filosofia di Tommaso, il cosiddetto Tomismo, non solo è una inculturazione del Cristianesimo nel paganesimo aristotelico, ma anche nelle filosofie non cristiane ma monoteiste della Sinagoga e della Moschea, in una sorta di trialogo interreligioso ante litteram, la cui maggior beneficiaria fu appunto la Fede Cattolica. Fu inoltre grande merito di Tommaso aver dato uno statuto epistemologico definitivo alla teologia, appunto servendosi degli spunti aristotelici ma interpretandoli ed integrandoli secondo la sua personale esigenza e sensibilità. Tutto ciò non fece di Tommaso un semplice collettore sia pure armonico di filosofie simili e già sincronizzate, ma l’artista che le plasmò in una nuova sintesi originale incentrata sulla sua concezione rivoluzionaria della metafisica, quella basata sulla primalità dell’essere, quella per cui l’essere e l’esistere diventano una medesima cosa, quella cioè che dà l’ultima e più chiara risposta alla domanda che aveva dato origine al pensiero filosofico quasi millesettecento anni prima: Che cos’è l’essere? Robustezza, coesione, armonia e chiarezza del pensiero tomista vengono proprio da questo colpo di genio, che fa vivere in una sola nuova compagine tutte le fonti utilizzate dall’Angelico.

Ciò fece si che Tommaso facesse scuola ed in effetti la scuola tomista fu subito quella ufficiale dei Domenicani, sin dalla fine del Duecento. Tuttavia essa fu a lungo una delle tante della Chiesa, per compiere il salto di qualità e divenire quella preminente solo con il Concilio di Trento, che associò spesso l’Angelico all’Ipponense nell’esercizio dell’argomento dell’autorità ad un tempo patristica e dottorale, contro l’anarchia inaugurata dal pensiero luterano sulla scia della degenerazione del volontarismo e del nominalismo tardomedievali. Fu poi papa Leone XIII (1878-1903) che nel 1879 adottò il pensiero di Tommaso come filosofia ufficiale della Chiesa, con l’enciclica Aeterni Patris, in cui lo definisce filosofia perenne e scorge in esso il baluardo adatto a resistere agli assalti delle correnti di pensiero contemporanee anticristiane ed irreligiose. Nacque così il Neotomismo, che fu in effetti il maggior puntello intellettuale del Cattolicesimo del XX sec. Il Neotomismo fu più che altro una corrente filosofica, la cui eclisse ha prodotto danni gravissimi alla cultura cattolica e filosofica in genere, ma non teologica, in quanto si dava per scontato – erroneamente – che la teologia cattolica fosse già soltanto tomista. Questo da un lato impoverì la teologia stessa e dall’altro fece sì che nessuno studio di insieme sul pensiero teologico di Tommaso fosse realizzato nel Novecento. Così, quando iniziò il rinnovamento teologico dopo il Concilio Vaticano II, qualcuno pensò di buttare a mare, con le formule tradizionali, anche tutta la teologia tomista, facendo anche qui un danno gravissimo: sia perché senza Tommaso non sopravvive nessuna sintesi teologica cattolica, sia perché la linfa dell’Angelico può alimentare un rinnovamento profondo anche in teologia come in filosofia, perché, sebbene egli sia uno dei massimi testimoni della Tradizione, non ne è la sostanza e quindi può servire per esprimerla in modi più consoni ai tempi coevi se opportunamente egli stesso ripensato.

Detto questo come viatico alla centralità del pensiero del Dottore Comune, con un po’ di apprensione per quanto mi accingo a fare, inizio a parlare della vita, delle opere e del pensiero del nostro Autore.

LA VITA

Tommaso nacque a Roccasecca tra il 1224 e il 1225 in uno dei castelli dei Conti di Aquino, figlio di Landolfo – alto burocrate e lontano parente di Federico II di Svevia (1215-1250) – e di Teodora, nobildonna di Napoli e sua seconda moglie. Quarto dei maschi di questo prolifico matrimonio da cui nacquero anche cinque femmine, Tommaso venne destinato alla carriera ecclesiastica. Così a soli cinque anni fu portato come oblato a Montecassino. Nel 1239, a quindici anni, Tommaso fu costretto a lasciare l’Abbazia assieme a tutti gli altri oblati perché l’Imperatore aveva scacciato da essa tutti i monaci non originari dei suoi domini, per cui i pochi religiosi rimasti non potevano prendersi cura dei giovani loro affidati. Trasferitosi a Napoli per volontà dell’Abate e del padre, Tommaso vi studiò il trivio e il quadrivio.

Fu alle falde del Vesuvio che Tommaso, guidato da maestri di grande rinomanza, conobbe e comprese il pensiero di Aristotele e specialmente la sua logica. E fu sempre là che decise di entrare nell’Ordine dei Predicatori, il cui stile di vita, volto alla santificazione mediante la cura delle anime da realizzarsi nello studio e nella predicazione, era congeniale alla sua indole meditativa. Nel 1234 Tommaso divenne domenicano. Non volendo che divenisse un membro di un Ordine mendicante, la madre e i fratelli – il padre era morto l’anno prima – cercarono di farlo recedere dal suo proposito e, quando i superiori per salvarlo dalla loro prepotenza morale decisero di trasferirlo in Francia, arrivarono ad organizzarne il rapimento, portandolo in una torre del castello di Roccasecca. Qui rimase un anno prigioniero. I fratelli, per corromperlo, arrivarono persino a mandargli una prostituta in camera, ma il Santo la respinse con una torcia ardente. Da qui il meritato epiteto di Dottore Angelico. Diventato maggiorenne, nel 1245 Tommaso fu rilasciato e poté seguire la sua ispirazione. Recatosi a Parigi, vi cominciò a studiare sotto Alberto Magno. Il suo percorso teologico continuò a Colonia dove Alberto l’aveva portato per farsi aiutare nell’allestimento dello Studium generale domenicano locale. Tommaso divenne così baccelliere biblico e conobbe ancor meglio Aristotele, mentre apprese il pensiero degli arabi, specie di Avicenna, e quello di Dionigi l’Areopagita.

Ordinato prete nel 1252, Tommaso tornò a Parigi dove divenne baccelliere sentenziario e maestro di sacra dottrina. Tenne lezioni su Pietro Lombardo per quattro anni e produsse al termine il suo Commento alle Sentenze di quel maestro. Nel 1255 fu coinvolto nella disputa sul diritto dei Mendicanti ad insegnare all’Università. Sebbene essa fu risolta a vantaggio dei Frati essenzialmente grazie a Sant’Alberto, anche Tommaso diede il suo contributo alla tenzone scrivendo un’opera contro i detrattori della vita religiosa conventuale. Risolto il contrasto, il Santo divenne maestro reggente di una cattedra teologica parigina. Nel 1259 Tommaso tornò nella Provincia Partenopea, dove svolse diversi incarichi e dove già aveva grande prestigio per la laurea alla Sorbona. Fino al 1269 la cronologia della vita di Tommaso è incerta: forse dal 1259 al 1261 scrisse la Somma contro i Gentili e insegnò ad Anagni. Il 14 settembre di quell’anno fu nominato lettore del Convento di Orvieto. Qui Tommaso conquistò la stima e la fiducia di papa Urbano IV (1261-1264), che nella cittadina trascorse la maggior parte del suo pontificato. I due collaborarono con profitto e il Santo ricevette dalla munificenza papale tutti i mezzi necessari al suo lavoro intellettuale. Egli inoltre conobbe sempre ad Orvieto Guglielmo di Moerbecke, che tradusse per lui le opere di Aristotele direttamente dal greco, onde Tommaso potesse approfondirne lo studio. Tommaso chiese poi ad altri frati grecisti nuove traduzioni di Padri greci mai resi in latino. In questo contesto di immenso fervore intellettuale Tommaso, per compiacere Urbano IV, scrisse la sua Catena aurea sui Vangeli e il compendio teologico contro gli errori della Chiesa greca. Mise così a frutto quanto imparato dai Padri che aveva fatto tradurre. Morto Urbano, Tommaso si trasferì a Roma per insegnarvi dal 1265 al 1267 e poi a Viterbo dove attese ad iniziare la sua monumentale Somma di teologia, pur continuando le sue lezioni, dal 1267 al 1268.

Nel 1268 Tommaso fu richiamato a Parigi dai Domenicani del luogo nel loro Studium quale professore di teologia per lavorare sulle opere di Aristotele: avrebbe dovuto commentarle e purgarle dei sospetti conseguenti alla loro lettura averroista. Giunse nella capitale francese nel 1269. La traduzione delle opere del filosofo arabo aveva infatti riaperto la disputa sullo Stagirita e ringalluzzito i suoi nemici, ai quali molta legna era stata fornita per il fuoco della polemica dal magistero di Sigieri di Brabante, mentre oramai la cristianizzazione di Aristotele fatta da Alberto sembrava insufficiente. Tommaso si mise all’opera, sapendo di avere ora come rivali gli stessi Francescani di scuola agostiniana e platonica, accanto agli averroisti. In quattro anni Tommaso commentò tutte le opere di Aristotele mostrando che non dovevano leggersi come dicevano gli averroisti e rintuzzò, in altre opere, i principali errori di questi ultimi. L’Angelico poté mostrare al mondo che il pensiero di Aristotele non era incompatibile con la Fede ma anzi era utile e necessario per esprimerne i capisaldi. Ma la sua opera intellettuale non chiuse la disputa e nel 1272 il Santo si trasferì a Roma e poi fu mandato a Napoli quale professore di teologia. Riorganizzò gli studi in quella sede accademica e si diede alla predicazione popolare, venendo molto apprezzato per la sua semplicità e profondità. Nel dicembre del 1273 l’Angelico, mentre celebrava la Messa, fu rapito in estasi e vide Gesù Che lo elogiò per quanto scritto su di Lui. Premiandolo, il Signore dischiuse la mente di Tommaso ai misteri divini. Rientrato in sé, il Santo non volle più scrivere nulla, considerando ogni parola e speculazione umana assolutamente inadatte a quanto aveva visto. Rimasero così incompiute la Somma teologica e il Compendio teologico.

Nel gennaio del 1274 Tommaso partì alla volta di Lione per partecipare al II Concilio ecumenico della città indetto dal beato Gregorio X (1271-1276) che avrebbe voluto crearlo cardinale. Ammalatosi a Fossanova e ricoveratovi nell’Abbazia cistercense, Tommaso là morì dopo qualche settimana il 7 marzo, dopo aver ricevuto il Viatico.

La memoria di Tommaso fu subito onorata, avendo egli lasciato un ricordo unanimemente positivo per vita e dottrina. Giovanni XXII (1316-1334) lo canonizzò nel 1323 e ben presto, come dicevo, egli fu appellato Dottore Angelico e, ai tempi nostri, Dottore Comune.

LE OPERE

Esse sono tantissime e, mancando un catalogo ufficiale, spesso furono aumentate da titoli pseudoepigrafici. La lista delle opere autentiche è all’incirca la seguente, da dividersi tra commenti biblici, aristotelici, sistematiche, opuscoli, varie e altri commenti, tenendo presente che nelle ultime tre categorie mescoleremo sia i titoli teologici sia quelli filosofici sia quelli di altro argomento, essendo facili da distinguersi proprio per l’intitolatura, sebbene spesso l’Angelico trattasse di filosofia e teologia insieme.

Per i commenti biblici rammentiamo l’Expositio in Job del 1261-1264, l’In Psalmos Davidis Lectura del 1271-1273, l’Expositio in Cantica Canticorum andato perso, l’Expositio in Isaiam Prophetam del 1256 -1259 o del 1269-1274, quella In Jeremiam Prophetam del 1264 -1269, quella In Threnos Jeremiae Prophetae del 1264 -1269, la Catena Aurea super Quattuor Evangelios del 1261-1264 o dopo questa data, l’Expositio sive Lectura in Evangelium Sancti Matthaei del 1256 -1259, quella In Evangelium Sancti Joannis del 1269-1272 e quella In Sancti Pauli Apostoli Epistulas, del 1259-1265 e del 1272-1273.

Dei commenti aristotelici citiamo l’Expositio in libros Perihermeneias del 1268-1272 che arriva fino al secondo libro dello Stagirita sull’argomento, quella In libros Posteriorum Analitycorum del 1268-1272, quella In octo libros Physicorum dopo il 1268, quella In libros de Caelo et Mundo del 1272 che arriva fino al libro terzo di Aristotele in materia, quella In libros de Generatione et Corruptione del 1272 -1273 fino al libro primo, quella In libros Metereologicorum del 1269-1272 fino al libro secondo, quella In libros De Anima del 1267-1272, quella In libros de sensu et sensato del 1267-1272, quella In librum de memoria et reminiscentia del 1267-1272, quella In duodecim libros Metaphysicorum del 1266-1272, quella In decem libros Ethicorum del 1260-1269, quella In libros Politicorum del 1269-1272 fino al libro terzo dello Stagirita sul tema, quella In librum de causis del 1269 al 1273, quella In libros Phisicorum.

Le opere sistematiche sono il Commentum in quattuor libros Sententiarum magistri Petri Lombardi del 1254-1256, un secondo Commentum sullo stesso argomento andato perso, la Summa contra Gentiles del 1261-1264, la Summa Theologiae – in tre parti scritte dal 1266 al 1273 più un supplemento di Reginaldo da Piperno segretario del Santo che lo compilò servendosi del Commento al IV libro delle Sentenze – le Quaestiones Disputatae – in dieci temi scritti tra il 1256 e il 1259 e tra il 1265 e il 1272, trattanti De veritate, De potentia, De spiritualibus creaturis, De anima, De virtutibus in communi, De malo, De caritate, De spe, De correctione fraterna e De Unione Verbi Incarnati- le Quaestiones Quodlibetales – in nove questioni scritte tra il 1256 e il 1259 e tra il 1269 e il 1271, il Compendium Theologiae anch’esso rimasto incompleto.

Gli opuscoli maggiori sono il Contra Errores Graecorum ad Urbanum IV Pontificem Maximum del 1261-1264, il Compendium Theologiae ad fratrem Reginaldum socium suum carissimum del 1272 -1273 rimasto incompiuto, il De Differentia Verbi Divini et Humani, il De Natura Verbi intellectus, il De substantiis separatis seu de angelorum natura ad fratrem Reginaldum socium suum carissimum del 1272-1273 rimasto incompiuto, il De unitate intellectus contra averroistas del 1270, il Contra pestiferam doctrinam retrahentium homines a religionis ingressu del 1270, il De Perfectione vitae spiritualis del 1269-1270, il Contra impugnantes Dei cultum et religionem del 1256-1257, il De regimine principum ad Regem Cypri incompiuto al secondo libro e del 1265-1266, il De regimine Judaeorum ad Ducissam Brabantiae del 1270, il De aeternitae mundi contra murmurantes del 1270, il De principio individuationis, il De ente et essentia del 1254 -1256, il De principiis naturae ad fratrem Silvestrum del 1255, il De propositionibus modalis, il De natura accidentis, il De natura generis, il De articulis fidei, il De concordantiis, il De duobus praeceptis, il De emptione et venditione, il De fallaciis, il De forma absolutionis, il De immortalitate animi, il De istantibus, il De iudiciis astrorum, il De mixtione elementorum, il De motu cordis, il De natura materiae et dimensionibus, il De occultis operibus naturae, il De quattuor oppositis, il De rationibus fidei, il De secreto, il De sortibus, l’Epistula de modo studendi, l’In Orationem Dominicam, l’In Salutationem Angelicam, l’In Symbolum Apostolorum.

Le opere di vario genere sono i Sermones, di numero suscettibile sempre di ulteriore aumento come già accaduto; le Orationes anch’esse suscettibili di incremento per le nuove attribuzioni possibili; i Principia con cui Tommaso ottenne il baccellierato biblico e il magistero reggente, l’uno sul tema “Hic est liber mandatorum Dei” e l’altro su “Rigans montes de superioribus suis”; le Responsiones, in numero di sei (Ad Bernardum. Ad Lectorem Bisuntinum, Ad Lectorem Venetum de articulo XXX, Ad Lectorem Venetum de articulo XXXVI, Ad Lectorem Vercellensem de articulo XLII, Ad Lectorem Vercellenseme de articulo CVIII); il De Libro Vitae, il De Ordo Agendi, l’inno preghiera Adoro Te devote, il Breve Principium, l’Officium de Festo Corporis Christi, il Principium Biblicum, il Super Decretalem.

Gli altri commenti sono In Boethii De Trinitate, In Boethii De Hebdomadibus e In Dionisii De divinis nominibus.

Come autore letterario, Tommaso è uno dei maggiori della media latinità, ed in particolare di quella sua fase denominata erudita e che corrisponde ai secoli XIII-XIV. Se nelle preghiere e negli Inni il Santo mostra la sua capacità retorica e la sua vena sentimentale, nel grosso della sua produzione, che è trattatistica e scientifica, egli si attiene ad uno stile piano, con un lessico tecnico e senza particolari concessioni al gusto estetico, avendo come caratteristica precipua una grande chiarezza di esposizione. Nelle sue Omelie Tommaso è invece più accessibile e colloquiale.

LE LINEE PORTANTI DEL PENSIERO FILOSOFICO TOMISTA

Diversi sono i gradi di conoscenza che possiamo avere del pensiero dell’Angelico, a seconda dei suoi libri che leggiamo. I Commenti aristotelici ci servono essenzialmente per capire come egli interpretò e criticò il pensiero dello Stagirita facendolo suo. Il Commento alle Sentenze ci fa vedere lo sviluppo progressivo della filosofia tomista che via via si emancipa dall’influenza di Avicenna. Sia i Commenti aristotelici che quello a Dionigi ci mostrano la recezione che egli fece delle sue due fonti principali, in filosofia e teologia, sebbene fossero così differenti. Chi poi vuole conoscere direttamente il pensiero del Dottore Comune deve attingere alle sue due Somme. La prima e la seconda parte della Somma di teologia contiene l’esposizione completa e semplificata del pensiero del Santo, in quanto le questioni ivi contenute sono state redatte per i principianti, per cui esse danno una prima iniziazione al suo magistero. La Somma contro i Gentili contiene le medesime cose ma fondate nel modo più esauriente possibile sulle dimostrazioni razionali. Infine l’ultimo approfondimento possibile del tomismo si rinviene nelle Questioni disputate – specialmente quelle sulla verità e la potenza – e nei Quodlibeta.

