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DOCTORES MYSTICI Breve introduzione alla mistica del XIV e del XV sec. Siamo ormai nel XIV sec. La mistica è categoria storico-religiosa per decodificare la crisi nella quale l’Occidente medievale si sta, insensibilmente, inoltrando. Vi sono due forme di mistica: una speculativa e una pratica, che non casualmente si succedono l’una all’altra, almeno agli inizi. Tramite esse, specialmente la prima, la Scolastica vive la sua ultima fase di fervore religioso, ma contemporaneamente supera la sintesi filosofica che l’aveva portata a compimento, mentre in parallelo la teologia di Ockham le vibra il suo colpo mortale proprio in ambito teoretico. Il brodo colturale della mistica è nel Trecento l’universo religioso femminile. Per quella teoretica, in ordine all’assistenza spirituale di quel movimento delle Beghine che sarà poi condannato dal Concilio di Vienne (1311); per quella pratica, in quanto le sue massime esponenti sono donne anch’esse. Con questa mistica, la parabola storica della Scolastica giunge ad esaurimento e con essa un certo modo di fare filosofia e teologia. Per prove ed errori si arriverà alla filosofia moderna e, separata da essa, alla teologia che recupererà il meglio delle scuole medievali. Ma questo lo vedremo in seguito. LA MISTICA SPECULATIVA ED ECKHART Con gli autori domenicani che andiamo, sommariamente, ad esplorare, rinasce lo sforzo innovativo della riflessione mistica, e alcune delle loro intuizioni fanno discutere ancora oggi, espresse peraltro in un tedesco che con loro raggiungeva le prime vette della sua letteratura religiosa. La prima figura è quella enigmatica, ed emblematica, di Giovanni Eckhart, chiamato di solito Meister Eckhart, ossia maestro Eckhart, quasi lo sia per antonomasia. Egli, come Origene o Scoto Eriugena o, sia pure in misura minore, Sigieri di Brabante, è un pensatore ai confini dell’ortodossia che però ha esercitato una immensa influenza al suo interno. Le ombre del suo pensiero sono causate sia dalla sua attenzione pastorale ai problemi mistici sia dalla sua mancanza di continuità filosofica coi precedenti. Domenicano tedesco nato nel 1260 da umile famiglia presso Gotha ad Hochheim, novizio ad Erfurt, studente a Colonia di Alberto Magno del quale lesse le opere su Dionigi, baccelliere a Parigi, priore di Erfurt, vicario generale della provincia di Turingia, maestro reggente a Parigi nel 1300 – da cui venne espulso per la sua fedeltà a Bonifacio VIII (1294-1303) – e poi nel 1311, vicario generale della Germania, delegato per la cura pastorale del Secondo Ordine Domenicano con sede a Strasburgo, predicatore insigne, professore a Colonia, nelle sue lezioni e nelle sue opere egli, profondo conoscitore di tutta la tradizione filosofica antecedente, riprese il pensiero neoplatonico, così come era stato formulato da Proclo, e capovolse tutte le asserzioni dei pensatori ufficiali della Chiesa. Fu sospettato di eresia nel 1325 nel Capitolo di Venezia e nel 1326 sottoposto al tribunale dell’Arcivescovo di Colonia, che redasse due liste di proposizioni eretiche o sospette che Eckhart chiarì come meglio poté, per poi appellarsi al Papa, nel 1327. Recatosi ad Avignone, vi morì lo stesso anno. Nel 1329 Giovanni XXII (1316-1334) condannò ventotto proposizioni eckhartiane come eretiche o sospette, undici come temerarie. Eckhart scrisse opere latine (Collatio in libros Sententiarum, Quaestiones parisienses, Opus tripartitum, largamente incompleto) e tedesche (trattati e sermoni, che fissarono le basi della lingua filosofica e teologica germanica). Nella prima delle sue Quaestiones sull’essere, datate al 1313-1314, egli si domandò se in Dio essere e conoscere fossero identici, e si rispose non come chiunque farebbe, e come aveva fatto Tommaso d’Aquino, ossia che Egli conosce perché è, ma che Egli è perché conosce. Subordinava così l’essere al pensiero, facendo di quest’ultimo il fondamento del primo, esattamente come il De causis di Proclo, e come avrebbero fatto spiriti religiosi come Spinoza e Berkeley, o in ogni caso fortemente teoretici, come Fichte o Hegel. Ma, a differenza di costoro, Eckhart insisteva sull’aspetto epifanico dell’essere rispetto al pensiero, con un’enfasi che prima di lui, nel Cristianesimo, aveva avuto solo Scoto Eriugena, su cui gravava il peso di una plurisecolare damnatio memoriae che, tuttavia, non aveva impedito alla sua ispirazione di percorrere, come un fiume carsico, i meandri del pensiero cristiano. Ed Eckhart, riprendendo alla lettera la celebre asserzione del De causis, afferma senza esitazioni che l’essere è la prima delle cose create, e che quindi ciò che è di pertinenza di Dio, essendo egli increato, è anteriore, superiore e differente dall’essere. Dio è metaessenziale. Ma questa singolarissima teologia, che anticipa i concetti del Nulla divino cari a tanta filosofia romantica e post-romantica (come il Secondo Schelling, anche se in lui Dio emerge proprio da questo nulla), era assai ardita, in quanto faceva a pugni con quanto Dio stesso diceva di Sé, nell’Esodo, quando affermava scultoreo: “Ego sum qui sum”, “Egò eimì ò òn”, “Io sono Colui Che sono”, “Io sono Colui che è”, ossia l’Essere stesso. Su cosa fosse l’essere, se