LA TEOLOGIA CRISTIANA

A cura di: Vito Sibilio
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NOVISSIMA MEDIAEVALIA

Breve introduzione ai Dottori del Tardo Medioevo

Nei secoli XIV-XV non vi sono grandi filosofi e soprattutto non vi sono grandi teologi: tre sono gli aspiranti al Dottorato della Chiesa: Lorenzo Giustiniani, Antonino da Firenze e Bernardino da Siena. Tuttavia non mancano correnti, scuole e personalità degne di essere menzionate, le quali hanno conservato vive le radici della Tradizione cristiana nel tempo in questione. Esamineremo la devotio moderna e le scuole scolastiche: quella occamista, quella tomista, la scotista, l’albertina. Sono scuole non prive di vitalità ma senz’altro di autentica originalità, peraltro riconoscibili, come la Scolastica del Trecento, per la scarsa presenza di dotti elevati agli onori degli altari: segno evidente di decadenza. Con queste correnti si chiude realmente e definitivamente il Medioevo, sia scolastico che antiscolastico. Esse sono coeve all’Umanesimo e al Rinascimento, ma sarà solo la Controriforma a porre fine alla tradizione specifica del Medioevo latino, creando una nuova teologia e una nuova Scolastica.

LA DEVOTIO MODERNA E GERARDO MAGNO

La devotio moderna, nata alla fine del XIV secolo nei Paesi Bassi e diffusasi in Germania nell’arco del XV, fu un movimento spirituale che privilegiò l’esperienza concreta nella pratica della virtù, la spiritualità vissuta, l’impulso alle forze affettive, l’iniziazione all’autocontrollo; ripudiò altresì ogni aspetto speculativo e teorico, sia della Scolastica in decadenza che della mistica eckhartiana. Fu chiamata così dal Venerabile Tommaso da Kempis, di cui diremo tra breve, e da Giovanni Busch (1399-1479). Essa si collocò nell’ambito del rinnovamento spirituale del Tardo Medioevo che preluse anche alla Riforma, sia cattolica che protestante. Fece il paio con la trasformazione e la dissoluzione della Scolastica causata da Ockham. Si inserì nel quadro della rinascita culturale causato dall’Umanesimo. Si trattò tuttavia di un movimento spirituale che in origine si avvicinò più alla mistica e all’ascetica che alla teologia speculativa; solo in un secondo momento vi fu un’alleanza di scopo tra la devotio moderna e la via moderna, a partire dalla seconda metà del Quattrocento e da alcune università tedesche. Infatti la tendenza all’empirismo di entrambe le modernitates fece sì che i devoti mettessero da parte ogni forma di teologia – reagendo così alle storture della Scolastica ma anche impoverendo la vita interiore ed inaugurando una linea di divaricazione tra pietà e studio che dura tutt’ora ed è una caratteristica negativa della Chiesa Occidentale – e che i nominalisti abbracciassero questa forma di devozione.

Questa devotio moderna è stata considerata erroneamente una forma di umanesimo cristiano, distinta da quello italiano, che sarebbe paganeggiante. In realtà, a parte che l’umanesimo italiano ebbe una forte caratura religiosa, la devotio moderna non fu umanistica perché, a differenza dei cultori delle humanae litterae i quali perseguivano l’integrazione tra religiosità e cultura, non cercavano un connubio tra pietà e ragione, tra devozione e speculazione, né erano interessati all’armonia tra la Bibbia e la letteratura profana. I devoti moderni cercavano la riforma dei costumi e si accontentavano di una istruzione alla buona, per cui erano più simili agli antidialettici dell’XI sec. che agli Umanisti, coi quali spartiscono soprattutto il tempo e molto meno lo spirito. Anche quando, come dicevamo, essa si mescolò alla via moderna di Ockham nelle università, peraltro emarginando l’elemento laico che fino a quel momento era stato predominante nel movimento, la devotio moderna realizzò un connubio con gli ultimi scampoli della Scolastica, appunto quella occamista, e non con la cultura letteraria dei suoi tempi.