Una duplice esigenza si ravvisa nello sviluppo del pensiero del Dottore: quella di distinguere tra ragione e fede e quella di accordare l’una e l’altra. Tutto il campo filosofico dipende dalla ragione che quindi deve ammettere solo e tutto quanto essa può scoprire da sé. Il campo teologico invece si riconduce alla Rivelazione e quindi all’autorità di Dio.

Questi due ambiti così nettamente divisi non mancano di intersecarsi in determinate materie. Una prima riguarda le loro ultime conclusioni, che devono essere in armonia per necessità logica anche quando non sarebbe evidente, non fosse altro perché Dio non può essere contraddetto dalla ragione che Lui stesso ha dato all’uomo. In ragione di ciò qualsiasi conclusione filosofica che contraddica il dogma è falsa. Posto tale principio, la ragione potrà correggere se stessa individuando i suoi errori che necessariamente emergeranno laddove essa abbia contraddetto la Rivelazione. Sebbene quindi teologia e filosofia non possano avere il medesimo metodo, le loro acquisizioni costituiscono una sola verità totale. Con questa impostazione critica, Tommaso non solo salva il primato della fede sulla ragione, ma conserva chiara e forte la funzione di quest’ultima immunizzando il suo pensiero da ogni forma di doppia verità di tipo averroista. E’ proprio alla ragione che il Santo chiede di rendere il più chiara possibile l’interpretazione dei dati rivelati, risalendo fino alla Rivelazione e poi ridiscendendo da essa a se stessa. Si parte dal dogma come dato noto, lo si sviluppa, ne si mostra la maniera in cui la ragione può afferrarne il contenuto, specie con analogie ben scelte e ragioni convenienti. In questo modo la ragione opera nella scienza sacra. Ulteriore compito della ragione è la confutazione delle filosofie che contraddicono la Rivelazione, o sottolineandone gli errori o evidenziando quando esse si sono avventurate in regioni del sapere che non è dato all’uomo di esplorare e la cui nozione è possibile solo accettando l’insegnamento divino.

Un'altra materia è luogo di compensazione tra filosofia e teologia, ossia la comprensione delle Scritture. La parte di esse contenente delle cose intellegibili e dimostrabili è bene che sia illuminata dal pensiero umano in quanto è meglio capire che credere, quando è possibile farlo. Per esempio il Nome di Dio, “Ego sum Qui sum”, sebbene sia per l’ignorante motivo sufficiente per credere che Egli esista, è per il metafisico una grande occasione per capire sia chi sia realmente Dio e sia cosa sia realmente l’essere. Vi sono perciò due teologie, una naturale elaborata dalla mente e detta perciò razionale e una rivelata che parte dal dogma: esse, pur avendo soluzione di continuità nella mente umana, sono accordabili e si completano l’una con l’altra.

La teologia naturale non è tutta la filosofia ma ne costituisce il coronamento e la parte che l’Aquinate ha elaborato più profondamente e in modo assolutamente geniale ed originale. Quando Tommaso parla della fisica, ripete quanto detto da Aristotele; quando invece si esprime sui temi teologici, ontologici, cosmologici e protologici, allora egli è pensatore indipendente.

LA METAFISICA TOMISTA: DEFINIZIONE, METODO E PRINCIPI

E’ stato merito dei grandi neotomisti del XX secolo- come Gilson, Fabro, Maritain, Masnovo, De Finance, De Raeymaeker e Mondin- aver messo in evidenza la grandezza e l’originalità della metafisica di Tommaso, che troppi autori per troppo tempo avevano appiattito su quella dello Stagirita. Questo successe perché Tommaso non scrisse mai un trattato sistematico di metafisica, se si esclude lo stringato ma vigoroso saggio De Ente et Essentia, in cui peraltro trattava appunto del mero rapporto tra l’essenza e l’essere.

In verità il Dottore poteva scrivere una metafisica, una cosmologia e anche un’etica meramente filosofiche sulla base di quanto è evidente alla ragione, ma preferì esprimere il suo pensiero filosofico in categorie teologiche, quali sono quelle in cui egli realizzò le sue sintesi sistematiche, ossia le Somme e le altre opere citate. Per cui la metafisica tomista va ricostruita traendone gli elementi dalle opere tutte di Tommaso, il quale, nella sua umiltà, non volle mai presentare il suo pensiero come una teoria filosofica nuova, sebbene di fatto l’avesse formulata.

Della metafisica Tommaso dà una definizione aristotelica: essa è la scienza che studia l’ente e ciò che l’accompagna necessariamente. Ma tra i due filosofi vi è solo un accordo di indirizzo e non di contenuti. Diversa è la concezione dell’ente, diversa è la concezione dell’essere. Per Aristotele l’ente è costituito come tale dalla sostanza, perché solo essa possiede autonomamente l’entità, così che la metafisica aristotelica è una metafisica delle sostanze. Per Tommaso invece ciò che costituisce l’ente è l’essere, perché per definizione l’ente è propriamente ciò che possiede l’essere, ciò che partecipa all’essere. In quanto poi all’essere, la definizione che ne dà Tommaso è la grande novità della sua filosofia, che rinnova tutto l’aristotelismo.

Esso infatti può essere concepito in modo o generico o intensivo, ma solo un modo è corretto. Il primo è l’essere comune, il secondo l’essere assoluto o divino. Il primo è il più esteso di tutti i concetti, non appartiene a nessun genere ed è perciò povero di contenuto. Questo concetto è il punto di partenza della metafisica ma non ne è l’oggetto adeguato, perché sostanzialmente erroneo. Il secondo invece è ricchissimo di contenuto, perché abbraccia tutte le perfezioni, in quanto è, tra tutte le cose, la più perfetta. Esso è il vero oggetto della metafisica, anche perché fuori di questo concetto di essere non vi è che il nulla e perché esso, così concepito, è il basamento di tutta la realtà, ossia proprio quello che la metafisica deve scoprire e studiare. Così la metafisica tomista diventa la metafisica dell’essere, inteso in modo assoluto. In questa prospettiva la metafisica non può accontentarsi di parlare dell’essere dell’ente, ma deve occuparsi anche di tutto quello che vi è connesso. Per cui, se l’essere dell’ente è l’oggetto formale della metafisica, tutto il resto che vi si connette vi rientra come punto d’arrivo, a cominciare da Dio. Perciò l’essere come tale può essere studiato dalla metafisica solo in quanto essere di un ente, e l’ente in quanto tale non sarà mai l’ente logico – ossia una astrazione- ma sempre l’ente reale. Questo a sua volta va inteso come una essenza –, chiamata anche natura o quiddità, in quanto risponde al quesito quid est?, e composta di forma e di materia - unita a sua volta alla sua stessa esistenza.

I principi cardine della ricerca metafisica del Dottore Comune sono quelli di identità e di non contraddizione, come per Aristotele. A questi, da soli bastevoli soltanto per discipline astratte, Tommaso aggiunge il principio di causa. Dandolo per scontato come tutti i filosofi della sua epoca, Tommaso considera il nesso causa-effetto come una prima evidenza, in quanto non si può parlare di nessun effetto senza riferirsi ad una causa– Kant e Hume erano ancora lontani, ma certo Tommaso avrebbe difeso il principio di causalità dalle loro obiezioni, se le avesse conosciute, mostrando l’impossibilità di qualunque discorso logico senza il suo uso, ossia in modo conforme al realismo e al razionalismo che lo caratterizzarono come pensatore. Del resto, per Hume e Kant il principio di causa lega in modo estrinseco, anche se necessitante, gli eventi, mentre per Tommaso – in questo più attuale di essi – tale principio è comunicazione di essere dalla causa medesima all’effetto, ossia è legame intrinseco tra essi.

Altri principi fondamentali della metafisica tomista sono quello di partecipazione e quello di somiglianza. Il primo afferma che tutto ciò che è per partecipazione è necessariamente causato. Incausato è solo ciò che è per essenza. Il secondo dice che la causa, comunicando qualcosa di sé all’effetto, non può non instaurare una certa somiglianza tra sé e l’effetto stesso. Vedremo che questo principio sarà invocato per mostrare non solo che l’uomo conosce l’esistenza di Dio ma anche qualcosa della Sua Natura.

L’esplorazione del mondo metafisico avviene, da parte dell’Aquinate, con un sistema preciso, che pure va esposto in via previa. Egli, commentando Boezio, distingue un metodo risolutivo da uno compositivo. Il primo sale dal particolare all’universale, dall’effetto alla causa, dal partecipante al partecipato, dal contingente all’assoluto, risolvendo i primi nei secondi. Il secondo scende dalle cause agli effetti, dal partecipato ai partecipanti, dall’assoluto al contingente, dall’universale al particolare sviluppando le implicazioni contenute nella causa suprema. Di questi due metodi il primo conviene maggiormente alla metafisica, mentre il secondo pertiene alla teologia. Ma anche la metafisica, dopo l’uso della risoluzione, può adoperare la composizione, che quindi in essa diviene una ri-composizione. Si ricordi il lettore di questo, perché più in là, trattando dei temi metafisici, adopereremo il metodo teologico, perché l’Angelico, come dicemmo, la sua dottrina in materia la sviluppa nelle opere teologiche e funzionalmente ad esse.

LA METAFISICA TOMISTA: I CONCETTI CHIAVE

Posti questi principi, Tommaso può applicare il metodo risolutivo all’ontologia. La riflessione sull’ente, onde riportarlo integralmente all’essere, permetterà al Dottore di stabilire due verità capitali: anzitutto la distinzione reale tra essenza e atto dell’essere nell’ente, indi il ruolo potenziale e recettivo dell’essenza rispetto all’essere.

La distinzione reale tra essenza e atto dell’essere nell’ente è stata intesa diversamente nel corso dei secoli, sebbene sia il punto di partenza concettuale del sistema e, assieme alla concezione intensiva dell’Essere, il suo stesso fondamento. Chi non ha ben compreso il senso autentico di quella concezione, non ha capito correttamente neppure la distinzione tra essenza e atto dell’essere. Ai tempi di Tommaso la distinzione tra essenza ed esistenza era insegnata comunemente, sulla scorta di Boezio e da pensatori importanti come Enrico di Gand, come ho detto nei capitoli precedenti. Ma nel pensiero tomista questa distinzione è completamente differente da quella boeziana, perché su di essa si fonda la metafisica delle creature, mentre l’identità tra essenza ed esistenza è propria di Dio.

Tutti gli enti che cadono sotto la nostra esperienza sono enti in cui l’essere non si identifica mai con la loro essenza. In conseguenza di ciò, si comprende la concezione tomista dell’essenza, ossia il suo ruolo potenziale e recettivo rispetto all’essere. Essenza e atto dell’essere sono davvero distinti ma formano una sola realtà. Sono due elementi del medesimo ente. La loro unione è sostanziale e la funzione che l’essere svolge rispetto all’essenza è pari a quella della forma rispetto alla materia, in quanto, come non esiste questa senza quella, così non si dà essenza senza atto dell’essere, ossia senza esistenza. Tommaso contesta l’idea che Avicenna aveva dell’essere quale accidente, in quanto l’essere non si aggiunge all’essenza, ma si costituisce secondo il modo proprio di quest’ultima. L’essere della sostanza è l’atto dell’essenza, ossia è quella cosa che le permette di essere reale, di esistere. Non fa parte dell’essenza e in questo è simile all’accidente, ma mentre l’accidente non può darsi senza l’essenza, l’essenza non può esistere senza l’atto dell’essere. L’essenza è dunque essere in potenza, l’esistenza è essere in atto. L’essenza riceve e limita l’atto dell’essere, perché è come un recipiente che contiene tanto essere quanto è capace. Tramite le essenze l’essere costituisce gli enti. L’essere, essendo infinito, può farsi partecipare da infiniti enti e in infinite essenze, ma in ogni ente è sempre finito in quanto l’essenza è sempre un modo finito di essere.

D’altro canto le cose non potrebbero essere distinte le une dalle altre per l’essere, perché tutte sono realmente, ragion per cui la loro differenza non può che dipendere da nature specificamente diverse, appunto le essenze. Diversamente non sarebbe possibile, in quanto l’essere non potrebbe essere mai diverso da se stesso da ente ad ente, perché esso è o non è.

Vale la pena a questo punto di tornare sul concetto di Essere stesso, di Essere intensivo, perché a questo punto la dimostrazione della sua esistenza reale appare più facile da ottenersi, secondo il metodo risolutivo. Infatti, se nell’ente si distinguono essenza ed esistenza, mediante la differenza ontologica, e se l’essenza limita la perfezione dell’essere all’interno dell’ente stesso, è possibile completare la risoluzione dell’ente nell’essere stesso mediante tre argomenti che attestano appunto l’esistenza dell’Esse ipsum.

Il primo è l’argomento della differenza ontologica, che abbiamo appena definito come distinzione tra essenza ed esistenza. Tale distinzione significa che a nessuna essenza finita appartiene l’essere, ma implica anche che esso sia causato negli enti da una causa prima ed incausata, che è l’Essere stesso, inteso al di là di ogni essenza. Ciò infatti impedisce di risalire all’infinito, cosa che non darebbe ragione dell’esistenza di nessun ente, in quanto non avremmo mai una causa iniziale.

Il secondo è l’argomento della partecipazione. Tutte le cose sono essere per partecipazione, perché appunto la loro essenza non implica la loro esistenza. Ragion per cui esiste un Essere in sé a cui tutte le cose partecipano, perché esso è essere per la sua stessa essenza.

Il terzo è l’argomento della gradazione della perfezione dell’essere negli enti. L’essere infatti è presente in tutte le cose in modi più o meno perfetti, ma non è mai presente in modo tale da identificarsi con la loro essenza. Perciò, siccome non si può risalire all’infinito nella catena delle gradazioni, bisogna dedurre che al vertice vi sia una essenza la cui natura sia l’essere stesso, la cui perfezione sarà dunque infinita e completa.

Come si vede, il discorso metafisico di Tommaso, scarno ed essenziale, si racchiude in tre elementi, che si avvolgono in una sola spirale: l’esperienza diveniente dell’ente, l’ulteriorità che esso richiama e il principio inferenziale – ossia il processo logico che, data una o più premesse, ne trae delle conclusioni- che lega questi due estremi. Tutti e tre questi elementi sono poi, come abbiamo visto, ricondotti all’unica nozione dell’Essere che implica essenza ed esistenza. La forma di ragionamento con cui questo avviene è tecnicamente un entimema, ossia un ragionamento sillogistico-deduttivo che tace una delle due premesse per arrivare alla sua conclusione.

Come si vede, seicento anni prima di Heidegger, Tommaso ha risposto ai quesiti posti da quest’ultimo sull’essere e sull’ente nella seconda parte del suo pensiero, superando la contraddizione impostata dal filosofo tedesco tra l’ente che appare e l’essere, finito, che si svela, pur nascondendosi nell’ente stesso.

Detto questo, andiamo per ordine e seguiamo l’ordine dell’esposizione tomista, che come dicevamo è di impianto teologico, per cui in essa l’Essere stesso, di cui abbiamo ampiamente parlato sino ad ora, si identifica con Dio, oggetto molto più interessante, per l’indagine tomista, di quello meramente ontologico. Entriamo cioè in una esposizione metafisica che unisce mirabilmente ontologia e teologia razionale.

LA TEOLOGIA RAZIONALE

Le prime cose che conosciamo sono i sensibili, ma la prima cosa che Dio ci rivela è che Egli esiste. Tommaso quindi parte di qua, rendendo più semplice la sua esposizione. La dimostrazione dell’esistenza di Dio è necessaria e possibile. Necessaria perché tale esistenza non è di per sé evidente, in quanto non abbiamo una nozione adeguata dell’Essenza divina, la quale sola, se da noi nota, ci permetterebbe di intuire immediatamente che Dio deve esistere per forza. Ma non è così. Dio infatti è un Essere infinito e la nostra mente finita non può averne il concetto, né vede la necessità di esistere che la Sua essenza infinita implica. Si deve dunque dedurre tramite il ragionamento tale esistenza inconstatabile. In questo modo l’Aquinate rigetta la prova ontologica di Anselmo e accetta quelle a posteriori desunte dalla tradizione e migliorandole a sua volta.

Tutte le prove tomiste si basano su due presupposti: la constatazione di una realtà sensibile che richiede una spiegazione e l’affermazione di una serie causale di cui questa realtà è la base e Dio il vertice. Le prove che Tommaso adduce per dimostrare che Dio esiste sono cinque e sono chiamate anche vie.

La prima via è quella ex motu, del movimento, che per il Santo è la più evidente, ma che forse oggi è meno convincente di altre. Il movimento a cui fa riferimento l’Angelico è soprattutto quello sostanziale, più che quello locale. Nell’universo c’è movimento e ogni movimento ha una causa e tale causa deve essere esterna all’ente che è in movimento. Infatti non si può essere nello stesso tempo motore e cosa messa in movimento. Ovviamente anche il motore stesso deve essere mosso da un altro e questi da un altro ancora. Bisognerà ammettere che o la serie delle cause è infinita – ma questo pregiudicherebbe l’esistenza stessa del moto che non avendo principio non dovrebbe nemmeno mai avviarsi- o che la serie è finita e che il primo termine è un Primo Motore Immobile, che muove tutto e che per questo, come già insegnava Aristotele, si identifica con Dio.

La seconda via è ex causa, della causa, in cui estendiamo a tutte le cause in genere, purché collegate necessariamente e non accidentalmente tra loro (ad esempio: il Sole riscalda la Terra, rendendola abitabile), quanto detto di quelle del moto. Nulla può essere causa efficiente di se stesso, in quanto per prodursi dovrebbe essere anteriore a sé in quanto causa e posteriore a sé come effetto. Ogni effetto ha dunque una causa efficiente e ogni causa ne ha un’altra che a sua volta ne postula una ulteriore. Onde evitare una catena all’infinito che non solo non giustificherebbe alcun effetto in atto ma anche non darebbe ragione della concatenazione gerarchica delle cause stesse, bisogna dedurre che esista una Prima Causa Efficiente, Incausata di per sé e capace di causare tutto il resto e che perciò stesso si identifica con Dio.