l’essenza agostiniana o l’esistenza tomista, si poteva pure essere in disaccordo, e ancora i fuochi della battaglia metafisica avevano brillato nella notte medievale nel recente magistero filosofico di Duns Scoto, ma nessuno aveva mai messo in discussione che Dio fosse l’essere. Eckhart, con una abilità dialettica spregiudicata e originalissima, riprendendo l’ontologia negativa di Maimonide e anche la teologia apofatica di Dionigi, disse che Dio aveva risposto che era “Colui Che è”, non per dire chi realmente fosse, ma per tenerlo celato, in quanto, se realmente avesse voluto dire di essere l’Essere, avrebbe detto soltanto “Io Sono”. Dicendo “Io sono Colui Che sono”, Egli afferma di essere qualcosa di radicalmente diverso da ciò che gli altri sono. Esplicitando il senso, Eckhart dice che Dio non è, perché Egli è solamente sapienza. Se fosse essere, non sarebbe veramente creatore, perché non ne sarebbe la causa, essendo l’esse preesistente a se stesso in Lui. E’ evidente che per Eckhart l’essere ha conservato qualcosa dell’unità che aveva in Parmenide, per cui riunisce in sé tutte le cose. Forse influenzato dall’univocità dell’essere di Duns Scoto, Eckhart non riusciva a salvaguardare la distinzione ontologica tra Dio e mondo, avendo perduto l’analogia tomista, e così spostò la questione dal piano ontologico a quello metaontologico. Qui il suo pensiero diventa ancor più complesso. Se Dio è la sapientia, ossia l’atto di conoscere – pensiero di pensiero, come si è detto da Aristotele a Gentile – solo in modo improprio si dice che Egli è. Forse per essere il meno possibile eretico, forse per ancorare la sua metaontologia alla teologia trinitaria, Eckhart dice che il Padre è la Sapientia, il Figlio il Vivere, lo Spirito Santo l’Esse. Ossia, Dio è essere solo nell’ultima delle Sue Ipostasi. E come nel Neoplatonismo, l’essere scaturisce dal pensiero. E quanto sia neoplatonico, nel senso di seguace di Plotino, si vede di Eckhart nel commento all’Epistola ai Galati, posseduto in manoscritto da Cusano: il concetto di Uno rimane il più alto, ed è soltanto pertinente all’Intelligere. Infatti, l’essere è composto di essere e intelligibilità, e quindi è complesso, duplice. Solo ciò che è al di là dell’essere è Uno, ossia l’Intelligere considerato in sé. Dio, appunto. Ma in questo è implicito che l’Uno, al di là dell’essere e del pensiero in Plotino, lo sia anche in Eckhart, almeno nel senso che l’Unità è ciò che fa l’Intelletto. Esso si pone come conseguenza dell’Unità, perché è l’unica cosa che può dirsi una. Perciò, se il Padre è l’Intelligere, ma è pur sempre un’Ipostasi della Trinità, ossia non tutto Dio, allora la Divinità stessa, la Sua natura, è l’Uno. Mai resa a Platone e a Plotino fu più completa nel monoteismo. Questa Deitas identica all’Unità è come un deserto, una quiete eterna, che è nel profondo della Trinità e oltre essa. Contemplandola si va nel cuore di Dio. Ma non può starsene inerte. Essa deve per forza ipostatizzarsi, come nella dottrina di Plotino. Deve identificarsi col Padre, Che genera il Figlio, e dai Quali procede lo Spirito, ossia deve identificarsi coll’Intelligere, generare il Vivere e far procedere da essi l’Essere. Forse Eckhart non si rese conto che quasi egli poneva la necessità di un Super-Dio, superiore al Dio triplicemente ipostatizzato. Quasi che la natura divina preesistesse alle persone. In effetti, se non sul piano ontologico – ammesso che si possa parlare di ontologia di Eckhart – questa precedenza nel suo pensiero c’è nell’ordine logico. Lo stravolgimento della Scolastica non poteva essere maggiore. Certo lui, legato ad una concezione trinitaria più greca che latina, ossia con l’accento calcato più sulla successione delle Ipostasi che sulla distinzione tra Essenza e Sussistenze divine, forse non avvertiva questa latente e mostruosa eresia. Ma la sua esperienza mistica, volta a radunarsi proprio nella quiete del deserto divino, oltre dunque le Ipostasi, la poneva di fatto e necessariamente. A questa infatti si aggancia la sua enigmatica psicologia, che poi è un tutt’uno con la sua esperienza di Dio. Se Dio è unità, e se l’unità è essere nell’ultima sua ipostatizzazione, Dio è il vero essere, e tutto il resto è nulla, almeno nel senso che non è di per sé. E ogni ente è solo nella misura in cui ha in sé l’intellegibilità e l’intelletto. In ragion di ciò, ha proporzionalmente vita e essere. In conseguenza, nell’approfondimento della conoscenza, ogni ente, e l’uomo innanzi tutto, può risalire fino a Dio. E’ la lettura mistica della Riunificazione plotiniana. Quest’anima, che deve nella conoscenza risalire sino all’Uno – Dio, ha le tre facoltà agostiniane di intelletto, volontà e memoria, ma anche una cittadella intima, una favilla interiore, una sorta di sacrario in cui si racchiude la somiglianza di essa con Dio, e che è essa stessa semplice e una come Lui, per cui per Eckhart è essa stessa increrata e increabile, e con cui si identifica l’intelletto. In questa favilla l’anima si identifica con Dio, e Questi la genera allo stesso modo e allo stesso tempo in cui genera il Figlio. E’evidente che Eckhart voleva replicare nell’anima il processo metaessenziale di “formazione” di Dio. Ed è altrettanto evidente che