Il padre del movimento fu Gerardo Groote, chiamato il Grande dai suoi devoti. Nacque a Deventer nel 1340 da nobile e ricca famiglia. Perse i genitori per la peste nel 1350. Nel 1358 divenne magister artium a Parigi. Studiò diritto, teologia e medicina, conducendo una vita dissipata tra i piaceri dell’anima e del corpo. Compì missioni diplomatiche a Praga, Colonia, Avignone ed Aquisgrana; cercò e ottenne diversi benefici ecclesiastici. Quando però conobbe il pensiero di Giovanni da Ruysbroeck e frequentò Enrico di Kalkar (1328-1408), si convertì e divenne certosino ad Arnheim, sia pure senza emettere i voti, vivendo in meditazione e preghiera ed elaborando le linee della sua nuova devozione. Essa doveva mettere insieme vita attiva e contemplativa, santificazione personale e servizio del prossimo. Raccolse questi principi nelle Decisioni e Propositi; lasciata poi la comunità certosina, tornò a Deventer dove fondò due famiglie religiose, i Fratelli e le Sorelle della Vita Comune, ai quali inculcò il suo spirito. Donò alle Sorelle la sua casa natale e ammise tra esse, quali prime discepole, quelle donne che volevano darsi tutte a Dio sostentandosi col proprio lavoro. Gerardo diede loro una regola che le tutelasse dal beghinismo e in genere dall’accusa e dal rischio dell’eresia e le affidò ad una maestra. Presso la casa di Fiorenzo Radewijns (1350-1400) il Groote fondò il primo nucleo dei Fratelli della Vita Comune, ai quali avrebbe voluto dare una regola di tipo agostiniano, senza però riuscirci prima della morte. Gerardo fu ordinato diacono nel 1379 e si diede alla predicazione e alla diffusione dei suoi principi spirituali nella città e nei dintorni. All’inizio fu sostenuto dall’Arcivescovo di Utrecht Enrico di Wewelinghowen. Gerardo nel suo ministero si scagliò con forza contro la corruzione dei tempi, il malcostume del clero e l’immoralità della vita pubblica; condannò la devozione puramente esteriore e la decadenza degli Ordini religiosi. Patrocinando una forma di vita comunitaria che rigettasse anche la questua, Gerardo si inimicò anche i Mendicanti, oltre a coloro che aveva già fustigato con la sua parola, e si vide interdetta la predicazione dal suo Arcivescovo, non direttamente, ma attraverso una deliberazione sinodale che proibiva quella pratica ai diaconi. Rivoltosi ad Urbano VI (1378-1389) per avere il privilegio personale di predicazione, morì di peste prima che il Papa gli rendesse giustizia. Il movimento dei Fratelli e delle Sorelle della Vita Comune gli sopravvisse e si ramificò ampiamente: non solo le case degli uni e delle altre si moltiplicarono come quelle di un moderno Istituto Secolare o di una contemporanea Società di Vita Apostolica, ma al suo spirito si ispirarono i Canonici agostiniani di Windesheim, fondati appositamente perché tra le sue fila entrassero quei Fratelli della Vita Comune che bramavano la vita religiosa. Contando su queste forme di vita, il movimento si espanse in tutta la Germania e nel resto d’Europa.

I principi di Gerardo nella vita dello spirito sono i seguenti. Innanzitutto il carattere secolare di essa, in quanto i suoi adepti, sia Fratelli che Sorelle che Canonici, volevano stare in mezzo alla società sia pure con un profondo spirito ascetico e un sovrano distacco. Indi l’aspetto cristocentrico della devozione, in quanto essa medita e segue l’esempio del Cristo, in particolare di quello sofferente e Crocifisso. Ancora, la tendenza all’intimismo e all’individualismo, che privilegiano l’unione dell’anima con Dio rispetto alle pratiche esteriori e che la considerano fondamentale anche più della liturgia, onde evitarne una ritualizzazione. Le funzioni diventano più semplici e meno numerose. Le tecniche della preghiera personale si perfezionano e conducono facilmente all’orazione mentale. Infine, la stretta connessione tra lavoro e preghiera. L’educazione dei giovani, al di fuori delle scuole mediante lezioni catechistiche, e la trascrizione dei testi furono le attività privilegiate dei Fratelli e delle Sorelle, che si specializzarono in antologie bibliche e spirituali, dette rapiaria e collectaria. Specie questa ultima attività permetteva ai Fratelli e alle Sorelle di unire tre cose: la lettura pia, la vita ritirata e la diffusione della fede e della cultura cristiane.