La terza via è ex possibili et necessario, del possibile e del necessario. E’ la più profonda delle prove e se ben compresa la più stringente. Consideriamo l’essere stesso. Quello che abbiamo è continuamente in divenire; ciò implica che ciò che si genera poteva esistere e che ciò che si corrompe poteva non esistere. Poter esistere o non esistere significa non avere una esistenza necessaria. Il necessario non ha però bisogno di causa per esistere e proprio perché necessario esiste di per sé. Il possibile invece non ha in sé la ragione del suo esistere e se nelle cose vi fosse solo il possibile in realtà non ci sarebbe nulla ed esse non dovrebbero esistere. Perché ciò che può essere sia realmente, occorre innanzitutto qualcosa che esista e che lo faccia essere. Ciò vuol dire che se qualcosa esiste, è perché da qualche parte vi è il suo necessario, da cui essa dipende. Questo necessario esigerà a sua volta una causa o una serie di cause, necessaria per quello che giustificano nell’essere reale e che non sia infinita, perché altrimenti non avremmo inizio e quindi nulla dovrebbe realmente esistere. Bisogna quindi dedurre l’esistenza di un Essere necessario primo e assoluto, causa di tutti gli esseri che devono a lui la loro esistenza contingente. Tale Essere si identifica con Dio. Questa prova può essere letta in due maniere: come spiegazione del fatto che le cose, che potrebbero non esistere, esistono realmente e rimangono nell’essere nonostante non abbiano in sé la ragione di questo stato; come ragione del fatto che le cose, che potrebbero essere diverse da quanto sono, siano realmente quello che sono e continuano ad esserlo nonostante non abbiano in sé la ragione di tale permanenza.

La quarta via è ex gradu perfectionis, del grado di perfezione, riferito alle qualità semplici e non a quelle miste. Essa è di sapore platonizzante, quel tanto possibile in un filosofo aristotelico che è però anche e soprattutto cristiano. Ci sono vari gradi nella verità, nella nobiltà e nelle altre perfezioni. Ora, la maggiore o minore quantità di qualcosa suppongono sempre un termine di paragone assoluto per essere misurate e concepite. Or dunque si deduce che esiste un vero di per sé, un buono di per sé, ossia un grado supremo di tutte le perfezioni che trova in sé la propria ragione di commisurazione. Tutti questi apici di perfezione poi tendenzialmente coincidono in quanto sono denominazioni, da differenti angoli visuali, della medesima e sola perfezione suprema. In ragione di ciò tale perfezione suprema onnicomprensiva si identifica con Dio.

La quinta via è ex fine, dell’ordine. Forse è la prova di più facile comprensione e di maggior fortuna e senz’altro la più antica, essendo stata impostata già da Anassagora. Tutte le operazioni dei corpi naturali tendono ad un fine, sebbene essi siano inerti o inconsapevoli. La regolarità con cui essi lo raggiungono attesta inoltre che ciò avviene intenzionalmente. Se dunque essi non sanno quello che puntualmente fanno, si deduce che esiste una Intelligenza prima che conosce e vuole per le cose i fini loro propri mettendoli in condizione di raggiungerli. E’ l’Ordinatore supremo che identifichiamo ancora una volta con Dio.

Come si vede, le vie tomiste non sono legate a nessuna visione cosmologica particolare, ma si desumono dall’esperienza, così come i loro principi sono quelli basilari della metafisica. Tali vie partono tutte dalla constatazione che un certo essere che si dà nella realtà non trova in sé una sufficiente giustificazione per la sua esistenza. Come dicevamo, ogni ente è un “qualcosa che è”, un “quid est”, che però non include né postula mai la sua esistenza. L’ente come effetto, come messo in moto, come contingente, come ordinato e come partecipe di perfezioni è, in ultima analisi, l’ente in cui essenza ed esistenza si distinguono e in cui l’essenza recepisce parzialmente l’infinità dell’essere. Ossia è l’ente come noi lo abbiamo descritto introducendo la metafisica e che ora ci serve per risalire dal sensibile a Dio. Ogni uomo, ogni pianta, ogni animale, ogni minerale sono esseri reali, ossia sono delle sostanze, ma nessuno di essi è l’esistenza stessa, ma solo un uomo che esiste, un animale che esiste, una pianta o un minerale che esiste. Dunque, come dicevamo, l’essenza di ogni ente è distinta dalla sua esistenza e, siccome ciò che non è di per sé non può dare a se stesso l’esistenza, tutto ciò la cui esistenza è diversa dalla propria essenza riceve da altro la propria esistenza. Ciò vale per tutte le cose, in quanto tutte ci appaiono esistere per altro. Quindi tutte e singole le cose hanno come causa prima, per forza di cose, ciò che è di per sé. Si deduce quindi l’esistenza di questo Essere di per sé, che si configura quale causa dell’essere di tutti gli altri enti e come caratterizzato dall’inscindibile unione, al suo interno, di essenza ed esistenza. Questo Essere per Essenza, come lo aveva chiamato Avicenna, è Dio. Tutti i termini che abbiamo usato per indicarlo diventano a questo punto nomi propri e antonomasie, che lo definiscono e denotano esclusivamente: Essere per Sé, Essere per Essenza, ecc.

Il metafisico ha così scoperto, con la mera ragione, cosa vuol dire il Nome biblico di Dio “Ego Sum Qui Sum”: Dio è l’Atto puro di Esistere, ossia non una essenza qualunque come l’Uno, il Bene, il Pensiero a cui si attribuisce l’esistenza, e nemmeno un modo eminente di esistere come l’Eternità, l’Immutabilità, la Necessità, che si attribuiscono al Suo essere come caratteristiche della realtà divina, ma quale Esistere stesso, Essere stesso, posto in sé, senza nessuna aggiunta, perché qualunque cosa che gli si aggiunge lo limita e lo determina. Egli è dunque quell’Essere stesso che, preliminarmente, abbiamo visto che Tommaso individua e scopre come realtà metafisica suprema e che in questa esposizione risolutiva assume i più precisi tratti della Natura razionale divina – tripersonale - e compie le azioni che sono Sue proprie. Perciò, quando diciamo che in Dio Essenza ed Esistenza sono identiche, intendiamo dire che in Lui ciò che negli altri enti si chiama essenza altro non è che l’Atto stesso di Esistere. Dio è, come si vede per necessità logica, il puro Esistere, la pienezza dell’Essere e quindi è infinito.

Così inteso, a Dio non manca nulla ed è sovranamente immutabile ed eterno. Analogamente si può procedere per dire che Egli è semplice, omogeneo, imperituro, incorruttibile, attribuendogli le caratteristiche che Parmenide aveva predicato dell’essere da lui scoperto. Con medesimo metodo si scopre che Egli è onnipotente, onnisciente, perfettissimo. A Dio come Essere stesso convengono tutte le perfezioni, né potrebbe essere diversamente, in quanto, essendo Atto assoluto dell’Esistere, è infinito nell’ordine dell’essere e quindi è perfetto. Ossia, se Dio è senza limitazione alcuna, non ha alcun difetto o perfezione solo parziale.

Proprio da questo oceano infinito di perfezione derivano le molteplici deficienze di linguaggio che noi abbiamo quando dobbiamo parlare di Dio. Egli infatti è incomprensibile alla nostra ragione e noi non sappiamo cosa Egli sia. All’uomo è possibile parlare di Lui in modi parziali anche se corretti. Un primo modo consiste nel negare all’Essenza divina tutto ciò che non può appartenerle e che chiamiamo via della negazione. Per essa neghiamo in Dio tutto quello che è imperfetto o parziale. Un secondo modo consiste nel designare Dio secondo le analogie che sussistono tra Lui e le cose. Infatti quando una causa infinita produce effetti finiti, sebbene non lasci in essi tutta la pienezza delle sue perfezioni, di esse ne lascia senz’altro parti che vi esistono secondo il modo di essere degli effetti stessi. Perciò le attribuiremo a Dio, portandole all’infinito.

LA TEODICEA TOMISTA

Tommaso non si limita a fornire prove dell’esistenza di Dio, ma confuta le argomentazioni degli atei contro la Sua esistenza. L’Aquinate, a chi afferma che tale esistenza è incompatibile con quella del male, ribatte con Agostino che Dio, essendo sommamente buono e potente, permette il male in quanto può ricavare da esso un maggior bene. In tale maniera, pur non spiegando la natura del male, Tommaso mostra come la sua esistenza non è incompatibile con quella di Dio. Sulla natura del male il Santo si sofferma nella Questione disputata su di esso, riproducendo l’insegnamento insuperabile di Agostino. All’ulteriore obiezione atea all’esistenza di Dio, considerata inutile perché il mondo si reggerebbe benissimo grazie alle sue stesse leggi naturali immanenti, l’Angelico oppone il ragionamento che proprio queste leggi esigono un legislatore, che peraltro è anche Colui Che pone il fine in vista del quale esse operano, e che esse non potrebbero mai porsi da sole. Infine all’obiezione all’esistenza di Dio tratta dalla presunta incompatibilità tra essa e la libertà dell’uomo, Tommaso oppone la constatazione che gli atti umani del libero arbitrio, essendo mutevoli e defettibili, devono per forza essere ricondotti a una causa prima immutabile e di per sé necessaria, con uno schema logico analogo a quello adoperato nelle prove dell’esistenza di Dio.

COSMOLOGIA E COSMOGONIA

Dimostrando l’esistenza di Dio mediante il principio di causalità, stabiliamo anche che Egli è il Creatore del mondo. Egli, essendo l’Esistere assoluto ed infinito, contiene in Sé virtualmente l’essere e le perfezioni di tutte le creature; appunto il modo mediante cui esse sono emanate da questa Causa universale si chiama creazione. Essa è un problema che non si pone tanto per i singoli enti ma per la totalità di quanto esiste. La creazione è il dono stesso dell’esistenza agli enti e quindi è dal nulla, ex nihilo. Essa non presuppone quindi nessuna materia preesistente ma una Essenza creatrice che, poiché è essa stessa l’Atto puro di Esistere, può causare atti finiti di esistere. A queste condizioni, si capisce che è possibile una creazione e che essa è un atto libero. Infatti l’Atto puro dell’Esistere che crea il mondo non lo fa per necessità né per bisogno, in quanto è libero e pienamente appagato in Sé, non avendo bisogno di nulla. La nascita del mondo non accresce la gloria del Creatore ma ne appaga solamente il libero amore. L’esistenza delle creature è radicalmente contingente verso Dio e la creazione stessa è una cosa che poteva anche non accadere o poteva accadere diversamente. Essa può realizzarsi perché appunto Dio è Atto puro non solo del pensiero come diceva Aristotele ma anche dell’esistenza. Il rapporto tra creatura e Creatore che deriva dalla creazione si chiama partecipazione, esattamente come quello che lega l’essere dell’ente a quello dell’Essere per Essenza, perché esprime teologicamente questo stesso concetto filosofico, anche se da una visuale più completa. La partecipazione esprime sia questo legame tra creatura e Creatore, per cui la creazione stessa è comprensibile, sia la separazione tra l’una e l’altro, per cui essi non possono confondersi. Partecipare all’Atto puro o alla perfezione di Dio – che è la stessa cosa – significa per la creatura possedere una perfezione che era ad essa preesistente in Dio e che ancora si trova in Lui, senza che l’apparizione delle creature l’abbia diminuita o annullata, mentre si riproduce in ognuna di esse in un modo limitato e finito. Partecipare non significa essere parte di quello a cui si partecipa, ma possedere il proprio essere dopo averlo ricevuto da un Altro, e il fatto di riceverlo da Lui prova proprio che non ci si identifica con Lui. Tutti gli effetti di Dio preesistono in Lui ma, siccome Egli è Intelligenza infinita e tale intelligenza si identifica con il Suo Essere, ecco che quegli effetti preesistono in Lui in un modo intellegibile, per cui Egli conosce tutti i Suoi effetti prima di produrli e se li produce perché li conosce vuol dire che li ha voluti. Il grande ordine del cosmo è in effetti la prova che la Provvidenza intelligente lo ha fatto e lo regge così com’è.

A chi, come Avicenna, sosteneva che da una sola causa non può che uscire un unico effetto, per cui Dio ha creato una prima creatura che a sua volta ne ha prodotto un’altra avviando una catena che dura tutt’ora, Tommaso obietta che, come insegna Agostino, Dio in quanto Intelligenza pura possiede in Sé tutti gli intellegibili, i quali esistono nel Suo pensiero e saranno poi le forme delle cose. Essi sono le Idee, oggetti della conoscenza divina. Dio, conoscendosi quale partecipabile dalle creature, conosce quindi non più solo Se stesso ma appunto le Idee stesse, che dunque vengono così pensate. L’idea di una creatura in Dio è quindi la conoscenza che Egli ha di una certa Sua partecipazione possibile da parte di questa creatura. Perciò, senza che l’unità divina sia compromessa né nell’essere né nel pensiero, Dio può pensare e produrre una molteplicità di cose.

Ad Averroè che sosteneva che l’universo è l’effetto eterno di una Causa eterna, che è appunto Dio, il Quale essendo infinito ed immutabile avrebbe sempre lo stesso effetto, Tommaso obietta che non possiamo determinare né l’inizio nel tempo né fuori del tempo delle cose, delle quali conosciamo le essenze che per loro natura sono atemporali. Qualunque discorso sulla creazione così come lo ha impostato Tommaso non può spiegare quando essa accada ma solo come. Le essenze delle cose infatti, la cui creazione implica l’unione ad esse dell’atto del loro essere, ossia la loro esistenza, non sono tali da suggerirci se al momento esse esistano realmente o siano esistite o esisteranno in futuro o non esisteranno mai o esistano sempre.

Analogamente, Dio quale causa libera ed infinita, potrebbe benissimo aver creato l’universo dall’eternità come nel tempo e con il tempo stesso. Tuttavia, sebbene argomentando così l’Angelico dia torto anche al Serafico perché rende impossibile la conoscenza razionale della creazione nel tempo, egli afferma che grazie alla Rivelazione l’uomo crede con certezza che il cosmo ha avuto un inizio. Ma non è una conoscenza naturale.

Il fatto che l’universo sia stato prodotto da una Causa intelligente e perfetta attesta che l’imperfezione che si ravvisa in esso non è imputabile al Creatore come colpa o limite. Tale imperfezione va innanzitutto intesa come mancanza di un qualcosa, come deficienza nel corso dell’inevitabile limitatezza del processo di partecipazione delle creature nei confronti delle perfezioni divine. Quello che a noi sembra essere il male altro non è che l’inevitabile limitazione di ogni creatura, la mancanza implicita di una parte di modalità dell’essere che fa si che ogni cosa sia se stessa e non un’altra, per cui solo Dio è senza limite alcuno non corrispondendo ad alcuna definizione. Nessuna creatura riceve la pienezza della perfezione in quanto ciò non è necessario e sarebbe quindi illogico, mentre le perfezioni passano da Dio alla creazione in una specie di moto discensivo.

L’ordine gerarchico delle creature che inizia con gli Angeli – esseri spirituali – e termina coi corpi – esseri materiali – fa si che ogni gradino sia a contatto del successivo, cosi da fare in modo che la forma più bassa di una specie superiore sia a contatto di quella più alta di una inferiore.

LE FORME SEPARATE O SOSTANZE SEMPLICI

Al vertice di questa gerarchia ontologica rifulgono gli Angeli, creature incorporee e immateriali. Tommaso non professa l’ilemorfismo e rigetta l’insegnamento di Bonaventura per cui gli Angeli sono fatti di una forma e di una materia entrambe spirituali. L’Angelico riconosce agli Spiriti celesti la massima perfezione possibile e quindi anche la massima semplicità creaturale, che sempre si accompagna alla prima. Sono sostanze semplici, non composte, ossia forme separate da qualsivoglia materia.

Gli Angeli come creature hanno l’essenza distinta dall’esistenza, ma questo basta a renderli infinitamente inferiori a Dio e in loro appunto non distinguiamo materia da forma, avendo solo quest’ultima quale espressione della loro natura intellegibile ed intelligente.

In conseguenza di ciò gli Angeli non si distinguono come individui ma come specie, solo che in ogni specie angelica vi è un solo membro, appunto il singolo Spirito. Infatti il principio di individuazione implicherebbe l’esistenza della materia.

Ogni Spirito riceve da quello superiore la specie intellegibile e lo rifrange, quale raggio della luce intellegibile divina, a quello inferiore riducendone la potenza illuminativa.

L’ANTROPOLOGIA FILOSOFICA

L’uomo nella gerarchia degli enti occupa un posto caratteristico. Innanzitutto egli può nascere perché Dio ha creato la materia. Ma è anche vero che l’uomo, essendo un composto di anima e corpo, per la prima appartiene ancora al mondo degli esseri immateriali. Tuttavia l’anima umana non è una intelligenza pura ma un intelletto, perché può essere unito ad un corpo e tuttavia può conoscere un certo tipo di intellegibile essendo pur sempre un principio di intellezione. L’anima è dunque una sostanza intellettuale che per essenza è forma di un corpo, cosi da costituire con esso un composto sostanziale. Ciò fa si che essa sia all’ultimo posto nella gerarchia degli esseri intelligenti e che sia la più lontana dalla Sapienza divina. In quanto forma del corpo suo proprio, l’anima lo domina e lo supera. In sintesi, il confine tra il regno delle intelligenze pure e il regno dei corpi passa per l’anima umana.

L’uomo è logos, ragione immanente che partecipa della luce divina; essa è nella ragione naturale dell’individuo umano, che viene innalzata dalla Rivelazione. Per l’uomo l’atto contemplativo è il più alto possibile. Ma egli è anche prassi, azione, per la disciplina interiore e la costruzione del mondo terreno, nonché per la collaborazione con Dio. Da qui nascono la tecnica, l’economia, il lavoro. L’uomo compenetra la ragione nella prassi producendo il suo costume, la sua civiltà. Essa può essere secondo prudenza, secondo sapienza e infine cristiana. Realizzatosi nella ragione, nella prassi, nel costume, l’uomo tende all’unione con Dio che però, pur essendo desiderio naturale, si compie solo nella giustificazione e mediante la carità soprannaturale.

LA PSICOLOGIA RAZIONALE

La conoscenza del De Anima di Aristotele poneva ai cristiani del XIII sec. il problema se fosse possibile pensare l’anima nei termini di mera forma del composto umano. Infatti un legame così diretto sembrava, ai critici dello Stagirita, rendere impossibile l’immortalità dell’anima stessa. Tommaso risolve questo problema alla luce della sua metafisica dell’essere. L’anima infatti è, per Aristotele, l’atto della sostanza corporea, in quanto sua forma. Essa fa sì che egli capisca e si muova. Ma per Tommaso l’atto dell’essere dell’uomo è la sua stessa esistenza, che implica che egli abbia un’anima ed un corpo. Basta dunque dimostrare che l’anima è in un modo differente dal corpo nella loro unica esistenza, per svincolarla da un abbraccio ontologico che la potrebbe distruggere con esso.