la sua metaontologia lo spingeva a far dell’anima una emanazione di Dio stesso. In tal maniera, l’unione dell’anima con Dio era naturale, e lo sforzo umano doveva indirizzarsi proprio a conservarsi in questa cittadella interiore. Del resto, una simile psicologia giustifica le condanne che colpirono la morale di Eckhart, ed è in se stessa sconcertante per un cristiano. Forse il domenicano non si rendeva pienamente conto di ciò che diceva. Certo era condizionato dalla sua particolare esperienza mistica. Infatti, se l’anima è naturaliter unita a Dio, ovviamente la ricerca dei beni mondani è fonte di sofferenza. Ma lo sforzo di unione con l’intimità della propria anima, dove essa è in contatto con Dio, implica da parte del mistico un superamento di ogni molteplicità, attraverso un distacco assoluto da ogni cosa mediante la Povertà. Essa, lungi dall’essere un fatto materiale, è il distacco da ogni cosa, ivi compresa la propria individualità, per perdersi nell’unità divina. Questo implica una svalutazione della morale e dei sacramenti, che non solo non sono necessari a quest’unione, ma addirittura vengono superati in essa. E persino il desiderio di Dio viene superato in questo processo di unificazione. Centrale rimane tuttavia la mediazione di Cristo, in quanto il Verbo di Dio si fece Carne in Lui aprendo a noi la strada dell’unione. Chiaramente, Eckhart anche in questo trasportava nel cristianesimo – ridotto ad un simulacro – tutta la tradizione neoplatonica. I suoi accenti sono tutti posti su una sorta di spersonalizzazione, per cui non a caso i moderni cultori del Nirvana o del Brahaman sono sedotti da questo mistico estatico. E se la sua esperienza religiosa fu senz’altro ben intenzionata, e se le sue proposizioni, prese da sole, possono risultare edificanti e addirittura ortodosse, e se anche il suo magistero fu tanto ben intenzionato che alcuni suoi discepoli furono i maggiori mistici del Cattolicesimo, è altrettanto vero che il suo pensiero rappresenta, nell’Ordine domenicano, quella crisi che i francescani vivevano nella controversia sulla povertà proprio in quei decenni, condannati proprio da Giovanni XXII. La mistica di Eckhart rappresenta la dissoluzione della religiosità intellettuale della scolastica, non riuscendo più a dosare la mistura di fede e filosofia greca, e facendosi in parte suggestionare dalle ambiguità del Beghinismo e, forse, da certe forme dell’eresia del Libero Spirito, impalpabile nei contenuti, così come l’evocava il suo nome, e che pure si riallacciava ad un panteismo eriugeniano, quello di Almarico di Benè, o di Davide di Dinant. In effetti, non si può dissentire da Ockham che, presente ad Avignone contemporaneamente a Eckhart perché anche lui sospetto di eresia, trovava del tutto assurde le tesi del domenicano. Per Eckhart le creature infatti non hanno nulla di realmente proprio ontologicamente, in quanto le loro positività sono, essere compreso, procedono da Dio e quindi sono Sue. In ragione di ciò l’ente dotato di una perfezione e la perfezione stessa costituiscono un solo essere e una sola vita, per cui gli enti sono immanenti in Dio. Questo ragionamento è chiamato analogia di attribuzione estrinseca in senso univoco. Questa indefinibilità dell’essere e di Dio fece si che Eckhart sostenesse anche un apofatismo semantico che rendeva la terminologia teologica atta solo a dire quel che Dio non è e mai quello che è. In una fase più matura del suo pensiero, attestata dall’Opus Tripartitum, Eckhart abbracciò due tesi fondamentali del tomismo: che il pensiero è nulla senza l’essere e che l’essere è Dio stesso. Ma la trascendenza assoluta di Dio, la nullità ontologica delle creature e l’immanenza delle creature in Dio rimasero sempre i cardini del suo pensiero. E tuttavia una sostanziale bontà religiosa di questi insegnamenti arditi e generosi, a tratti confusi, bisogna senz’altro ammetterla, perché tra i discepoli di Eckhart sorsero alcuni tra i maggiori maestri della mistica cristiana, profondi rinnovatori della pietà religiosa, e legati da molteplici relazioni a quella devotio moderna che, da Gerardo Groote in poi, avrebbe, tra ‘300 e ‘400, rinnovato lo spirito cattolico. IL BEATO GIOVANNI TAULERO, DOCTOR ILLUSTRISSIMUS Primo è Giovanni Tauler, latinizzato in Taulero. Nacque a Strasburgo nel 1300 da una buona famiglia borghese. Fu domenicano a quindici anni, studiò presso Eckhart ma non divenne mai maestro, diffidando delle sottigliezze. Fu predicatore di grande bravura, volto a spronare alla santità, capace di toccare le corde più profonde dell’animo e dotato di uno squisito talento retorico e letterario. Morì a Strasburgo nel 1361. Fu autore di un centinaio di sermoni, trascritti dalle sue devote ascoltatrici e in cui la dottrina della favilla eckhartiana viene completamente ripensata, e consapevolmente inserita nel filone agostiniano, arricchito da suggestioni psicologiche di Alberto Magno. Non cita ma utilizza a fondo Eckhart, ripensandolo anche grazie al suo talento poetico e al suo gusto per le immagini tratte dalla vita quotidiana. Altri suoi maestri sono Dionigi l’Areopagita e i neoplatonici in genere. Il tema fondamentale è quello del fondo o vetta dell’anima, luogo di assoluta quiete, privo di