Con questo stile di vita, le possibilità concrete per i Fratelli e le Sorelle di svolgere apostolato erano poche. Del resto, i Fratelli della prima generazione non ambivano al sacerdozio per umiltà. Ragion per cui la Vita Comune permetteva soprattutto di dedicarsi alla salvezza di sé stessi, dando agli altri esempio, sostegno e preghiere. Lavoro, lettura della Bibbia, meditazione e preghiera riempivano le giornate dei Fratelli e delle Sorelle. Correzione fraterna ed esame di coscienza comunitario cementavano la vita comune. Molti si diedero una regola di vita personale e tennero diari spirituali, oltre ad una fitta corrispondenza per la conversione degli altri. Grazie alle loro attività educative informali, i Fratelli e le Sorelle facevano proseliti, accogliendo nelle loro case chi aveva propensione per la vita consacrata e mantenendo in dimore fidate tutte le altre vocazioni. Nelle case della Vita Comune si tenevano riunioni spirituali e i consacrati sacerdoti si mettevano a disposizione per le confessioni.

Il successore di Fiorenzo nel governo di Deventer, Emilio di Buren, ottenne da Bonifacio IX (1389-1404) l’approvazione della vita confraternale. Dopo Deventer, spontaneamente si formarono altre Case in altre città. Sotto il rettorato di Dirc di Hexen (1381-1457) a Zwolle iniziarono in questa città i capitoli generali. Come dicevamo, la Congregazione di Windesheim si imbevve dello spirito della Vita Comune e segnò l’inizio dell’espansione di questa spiritualità nel mondo religioso propriamente detto. Windesheim fondò altre Case, riunite in una Congregazione apposita, fondata nel 1395 e il cui capo era un Priore Superiore. Nel 1407 aveva dodici fondazioni, nel 1500 ottantasette, tutte rigorosamente contemplative. Questa Congregazione ricevette l’incarico di riformare i monasteri agostiniani tedeschi. Un ruolo importante svolse in questa impresa il summenzionato Giovanni Busch, visitatore apostolico dei conventi sassoni e turingi per volontà del legato pontificio, Niccolò Cusano. Windesheim fu quindi l’epicentro del movimento conventuale moderno dei Paesi Bassi, che si irradiò anche in Germania. Qui però non mancarono imitazioni spontanee: Enrico di Ahaus (†1439) fondò una Congregazione di Vita Comune tutta tedesca, anche se affratellata con quella olandese.

La Vita Comune non ha prodotto grandi teologi, ma buoni scrittori spirituali, che oltre ad usare i mezzi sovraindicati e a magnificare, in apposite biografie, le gesta dei Fondatori, ebbero a modelli e maestri Agostino, Gregorio Magno, Dionigi l’Areopagita, Giovanni Cassiano, Bernardo di Chiaravalle, Bonaventura ed Enrico Suso. Gerardo, Fiorenzo e Dirc furono buoni autori, ma il maggiore uscito dalle loro fila fu Gerardo di Zutphen (†1398). Tra i canonici emersero Giovanni Vos (†1424), Hendrik Mande (†1431) e Gerlach Peters (†1411). Ma il maggiore fu Tommaso da Kempis, come vedremo tra breve.