A tale scopo Tommaso, pur affermando con forza quanto abbiamo detto prima, ossia che l’anima sia la forma unica del corpo, che svolge la funzione vegetativa, sensitiva e razionale, in nome del principio della semplificazione metafisica, allo stesso tempo dice chiaramente che l’anima stessa ha delle caratteristiche che ne dimostrano la natura incorporea e autonoma, per cui essa è immortale.

La prima è la capacità di conoscere tutti i corpi, cosa che fa attraverso il corpo ma che è sua propria, in quanto non potrebbe avvenire se essa fosse un corpo. La seconda è quella di attingere le realtà immateriali e le specie intellegibili, che non potrebbe conoscere se fosse corporea e sensibile. La terza è quella di configurarsi come autocoscienza. Siccome però nulla può operare per se stesso se non sussiste per se stesso, l’anima, che opera per sé, sussiste per sé.

Inoltre, essendo l’anima forma del corpo, è un elemento semplice, per cui una volta separatasi dal corpo non è suscettibile di ulteriore disgregazione e quindi non può essere distrutta. Del resto, proprio il desiderio che l’uomo ha di essere immortale è la prova dell’immortalità dell’anima, in quanto ogni inclinazione naturale deve necessariamente realizzarsi, altrimenti non dovrebbe neppure esistere.

L’anima poi, anche quando il corpo muore, continua ad essere individuale perché l’essere dell’uomo è quello di un composto, la cui forma rimane individuata anche dopo la perdita del principio di individuazione che è la materia. La morte infatti separa anima e corpo ma non distrugge la natura formale della prima rispetto al secondo. Anzi proprio questa persistenza della funzione formale individuale nell’anima immortale farà si che, alla fine dei tempi, attorno ad essa si possa ricostituire il medesimo corpo, per divino volere.

Proprio perché ha l’atto dell’essere, unico e irripetibile, nell’anima, l’uomo è persona, ossia un sussistente razionale, e ha una dignità sacra ed inviolabile. L’anima opera sia tramite l’intelletto che tramite la volontà, oltre che attraverso altre facoltà; l’atto libero intreccia al suo interno quelle due facoltà principali dando luogo ad un’unica operazione, per cui Tommaso non è né volontarista né intellettualista. Infatti per lui la volontà ha la priorità nell’ordine delle cause efficienti, compreso l’intelletto; quest’ultimo invece, fissando gli scopi e individuando i fini dell’agire, ha il primato nell’ordine delle cause finali. Sebbene poi l’anima, quale forma diretta del corpo, sia a contatto con le passioni, le può sempre dominare.

LA LOGICA E LA GNOSEOLOGIA

Alla nozione di essere, nel tomismo, si legano anche i supremi principi del pensiero e della realtà: l’essere dell’ente è uguale a sè, ossia il principio di identità; lo stesso ente non può insieme essere e non essere, che è quello di non contraddizione; un ente o è o non è, che è quello del terzo escluso.

L’essere in Tommaso fonda anche la logica, che mantiene il suo impianto aristotelico ma assume significati differenti: essa studia il pensato in quanto pensato, ma in relazione al nostro concreto, limitato e dipendente modo umano di conoscere che comincia dal senso; si spiritualizza nella semplice apprensione mediante l’astrazione; giudica e ragiona. Nulla l’intelligenza coglie se non sotto l’aspetto dell’essere, perché l’apprensione coglie ciò che l’ente è, il giudizio ricompone e restituisce all’essere dell’ente ciò che gli era stato tolto per astrazione, mentre il ragionamento percepisce nell’essere dell’ente conosciuto la ragion d’essere di quello meno conosciuto.

La dottrina della conoscenza di Tommaso, pur non essendo mai trattata sistematicamente nelle sue opere, si configura come innovativa. I suoi pilastri sono tre. Il primo è il realismo, per cui la conoscenza non è una creazione dell’intelletto, come sarà per l’Idealismo, o una interpretazione soggettiva dei dati dell’esperienza, come avviene nell’empirismo e nel fenomenismo, ma è una rappresentazione del reale tanto vera o falsa quanto più o meno si conforma ad esso. In questo modo Tommaso confuta in anticipo di cinque secoli quella che sarà l’impostazione di Kant. La conoscenza è essenzialmente una apertura intenzionale all’essere.

Il secondo pilastro è l’importanza dell’esperienza sensibile, punto di partenza di ogni conoscenza, anche intellettiva – presupposto che tre secoli prima sconfessa l’impostazione razionalistica della gnoseologia di Cartesio, che è alla base della filosofia moderna e la causa delle sue contraddizioni strutturali. Conoscere è vedere che la cosa sta così – questa è appunto l’evidenza - e il valore del pensiero è dato dall’esperienza stessa, nell’uso concreto e autotrasparente di pensare.

Il terzo pilastro è l’armonia tra fede e ragione, tra le conoscenze acquisite dall’uomo e quelle offerte dalla Rivelazione. Esso è ancora oggi l’antidoto al veleno gnoseologico che Ockham insufflerà nella scolastica, causandone la distruzione e portando alla crisi la filosofia classica.

Il concetto di soggetto conoscente è elaborato da Tommaso sulla scorta della sua idea metafisica di ente. Solo questo può svolgersi, secondo due tipi di attività: quella orientata e ricevuta da altri e quella iniziata e terminata al proprio interno, ossia l’attività immanente. La facoltà conoscitiva svolge una attività immanente, perché sorpassa il proprio essere specifico ricevendo in sé la forma delle altre cose, da cui rimane distinta. L’oggetto, inteso come realtà spirituale, diviene così immanente al soggetto.

Tommaso individua quindi tre gradi di interiorizzazione: quello incosciente, quello cosciente e quello spirituale. Questi ultimi corrispondono alle potenze conoscitive dell’anima umana. All’ultimo grado di interiorizzazione si scorge il soggetto umano spirituale conoscente propriamente detto. Vediamo il percorso mediante cui l’uomo conosce.

L’anima ha una doppia potenza conoscitiva, di cui una è atto di organo corporeo, la sensibilità, che può conoscere solo le cose che sono nella materia individuale e che quindi apprende solo i singolari; l’altra invece è l’intelletto, che non è funzione di alcun organo corporeo e a cui è connaturale conoscere le essenze, che non hanno di per sé l’essere nella materia individuale e che perciò da essa vengono astratte, per cui all’uomo è possibile avere una conoscenza universale.

La conoscenza sensitiva viene divisa da Tommaso in due gruppi: quella dei cinque sensi esterni, che raggiungono le qualità isolate dei vari oggetti, e quella dei sensi interni (senso comune, memoria, fantasia, istinto) che unifica, conserva e modifica all’occorrenza le percezioni isolate dei sensi esterni. Tra i sensi interni e l’intelletto Tommaso inserisce la facoltà cognitiva, che lega il concetto universale e le immagini particolari.

L’intelletto svolge tre attività principali, ossia le già citate astrazione, giudizio e ragionamento. Come vedremo, recuperando la dottrina aristotelica dell’astrazione a scapito di quella agostiniana dell’illuminazione, Tommaso da un lato nobilita l’attività intellettuale umana e dall’altro rende ragione del fatto che essa può errare anche nel cogliere le verità eterne, proprio perché esse non sono immesse nell’uomo direttamente da Dio.

L’anima, essendo una forma sostanziale non separata dalla materia, non può conoscere direttamente gli intellegibili ma può farlo solo tramite il suo corpo. Tuttavia il fatto che essa rintracci nelle cose il segno dell’intellegibile che ha presieduto alla loro formazione fa sì che l’anima ancora partecipi all’irradiazione intellettuale di cui Dio è la fonte. In particolare essa conosce i principi primi che preesistono in lei virtualmente e che sono le prime concezioni dell’intelletto. L’intelletto agente le contiene virtualmente e le forma, ma può farlo soltanto astraendo le specie dalle cose sensibili. L’origine della conoscenza umana è quindi nei sensi e tale conoscenza si spiega definendo l’interazione tra cose sensibili, sensi e intelletto. Vediamo più dettagliatamente. L’uomo è in un cosmo di corpi materiali, ognuno dei quali ha la sua forma che gli dà la sua natura propria; la materia di ogni ente è il principio di individualizzazione e particolarizzazione di ciascuno di essi, mentre la forma di ognuno è il suo elemento universale; l’atto del conoscere consiste dunque nello spogliare dell’elemento materiale ed individuale l’universale che vi è contenuto. L’intelletto umano compie questa azione mediante l’astrazione. I sensibili agiscono sui sensi con le specie immateriali che vi imprimono. Queste specie conservano traccia di materialità e di particolarità in ragione degli oggetti da cui provengono, per cui non sono ancora intellegibili. Lo diventano mediante l’azione dell’intelletto agente, il quale le spoglia dei residui della materialità. Esso infatti scorge nelle specie quella luce con cui Dio stesso le illumina e le trasfigura. L’intelletto può farlo perché è partecipe della natura intellegibile e quindi ritrova nelle specie ciò che esse conservano di intellegibile ed universale, cosi da poterlo appunto tirar fuori o astrarlo. L’anima ha dunque un intelletto agente ma anche un intelletto possibile, il primo che rende attuale la specie intellegibile contenuta nelle cose sensibili percepite dai sensi, il secondo che riceve tale specie dall’azione che le stesse cose sensibili hanno compiuto sui sensi umani. Terminato questo processo, nell’uomo si realizza la definizione che Tommaso ha dato della conoscenza stessa, ossia atto mediante cui l’oggetto conosciuto viene a trovarsi nel conoscente, tramite assimilazione, proprio come dicevamo all’inizio di questo paragrafo. Lo stesso Tommaso dirà, ancor meglio, che la conoscenza avviene mediante qualche specie intellegibile, grazie alla cui informazione – intesa come dazione di forma ad una materia - ha luogo l’assimilazione.

Con la sua teoria della realtà come sinolo di essenza ed esistenza, Tommaso risolve anche il problema degli universali, nel senso del realismo moderato. Infatti l’universale esiste dapprima come idea nella mente di Dio, poi realmente nelle cose come forma, indi come concetto nella mente che l’ha desunto dal sensibile.

Tuttavia l’oggetto della conoscenza intellettiva è duplice: quello proprio e quello adeguato. Il proprio è ciò di cui abbiamo appena detto, ossia sono le essenze dei corpi materiali. L’adeguato è l’essere in tutta la sua estensione e densità. Solo l’essere intensivo, con la sua perfezione ed attualità infinite, colma, attuandola, l’infinita apertura dell’intelletto. Siccome l’essere intensivo coincide nella sua piena attuazione con l’Essere stesso sussistente che è Dio, Tommaso deduce che solo Questi può appagare la sete di verità dell’intelletto umano. Perciò solo nella beatitudine l’uomo conosce pienamente, vedendo Dio faccia a faccia. Lo scopo della conoscenza umana, in effetti, è proprio conoscere Dio: una conoscenza che solo pochi conseguono solidamente, ma che è indispensabile per la realizzazione della vita dell’uomo. Ciò giustifica da un lato il fatto che tale conoscenza è il vertice di tutte quelle possibili, in campo fisico, metafisico, etico, politico ecc., e dall’altro che Dio stesso, per bontà, abbia voluto svelare Se stesso a quelle sue creature che, alla ricerca di Lui, arrancano sotto il peso dell’ignoranza.

Il valore della conoscenza così acquisita è oggetto di specifiche riflessioni tomiste. Esse sottolineano che tale conoscenza, svolgendo la funzione appena descritta, rappresenta in modo vero le cose. Tuttavia il processo raziocinativo spesso è suscettibile di errore, che ripropone in forme diverse il problema della validità della conoscenza. Tommaso ricalca le obiezioni aristoteliche ai sofisti, mostrando l’inconfutabilità del principio di non contraddizione, e quelle agostiniane agli scettici sull’indubitabilità dell’esistenza individuale come conseguenza immediata dell’atto stesso del dubitare. Costruendo la sua difesa della conoscenza proprio sulla validità assoluta del principio di non contraddizione, Tommaso demolisce gli argomenti contrari alla sicurezza gnoseologica uno dopo l’altro, partendo da quelli relativi all’esperienza empirica.

Con un ragionamento che confuta Hume cinquecento anni prima, Tommaso dice che è strano dubitare della verità e chiedersi se essa sia come appare ai desti oppure ai dormienti. Questi hanno i sensi assopiti e non liberi, quelli sono svegli e hanno i sensi liberi. La differenza la colgono gli stessi scettici i quali dubitano della validità della conoscenza sensibile solo a livello teorico, mentre nella pratica mai mettono sullo stesso piano ciò che percepiscono essi stessi con quello che avverte una persona malata o obnubilata o addormentata. La matrice dell’errore sta nel cercare prove dimostrative per tutto, anche per la validità della conoscenza. Ma questo è perfettamente inutile nel caso in cui la divergenza gnoseologica sia evidente come ad esempio tra svegli e dormienti, con conseguente credibilità dei primi e non dei secondi. L’intelletto pertanto mediante un vigile controllo dei sensi può giungere a una rappresentazione veridica delle cose.

A proposito poi del principio di non contraddizione, Tommaso annota che chi dubita della sua verità cade in una contraddizione simile a quella enunciata sopra, che è ancora più stridente. Qualunque cosa, anche la più banale, che venga anche solo detta, purchè intenzionalmente – come per esempio: “piove”- non può in nessun caso significare se stessa e il suo contrario.

In ragione di quanto detto, Tommaso riconduce l’errore della conoscenza non ad un suo limite strutturale ma a tre ragioni fondamentali. La prima è la complessità dell’oggetto, che spesso induce l’intelletto ad errare spingendolo a considerarla solo da un punto di vista e non da tutti quelli necessari. Per esempio un medico che sbaglia una diagnosi e che quindi prescrive una medicina efficace di per sé ma non in quel caso. La seconda è la precipitazione, per cui l’anima passa dal punto più alto del suo operare, ossia la ragione, a quello più basso, ossia l’azione corporea, saltando qualcuna delle operazioni intermedie, quali la memoria delle cose passate, l’apprensione delle presenti, la solerzia nel considerare le future, il confronto tra cose diverse e l’ascolto delle opinioni altrui. Saltando questi passaggi, l’uomo agisce per volontà o per passione e sbaglia, specie quando deve emettere un giudizio, evidentemente non ponderato bene. La terza ragione sono le passioni, che non solo favoriscono la precipitazione ma fanno formulare giudizi errati perché assorbono l’intelletto a tal punto da togliergli la serenità di giudizio, l’oggettività e l’imparzialità. Bisogna quindi impedire alle passioni di pronunziare giudizi affrettati parziali o interessati.

L’ETICA RAZIONALE

La forma dell’uomo, l’anima, non si limita alla completa realizzazione dell’uomo stesso mediante le azioni necessarie dell’esistenza e della vita vegetativa e sensitiva, come avviene negli altri esseri inanimati e viventi, ma – essendo dotata di intelligenza – si rivolge a tutti gli oggetti che apprende, così da diventare fonte della libera attività della volontà. L’oggetto proprio di quest’ultima è il bene in quanto tale ed essa tende spontaneamente ad abbracciarlo ovunque lo veda. Ciò avviene perché la volontà cerca il bene in sé attraverso tutti quei beni parziali che le si presentano e in cui esso ha lasciato traccia di se stesso. Se l’intelletto umano potesse rappresentarsi il Bene in sé, ossia Dio, noi vedremmo inequivocabilmente ciò che desideriamo, ma siccome non ci è concesso, dobbiamo rappresentare continuamente con sforzo e maggior perfezione quello che andiamo cercando, individuando ogni volta quei beni che più perfettamente si connettono a quello supremo che fa per noi. Questo è in terra l’esercizio della libertà. La costante adesione al Bene supremo non ci è concessa, ma nella scelta dei beni particolari possiamo, se vogliamo, tendere ai più perfetti perché simili al Primo.

In questo modo l’uomo vive la tensione verso l’aldilà sin da questo mondo, in modo fecondo e attivo. Il bene relativo che l’uomo cerca in vista di quello assoluto ci è presentato dalla morale, che ce lo fa conoscere e permette che ci avviciniamo ad esso con maggiore facilità. Dominare le passioni, estirpare i vizi, acquisire la virtù e cercare la felicità mediante la considerazione della verità fatta con le scienze speculative sono le tappe del raggiungimento della felicità reale, anche se imperfetta, che possiamo avere in terra. La nostra intelligenza poi, nonostante la sua limitatezza, ci fa intuire ciò che ci manca. Conducendoci all’esistenza di Dio, non ce ne mostra l’Essenza. Ma una volta che l’abbiamo scoperto, capiamo che le nostre anime, immortali perché immateriali, solo in Lui possono porre il fine dei loro desideri e il loro vero Bene supremo, da conseguirsi nell’avvenire ultraterreno. Dio diventa il criterio supremo dell’etica: per sapere se facciamo una cosa buona o cattiva, basta che ci chiediamo se essa ci allontana o ci avvicina a Lui. I principi primi della morale, parte integrante della legge naturale, si stabiliscono così.

Ma i dettami naturali sono pochi e generalissimi, per cui a scopo esplicativo e complementare nascono l’etica filosofica o razionale – che è anche quella dei teologi specialisti – la legge positiva della comunità umana e la stessa Rivelazione di Dio, con il Decalogo. Esso non è né sopra né fuori la legge morale naturale, ma ne è la determinazione più autentica, sia per il contenuto che per l’Autore. Da esso, nessuno può essere dispensato.

Appare evidente da quanto detto che, cinquecento anni prima di Kant, Tommaso ha affrontato e risolto brillantemente il problema della fondazione della legge morale.

Come si vede, anche nell’etica il concetto di essere è illuminante: la volontà ha come oggetto l’essere sotto la formalità del bene e i nostri atti sono oggettivamente buoni o cattivi, a seconda che si rispetti o meno la gradazione dell’essere negli enti, ossia i loro giusti rapporti. Sono invece soggettivamente buoni o cattivi nella misura in cui chi li compie ha coscienza del retto ordine dell’essere degli enti. La morale dunque è legge dell’essere, norma intrinseca della natura e manifestazione del volere divino.