rappresentazioni, in cui lo spirito, assolutamente recettivo, può elevarsi alla contemplazione mistica. Attraverso il fondo, l’anima si ricongiunge all’idea eterna che Dio aveva di lei. Questo accade per mediazione del Gemüt, ossia di una sorta di cuore pascaliano ante litteram, la cui disposizione fondamentale verso il bene o il male altro non è che l’inclinazione verso l’esterno o l’interno dell’anima. Sviluppando e assecondando l’introversione dell’anima verso il suo fondo, l’uomo riconosce in essa la presenza ammaestratrice di Dio stesso. Grande è il conforto che viene dal dialogo interiore – lo dimostrerà nelle sue opere, secoli dopo, Giovanni della Croce – ma pericoloso è il fruirne senza aver fatto una vera esperienza delle virtù cristiane, in quanto l’esaltazione potrebbe far ritenere parola del Signore ciò che non lo è. Fondamentale rimane dunque l’esemplificazione della vita cristiana sulla Passione e la Morte di Cristo, per la quale Tauler riprende gli insegnamenti del prologo dell’Itinerarium di Bonaventura. A questa vita ascetica sono chiamati tutti. Tauler ha nelle sue omelie espressioni delicate su chi, volendo lasciare il proprio lavoro per darsi tutto a Dio, viene da Questi interiormente dissuaso, perché rimanga nel suo stato a dargli gloria. Lo stesso Dottore dichiara che un lavoro onesto fatto per amore di Dio vale più di mille devozioni senza amore, e afferma che avrebbe voluto fare il ciabattino, se avesse potuto. Prima di raggiungere la perfetta unione con Dio l’uomo deve superare dure prove: attese, aridità, lotte senza fine contro le cattive erbe che rispuntano continuamente, consapevolezza della propria dissimiglianza da Dio, angoscia per la precarietà e l’oscurità della navigazione nel mare della vita. Anche l’anima che prega e frequenta i Sacramenti soffre, perché su di essa le prove dell’incomprensione, della calunnia, dei lutti e delle pene si riversano per un particolare disegno di Dio. Gli amici di Dio accettano di vivere sempre nelle tenebre. Solo le pecore completamente tosate conosceranno la breve estasi che sarà loro luce nel pellegrinaggio terreno e darà loro una dignità quasi sacerdotale. All’amico di Dio rimane l’anima piena di Lui e il corpo pieno di dolori. Il Signore allora trapassa la sua anima con lampi fitti e profondi, in cui l’uomo vede quanto bello sia il patire e quanto lieve farlo per Lui. L’uomo in un colpo vede quel che deve fare, quello per cui pregare e ciò che deve predicare. Per Tauler la sapienza e l’intelletto sono i doni dello Spirito Santo di cui c’è più bisogno per arrivare nel fondo dell’anima e attraverso essa nell’abisso stesso di Dio, dove Egli opera direttamente nella passività del soggetto contemplante. L’unione Dio, per Tauler, è un atto di amore e non di conoscenza. Purtroppo, i vincoli di parentela spirituale tra Tauler, la devotio moderna e la Riforma protestante causarono al dottore mistico alcuni gravi infortuni postumi, tanto che – del tutto ingiustamente – Sisto V (1585-1590) arriverà a metterlo all’Indice, da cui poi fu saggiamente rimosso. In ogni caso, la mistica controriformistica non sarebbe stata tedesca e domenicana, ma ispanica e carmelitana. IL BEATO ENRICO SUSO Altro discepolo di Eckhart fu Enrico Suso, attento agli aspetti sentimentali della devozione e grande interprete del pensiero del maestro, legato al movimento degli Amici di Dio. Nacque a Costanza nel 1296, divenne domenicano giovanissimo e studiò presso Eckhart a Colonia. Tornò poi a Costanza quando l’ortodossia di Eckhart fu messa in discussione. Lasciata la città per l’espulsione decretata nel 1324 da Ludovico il Bavaro (1314-1347) contro i domenicani fedeli al Papa, Suso si spostò tra Svizzera, Alsazia, Renania. Trasferitosi ad Ulm da Aquisgrana nel 1348 in seguito ad una grave calunnia, una volta risultato innocente decise di rimanervi fino alla morte quale direttore di coscienza. Scomparve nel 1366. Scrisse molto in tedesco: la Vita, il Libro della Sapienza eterna, il Libello della verità, il Piccolo Libro delle lettere furono poi riunite nell’Exemplar. In latino scrisse l’Horologium Aeternae Sapientiae e il Cursus de aeterna sapientia. I capolavori sono il Libro della Sapienza eterna e la Vita. Il primo è un dialogo tra la Sapienza e il suo servo. Introdotto da considerazioni in cui l’autore spiega che si servirà di visioni immaginarie e di risposte tratte dalla Bibbia e dai grandi maestri, il Libro si divide in tre parti. La prima spiega come mai Dio possa essere irritato pur essendo amabile, mostra l’eterna beatitudine del Cielo e l’eterno dolore dell’inferno, invoca l’aiuto della Vergine e ne ripercorre le sofferenze sul Calvario. La seconda insegna a ben morire, mostra il dramma di una morte senza preparazione, sprona alla contemplazione e alla frequentazione dell’Eucarestia, dimostra che tutte le creature devono lode a Dio. La terza parte riprende le considerazioni iniziali. Questo volumetto è considerato il miglior testo della mistica tedesca. La Vita di Suso fu scritta dalla domenicana Elisabetta Stagel sulla base delle confidenze di Suso, attorno alle quali si sviluppano considerazioni trattatistiche. Distacco dal mondo, imitazione e conformità a Cristo, trasfigurazione in Dio sono le