L’IMITAZIONE DI CRISTO

E’ il capolavoro della devotio moderna e il libro più letto al mondo dopo la Bibbia. Se si potesse attribuirlo sicuramente a qualcuno, costui sarebbe già dottore della Chiesa. Lo si attribuisce solitamente al Venerabile Tommaso da Kempis. Questi nacque a Kempen vicino Colonia nel 1380 e nel 1392 si recò a studiare a Deventer presso Fiorenzo Radewijns, che lo formò alla devotio moderna. Canonico regolare a St. Agnietenberg dal 1406, divenne sacerdote nel 1413. Nel 1429 fu eletto vice priore e nel 1448 divenne priore. Morì nel 1471. Scrisse sermoni, lettere, opuscoli ascetici e mistici, la Vita di Gerardo il Grande e, forse, l’Imitatio Christi, in quanto egli vi appone una glossa in cui dichiara di esserne il solo amanuense. Il problema è che prima di Tommaso, nessuno sembra aver mai trascritto questo testo, per cui, nella peggiore delle ipotesi, egli dovette rivederlo, mentre nella migliore ne fu l’autore e per umiltà si presentò quale copista solo perché il pensiero in esso contenuto non è suo ma della Tradizione della Chiesa. Un’altra possibile attribuzione è quella a Giovanni Gersen (nato nel 1243) nel XIII sec., tuttavia a me, oggi – non in precedenti pubblicazioni !- essa appare meno convincente.

L’Imitazione di Cristo veicola una spiritualità ascetica di matrice monastica, ma adatta a tutti con le opportune modifiche, poco teorica e molto pratica. Mi sembra giusto proporne una piccola sintesi.

Il testo è in quattro libri. Il Primo è intitolato “Incominciano le esortazioni utili alla vita dello spirito”. Articolato in venticinque brevi capitoli, pone all'attenzione del lettore un crescendo di istanze spirituali. La prima è la necessità dell'Imitazione di Cristo per progredire interiormente e il connesso disprezzo di tutte le vanità del mondo. Segue l'umile conoscenza di se stessi, che sola permette di ricevere l'ammaestramento della Verità e, in conseguenza, l'esercizio della ponderatezza dell'agire. Consiglia poi la lettura dei libri di devozione. Mette in guardia dagli sregolati moti dell'anima, invita a guardarsi da speranze vane e a fuggire la superbia. Esorta ad evitare l'eccessiva familiarità con chiunque, specie le donne per i sacri ministri, inculca l'obbedienza e la sottomissione, mette in guardia dai discorsi inutili e afferma che la conquista della pace interiore è legata all'amore del progresso spirituale. Sottolinea i vantaggi delle avversità ed esorta a resistere alle tentazioni; ammonisce contro i giudizi temerari e valorizza le opere fatte per amore. Insegna a sopportare i difetti altrui e spiega come dev'essere la vita nei monasteri. Adduce in tal senso gli esempi dei grandi Padri ed enuncia come si deve addestrare chi si è dato a Dio. Inculca l'amore della solitudine e del silenzio. Spinge alla compunzione del cuore, esorta alla meditazione della miseria umana e poi della morte. Fa porre mente al giudizio divino e alla punizione dei peccatori. Esorta quindi infine a correggere fervorosamente tutta la nostra vita.

Il Secondo libro ha per titolo “Incominciano le esortazioni che ci introducono all'interiorità”. Consta di dodici capitoli. Il primo di essi, che ovviamente prosegue il percorso del libro precedente, esorta al raccoglimento interiore. Indi all'umile sottomissione. Delinea il profilo di colui che ama il bene e la pace. Spiega cosa sia la libertà di spirito e come di conseguenza avere semplicità di intenzione. Enuncia l'importanza dell'attento esame di se stessi. Mostra la gioia di una coscienza retta. Mette l'amore di Gesù sopra ogni cosa. Spiega come si debba avere intima amicizia con Gesù. Enuncia come e perché non si debba temere la mancanza di ogni conforto umano. Esorta alla gratitudine per la Grazia divina. Spiega perché sia scarso il numero di coloro che amano la Croce di Gesù, mostrando perché invece essa sia la via maestra dell'interiorità.