Nel sistema etico tomista la libertà svolge, come si è visto, un ruolo chiave. Essa, restaurata dalla Grazia, non è compromessa dalla predestinazione divina, il cui decreto di salvezza prevede che l’uomo attinga alla beatitudine con un atto libero. La Provvidenza regge tutte le cose conoscendo i contingenti, ossia le cose che accadranno per libera scelta dell’uomo, e orientandole tutte, sia buone che cattive, alla realizzazione dei Suoi fini. Tommaso accetta ovviamente la dottrina agostiniana della differenza tra libertà e libero arbitrio. All’uomo e al suo libero arbitrio, che la Grazia di Dio aiuta ma non violenta, si deve il male nel mondo; ma la sua permissione da parte di Dio spesso diventa pena, o deficienza di forma o di atto, per le colpe, che di per sé sono deficienze di azioni, non fatte o fatte male. La colpa o peccato è l’atto con cui l’uomo sceglie deliberatamente il male, contro la legge divina e di ragione.

L’Aquinate chiama sinderesi l’abito naturale pratico che ci spinge al bene e ci allontana dal male. Essa applica i principi generali dell’agire all’azione particolare mediante la coscienza. Sulla sinderesi quindi si fondano le virtù, che sono esse stesse abiti interiori specifici, ossia disposizioni pratiche a vivere rettamente e a fuggire il male. Tommaso distingue come Aristotele le virtù intellettuali, che sostengono la facoltà intellettiva, e quelle morali, che sostengono quella volitiva; le prime sono scienza, intelletto – che ci perfeziona nella contemplazione della verità- arte, sapienza e prudenza; le seconde, di cui le maggiori sono giustizia – che perfeziona la volontà - fortezza – che domina l’appetito concupiscibile - e temperanza – che regge quello irascibile - si basano essenzialmente sulla determinazione del giusto mezzo tra due estremi. Di tutte le virtù di entrambi i tipi quattro, prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, sono quelle fondamentali o cardinali, dalla cui mescolanza si formano le altre. Tra le quattro la giustizia è la principale e la prudenza è la fondamentale. Infatti la giustizia fonda le relazioni dando a ciascuno il suo ed esercitandosi in forma commutativa o distributiva; la prudenza guida invece con retto criterio la scelta dei fini e dei mezzi. Tuttavia al cristiano sono concesse le virtù infuse che meritano la vita eterna, che sono sia quelle naturali debitamente potenziate dalla Grazia, sia quelle teologali, date solo da Dio, che sono la fede, la speranza e la carità, concernenti la morale religiosa.

LA FILOSOFIA DEL DIRITTO

Il fondamento della legge nel tomismo è il diritto naturale, esattamente come lo era per gli stoici. Per l’Angelico vi sono quattro tipi di legge: quella eterna, che si identifica con la Ragione divina che regge il cosmo e i cui piani sono noti solo a pochissimi eletti; quella naturale, che nell’uomo è un riflesso, una partecipazione e un decreto di quella divina e che regola la vita del cosmo; quella umana o positiva, che specifica e determina la legge di natura - che non può essere contraddetta - mediante la conservazione della vita, l’unione del maschio con la femmina per la procreazione e l’inclinazione a vivere in società senza danneggiarsi tra simili; quella divina, che l’uomo conosce per Rivelazione e che conduce alla vita eterna. Il compito di fare le leggi umane spetta alla collettività e a chi la rappresenta legittimamente.

LA FILOSOFIA POLITICA

Tommaso concepisce la politica essenzialmente come arte del governo. L’Angelico sostenne l’origine naturale dello Stato e la sua necessità per sovrintendere al bene comune. In questo suo equilibrio sta la validità del suo pensiero politico ancora oggi. L’uomo è un animale sociale, che deve stare insieme ai suoi simili. Vi sono tre forme di socialità necessarie: la Divina, mediante la consostanzialità delle Tre Ipostasi; la soprannaturale, mediante l’innesto nel Corpo Mistico di Cristo delle Sue membra che siamo noi stessi; la naturale, mediante l’unione degli uomini in vincoli indispensabili, ossia quelli domestici della famiglia e quelli civili dello Stato. Vi sono poi le forme di socialità artificiali, relative ai corpi sociali che nascono per convenzione.

Alla base dello Stato, vi è l’autorità, e non il contrario. L’uomo ha bisogno di una autorità che lo guidi al suo fine ultimo che è Dio, onde evitare che la spinta individualistica e le differenze personali vanifichino lo sforzo verso tale meta, sforzo che è di per sé sempre e anche collettivo. Prima dunque viene l’autorità, poi il governo e infine lo Stato, in quanto la prima spetta solo a Dio in quanto gli uomini sono tra loro pari e non possono esercitare naturalmente una primazia gli uni sugli altri; al secondo spetta quindi la prima per divina attribuzione e il terzo viene dal secondo perché chi esercita il governo è a capo anche dello Stato. Chi governa cerca di condurre i cittadini al bene comune mediante le leggi, le quali sono definite umane proprio perché emanate dallo Stato, oltre che positive, come abbiamo detto. In coscienza, ogni cittadino deve obbedire alle leggi positive, purché non contraddicano quelle naturali. Infatti, se le contraddicono, sono solo una contraffazione della legge.

Sebbene tenda in ultima analisi al Bene supremo, lo Stato ha, come accennato, un bene suo proprio che è quello comune, inteso come buon vivere di tutti mediante lo scambio dei beni particolari, quali la sicurezza, la salute, l’istruzione ecc. che ognuno può conseguire. Su tutti questi beni svetta appunto la vita della fede, che conduce a Dio quale Bene comune trascendente. Essendo tale Bene raggiungibile solo mediante Cristo e la Chiesa ed essendo esso un bene trascendente come lo sono tali mezzi, l’uomo non corre mai il rischio, nella politica di Tommaso, di diluirsi nella collettività statuale, che, a differenza di quanto insegneranno Hegel, Gentile e Marx, non ha mai il primato sulla coscienza e sulla vita dell’individuo.

Tommaso non crede che esista una forma perfetta di governo, ma suggerisce a volte la monarchia e a volte un regime misto di monarchia, aristocrazia e democrazia. Salvi i principi generali di ogni ordinamento appena enunciati, Tommaso considera contingenti, mutevoli e vari tutti i modi di governare. Peraltro, nella monarchia ritiene debbano essere posti dei limiti che impediscano la degenerazione del sistema in tirannide. Qualora poi questa nasca, il popolo deve valutare se sia moderata o estrema, in quanto nel primo caso conviene tollerarla se il suo rovesciamento potrebbe causare mali peggiori. Nel secondo caso invece va, possibilmente, abbattuta. La bontà di un regime si valuta solo nella misura in cui esso concorre al bene comune, ossia se procura che tutti conducano una vita buona o virtuosa, se salvaguarda la pace e se garantisce a tutti la quantità sufficiente di beni materiali, il cui uso è indispensabile per l’azione virtuosa. A colui che governa l’Angelico raccomanda l’esercizio della giustizia distributiva e la prudenza, che nel suo caso è detta politica o regale.

L’ESTETICA

Essa riguarda l’essere in quanto contemplato, ossia il bello. Tommaso riprende le concezioni estetiche di Dionigi, ma le corregge con il suo aristotelismo. La contemplazione del bello è una parte della conoscenza e implica la distinzione di due tipi di bellezza, la corporea e la spirituale. La prima è fruita mediante i sensi della vista e dell’udito, la seconda mediante le facoltà intellettuali. La bellezza fisica è sempre la bellezza di una sostanza reale e concreta, la seconda invece contraddistingue le forme separate, l’Essere stesso e le Sue idee. In entrambe le bellezze si scorgono come elementi costitutivi l’armonia, la chiarezza e l’integrità. Tali caratteristiche sono immediatamente evidenti nella bellezza corporea. L’apprensione della bellezza è atto che produce nell’uomo piacere e gioia. In questo modo Tommaso rivaluta anche il bello sensibile, sia naturale che artistico.

L’IMPORTANZA FILOSOFICA DI SAN TOMMASO

La filosofia classica è dominata dal tema ontologico e prosegue sino a tutta la Scolastica. Questa prosecuzione è il motivo della grandezza di Tommaso, il quale diede alla problematica ontologica la sua soluzione più avanzata e ad oggi insuperata, per cui egli è l’ultimo dei filosofi classici e il maggiore dei metafisici, in un secolo che fu di per sè l’apoteosi della metafisica stessa. Ma andiamo per ordine.

Il problema ontologico era stato impostato in due modi diametralmente opposti da Eraclito di Efeso (550-480 a.C.) e da Parmenide di Elea (550-450 a.C.). Ciò dipende dal fatto che la conoscenza sensibile coglie come essere qualcosa di completamente differente da quello che l’intelletto scopre e considera come tale. Perciò entrambi a buon titolo avevano sostenuto soluzioni apparentemente inconciliabili: Eraclito, parlando dell’essere, lo aveva identificato col flusso mutevole ed incessante del divenire; Parmenide col suo intellegibile. La superiorità teoretica del secondo era incontestabile: l’Eleate aveva scoperto la necessità di essere dell’essere e di non essere del non essere; aveva dedotto le proprietà intrinseche dell’essere stesso che sono quelle dell’assoluto – omogeneità immortalità ingenerazione eternità semplicità immutabilità, lasciando a Melisso di Samo [485/480-…] la determinazione della sua infinità- e aveva affermato l’assoluta unità in esso di tutte le cose, divenute mera apparenza di molteplicità. Tuttavia proprio quest’ultimo dato era bisognoso di integrazioni, in quanto la negazione pura e semplice del molteplice era impossibile.

La prima grande sintesi tra il pensiero parmenideo e quello eracliteo venne dal genio immortale e supremo di Platone (427-347 a.C.), che per realizzarlo si servì del metodo del suo maestro Socrate (470/469-399 a.C.) e delle imperfette esperienze fatte in tal senso da Empedocle, Anassagora e Democrito. Da essi desunse l’esatta individuazione di due livelli ontologici, quello apparente e quello reale, ma usando il metodo socratico della dialettica li ricompose ad unità evitando fratture metafisiche, pluralismi protologici e fisicizzazioni quali soluzioni al problema dell’essere.

Platone aveva insegnato che il molteplice è essere apparente perché in esso non risiede quella stabilità dell’essere che Parmenide aveva intuito. Nello stesso tempo però aveva rigettato la rigorosa unità indifferenziata dell’essere parmenideo sostituendola con una ontologia diversificata in cui i principi primi, pur essendo distinti l’uno dall’altro, sono tutti allo stesso modo perché partecipi di una sola unità. Perciò il cosmo platonico si innalza come una piramide. Alla base c’è il mondo molteplice formato da un numero virtualmente inesauribile di sensibili, i quali sono nella misura in cui partecipano, per mimesi, metessi e parusia, ai rispettivi archetipi o idee. I sensibili, immersi nel flusso del divenire eracliteo, non sono di per sé e quindi non sono realmente se non nella misura in cui sono simili alle Idee corrispettive, di generi e specie, nei quali i corpi si classificano. Al centro di questo schema vi sono appunto le idee, visioni intellettuali intellegibili, ognuna delle quali è diversa dalle altre e uguale a se stessa, immutabile e quindi pienamente partecipe dell’essere parmenideo e delle sue caratteristiche. Dal canto suo, ciò che fa si che le innumerevoli idee – di essenze naturali, di valori, di entità logico-matematiche e di enti artificiali – siano esse stesse un medesimo essere è la caratteristica che le accomuna, ossia il fatto di essere ognuna uguale a sé, ossia di essere ciascuna unita a se stessa. Perciò al vertice della piramide metafisica vi è l’Uno, che è l’essere delle idee, la caratteristica intima di ogni forma di essere, il punto in cui tutte le sue forme via via più perfette si riunificano e culminano. In virtù di ciò, nel platonismo si parla di univocità dell’essere, perché esso è tutto ricondotto ad un’unità che lo attraversa da un capo all’altro del suo processo di moltiplicazione. In questa prospettiva metafisica ed ontologica, la risposta alla fatidica domanda “cos’è l’essere?” data da Platone poteva essere soltanto questa: l’unità, intesa dapprima come unità del molteplice nell’idea corrispettiva e poi delle idee stesse nell’Uno di per sé. Esso diventava il sommo bene, la verità e l’elemento costitutivo ultimo dell’essere stesso.

Ai problemi posti da una simile concezione, Platone rispondeva da par suo, ossia genialmente. Innanzitutto, per giustificare l’esistenza della materia, il Filosofo la considerava pura necessità, realtà recettrice di un ordinamento in cui essa diventava altra rispetto all’unità, per cui ne deduceva l’emanazione eterna da un principio complementare all’Uno ma ad esso subordinato, la Diade di grande e di piccolo, grazie al quale entrava nel cosmo il concetto stesso di dimensione spaziale. Poi Platone, proprio per dar ragione di questa riduzione del caos al cosmo, mancando qualsiasi mezzo di contatto tra il mondo metafisico e la materia originaria, inseriva la figura del Demiurgo, inteso come Intelligenza ordinatrice e non creatrice – mancava ai greci questo concetto – di tutte le cose materiali sulla base delle idee che egli poteva contemplare. Ancora, per mostrare come dall’Uno derivano eternamente le Idee che sono tante, Platone collocava tra il primo e le seconde i Numeri ideali, ossia le idee maggiori, quelle dei primi dieci numeri, la cui combinazione molteplice produce tutte le altre essenze. Infine, per giustificare il salto dall’unità delle Idee alla molteplicità dei sensibili, il Filosofo teorizzava l’esistenza dei numeri naturali, modellati su quelli ideali e nati dalle loro combinazioni innumerevoli. In questo modo sia le essenze che gli enti risultavano risolvibili in grandezze matematiche misurabili, con una chiara eredità pitagorica.

Questo mondo platonico apparve troppo complicato ad Aristotele (384-322 a.C.), il quale paventava il rischio della moltiplicazione dei mezzi tra i vari gradi del mondo metafisico e tra questo e quello fisico, nonché quello di costruzioni concettuali non debitamente riscontrate. In ragione di ciò lo Stagirita elaborò una sua metafisica, altrettanto geniale, che modificava i termini della questione. Gli enti conoscibili sono solo quelli concreti e la spaccatura tra essere reale ed essere apparente corre attraverso di essi. Infatti in ogni ente individuale Aristotele distingueva la sostanza, fatta di materia e forma - immutabile e quindi afferente all’essere parmenideo e reale - e gli accidenti - predicabili solo di soggetti sostanziali e quindi privi di consistenza ontologica propria e soggetti alle leggi del divenire eracliteo. La sostanza e i nove accidenti – qualità quantità relazione stato azione passione abito tempo luogo – sono le dieci categorie supreme dell’essere, ossia i modi suoi più propri. In conseguenza di ciò, le specie e i generi non sono più ipostatizzati ma sono astrazioni concettuali, mentre Dio e le sostanze separate sovrintendono al moto dei cieli sia in senso fisico che metafisico, non come cause esemplari ma come cause finali. Tra l’essere delle varie sostanze non vi è più dunque univocità ma mera analogia, che però riguarda le sole sostanze perché esse sono le uniche ad esistere veramente. Il cosmo di Aristotele è metafisicamente più semplice, fisicamente più articolato e ancora concepisce l’essere come qualcosa da definire: nella fattispecie esso è la sostanza. Lo studio dell’essere è quindi lo studio della sostanza. Lo studio delle cause dell’essere è quello degli elementi che la compongono, che la finalizzano e che permettono il suo passaggio dalla potenza all’atto, da ciò che ancora non si è a ciò che si è. Siccome poi la sostanza per eccellenza è quella divina, questa metafisica aristotelica è anche e soprattutto una teologia. Ai due capi opposti del cosmo aristotelico vi sono la pura potenza della materia, in attesa di essere un qualcosa, e il puro atto di Dio, alla cui imitazione tutti ambiscono, perfezionandosi di atto in atto progressivamente.

Con l’avvento del Cristianesimo, la metafisica greca venne adattata alla teologia rivelata ma le categorie fondamentali del pensiero filosofico rimasero immutate. Agostino (354-430) è il genio cristiano che, sulla scorta del platonismo professato da lui stesso e da altri precedenti filosofi cristiani di minore levatura, teorizza una soluzione del problema ontologico che sia adatta anche alla Rivelazione. L’Ipponense identifica l’essere con Dio, non solo sulla scorta di Aristotele e di Plotino (204-270), ma soprattutto in conseguenza del Nome che il Signore stesso si attribuisce nell’Esodo: Io Sono Colui Che Sono. Ma ancora una volta anche il Dottore africano deve chiedersi cos’è l’essere, a questo punto non solo per sapere cosa sia, ma anche per sapere chi è Dio. Agostino riassorbe le idee nel pensiero di Dio, nel Suo Logos. Esse quindi sono distinte da Lui ma contenute al Suo interno. Identifica il Demiurgo col Logos stesso, ma ne fa il Creatore e non l’ordinatore del mondo, facendo produrre anche la materia dalla volontà di Dio. Tuttavia, definendo le idee come le essenze delle cose sulla base delle quali Dio crea gli esseri sensibili, Agostino identifica Dio stesso con un’Essenza, piena e senza limiti, che quindi è la vera ed ultima realtà dell’essere. In questo universo agostiniano, esiste veramente e solamente Dio, mentre tutto il resto esiste tanto quanto Egli gli permette di farlo: le cose sulla scorta delle Idee, queste sulla base del Suo volere. I sensibili poi rimangono sottomessi alla legge del divenire. Tuttavia essa, fondandosi sul divino decreto, è qui meno apparente di quanto non fosse nella grecità platonica e anche in quella aristotelica.