tre tappe della vita spirituale di Suso e di tutti i cristiani. Il distacco dal mondo mira alla tranquillità dell’anima, che si dona pienamente a Dio con abbandono e docilità. Dopo questa rinunzia si può imitare Cristo, così da giungere alla vita eterna. Trasformatosi in Cristo, l’uomo rinasce in Dio tornando al suo archetipo contenuto nel Logos. La rinascita per l’uomo è la sua divinizzazione, ossia il suo inabissamento in Dio, l’unione essenziale con Lui, Che è per Suso inesprimibile, tanto che lo chiama Eterno Nulla. Mistico poeta e trovatore, riveste le sue riflessioni e le sue immagini di amore cavalleresco. Fortemente legato all’arte figurativa del suo tempo, procede per immagini intense e icastiche. Convinto come Eckhart che misticismo voglia dire distacco dalle cose e immersione in Dio, non cade tuttavia nell’equivoco panteista, sebbene abbia subito sanzioni ecclesiastiche per la sua fedeltà morale al maestro, e accentua l’identità personale e separata del Signore come partner d’amore. IL BEATO GIOVANNI DI RUYSBROECK Giovanni di Ruysbroeck, brabantino, mantiene una sua fisionomia che lo differenzia dai discepoli di Eckhart. Fu il maggiore mistico del Trecento olandese. Nacque a Ruysbroeck nel 1393. A ventiquattro anni era già prete e assunse la direzione spirituale delle donne devote di ispirazione beghina, in qualità di canonico di San Gugula. Nel 1343 divenne priore di una comunità eremitica da lui fondata con degli amici a Soignes sulla regola agostiniana. In quel luogo morì nel 1381. Scrisse in fiammingo undici libri, di cui i principali sono l’Ornamento delle Nozze spirituali, lo Specchio della Salvezza eterna, Il Regno degli amanti di Dio, Il Libro della più alta verità, Il Libro delle Dodici Beghine e La Pietra Scintillante. Ruysbroeck descrive, specie nella prima opera, il modo in cui Dio, prendendo l’iniziativa, attraverso la grazia, fa innamorare di sé l’anima. I suoi doni la seducono, e lei risponde. Rispondendo, essa viene progressivamente perfezionata, ed esce verso il suo Dio, come le spose della parabola verso il loro promesso. Ispirandosi a Bernardo, Giovanni vuole che l’anima viva la sua ascesa mistica nella vita affettiva, attiva e contemplativa, e nessuna forma di esistenza risulta penalizzata, anzi ognuna è la scala che si deve salire sino a Dio. Questa ascesi implica un triplice processo di unificazione: della natura nel cuore – le potenze spirituali – delle potenze nell’intelligenza e dell’uomo tutto in Dio. Ciò implica uno sforzo volitivo costante. La prima tappa è attiva, perché fa morire il peccato con le virtù. La seconda è affettiva e interiore perché vi avviene l’unione con Dio nella libertà e nella volontà. La terza è contemplativa perché si compie nella contemplazione sovraessenziale mediante la Luce divina. Quindi dalle virtù morali si sale agli esercizi spirituali, da essi alla contemplazione e da qui, a Dio piacendo, all’unione mistica. Essa è tuttavia indescrivibile. Ruysbroeck rappresenta l’uomo come un plesso di tre unità: della creatura con Dio, delle facoltà superiori con l’anima e delle potenze inferiori col cuore. La Grazia riconduce le tre unità alle vette della prima, mediante la corrispondenza della volontà almeno nelle prime due. L’unione mistica invece suppone una passività umana che lascia la piena libertà all’azione di Dio, il Quale liberamente dona questa grazia, se vuole. Sviluppando un tema trattato contemporaneamente da Tauler, Giovanni, che si ispira al neoplatonismo dello Pseudo-Dionigi, la paragona alla restituzione all’esistenza essenziale, ossia all’unificazione con l’idea che Dio ha di noi nel Verbo. Lungi dal voler avviare una disputa essenzialista, Ruysbroeck ne fu tuttavia coinvolto da Giovanni Gerson, che nella generazione successiva gli attribuì intenti filosofici che non aveva mai avuto. La contemplazione per Ruysbroeck è una dotta ignoranza, una conoscenza che trascende il naturale. Nella Pietra Scintillante Ruysbroeck definisce illuminata l’ignoranza della contemplazione, quale specchio in cui magnificamente si riflette lo splendore eterno di Dio. La ragione nulla può su di esso e l’ignoranza è la luce di colui che contempla. Coloro che vivono l’esperienza dell’ignoranza della luce divina scoprono in sé come una solitudine devastata. L’ignoranza ultraluminosa è superiore alla ragione ma non le è estranea. Tutto contempla senza stupore, perché lo stupore è sopra di essa ma la contemplazione non lo conosce. Vi è al di sopra un abisso di ombra che viene scoperto, senza fondo, senza limiti, oltre le qualità, oltre i nomi umani e divini; è la morte, l’eccesso della trascendenza, lo svanire del sublime nell’Eterno Inesprimibile, la speranza della pace, sentita in noi e superiore ai mondi esterni. Sopra gli spiriti vi è la beatitudine, infinita ed immensa, il punto centrale dove tutto è uno, l’apice della possibilità della creatura, l’abisso della superessenza, in cui gli spiriti stessi, sia pure distinti gli uni dagli altri, sommersi da essa, sono visti dal nero occhio della contemplazione che scorge, nella notte del nembo, il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, Trinità di Persone e Unità di Sostanza, Essenza di pace eterna e semplice. Nello Specchio