Il Terzo libro si intitola “Incomincia il libro della Consolazione interiore”. I capitoli sono cinquantanove. Esso mostra come Cristo parli interiormente all'anima fedele, come la Verità si faccia sentire dentro di noi senza altisonanti parole, come si debba dare umile ascolto alla Parola di Dio, che non tutti meditano a dovere. Fornisce a tale scopo una Preghiera per chiedere la Grazia della devozione. Prosegue esortando a mantenersi intimamente uniti a Dio in spirito di verità e umiltà. Enuncia i mirabili effetti dell'amore verso Dio. Spiega come dia prova di avere un vero amore chi lo possiede realmente. Invita a proteggere la Grazia sotto la salvaguardia dell'umiltà. Esorta ad avere bassa opinione di sé innanzi a Dio e a riferire tutto a Lui come fine ultimo. Mostra come sia dolce cosa abbandonare il mondo e servire Dio. Invita a vagliare e a frenare i desideri del cuore. Imposta l'importanza dell'educazione a patire e della lotta contro la concupiscenza. Insegna a mettersi al di sotto di tutti in umile obbedienza secondo l'esempio di Gesù e a pensare all'occulto giudizio di Dio per non insuperbirci nel bene. Spiega come comportarci e che cosa dire di fronte a ogni nostro desiderio, dando una Preghiera perché riusciamo a compiere la volontà di Dio. Ammonisce a cercare solo in Dio la vera consolazione ed esorta ad affidarGli stabilmente la cura di noi stessi; invita a sopportare serenamente le miserie di questo mondo sull'esempio di Cristo e mostra come debba essere la capacità di sopportare le offese e la vera pazienza provata. Invita a riconoscere la propria debolezza e la miseria di questa nostra vita, nonché a trovare in Dio, sopra ogni bene e dono, la nostra pace, riconoscendo i Suoi molti e vari benefici. Enuncia le quattro cose che recano una vera grande pace e fornisce Preghiere contro i pensieri malvagi e per ottenere lume all'intelletto. Esorta poi a guardarsi dall'indagare curiosamente la vita altrui. Spiega in che cosa consista la stabilità della pace interiore e l'amore del progresso spirituale, nonché l'eccelsa libertà dello spirito, frutto dell'umile preghiera più che dello studio. Ammonisce che l'amore di se stesso distoglie massimamente dal Sommo Bene, fornendo una preghiera per ottenere la purificazione del cuore e la celeste sapienza. Prende posizione contro le linguacce denigratrici. Insegna ad invocare e a benedire Dio nelle tribolazioni; a chiedere il Suo aiuto, nella fiducia di ricevere la Sua Grazia; ad abbandonare ogni creatura, per trovare Dio; a rinnegare se stessi e a rinunciare ad ogni desiderio; a porre l'intenzione ultima sempre in Dio, a dispetto dell'instabilità del cuore. Spiega che chi è ricco d'amore gusta Dio in tutto e sopra tutto. Ricorda che in questa vita non vi è certezza di andare esenti da tentazioni. Mette in guardia dai vuoti giudizi umani. Insegna che per avere libertà di spirito bisogna rinunciare assolutamente e totalmente a se stessi. Inculca il buon governo di sé nelle cose esterne e il ricorso a Dio nei pericoli. Insegna a non avere nessun affanno nel nostro agire. Ricorda che non abbiamo nulla di buono in noi stessi e di cui vantarci. Esorta al disprezzo di ogni onore di questo mondo e a non porre la nostra pace nell'uomo; prende posizione contro l'inutile scienza di questo mondo e insegna a non attaccarci a cose esteriori; invita a non fare affidamento su alcuno, perché le parole facilmente ingannano; ad affidarsi a Dio quando spuntano parole che feriscono; a sopportare ogni cosa gravosa per conseguire la salvezza eterna. Paragona quest'ultima alle angustie della vita presente. Parla del desiderio della vita eterna e dei beni promessi a chi lotta. Insegna che chi è nella desolazione deve mettersi nelle mani di Dio. Ammonisce a dedicarsi a cose più umili quando si viene meno in quelle più alte; a non credersi degni di consolazione quanto di castighi; a tenere a mente che la Grazia non si confonde con ciò che ha sapore di terreno. Contrappone gli opposti impulsi della natura e della Grazia; mostra la corruzione della natura e la potenza della Grazia. Invita a rinnegare se stessi e a imitare Cristo nella Croce. Insegna a non abbatterci eccessivamente quando si cade in qualche mancanza. Ammonisce dal non cercare di conoscere le superiori cose del Cielo e gli occulti giudizi di Dio. Insegna infine a porre ogni speranza e fiducia in Dio.