La quarta e ultima tappa della storia della metafisica è costituita da Tommaso d’Aquino. Contro Platone e Plotino la sua ontologia non è basata sull’Uno, che di per sé è per l’Angelico solo l’indivisibilità dell’essere stesso, una sua proprietà, e non la sua stessa essenza. Ma Tommaso non abbraccia pienamente nemmeno Aristotele, perché, come abbiamo detto, supera ed integra il suo sostanzialismo collegando indissolubilmente l’essere reale, ossia la sostanza, all’atto di esistere, che nello Stagirita apparteneva solo alla forma, mentre qui è di tutto il composto. L’essere della sostanza in Tommaso è tanto quello della forma pura che quello del composto medesimo, la cui forma è l’atto stesso. Non vi è una forma della forma, che sia l’atto ultimo della sostanzialità, ma un atto della forma stessa, che è quello di esistere. Ossia l’atto dell’essenza non è più la forma, ragion d’essere di ciò che essa è, ma l’esistenza stessa, per cui le forme – e per esse le sostanze – ci sono realmente balzando fuori dal nulla delle possibilità ancora irrealizzate. L’essere non è più “ciò che è”, ossia l’idea, l’Uno, la sostanza, ma ciò che “è”. L’essere non è più l’ultimo determinato, ma il primo determinante. Perché ogni cosa, fisica o metafisica, sostanziale o accidentale, statica o in divenire, archetipa o modellata, divina o creaturale, innanzitutto è – nel senso che esiste – e poi, in ragione di ciò, è tutto il resto per cui può essere più o meno definita. L’essere è, per Tommaso, ciò che ha l’essere, a cominciare da Dio, Atto puro di Esistenza e quindi senza limite alcuno, la cui operazione propria e libera è quella di creare altri atti di esistenza al suo esterno, ciascuno dei quali si esplica nelle proprie operazioni, in quanto l’agire segue l’essere e non il contrario.

Con Tommaso Parmenide ed Eraclito sono pacificati: Dio è l’Essere in sé e quindi gli competono le proprietà ontologiche parmenidee, ma Egli crea altri enti che sono, ossia esistono, in modo analogo al Suo, non solo nell’ordine delle sostanze, ma anche in quello degli accidenti, i quali, nonostante la loro precarietà, sono reali e non illusori perché si predicano di soggetti attualmente esistenti. La differenza tra le due ontologie presocratiche continua ma non è più di tipo antitetico, in quanto sia il divenire che l’immobilità dell’essere sono collegati nell’attualità dell’esistere.

L’essere con Tommaso non è più una realtà che sfugge ad ogni definizione, ma è quella che le trascende tutte perché tutte le ricomprende in sé. L’analogia dell’essere, concetto distintivo tomista, non è più delle mere sostanze (come dicevamo che era per Aristotele), ma di ogni esistenza, le cui differenze risiedono soltanto nelle loro diverse modalità d’essere: Dio infatti esiste e basta, gli enti esistono ciascuno secondo un modo e quindi limitatamente. Questa analogia si riscontra nel fatto che tutti gli enti, per il mero fatto di essere, ossia di esistere, hanno delle caratteristiche comuni, dette trascendentali, che sono dell’essere in quanto tali e che quindi sono appartenenti innanzitutto a Dio e poi alle creature per partecipazione. Tommaso enumera cinque trascendentali, la res, l’unum, l’aliquid, il verum e il bonum. Ma siccome la res indica l’ente in quanto cosa reale e l’aliquid, inteso come il suo essere qualcosa, implica l’unum, i trascendentali si riducono a tre: unum, verum et bonum. Dei cinque trascendentali queste possono essere schematiche definizioni: l’essere costituisce sempre un ente inteso come una cosa, una realtà; l’essere dell’ente corrisponde ad una essenza specifica che traduce in atto; l’essere dell’ente è sempre uno, ossia unito a sé stesso; l’essere dell’ente è vero perché corrisponde a se stesso, ossia a come Dio l’ha voluto; l’essere dell’ente è buono perché occupa un posto e svolge un ruolo, assegnatogli da Dio.

Il concetto di essere in Tommaso serve pertanto a ridefinire tutti i termini della metafisica aristotelica, per cui l’essenza è ciò che l’essere è (e non più ciò che è tramite l’essere); l’esistenza è l’atto, che si identifica con un essere che è (e non più solo con la sua forma sostanziale); la potenza è la capacità di essere (e non più di assumere una forma); l’atto è ciò che esiste (e non ciò che è informato); la sostanza è ciò che ha in sé l’esistenza (e non solo la sua definizione); l’accidente è ciò che non ha esistenza autonoma (e non l’essere apparente); il vero è l’essere in quanto conosciuto; il bene l’essere in quanto voluto; il bello in quanto contemplato; l’utile in quanto usufruito.

Merita un ulteriore approfondimento il concetto di esistere, espresso dalla parola stessa: viene da ex-si-sto, ossia indica l’atto mediante cui esso esce (ex) dal nulla e rimane (si) nell’essere (sto). L’essere dunque è il suo stesso atto, che è l’esistenza, mentre l’essere in potenza in realtà non solo non esiste in sé, ma è contenuto sempre e solo in un altro atto. L’identificazione tra essere ed esistenza è totale e la storia della metafisica si chiude su se stessa in un modo perfetto. Non a caso, andata in crisi la Scolastica proprio per il rifiuto del razionalismo di matrice aristotelica e tomista, nati il volontarismo e il nominalismo, la filosofia, per rifondarsi, dopo diversi secoli e a partire da Cartesio, dovette non solo scegliere una nuova problematica centrale – quella gnoseologica – ma anche ricalcare strade già battute in ontologia, con soluzioni apparentemente nuove (dualismo sostanziale, monadismo, panteismo, idealismo, materialismo, realismo ecc.) ma sempre segnate dal platonismo; perché, una volta che la soluzione tomista alla questione dell’essere venne rifiutata, per l’indagine filosofica si trattò di ricominciare da capo in un eterno girovagare nei meandri dell’essenzialismo e del sostanzialismo. Non vi è una definizione dell’essere più appropriata ed esauriente di quella di Tommaso. Almeno fino ad oggi. Né alcun sistema metafisico più semplicemente ferreo che esprima tutta la positività dell’essere stesso. Esso è il sistema filosofico razionalista più ottimista che sia mai stato concepito, un vero antidoto alla crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo.

CONCLUSIONE SUL TOMISMO FILOSOFICO

La dottrina tomista ha una ricchezza e un’armonia che solo lo studio diretto possono mostrare, ma quanto detto presenta ai nostri occhi una tale connaturalità al Cristianesimo che rende difficile capire perché ad alcuni contemporanei essa sembrò pericolosa per la dottrina. La ragione di ciò sta innanzitutto nel fatto che essa respinge la pretesa della ragione di giustificare i dogmi della fede – rifiutando le ragioni necessarie della Prima Scolastica – poi perché rigetta l’idea che la ragione medesima veda i principi eterni delle cose nell’illuminazione interiore; indi perché lega anima e corpo direttamente mediante il vincolo di forma e materia, sebbene postuli con assoluta chiarezza la sopravvivenza della prima al secondo; infine perché insegna che l’anima stessa non può conoscere Dio direttamente mediante l’evidenza diretta o le intuizioni immediate, ma solo tramite prove deduttive. Questo sembrava scavare un abisso non solo tra Tommaso e i filosofi cristiani del passato, ma anche tra lui e la Scuola Serafica. Sembrava che Tommaso avesse calcato troppo le orme di Aristotele.

Ma non era cosi. Il Dio di Tommaso, come dicevamo, non è Atto puro di pensiero che imprime un primo moto finalistico ad un universo eterno e necessitato, ma Atto puro dell’Essere che liberamente crea, come causa efficiente, un universo fatto da altrettanti atti di esistere, tra cui l’uomo, che a sua volta è un composto di anima e corpo che liberamente tende verso il suo Creatore seguendo l’inclinazione profonda della sua natura. E’ quindi il tomismo una filosofia diversa, radicalmente, da quella di Aristotele, di cui prende solo la materia prima intellettuale, trasformandola profondamente, come i Padri avevano fatto con la cultura greca per esprimere il dogma. Ancora una volta, non è il Cristianesimo a grecizzarsi, ma la cultura classica a cristianizzarsi. Il tomismo è una filosofia radicalmente nuova e capace di adattarsi a qualsiasi situazione futura.

Tommaso ebbe presto numerosi discepoli. Due tesi fondamentali che egli aveva affermato con forza costituirono le linee sulle quali essi si mossero: la definizione dell’individuo o come forma separata o come composto, rispettivamente se immateriale o materiale; la conseguente affermazione dell’unità della forma sostanziale, in quanto come si vede è sempre la forma, sia separata che commista, che permette alla cosa di essere quello che è. In ragione di ciò i suoi critici pensavano che l’anima, forma di un corpo perituro, dovesse morire anch’essa. I discepoli di Tommaso dovettero insistere molto su questo punto per dimostrarne l’infondatezza. Furono quei tomisti puri di cui ho detto nel capitolo precedente: Egidio di Lessines, Tommaso di Sutton, Herveo di Nédellec, Egidio di Orlèans, Bartolomeo di Lucca, Pietro di Trivet, Bernardo de la Treille, Bernardo d’Auvergne, Guglielmo Goudin, Pietro della Palude, Giovanni di Napoli.

L’EPISTEMOLOGIA TEOLOGICA DI SAN TOMMASO

Per Tommaso, la teologia ha un carattere scientifico, la cui determinazione è come una sorta di introduzione logica alla trattazione teologica propriamente detta. La questione viene trattata sistematicamente nel Commento alle Sentenze, nel Commento al De Trinitate di Boezio e nella Somma di teologia.

Per il Dottore Comune, la teologia è una scienza nel senso aristotelico del termine ed ha un carattere discorsivo; è una scienza subalterna e non architettonica perché deriva i suoi principi dalla scienza divina; è capace di dare origine nel credente ad un abito acquisito, naturale, di predisposizione alla conoscenza e di conoscenza stessa, dal quale va distinto l’abito infuso e soprannaturale che vi è strettamente congiunto e che lo tiene sottomesso, ossia quello della fede propriamente detta.

Alla domanda, che Tommaso si fa nel prologo delle Sentenze, se la teologia sia speculativa o pratica, egli si risponde che essa perfeziona tutto l’uomo e quindi è sia l’una che l’altra cosa, ma in quanto scienza che cerca la verità è anzitutto speculativa. I suoi principi primi, come dicevamo, sono accolti per fede. I gradi di certezza che la riguardano sono i seguenti: i principi, derivando dalla fede infusa, sono molto più certi della scienza stessa; le conclusioni, che spettano all’abito acquisito, hanno una certezza inferiore alla scienza medesima; in mezzo vi è evidentemente il metodo scientifico teologico, valido di per sé come qualunque metodo scientifico.

In quanto al soggetto della teologia, Tommaso lo identifica con l’Ente divino conoscibile per ispirazione. Sul metodo teologico, il Santo si domanda se sia simile a quello seguito nella Facoltà delle Arti, o argomentativo. La risposta prende le mosse dalla considerazione che in ogni scienza il metodo è conforme alla materia studiata. La materia della teologia è la Bibbia. Rivelazione, narrazione e riflessione sono i tre momenti della Bibbia. Nel primo, l’Aquinate distingue il modo rivelativo da parte dell’Infondente, ossia lo Spirito Santo, e il modo orante da parte del ricevente, ossia l’autore sacro prima della scrittura materiale. Nel momento narrativo la Bibbia narra i segni che fanno da supporto alla fede, e quindi si riveste delle forme letterarie. Nel momento riflessivo, quello topico della teologia, Tommaso distingue il metodo apologetico a distruzione degli errori, quello precettivo a istruzione dei costumi e quello contemplativo della verità nelle questioni scritturistiche. Siccome nell’apologia e nella contemplazione la teologia ricorre all’argomentazione e alla dimostrazione, Tommaso deduce che il metodo teologico sia simile a quello della Facoltà delle Arti, ossia quello scientifico in senso stretto o, nella dizione medievale, artificiale.

Nella questione sulla conoscenza delle cose divine nel Commento al De Trinitate di Boezio, Tommaso afferma che la ricerca di Dio, pur nella sua primaria importanza per l’uomo, comporta tre pericoli: l’arroganza, che ci fa guardare i misteri divini come se fossero alla nostra portata; il razionalismo, che antepone la ragione alla fede; il misticismo, che vuole introdursi nella verità divina più del consentito. Inoltre Tommaso, nel medesimo luogo, ricorda che la scienza è il procedimento discorsivo mediante cui si passa da qualcosa di noto a qualcosa che prima non si conosceva e che ora diventa conosciuto. In ragione di ciò, il Santo afferma che di Dio si può avere una duplice conoscenza: una basata sulla ragione che è la scienza dei filosofi, l’altra basata sulla fede infusa mediante cui diamo il nostro assenso alle verità rivelate per se stesse. Tuttavia queste verità, che a Dio sono note intuitivamente, da noi possono essere acquisite meglio in modo discorsivo. Ancora proseguendo sull’argomento, l’Angelico dice che ci sono scienze che si basano su principi propri e scienze che li desumono da altre; la teologia riceve i suoi principi propri dalla scienza divina, per cui appartiene alle seconde. In quanto alla teologia filosofica, in essa Dio è studiato come principio ultimo delle cose e non costituisce l’oggetto proprio dell’indagine ma la sua conclusione. Invece la teologia rivelata studia Dio per se stesso nella Sua Rivelazione, per cui Egli è l’oggetto della teologia.

Si pone quindi il problema dei rapporti tra le due teologie. Per l’Angelico non vi può essere conflitto tra esse, da nessuna delle due parti, in quanto la fede aiuta, illumina, potenzia ed eleva la ragione e questa presta alla fede un triplice servizio, aiutandola a predisporre la mente ed il cuore all’accoglienza di essa nella dimostrazione dei suoi preamboli – come l’esistenza di Dio – ad illustrare con opportune immagini i misteri suoi propri e a respingere gli attacchi contro di essa mostrandone l’impertinenza o la falsità.

Nella Somma di teologia, Tommaso tratta nuovamente l’argomento epistemologico della teologia per introdurre alla sua trattazione. Egli insegna che la teologia è scienza in senso stretto, perché conoscenza ottenuta mediante argomentazione; è scienza primariamente speculativa ma anche pratica ed eccelle in entrambi gli ordini, nel primo in quanto assolutamente certa e di suprema dignità, nel secondo in vista del suo fine; è scienza subalterna perché mutua da quella divina i suoi principi primi, ossia gli articoli di fede; è la più sublime tra le sapienze umane; è sapienza acquisita, e non infusa, mediante lo studio biblico e degli articoli di fede, nonché dell’interpretazione di essi data dai Padri e della conoscenza ausiliare della filosofia per il chiarimento dei punti oscuri della Bibbia stessa. Ovviamente il ricorso alla filosofia non serve per dimostrare i dogmi ma solo per chiarirne il senso; in quanto sapienza e non solo scienza, la teologia ha un abito dianoetico diverso da quello tradizionalmente aristotelico alle cui forme dunque si aggiunge.

Questa epistemologia teologica tomista serve anzitutto a mettere in evidenza il ruolo attivo dell’uomo nella ricerca teologica e la sua collaborazione con l’ispirazione divina che invece troneggiava da sola nella concezione epistemologica tradizionale della disciplina. Inoltre, con la subalternazione alla scienza divina, Tommaso mantiene sostanzialmente unita la teologia scientifica nel contempo all’atto contemplativo e alla natura razionale dell’uomo. In virtù della dipendenza essenziale della teologia dalla scienza divina e della partecipazione alla scienza superiore da parte della inferiore, Tommaso ha innalzato la ragione mediante la fede. Infatti per essa la ragione viene messa in condizione di pensare discorsivamente le verità divine che di per sé sono al di fuori della sua portata. Nella vita futura tale discorsività cederà il passo alla contemplazione vera e propria. Quindi in terra il gradino più prossimo alla contemplazione dei beati è proprio la teologia speculativa.

Questa può assumere una forma sillogistica, nella quale la premessa maggiore è un asserto di fede, la premessa minore è una verità di ragione e la conclusione unisce entrambe, sebbene la prima riceva, con la sua maggiore estensione, l’omaggio della seconda.

L’impalcatura epistemologica di Tommaso fa sì che la teologia, come dicevo, diventi una sapienza senza cessare di essere una scienza. Essa è di stampo teandrico, perché la teologia è opera umana e divina, rispettivamente nelle conclusioni e nei principi.

L’ESEGESI BIBLICA

Tommaso è stato uno dei più grandi interpreti della Bibbia di tutta la storia. Ha fatto esegesi sia come strumento di preparazione alla teologia sia per la comprensione in sé della Parola di Dio. Come commentatore egli fu fedele al testo, profondo di pensiero, penetrante e fine. Seguendo i principi agostiniani egli sviluppò una incessante attività esegetica, mediante lo studio, la spiritualità, la meditazione e la preghiera.

Tutta la cultura profana può servire per meglio intendere la Bibbia e Tommaso arricchì continuamente le sue conoscenze, specie in filosofia e in filologia, sapendo che l’una serve per cogliere il senso teologico e l’altro quello letterale del sacro testo. Egli, che pure poco sapeva di greco ed ebraico, fu sempre molto scrupoloso nella comprensione dell’etimologia delle parole e nel verificare l’esattezza della lezione dei codici biblici.

L’Angelico distinse nella Scrittura due sensi, il letterale e lo spirituale. Il primo verte sulla parola, il secondo sulla cosa. Infatti chi comunica può farlo con l’una o con l’altra, ma può servirsi di quest’ultima per indicarne di ulteriori. Perciò il senso spirituale verte non sulla cosa indicata dalla parola, ma su di un’altra a cui essa fa riferimento. Esso ha dunque tre sotto significati: quello allegorico, se le cose veterotestamentarie simboleggiano quelle del Nuovo; quello morale, se le cose in questione ci indicano cosa dobbiamo fare; quello anagogico, se le cose rimandano alla vita eterna e alle sue realtà. Naturalmente il quadruplice senso biblico, così statuito, non può ricavarsi per forza da tutta la Bibbia, che ha passi più o meno ricchi di significato spirituale, rimanendo sempre presente quello letterale per ovvie ragioni.

Tommaso sottolinea con forza il primato del senso letterale, perché basamento di tutti gli altri, in controtendenza con la sua epoca che si sbizzarriva alla ricerca di tanti altri sensi. Esso è l’unico veramente dimostrativo e qualsiasi verità di fede contenuta nella Bibbia lo è in senso letterale, anche se vi sono passi che possono essere intesi spiritualmente in modo analogo. Tommaso fu il primo ad applicare il senso letterale al Libro di Giobbe, determinando lo sviluppo della sua comprensione successiva. Il Dottore Comune affianca poi all’esegesi letterale quella dei vari sensi spirituali. Tutti questi sensi puntano al significato immediato e recondito del testo. Vi è poi l’esegesi teologica del testo sacro, che mira invece ai procedimenti della determinazione del significato, procedimenti che vogliono essere rigorosi. L’esegesi teologica deve infatti fornire una spiegazione oggettiva del testo biblico analizzato secondo la sua formulazione linguistica, secondo l’ordine interno dei suoi concetti, secondo lo sviluppo delle sue componenti, utilizzando tutte le risorse della logica aristotelica. Perciò Tommaso concepisce la Sacra Scrittura come se fosse un trattato di filosofia, individuandovi nessi ed articolazioni logiche che non può non presupporvi, anche se spesso esse sfuggono ai moderni od appaiono loro poco convincenti. Per l’Angelico, che in questo ha moltissimo da insegnarci, ogni Libro sacro è un tutto organico, con un piano dottrinale ordinato secondo le regole logiche e il loro rigore. Perciò da ognuno di essi enuclea le idee base, ne evidenzia la progressione nello sviluppo, i passaggi da un soggetto all’altro e infine ricava il senso di ogni versetto. Tommaso quindi suppone che l’autore sacro di ogni Libro abbia formulato argomentazioni e che abbia fatto deduzioni ed elaborato prove.