della Salute Eterna Ruysbroeck dice che l’anima è uno specchio eterno e vivente in Dio che da Lui riceve sempre la Generazione Eterna del Figlio, il Verbo della Trinità nel Quale Dio si conosce in quanto Natura e Persona. Questa immagine la possediamo tutti in quanto vita eterna e quindi prima di essere creati, nell’archetipo. Una volta creati diventa sovraessenza della nostra essenza e vita eterna. Perciò l’anima possiede tre proprietà connaturate: la nudità essenziale di immagini che ci fa simili al Padre, la ragione superiore che è chiara come specchio e ci fa ricevere il Figlio ossia la Verità Eterna, la scintilla dell’anima che tende naturalmente e profondamente alla sua origine, per cui là riceviamo lo Spirito Santo ossia l’amore di Dio. La nostra natura creata diviene immagine di Dio, ma ovviamente mai diviene Dio, perché l’immagine, che è il Verbo, viene ricevuta e non siamo noi a trasformarci in essa. GIOVANNI GERSON DOCTOR CHRISTIANISSIMUS Giovanni Charlier nacque a Gerson-les-Barby nel 1363, da una famiglia modesta e religiosa. Studiò a Reims e a Parigi conseguendo la licenza nelle Arti e poi intraprese gli studi teologici che concluse nel 1394. Fu discepolo di Pietro d’Ailly il quale, diventato vescovo di Le Puy, suggerì all’antipapa Benedetto XIII (1394-1423) – alla cui obbedienza apparteneva la Francia durante il Grande Scisma di Occidente – di eleggere Giovanni canonico di Notre Dame e cancelliere dell’Università di Parigi. Impegnato in tutte le controversie politiche e culturali dell’epoca, per la sua opposizione al progetto di una Chiesa gallicana indipendente dal Papato fu costretto a ritirarsi in Austria, dove scrisse il De Consolatione Theologiae, l’ultima grande opera del Medioevo latino. Partecipò al Concilio di Costanza (1414-1418) dove, dinanzi alla impossibilità di determinare chi fosse il vero Papa tra i tre contendenti, abbracciò il Conciliarismo. Nel 1419 tornò in Francia e si stabilì a Lione presso il fratello, monaco celestino, e vi rimase fino alla morte sopraggiunta nel 1429. Giovanni scrisse soprattutto a Lione, dove visse tranquillamente pregando, meditando e istruendo i bambini. Sono da ricordare il Centilogium septem sportarum, che raccoglie moltissimi suoi scritti, e tra essi il De Modis Significandi e il De Causa Finali, nonché il Tractatus super Cantica Canticorum, conclusa tre giorni prima di morire. Fu esegeta, canonista, filosofo, moralista, teologo dogmatico, oltre che persona di grande pietà, considerato dai contemporanei il massimo dottore della Chiesa dei suoi tempi. Contro i mali dei suoi tempi Giovanni Gerson propose un rinnovamento basato su una teologia intesa come annunzio del Vangelo e sprone al ritorno alle virtù sode dell’obbedienza, dell’umiltà e della penitenza. Mettendo da parte le dispute dottrinali, specie di tipo filosofico, Gerson propone la Volontà di Dio come unica vera risposta conclusiva di ogni interrogativo. L’imitazione di Cristo e la pratica delle virtù teologali conducono l’uomo al Cielo. Gerson fu un fautore dell’Immacolata Concezione della Vergine e conquistò la Sorbona a questa dottrina. Fu anche un devoto di San Giuseppe e approfondì la giosefologia, ossia la teologia relativa a questo Santo. Nel De Mystica Theologia, scritto nel 1408, Gerson lasciò anche un’orma profonda nel pensiero ascetico e mistico. Fondando la teologia mistica sull’esperienza interiore e sull’amore di Dio, Gerson la contrappose alla teologia speculativa basata sul raziocinio. Si rifece alla scuola agostiniano-bonaventuriana e al neoplatonismo di Dionigi l’Areopagita. Secondo Gerson, chi non ha fatto esperienza dell’amore di Dio non può capire questa teologia. Essa non è una operazione dell’intelletto o della volontà ma una adesione a Dio con tutto se stesso. E’ un amplesso spirituale, ineffabile ma spirituale; è un’arte, con le sue regole, che sono dodici: rivolgere l’attenzione alla chiamata di Dio, conoscere il proprio carattere, considerare il proprio ufficio, tendere alla perfezione, fuggire le occupazioni superflue, lasciar perdere la curiosità, diventare magnanimi, riconoscere l’origine delle passioni e degli affetti, cercare tempo e luogo adatti all’ascesi, non indulgere al sonno e al cibo, dedicarsi con silenzio a pie meditazioni, allontanare lo spirito da rappresentazioni mentali. Filosoficamente Gerson, che in teologia ebbe un progressivo sviluppo, rimase fedele sempre a Ockham. Il titolo della sua maggiore opera, il De Consolatione Theologiae, contrapposto al De Consolatione Philosophiae, segna la fine del pensiero scolastico, perché presuppone la separazione delle due discipline e l’emancipazione della teologia dal metodo scientifico classico. I MISTICI PRATICI E SANT’ANGELA DA FOLIGNO Sono tutte donne e di grandissima profondità spirituale, che peraltro non pone problemi dottrinali. La più grande tra loro è Caterina da Siena, ornata del Dottorato, ma anche Brigida di Svezia e Giuliana di Norwick possono aspirarvi. La prima di queste figure è Santa Angela da Foligno, nata nel 1248 e morta nel 1309. Aperti gli occhi sulle passioni umane e la loro natura ingannevole, si diede alla religione e vi espresse il suo ardore. Fondò una comunità francescana e dettò il Libro delle mirabili