Il Quarto libro, intitolato “Incominciano i consigli devoti per la Santa Comunione”, è formato da diciotto capitoli. Esso introduce a una pratica salutare del Sacramento eucaristico. Ogni capitolo è sotto la forma di un colloquio tra il discepolo e Cristo. Si inizia da alcune parole di Gesù. Spiega con quanta venerazione si debba accogliere Cristo. Mostra come nel Sacramento si manifestino all'uomo la grande bontà e l'amore di Dio. Spiega l'utilità della Comunione frequente ed enuncia i molti benefici concessi a chi si comunica devotamente. Fa considerazioni sulla grandezza del Sacramento e sulla condizione del Sacerdote. Fornisce una invocazione per prepararsi alla Comunione. Spiega l'importanza dell'esame di coscienza e del proposito di correggersi. Rammenta l'offerta di Cristo sulla Croce e vi collega la donazione di se stessi. Esorta ad offrire noi stessi a Dio con tutto quello che è in noi, pregando per tutti. Ammonisce a non tralasciare la Comunione a cuor leggero, perché il Corpo di Cristo e la Scrittura sono necessari all'anima devota. Ricorda che colui che si appresta a comunicarsi si deve preparare con scrupolosa diligenza. Insegna che nel Sacramento l'anima devota deve tendere con tutta se stessa all'unione con Cristo. Mostra l'ardente brama del Corpo di Cristo in alcuni devoti. Addita l'umiltà e il rinnegamento di sé come mezzi per ottenere la Grazia della devozione. Invita a manifestare a Cristo le nostre manchevolezze e a chiedere la Sua Grazia. Parla di come debba essere ardente l'amore e intenso il desiderio di ricevere Cristo. Chiude ammonendo l'uomo, perché non indaghi con animo curioso intorno al Sacramento e si faccia umile imitatore di Cristo e sottometta i suoi sensi alla Fede.

SAN LORENZO GIUSTINIANI

Non appartenne a nessuna scuola. Nacque nel 1381 a Venezia e fu canonico regolare di San Giorgio in Alga. Di austera vita, fu Priore generale e riformatore della sua congregazione. Nel 1433 fu Vescovo e poi primo Patriarca di Venezia nel 1451. Morì nel 1455. Instancabile nell’opera di riforma e di santificazione, scrisse diversi trattati ascetici: il De Complanctu Christianae Perfectionis, il De Vita Solitaria, il De Contemptu Mundi, il De Humilitate, il De Oboedientia e il De gradibus perfectionis.

I DOTTORI AGOSTINIANI

Esaurita la trattazione della devotio moderna, passiamo alle scuole teologiche, cominciando dalla più antica. Nel XIV secolo, riemersa dalle nebbie del tempo la questione della predestinazione, che gli occamisti interpretavano in senso pelagiano, la scuola agostiniana riprese vita attingendo all’altissimo magistero dell’Ipponense in materia e contrastando gli errori incipienti. Thomas Bradwardine (1290-1358) e il Beato Gregorio da Rimini (1300-1358) incarnarono al meglio questo indirizzo di pensiero. Bradwardine, detto il Dottor Profondo, combattè la concezione per cui, sia pure per generosità divina (de congruo) l’uomo ottenesse la giustificazione ex puris naturalibus, ossia per propria capacità. Gregorio da Rimini insegnò che sia la predestinazione avveniva prima dei meriti previsti, sia la riprovazione avveniva prima dei demeriti previsti. Johan Von Staupitz (1468-1520), decano della Facoltà di Wittenberg e conosciuto da Martin Lutero, negò categoricamente che la predestinazione presupponesse o richiedesse la predestinazione umana. Vocazione e conversione precedono il mutamento del cuore umano. Dapprima vi è la predestinazione, poi la giustificazione, alla fine la glorificazione. Le opere buone accompagnano e seguono. I segni della carità sono infatti anche segni della predestinazione. Dicendo questo però Staupitz contraddiceva l’Ecclesiaste 9,1 e la Scolastica, che concordavano nell’affermare che nessuno può sapere con certezza se merita l’amore o l’odio di Dio. Colpisce in questa disputa, che trapassò nella Riforma, che nessuno si sia rammentato dei Concili di Orange e di San Cesario di Arles, i quali prima di tutti avevano immunizzato la Chiesa dagli eccessi di agostinismo e a cui avrebbero guardato i Padri del Concilio di Trento.