Questa rigida applicazione dei principi logici allo studio biblico ha fatto si che l’Aquinate separasse la semplice esegesi dalla riflessione teologica. Egli determina sì il senso letterale in modo rigoroso, ma poi separatamente lo esamina come materia prima della teologia. Tommaso ha quindi contribuito più di tutti a dissociare l’esegesi biblica dalla teologia, sulla scia di Sant’Alberto Magno e lasciando un esempio che i suoi seguaci seguirono con scrupolo: Nicola di Lira, sommo esegeta del XIV sec., Eckhart e Tolomeo di Lucca, grandi teologi biblici del medesimo periodo, furono tutti attenti lettori dell’Angelico.

Tommaso seguì anche molto il metodo dell’analogia della fede, ossia chiarì la Bibbia con la Bibbia, usando i passi paralleli. Quelli semplici rendono chiari gli oscuri, perché tutta la Scrittura è ispirata dallo Spirito Santo.

LA TEOLOGIA TRINITARIA

A Dio competono due tipi di operazioni: quelle interne – conoscere e volere – e quelle esterne – creazione, provvidenza e conservazione del mondo. In ordine alla conoscenza, Dio non conosce solo Sé stesso, ma anche tutto ciò a cui può estendere la Sua virtù. Conosce tutte le cose, reali e possibili, in quanto ne è la Causa. Le conosce sia distintamente e propriamente che cumulativamente, in modo sempre intuitivo. Conosce tutto quello che può fare Lui e tutto quello che fanno o possono fare le creature, dentro e fuori di sé. Conosce con scienza di visione il passato il presente e il futuro come tempi del reale; conosce con semplice intelligenza quello che poteva, può o potrà essere ma mai sarà. Conoscendo il bene, Dio conosce pure il male, in quanto corruzione o mancanza del primo. Quando Dio, alla conoscenza della cosa, unisce il volere di essa, tale cosa comincia ad esistere. Dunque esse esistono proprio perché Dio le conosce e non il contrario.

Nel volere divino, l’oggetto primo è Dio stesso: Egli non potrebbe non amare le Sue proprie perfezioni infinitamente amabili, tanto più che solo Lui può amarle infinitamente come meritano. Dio tuttavia non vuole amare solo Sé stesso, ma anche le creature, che a causa e in vista di questo partecipano alla Sua bontà e perfezione. La ragione dell’esistenza delle cose sta dunque tutta nel volere divino, che non è necessitato da nulla, nemmeno da un eventuale bisogno di qualcosa, che Dio non ha, ma solo dal fatto che Egli non muta decisione, essendo perfetto, per cui, avendole volute, mai smette di farlo.

Dio, essendo infinitamente buono, non vuole mai il male di colpa che è incompatibile con la Sua natura; tuttavia, siccome il male può essere voluto non di per sé ma in quanto congiunto con un maggior bene, Dio vuole il male di pena in quanto ordinato alla giustizia e quello che chiamiamo il male di natura in quanto ordinato alla Provvidenza.

Alla dottrina delle operazioni si connette quella trinitaria. La Generazione del Figlio avviene mediante l’intellezione che Dio Padre ha di Sé, mentre la Processione dello Spirito avviene mediante la volizione del Padre e del Figlio, che perciò non può essere considerata generazione. Con questa correlazione tra le Relazioni tra le Ipostasi Divine e le operazioni dello spirito umano Tommaso ha individuato chiaramente le tre Sussistenze: quella della Paternità, quella della Filiazione, quella della Spirazione Passiva. La seconda è incompatibile con la prima; la terza è incompatibile con la Spirazione Attiva che è dal Padre e dal Figlio. Le tre Persone hanno quindi i Nomi Propri seguenti: la Prima, quelli di Padre, perché genera il Figlio, e di Ingenito e di Principio – ovviamente del Figlio e dello Spirito – la Seconda, quelli di Figlio, perché generato, di Verbo, perché termine del Pensiero divino, di Immagine, perché riproduzione sostanziale del Padre; la Terza, quello di Amore, perché termine della volizione, di Dono, perché Dio si dà in Essa a Sé stesso, di Spirito, perché spirato dal Padre e dal Figlio.

Le operazioni esterne di Dio sono il frutto degli attributi divini assoluti che sono sempre il pensare e il volere e sono propri di tutte e tre le Persone, le Quali pensano e vogliono sempre le medesime cose. Creano, hanno provvidenza e giustificano mediante la Grazia sempre tutte insieme con azioni che appartengono a tutte e tre le Ipostasi. Le missioni invece sono individuali per ciascuna Persona divina, nonostante l’azione od operazione esterna sia comune a tutte e tre. Perciò l’Incarnazione, voluta da tutta la Trinità, è terminativamente solo del Verbo, perché solo Lui si incarna. Con le Relazioni e le missioni Tommaso spiega anche le appropriazioni: ciò che nelle operazioni esterne di Dio si predica comunemente di tutte le Persone, si appropria legittimanente ad una sola di Esse in virtù delle operazioni interne. Perciò, sebbene Dio sia onnipotente per Natura, la Persona che si identifica con la Potenza è il Padre perché è Principio fontale e a Lui si riconduce la creazione; sebbene Dio sia onnisciente per Sostanza, la Sussistenza che si identifica con la Sapienza è il Figlio in quanto Verbo generato intellettualmente e quindi a Lui si riconduce la Rivelazione; sebbene Dio sia infinitamente buono per Essenza, l’Ipostasi che si identifica con l’amore è lo Spirito Santo, in quanto procedente per volizione dalle Altre due e a Lui si riporta la santificazione.

LA CRISTOLOGIA

Tommaso attribuisce una grandissima importanza a questa branca della dogmatica ed egli è come teologo essenzialmente uno studioso del mistero di Cristo. Questi, Mediatore tra Dio e l’Uomo, via verità e vita, Inviato dal Padre agli uomini perché questi diventassero come Dio, è il centro della riflessione teologica tomista, la quale lapidariamente sentenzia che il Verbo si è incarnato proprio per la deificazione dell’uomo. Fissando in Cristo il suo sguardo acuto e innamorato, Tommaso scruta le pieghe più intime del mistero del Salvatore, secondo il carisma di sapienza che Questi stesso gli aveva dato. Infatti la produzione cristologica dell’Aquinate è imponente. I Commenti ai Vangeli di Matteo e Giovanni, la Catena aurea sui Quattro Vangeli, il Compendio teologico, la Questione disputata sull’Unità del Verbo Incarnato, il Commento alle Sentenze, quello al Simbolo apostolico, la Somma contro i Gentili e quella di Teologia sono i numerosi luoghi dove il genio tomista si esprime su questo nobilissimo tema.

I due misteri da cui Tommaso è maggiormente sedotto spiritualmente sono l’Incarnazione e la Passione e Morte del Signore. Il Santo si stupisce di tanta degnazione e capisce che essi oltrepassano di molto l’umana intelligenza, per cui li avvicina con timore e tremore.

Il Dottore Comune dà ovviamente per certo che il Verbo si sia fatto Carne, essendo oramai lontanissime le dispute dogmatiche su questo argomento dal suo tempo, per cui a tale proposito si chiede perché e come Egli abbia voluto fare questo. I motivi sono tutti di convenienza, in quanto Dio poteva redimerci tutti con altri mezzi, essendo Egli onnipotente. Tra essi, assai numerosi, primeggia sempre negli elenchi tomisti quello della riparazione del peccato, voluta dalla Giustizia di Dio e che l’uomo non poteva compiere; tale ragione è la prima perché la stessa Scrittura l’attesta, sebbene Cristo avrebbe potuto incarnarsi anche se Adamo non avesse mai peccato. Infatti, stando alla Bibbia, l’Incarnazione avvenne solo perché Adamo peccò, per cui se non fosse stato commesso il Peccato di Origine, il Verbo non si sarebbe fatto Carne. In quanto poi al modo dell’Incarnazione, l’Angelico, enumerando e confutando tutte le antiche eresie sorte a questo proposito, ripropone con vigore e chiarezza la formula calcedonese, per poterla spiegare con la sua metafisica dell’essere. Tommaso dice che l’atto dell’essere della Seconda Persona della Santissima Trinità è lo stesso e il medesimo in entrambe le Nature che Essa ha, per cui il Figlio, il Quale è Dio dall’eternità, ha voluto ad un certo punto cominciare ad essere anche Uomo, senza smettere di essere Dio, senza mescolare le Due Sostanze e quindi comunicando alla Sua Umanità quella medesima Sussistenza che è propria della Sua Divinità. L’Uomo Cristo non ha mai avuto un atto dell’essere suo proprio e finito, in quanto l’atto dell’essere di Dio, pur essendo uno nella Sostanza, è trino nelle Sussistenze; essendo però l’Umanità del Verbo propria della Seconda Sussistenza, ecco che anch’essa è nel medesimo Atto dell’Essere propria di quest’ultima. Mai nessun teologo aveva chiarito con tanta luminosità sia la degnazione divina nell’Incarnazione, sia la Sua libertà, sia la Sua rigorosa Unità nella duplicità delle Sostanze. Varie immagini sono usate dall’Aquinate per esemplificare l’Unione Ipostatica, oltre a questa profondissima esplicitazione metafisica.

Tommaso chiama l’Incarnazione il miracolo dei miracoli, perché per essa un Uomo, Gesù, non solo per Natura non commette nessuna colpa, ma è completamente riempito dalla Grazia che Gli arriva dalla Natura Divina alla Quale è unito in una sola Persona, che è la Sua stessa. La pienezza della Grazia è di Cristo Uomo, per l’Unione Ipostatica, perché deve essere Principio di Grazia per tutti e perché in Lui questa Grazia porta tutti i doni, le virtù e i carismi, nella massima estensione e eccellenza dei doni che le spettano.

Nella contemplazione del mistero della Passione, Tommaso si sente scosso e trafitto dalla incommensurabile bontà di Dio. Le indicibili e innumerevoli sofferenze del Verbo, unite alla malvagità di coloro che gliele infliggono – tutti noi peccatori – sono per il Santo motivo di profonda contrizione. Senza questa Morte dolorosa noi non saremmo stati redenti, ma Dio avrebbe potuto redimerci anche in altro modo. Ciò spinge Tommaso ad una maggiore gratitudine verso Dio, mentre egli constata che in nessun modo l’uomo può capire il mistero della Croce, terribile ed incomprensibile. Esso è centrale nella nostra fede, perché da esso scaturisce ogni bene per noi: dal Costato trafitto del Redentore, dal Suo Cuore squarciato, scaturiscono la Chiesa, i Sacramenti, le virtù, i doni, le Indulgenze, i meriti. Vi è dunque qualcosa di molto più importante del semplice sentimentalismo per cui Tommaso debba, come poi fa, parlare sempre di questo mistero. La Croce ha un assoluto primato nella teologia tomista, per cui essa è una teologia della Passione, mentre la sua cristologia è staurocentrica o staurologica.

Anche sulla Passione e Morte di Cristo Tommaso si domanda alcune cose capitali: sono l’identità di Chi ha sofferto e il motivo della sofferenza. Per la prima questione, la risposta è ovvia: ha patito la Persona del Verbo, sebbene solo nella sua Natura Umana, che è quindi il soggetto immediato della Passione, in quanto solo essa può soffrire. Per la seconda, come dicevamo Tommaso trova tanti motivi di convenienza, tra i quali primo è quello della riparazione delle colpe, al quale ora aggiungiamo anche quello del buon esempio a chi soffre. La Redenzione mediante la Passione era conveniente sia alla Misericordia che alla Giustizia di Dio, in quanto per questa riparava al peccato dell’uomo e per quella sopperiva alla sua mancanza. In questo si vede il grande dono del Padre all’umanità, in quanto le manda come riparatore il Suo Figlio Unigenito. Inoltre, mediante la Passione, l’uomo non solo viene redento, ma scopre anche quanto Dio lo ama, così da riamarlo a sua volta e da giungere alla perfezione della salvezza, al suo compimento. Sempre nella Passione di Cristo l’uomo trova l’esempio indefettibile di tutte le virtù, dalla obbedienza all’umiltà, dalla fortezza alla giustizia, alla fede, alla speranza, alla carità e a tutte le altre.

Ai due misteri chiave della cristologia Tommaso dedica due terzi circa delle sue trattazioni in materia, ma quel che rimane verte significativamente sugli altri dogmi della Vita di Gesù: la Vita Pubblica, la Discesa agli Inferi, la Resurrezione, l’Ascensione, dei quali vengono messi in luce gli aspetti teologici e pedagogici. Cristo è infatti il grande Maestro, oltre che il Mediatore e il Redentore, che tutti devono seguire in ogni momento della propria vita. I misteri cristologici sono modelli ed esempi, sono il fondamento delle virtù teologali, sono cause efficaci della Grazia e sono da meditarsi costantemente.

A questa teologia il miglior elogio lo fece Lutero, quando disse che mortificava la soteriologia: non comprendendo il nesso tra questa e la cristologia in Tommaso, il padre della divisione della Cristianità segnò la differenza tra sé e la grande dogmatica cattolica. La teologia dell’Incarnazione è l’introduzione alla teologia della Croce, mentre la fede in questa suppone quella. Il razionalismo tomista non ha offuscato il mistero ma anzi lo ha illuminato sino alle soglie della sua incomprensibilità, aprendo l’occhio dell’uomo sull’invisibilità della pienezza di questa verità. Non a caso l’esperienza di teologo di Tommaso culminò nella grande estasi di prima della morte, a cui Gesù lo chiamò dopo una vita di accorte investigazioni intellettuali sui Suoi misteri.

LA MARIOLOGIA

In questa branca della dogmatica, esaminata soprattutto ma non solo nella Somma di Teologia, Tommaso seguì la stessa impostazione che aveva dato alla cristologia: incardina i suoi studi su un principio, che là era l’Incarnazione, qui è la Maternità Divina di Maria. Alla luce di questa legge tutte le altre verità di fede riguardanti la Madonna, specie la Perfetta Santità e la Perpetua Verginità.

Per la prima, Tommaso trova ragion sufficiente nel fatto che la Madonna dovesse essere Madre di Dio e quindi degna di tale stato; esso è testimoniato dalle parole dell’Arcangelo che la salutò “Piena di Grazia”. La Santità di Maria dovette essere proporzionata all’altezza della Sua missione e quindi fu la massima possibile. Tale santificazione avvenne già da prima della nascita, ma non implica, per Tommaso, l’Immacolata Concezione, perché all’epoca nessun teologo aveva ancora elaborato un concetto tale da giustificare una redenzione anticipata, ossia preservativa. La Vergine Maria per l’Angelico è salvata da Cristo come tutti e quindi come tutti deve aver contratto il Peccato di Origine; inoltre Ella è figlia di Adamo e quindi erede della sua colpa. Da essa fu mondata prima di nascere, non al momento del Concepimento. Diversamente, Tommaso avrebbe dovuto negare l’universalità della Redenzione di Cristo.

Per la seconda, ossia la Verginità Perpetua, Tommaso sottolinea che in funzione della Divina Maternità essa dev’essere innanzitutto nel Concepimento del Verbo, che avvenne senza concorso di uomo. Ciò perché il Padre fosse tale anche dell’Umanità del Figlio, perché la Sua Generazione nella Carne fosse senza alterazione come la Sua Generazione nella Divinità, perché l’Umanità di Cristo non contraesse per traducianesimo il Peccato di Origine e perché apparisse che l’Incarnazione e la rinascita conseguente dell’umanità sono solo ed esclusivamente azione di Dio. Tuttavia, anche la Verginità prima e dopo la Concezione di Cristo erano indispensabili alla Divina Maternità, onde evitare che la Sposa dello Spirito Santo non si contaminasse mai nemmeno in minima parte e non dividesse con uomo alcuno ciò che fu solo di Dio sia in quanto Generante che in quanto Generato.

Al centro della costruzione mariologica sta, come dicevamo, la Maternità Divina. Su di essa Tommaso, che come i Padri dice chiaramente che se tale dogma viene negato significa anche smentire quello dell’Unione ipostatica, non ha da fare ulteriori puntualizzazioni perché oramai è acquisito, ma può dare nuove delucidazioni. Per esempio, spiega che Maria è Madre della Persona del Verbo, e quindi di Dio, sebbene abbia generato la Sua Umanità, perché ogni madre e ogni padre, pur generando la natura dei figli, sono genitori delle loro persone. Inoltre, sebbene Cristo sia l’unica Persona ad avere Due Nature, è sempre la Sua unica Ipostasi ad essere soggetto dell’azione del Concepimento e della Nascita. Per entrambe queste ragioni, Maria Santissima è realmente Madre di Dio.

L’ECCLESIOLOGIA

Tommaso non ha scritto nessun trattato in materia ma gli spunti sono sparsi qua e là nelle sue opere. Sono spunti non molto originali e simili a quelli degli altri Dottori suoi contemporanei, ma sono storicamente rilevanti perché attestano l’uniformità del sentire ecclesiale sulla natura della Chiesa stessa.

Per Tommaso la Chiesa è il Corpo di Cristo, analogo a quello Umano, con tante membra unite ad un Capo e con un’anima, lo Spirito Santo. Cristo, sia in quanto Uomo sia in quanto Persona con due Nature, è il Capo della Chiesa in senso proprio. Infatti Egli primeggia su di essa nell’ordine, nella perfezione e nella virtù, esattamente come una testa su di un corpo. Nell’ordine Egli è il più vicino a Dio e ha quindi la Grazia più alta, che concede a tutti. Nella perfezione Egli possiede la pienezza di tutte le grazie. Nel potere Egli ha quello esclusivo di comunicarle a tutti e ciascuno. Cristo Capo della Chiesa ha quindi su di essa questa triplice priorità, detta anche di dignità, di governo e di influsso.