visioni e consolazioni, di grande scienza teologica e notevole altezza mistica, tanto da farle meritare il titolo di Maestra dei teologi. Al centro del suo insegnamento c’è la contemplazione del mistero di Cristo, vero Dio e vero Uomo. SANTA BRIGIDA DI SVEZIA Santa Brigida nacque nel 1303, a Finster, in Svezia, e morì nel 1373. Sposata per ventotto anni con Ulf, governatore di un importante distretto del regno di Svezia, ebbe otto figli, di cui la secondogenita, Karin (Caterina di Svezia [1331-1381]), è venerata come santa. Il re di Svezia, Magnus VII (1317-1374), la chiamò a corte per un certo periodo, con lo scopo di introdurre la sua giovane sposa, Bianca di Namur, nella cultura svedese. Brigida, guidata da un dotto religioso che la iniziò allo studio delle Scritture, esercitò un tale influsso sulla propria famiglia che essa divenne una vera chiesa domestica. Insieme con il marito, adottò la Regola dei Terziari francescani. Praticava con generosità opere di carità verso gli indigenti; fondò anche un ospedale. Accanto alla sua sposa, Ulf imparò a migliorare il suo carattere e a progredire nella vita cristiana. Al ritorno da un lungo pellegrinaggio a Santiago di Compostela, effettuato nel 1341 insieme ad altri membri della famiglia, gli sposi maturarono il progetto di vivere in continenza; ma poco tempo dopo, nella pace di un monastero in cui si era ritirato, Ulf concluse la sua vita terrena. Quando Brigida rimase vedova, rinunciò ad altre nozze per approfondire l’unione con il Signore attraverso la preghiera, la penitenza e le opere di carità. Dopo aver distribuito i propri beni ai poveri, pur senza accedere alla consacrazione religiosa, si stabilì presso il monastero cistercense di Alvastra. Qui ebbero inizio le rivelazioni divine, che l’accompagnarono per tutto il resto della sua vita. Esse furono dettate da Brigida ai suoi segretari-confessori, che le tradussero dallo svedese in latino e le raccolsero in un’edizione di otto libri, intitolati Revelationes. A questi libri si aggiunge un supplemento di Revelationes extravagantes. Nel 1349 Brigida lasciò la Svezia e si recò in pellegrinaggio a Roma. Intendeva prendere parte al Giubileo del 1350 e desiderava dal Papa l’approvazione della Regola di un Ordine religioso che intendeva fondare, intitolato al Santo Salvatore, e composto da monaci e monache sotto l’autorità dell’abbadessa. A Roma con la figlia Karin, Brigida si dedicò a una vita di apostolato e di orazione. Da Roma si mosse in pellegrinaggio in vari santuari italiani, in particolare ad Assisi. Finalmente, nel 1371, si recò in compagnia dei suoi figli spirituali in Terra Santa. Durante quegli anni, i Pontefici si trovavano ad Avignone, lontano da Roma: Brigida si rivolse accoratamente a loro, affinché facessero ritorno. Profetizzò la morte del Beato Urbano V (1362-1370) che, dopo essere rientrato a Roma convinto dalla Santa, volle tornare ad Avignone. Morì nel 1373, prima che il papa Gregorio XI (1370-1378) tornasse definitivamente a Roma. Fu sepolta provvisoriamente nella chiesa romana di San Lorenzo in Panisperna, ma nel 1374 i suoi figli Birger e Karin la riportarono in patria, nel monastero di Vadstena, sede dell’Ordine religioso fondato dalla Santa. Le Rivelazioni di santa Brigida presentano un contenuto e uno stile molto vari: dialoghi, nei quali anche Brigida interviene, fra le Persone Divine, la Vergine, i Santi e anche i demoni; visioni particolari; narrazioni di ciò che la Vergine Maria le rivelò circa la vita e i misteri del Figlio. Ritorna frequentemente la descrizione, con dettagli assai realistici, della Passione di Cristo, verso la quale Brigida ebbe sempre una devozione privilegiata, contemplando in essa l’amore infinito di Dio per gli uomini. “O miei amici – le disse il Signore - Io amo così teneramente le mie pecore che, se fosse possibile, vorrei morire tante altre volte, per ciascuna di esse, di quella stessa morte che ho sofferto per la redenzione di tutte”. Anche la dolorosa Maternità di Maria, che la rese Mediatrice e Madre di misericordia, è un argomento che ricorre nelle Rivelazioni. Brigida era consapevole di essere destinataria di un dono di predilezione da parte del Signore. Proprio per questo motivo, molte rivelazioni erano rivolte, in forma di ammonimenti anche severi, ai fedeli laici ed ecclesiastici, ai sovrani e ai prelati, ma sempre con un atteggiamento di rispetto e di fedeltà piena al Magistero della Chiesa, in particolare al Papa. SANTA GIULIANA DI NORWICK Giuliana, il cui nome forse deriva semplicemente dal fatto che la sua cella era addossata al muro della Chiesa di San Giuliano a Norwich, probabilmente nacque nel 1342 da nobile famiglia e morì intorno al 1416. Giuliana ebbe sapienza e profonda cultura teologica. Quando aveva trent’anni e viveva ancora a casa, Giuliana si ammalò gravemente. Dopo che il sacerdote, accorso al suo capezzale, le mostrò il Crocifisso, il 13 maggio 1373 Giuliana non solo riacquistò prontamente la salute, ma ricevette quelle sedici rivelazioni che successivamente riportò per iscritto e commentò nel suo libro, le Rivelazioni dell’Amore divino, in una versione chiamata Testo Breve. Fu primo libro conosciuto scritto in inglese da una donna. Forse intorno al 1390, Giuliana iniziò a scrivere una riflessione sulle visioni, il Testo Lungo. Ispirata dall’amore divino, Giuliana scelse di vivere all’interno di una cella, come dicevo collocata in prossimità della chiesa intitolata a san Giuliano, dentro la città di Norwich. Ma non fu la sola a compiere tale scelta: in quei secoli un numero considerevole di donne optò per questo genere di vita, adottando delle regole apposite elaborate per esse, come quella di sant’Aelredo di Rievaulx. Le anacorete o “recluse”, all’interno della loro cella, si dedicavano alla preghiera, alla meditazione e allo studio. In tal modo, maturavano una sensibilità finissima, che le rendeva venerate dalla gente. Uomini e donne di ogni età e condizione, bisognosi di consigli e di conforto, le ricercavano devotamente. Ecco perché, quando Giuliana era viva, era chiamata Madre. Era divenuta una madre per molti. La Santa sarebbe diventata un'eremita essendo ancora nubile, oppure dopo aver perso i familiari a causa di un'epidemia. Si discute se Giuliana fosse una religiosa del vicino convento oppure una laica. Giuliana divenne molto conosciuta in tutta l'Inghilterra come guida spirituale. Il vescovo e cardinale benedettino di Norwich Adam Easton (1328/38-1397), fu il direttore spirituale di Giuliana e l'editore del Testo Lungo delle sue rivelazioni. Il direttore spirituale di Brigida di Svezia, il vescovo eremita di Jaén, Alfonso Pecha (1330-1389), curò un'edizione in spagnolo delle Rivelazioni. Il confessore di Caterina da Siena era William Flete (†1380), un eremita agostiniano che si era formato a Cambridge. La Difesa di Santa Brigida di Easton riecheggia l'Epistola Solitarii di Alfonso di Jaén e i Rimedi contro le tentazioni di William Flete, e questi testi fanno tutti riferimento alle rivelazioni di Giuliana. La Santa morì intorno al 1430. Le Rivelazioni dell’Amore divino contengono un messaggio di ottimismo fondato sulla certezza di essere amati da Dio e di essere protetti dalla sua Provvidenza. Il tema dell’amore divino ritorna spesso nelle visioni di Giuliana che non esita a paragonarlo anche all’amore materno. È questo uno dei messaggi più caratteristici della sua teologia mistica. La tenerezza, la sollecitudine e la dolcezza della bontà di Dio verso di noi sono così grandi che evocano l’amore di una madre per i propri figli. SANTA CATERINA DA SIENA, DOTTORE DELLA CHIESA Nacque a Siena nel 1347 dalla famiglia Benincasa. Il padre era tintore. A sette anni ebbe la visione di Cristo accompagnato da alcuni Santi che la determinò ad un precoce voto di castità. Dopo aspre lotte in famiglia entrò tra le mantellate domenicane nel 1363. Conobbe la letteratura ascetica dei Predicatori e abbracciò una vita ad un tempo contemplativa ed attiva. La santità straordinaria della sua vita accrebbe la sua fama e la sua influenza spirituale. Nel 1370 una visione impose alla Santa di darsi all’impegno pubblico, patrocinando il ritorno del Papa a Roma, la riforma della Chiesa e la Crociata. Dopo un attento esame della sua persona nel 1374, Caterina fu incaricata dal suo Ordine di lavorare per la Crociata ed altre opere di bene. Nel 1375 ricevette le Stigmate. Fu richiesta di mediare tra Firenze e il Papato nella Guerra del 1376. Recatasi ad Avignone, sebbene non riuscisse nella missione diplomatica, persuase Gregorio XI a tornare a Roma, nel 1378. Il Papa la inviò a Firenze per proseguire la pacificazione, ma invano e a rischio della sua stessa vita nello stesso anno. Fu chiamata a Roma al momento dell’inizio del Grande Scisma di Occidente, si adoperò per Urbano VI (1378-1389) e morì nella capitale nel 1380, invocando il Sangue di Cristo su tutta l’umanità. Il Beato Paolo VI (1963-1978) la proclamò Dottore della Chiesa. Fu animatrice di un circolo di discepoli di tutti gli Ordini e di tutte le condizioni, solito riunirsi a Fontebranda. Dettò, perché analfabeta, trecentottantadue Lettere ai suoi direttori spirituali, ai suoi discepoli, ai Papi, ai sovrani e ai reggitori di repubbliche, a condottieri, donne importanti, eremiti, operai e persino prostitute. Il filo conduttore delle missive è la devozione al Sangue di Cristo, salute dell’umanità. I grandi temi mistici, sviluppati secondo la tradizione patristica e biblica, in uno stile ricco di immagini e in un discorrere pieno di senso pratico, materiano di sé queste lettere, scritte in volgare senese e animate da un fuoco avvampante. In tal modo esse sono un capolavoro della letteratura italiana e della mistica cristiana. Il Dialogo della Divina Provvidenza, dettato nel 1378 a Siena prima di recarsi a Roma, è la sintesi dell’insegnamento cateriniano. In esso parla Dio che risponde ai problemi posti dalla Santa. In essa luci misteriose illuminano l’esperienza mistica di Caterina, per comunicare alle anime come ascendere alle vette della suprema carità. La dettatura fu fatta in estasi. Le copie più antiche non hanno divisione in trattati e capitoli. Dopo le Comunioni, Caterina in estasi pronunziava stupende preghiere che i discepoli trascrissero, riuscendo però a cogliere solo quelle dell’ultima parte della sua vita. Sono vibranti del contatto con Dio, incandescenti di un fuoco che trascina ed eleva, transumanando ogni cosa. Theorèin - Ottobre 2017 |