Cristo è il Capo di tutti gli uomini, anche di quelli che solo potenzialmente appartengono alla Chiesa, ossia di quelli che non ancora hanno la grazia o a cui non è stata ancora restituita dopo il peccato o disgraziatamente non l’avranno mai perché la rifiuteranno, così come è il Capo di coloro che potenzialmente ancora non sviluppano tutta la grazia, e che lo faranno in vita e in Cielo, o non la svilupperanno mai tutta pur avendola ricevuta.

L’agente principale, la causa efficiente prima della Chiesa è la Santissima Trinità. Essa sola comunica la grazia ai suoi membri. La causa prossima è invece Gesù Cristo, in quanto in Lui l’Umanità agiva quasi come strumento della Divinità. La Chiesa infatti è costituita dall’umanità redenta da Lui e scaturisce dal Suo Cuore trafitto, fondandosi su quei Sacramenti simboleggiati nell’Acqua e nel Sangue sgorgati da lì. Causa efficiente, meritoria e satisfattoria della Redenzione mediante la Passione e Morte, Gesù ci ha dato i Sacramenti quale strumento per togliere le colpe dei peccati e perfezionare l’anima nel culto divino. Di questo culto Cristo è l’iniziatore e il Sacerdote perpetuo, come anche la Vittima continuamente offerta. La Chiesa dunque vive tanto quanto si nutre del Corpo e del Sangue di Gesù e i Sacramenti sono i canali della grazia di Cristo che scorre in virtù della Sua Passione. La Chiesa trae da Cristo vita, esistenza e sostentamento.

La Chiesa è una, per la fede che professa, per la speranza che l’anima, per la carità che la infiamma. E’ santa, per la redenzione nel Sangue di Cristo, per l’Unzione crismale, per l’inabitazione della Trinità. E’ cattolica, perché è ovunque, perché accoglie tutti e perché durerà sempre. E’ ferma, stabile, perché fondata su Cristo e sugli Apostoli, per cui la diciamo anche apostolica. La Chiesa è visibile, è gerarchica, è sacramentale, è pneumatica ed è infallibile. Tale infallibilità è garantita dallo Spirito Santo Che la guida e Che è Spirito di verità.

Sacramenti, uffici e Gerarchia sono gli elementi che fanno sì che la Chiesa sia strutturata come un Corpo anche in modo visibile. L’Angelico mostra non solo i nessi di queste articolazioni ma la loro necessità. La Chiesa ha bisogno della struttura sacramentale perché ogni uomo si salva per mezzo di Cristo – quale causa efficiente- ma Egli comunica la Grazia – causa formale di salute – attraverso i Sacramenti – causa strumentale- i quali sono segni efficaci di essa, ordinati o a generarla o a restaurarla o ad accrescerla. La Chiesa ha bisogno di uffici diversi perché comprende stati diversi, e li comprende perché le garantiscono perfezione, ordine e bellezza. La pienezza della grazia concentrata nel Capo ridonda infatti diversamente nelle membra, ovviamente diverse tra loro, creando la perfezione nell’organicità. Il compimento delle funzioni diverse avviene in modi differenti creando l’ordine. L’armonia di tutto quanto crea la bellezza della Chiesa. La Chiesa ha bisogno di una Gerarchia, per far funzionare bene i suoi uffici. Questa Gerarchia è di ordine o di giurisdizione. La prima inizia con la Santissima Trinità, prosegue con Gesù Cristo e si articola poi in Episcopato, Presbiterato e Diaconato. La seconda inizia col Papa, Vicario di Cristo in terra, il quale detiene ogni potere, e si parcellizza nei Vescovi e nei Presbiteri. In virtù della pienezza del suo potere, i fedeli devono essere sottomessi anzitutto al Pontefice Romano.

Nei suoi rapporti con lo Stato, la Chiesa è gerarchicamente superiore per fini ed origine, ma il primo è distinto da essa e ha diritto alla sua legittima autonomia.

Alle minoranze musulmane ed ebree, secondo le leggi tradizionali, Tommaso riconosce i diritti civili. Tuttavia non ammette alcuna concessione teologica, stabilendo di contrastare la religione incompleta ebraica o falsa islamica mediante l’apologia e la polemica con l’una e l’altra, usando rispettivamente la Bibbia e la retta ragione.

L’ANTROPOLOGIA TEOLOGICA

Essa viene costruita da Tommaso sulla base della sua corrispettiva filosofica. Nell’Eden i Progenitori godevano della sapienza e della santità; tuttavia il Peccato originale – che fu atto di disordine mediante cui essi si volsero a beni mutevoli invece di tenere fermo quello Immutabile che è Dio – li privò dei doni preternaturali e modificò lo stato della loro natura, che da integra divenne corrotta. Perciò le conseguenze del Peccato furono tramandate ai discendenti, a cominciare dal fatto di essere un abito che inclina al male e non al bene. Vi è dunque in Tommaso una diversa valutazione del Peccato originale, che non è come in Agostino la concupiscenza, ma il disordine del volere. Questo Peccato altera i rapporti con Dio, Che diviene nostro nemico, con gli altri, che pure sono divisi da noi a causa delle passioni, e con noi stessi, non potendo l’anima dominare gli istinti negativi. Tutto ciò genera la sofferenza.

Siccome l’uomo non può redimersi da solo, per pura bontà, non essendo egli meritevole, Dio decide di salvarlo mandando nel mondo Suo Figlio, il Quale lo redime, lo riconcilia con Lui e restaura la sua natura, ponendolo in uno stato nuovo. L’immagine di Dio, impressa nell’anima e offuscata dal peccato, viene così restaurata e l’uomo viene messo in condizione di amare Dio e il prossimo in modo soprannaturale, ossia il Primo sopra ogni cosa e il secondo per amore di Lui, diventando immagine della carità che lega i Divini Tre. Ciò avviene per azione della Grazia Santificante.

La Grazia Santificante è la Nuova Legge, ma anche, aristotelicamente, la nuova forma e qualità che, infusa da Dio nell’uomo singolo, diventa sorgente dell’agire nuovo e soprannaturale dei Suoi figli. Tommaso spiega questo dicendo che, se Dio dispone nell’anima abiti, forme e facoltà che li inclinano naturalmente a certi atti, a maggior ragione lo fa per gli atti soprannaturali, mediante la qualità della Grazia che Egli concede alle anime e che agisce in esse di forza propria. La Grazia poi risiede nell’anima stessa, nella sua essenza, forma della forma, per cui, data la sua origine, rende l’uomo partecipe della Natura Divina o, più propriamente, deiforme.

Procedendo per analogie tra l’ordine naturale e soprannaturale, Tommaso equipara l’anima alla Grazia e le tre facoltà di memoria intelletto e volontà della prima alla triplice virtù di fede speranza e carità della seconda. Sono le tre virtù teologali che informano e nobilitano le tre facoltà dell’anima, rendendole capaci di compiere azioni conformi alla deiformità assunta dall’uomo per la Grazia stessa. In tal modo l’allontanamento da Dio compiuto dal Peccato viene estirpato del tutto e la conversione, pur non essendo mai definitiva, diviene via via più profonda. La partecipazione alla vita divina, per la quale siamo realmente figli di Dio, è infatti una realtà meravigliosa. Ogni credente in grazia che professa la Nuova Legge della Grazia conosce, possiede e ama Dio come Egli ama Se stesso. La Grazia opera nell’uomo non secondo un criterio fisicalista, ma personalista: tocca tutto l’uomo e lo rinnova radicalmente, nell’essenza e nell’operazione. Egli torna in amicizia con Lui e quindi può e deve tornare in amicizia coi suoi simili. In questo modo l’amore di Dio, uscito da Lui per raggiungere l’uomo, torna a Dio stesso mediante l’amore che Egli ha infuso nell’uomo stesso per Lui.

LA SACRAMENTARIA

Tommaso in questa materia ha operato una sintesi potente ed unica di quanto era stato detto fino ad allora e ha lasciato un’impronta indelebile che ha segnato anche le definizioni dogmatiche della Chiesa sulla materia. Pur trattando il tema in diverse opere, come il Commento alle Sentenze o il De Veritate o i Quodlibeta o la Somma contro i Gentili, Tommaso ha sistemato il suo pensiero in modo definitivo nella Somma di teologia, che però si interrompe proprio in questa trattazione, per cui dell’Angelico in essa abbiamo solo la trattazione sacramentaria generale e quella di Battesimo, Eucarestia e Penitenza, mentre per gli altri Sacramenti, trattati nel Supplemento, si è attinto, da parte dei continuatori, dal Commento alle Sentenze.

Tommaso tratta i Sacramenti dopo la Cristologia – anche se da noi sono esposti dopo l’antropologia – perché essi promanano dal mistero del Verbo Incarnato e Redentore. Nella trattazione l’Angelico si chiede cos’è un Sacramento, perché è necessario, qual è il suo effetto, quale la causa e quale il numero.

Il Sacramento è segno di una realtà sacra perché santifica l’uomo. In questo Tommaso riprende e perfeziona Agostino. E’ un segno rituale che rimanda ad un’altra realtà. Sebbene questa definizione vada bene anche per i Sacramenti dell’Antico Testamento, è la Redenzione operata da Cristo che forma il contenuto dei Sacramenti stessi. Essi significano la nostra santificazione e questo avviene in tre modi: per causa efficiente, in relazione alla Passione e Morte di Gesù; per causa formale, riferendosi alla Grazia e alle virtù; per causa finale ultima, orientandosi alla vita eterna. Ognuno di questi modi trova nel Sacramento il suo segno. Esso commemora la Passione di Cristo, ne mostra il frutto e annunzia la gloria che ne deriva. Misteri di salvezza che in quanto segni e cause manifestano e conferiscono la Grazia di Cristo, i Sacramenti della Nuova Alleanza sono realmente efficaci, in quanto istituiti dopo la Redenzione, mentre quelli dell’Antica erano solo figure di essi.

Tommaso qualifica gli elementi costitutivi dei Sacramenti quali res et verba, materia e forma. Vi è dunque una lettura analogica dell’ilemorfismo sacramentale, in quanto l’uno e l’altro elemento sarebbero come materia e forma del Sacramento stesso, ma anche analogica, perché il valore del Sacramento non è intrinseco al composto ma dipende dalla disposizione divina.

I Sacramenti sono necessari per tre ragioni: la condizione dell’uomo, che va condotto per mezzo di cose spirituali e sensibili a quelle spirituali ed intellegibili; lo stato dell’uomo che, a causa del peccato, è schiavo delle cose materiali e quindi va curato mediante una medicina che sia composta anch’essa di materia; il predominio nell’uomo delle attività sensibili, per cui gli vengono proposte pratiche materiali che sostituiscano quelle superstiziose e peccaminose.

Perché i Sacramenti siano efficaci occorre la fede, ossia i loro effetti sono proporzionati ad essa: sebbene producano la Grazia, essa rimane inattiva in chi non crede; vi deve essere quindi una iniziazione sacramentale progressiva dell’uomo. Gli effetti del Sacramento tuttavia sono due: non solo la Grazia, ma anche il Carattere. Della Grazia in genere si è detto, basti aggiungere che ogni Grazia sacramentale aggiunge alla Grazia santificante abituale un determinato aiuto divino atto a far conseguire il fine proprio di quel Sacramento che l’ha prodotta. In quanto al Carattere, è l’impronta speciale, il signum, che viene impresso nell’anima di chi lo riceve indipendentemente dalla sua fede. Battesimo, Cresima e Ordine Sacro imprimono il Carattere perché grazie ad essi si acquisisce una posizione particolare nella Chiesa, che non può essere perduta, una condizione ontologica immutabile: la figliolanza divina, la militanza cristiana e il sacerdozio legale.

La causa efficiente del Sacramento è triplice: la principale è Dio, la strumentale è l’Umanità di Cristo, la strumentale subordinata il ministro ordinato. Dio è quindi l’istitutore dei Sacramenti; Gesù, in quanto Dio, è causa suprema dei Sacramenti, in quanto Uomo, è causa meritoria, efficiente e strumentale. La prima, perché i Sacramenti comunicano la Grazia che Egli ha meritato come Uomo; la seconda, perché la Sua Umanità agisce nel Sacramento quale operatrice di salvezza; la terza, perché essa è il mezzo di cui la Sua Divinità si serve per operare nei Sacramenti. Cristo quindi in quanto Dio ha sui Sacramenti un potere di autorità, in quanto Uomo il potere di eccellenza del ministro principale. L’economia sacramentale è strettamente legata ai misteri della Carne di Cristo, i quali sono fondamento e sorgente dei Sacramenti e della Grazia che essi donano. In particolare il mistero della Croce, che dell’opera salvifica è il coronamento, libera dal peccato ed è la ragione per cui i Sacramenti fanno altrettanto in coloro che li ricevono in qualunque tempo, che sia tale peccato passato, presente o futuro rispetto all’unico Sacrificio del Redentore. In questo modo l’unico atto redentivo di Cristo si dispiega attraverso il tempo raggiungendo tutti mediante i Sacramenti. Ecco perché essi sono cause strumentali dell’attualizzazione del mistero salvifico. In ogni luogo e in ogni tempo ogni uomo è raggiunto dalla Grazia salvifica mediante i Sacramenti.

L’Angelico mostra altresì che essi sono in numero di sette per una ragione ben precisa, in quanto sviluppa una equiparazione tra vita naturale e soprannaturale: alla nascita corrisponde il Battesimo, alla crescita la Cresima, alla cura della malattia la Confessione, alla nutrizione l’Eucarestia, alla morte l’Unzione degli Infermi; alla formazione della famiglia il Matrimonio e alla creazione della gerarchia sociale l’Ordine. Inoltre i Sacramenti hanno una gerarchia interna per la quale l’Eucarestia è il più importante, in quanto in essa vi è lo stesso Autore dei Sacramenti, ma anche perché è il centro e il completamento dei Sacramenti: tutti sono ordinati al ricevimento dell’Eucarestia e la celebrazione di molti di essi è accompagnata dalla Comunione. I Sacramenti sono necessari, ma in modo differente: di necessità assoluta o di mezzo il Battesimo per tutti, la Penitenza per i peccatori in colpa grave, l’Ordine per lo svolgimento delle mansioni sacerdotali; di necessità relativa o di precetto tutti gli altri.

LA TEOLOGIA MORALE

La vita morale cristiana è soprannaturale ed è possibile solo per i Sacramenti che ci danno la Grazia. In effetti, se la morale naturale è ordinata al conseguimento di una felicità naturale in Dio mediante principi naturali e umani anch’essi, quella soprannaturale ha la sua ragion d’essere nel fatto che all’uomo è concessa una felicità soprannaturale da raggiungersi mediante principi anch’essi soprannaturali, che l’uomo non può darsi e usare da sé. La teologia morale inizia dove finisce la morale razionale, perché la Grazia perfeziona la natura.

La Grazia tende a renderci partecipi in un qual modo alla Divinità, ma per fare questo l’uomo deve essere capace di agire secondo questo scopo; perciò ci sono concesse le Tre Virtù Teologali, chiamate così perché vertono su Dio stesso, perché sono da Lui rivelate e da Lui infuse. L’intelletto e la volontà non potrebbero mai guidarci da soli a quelle cose celesti che nessun essere creato di suo può conoscere, per cui essi sono perfezionati dalle virtù teologali. La Fede aggiunge lumi soprannaturali all’intelletto per azione divina e ad essi ci fa aderire con sicurezza. La Speranza ordina la volontà al suo fine soprannaturale per tendervi come bene possibile. La Carità ordina invece il volere al medesimo fine tendendo a trasformarci unendoci a Dio stesso.

Quest’ultima è la più importante delle Virtù Teologali, perché riassume tutte le virtù così come tutte le leggi morali sono riassunte nel Duplice Comandamento della carità nel Vangelo. L’etica tomista è quindi altruistica. Tommaso, che a differenza di Agostino, riteneva che la morale naturale esistesse in sé stessa e fosse capace di raggiungere i fini suoi propri, riserva a quella soprannaturale la capacità di condurre l’uomo alla vita eterna. In questo si differenziò dai suoi contemporanei che ritenevano impossibile una morale diversa, da quella cristiana, anche se subordinata ad essa. Tommaso invece perfezionò e arricchì, senza sopprimerla, l’etica aristotelica. La morale umana naturale rimase quindi una tappa importante nel processo di formazione spirituale ed etica del cristiano.

LA TEOLOGIA POLITICA

In politica, Tommaso sostenne che i teologi dovessero essere i consiglieri del Principe, con una concezione nient’affatto nuova e peraltro non caricata da lui di tinte più forti del solito. Il capo di ogni società è colui che ha il compito di condurla al suo fine; il capo di tutte le società è quindi colui che conduce tutti gli uomini al loro fine supremo. Così come il temporale è subordinato, sia pure nella sua distinzione, allo spirituale, analogamente il Principe è subordinato al Papa e l’Imperium al Sacerdotium in quanto i secondi conducono i primi alla loro salvezza eterna, al bene soprannaturale. Abbiamo quindi due ordini sociali distinti ma gerarchicamente collegati. Il potere secolare è subordinato a quello spirituale per tutto quello che riguarda la salute dell’anima e in tutto quanto la riguarda bisogna obbedire al secondo piuttosto che al primo. Nelle cose che riguardano il bene della comunità temporale si farà invece l’inverso, tranne che nel caso del Papa, il quale va ascoltato in entrambe le disposizioni in quanto vertice sia del potere civile che di quello religioso. Da qui una difficoltà interpretativa del testo tomista in materia, ossia del De Regimine Principum, peraltro incompleto: dobbiamo considerare il Papa capo supremo civile e religioso solo nei suoi domini, diretti e indiretti, o in genere su tutta la terra? La seconda soluzione sembra la più confacente allo spirito ecclesiastico del tempo e in tale senso Bartolomeo di Lucca completò l’opera dell’Angelico, sebbene nella parte che scrisse si configura come pensatore con un profilo intellettuale proprio. Tommaso non fu un curialista estremo e piacque anche per questo a Dante Alighieri. Per l’Angelico lo Stato, tanto quanto la Chiesa, è una società perfetta perché dispone di un suo fine proprio e dei mezzi per realizzarlo, ossia il governo prudente e giusto e le leggi positive.


Theorèin - Luglio 2017