I DOTTORI ALBERTINI

Nella lotta tra nominalisti e realisti riattizzata dagli occamisti, alcuni docenti parigini riscoprirono in Sant’Alberto elementi tali da arginare l’invadenza dei primi. Il movimento si diffuse in Europa da Colonia, dove la memoria del Dottore non era mai stata dimenticata. Il primo grande maestro albertino fu Giovanni di Maisonneuve, che insegnò a Parigi tra il 1410 e il 1411. Eimerico di Campo (†1460) nel 1423 giunse a Colonia da Parigi e sostenne le posizioni albertine contro quelle tomiste in svariate questioni controverse tra i due Dottori. Se a Colonia si fondarono due collegi domenicani, uno tomista e uno albertino, Cracovia divenne una riserva di caccia esclusiva della Scuola di Alberto Magno.

I DOTTORI TOMISTI

Ancora in lotta per la sua affermazione, questa volta in tale scorcio di Medioevo contro gli occamisti, il tomismo assurse a maggior gloria quando, alla fine del Quattrocento, la Somma Teologica prese il posto delle Sentenze di Pietro Lombardo nell’insegnamento teologico universitario. La cittadella tomista fu Colonia – che pure ospitava un fiorente partito albertino – e anche Parigi, dopo il dominio di Nicola di Autrecourt, Giovanni Buridano e Pietro d’Ailly, fu espugnata dai seguaci del Dottore Angelico, capitanati da Giovanni Capreolo, maestro dal 1407 nella capitale francese e detto Principe dei Tomisti. Tolosa e Salamanca divennero altri fortilizi del tomismo e la sede spagnola scelse Tommaso come unico filosofo di riferimento sin dal momento della sua fondazione nel 1381. Da Salamanca sarebbe partita la riscossa controriformista della Seconda Scolastica. Al seguito di Tommaso nei secoli di cui parliamo ci furono i grandi commentatori come Capreolo, Silvestri e il Gaetano e i grandi divulgatori come San Vincenzo Ferreri, Sant’Antonino da Firenze, Tommaso da Torquemada e il Beato Dionigi il Certosino. Proprio il trittico costituito dal genio di Tommaso, dall’originalità dei suoi commentatori e dalla grandezza di alcuni suoi divulgatori fece si che l’Aquinate rimanesse sempre il più grande filosofo e teologo della Cristianità.

San Vincenzo Ferreri nacque a Valenza nel 1350, nel 1368 divenne domenicano e studiò logica a Valencia e filosofia a Barcellona, dove dal 1372 al 1374 compì gli studi teologici. Poi per un biennio insegnò nella stessa città la medesima disciplina. Nel 1376 si perfezionò a Tolosa nella teologia tomista e nel 1379 divenne maestro reggente della scuola teologica della Cattedrale di Valencia. Nel 1398 abbandonò l’insegnamento perché dovette dedicarsi alla predicazione quale incaricato generale dell’Ordine. Nel Grande Scisma si era schierato per Clemente VII (1378-1394) e compì molte missioni diplomatiche per lui. Morì nel 1419 a Vannes in Francia.

Vincenzo Ferreri compose il De suppositionibus dialecticis e la Quaestio solemnis de unitate universalis, contro il nominalismo occamista. Scrisse il trattato De Vita Spirituali, che costituisce il suo capolavoro ascetico. Compose i Sermones de Tempore et de Sanctis, Per totum annum, Hyemales et Aestivales. Il Ferreri cercava la verità nella Bibbia e nei Padri, nella piena sottomissione al Magistero. Usava le categorie teologiche e filosofiche di Tommaso, così da esserne uno dei massimi divulgatori.

Giovanni di Torquemada nacque nel 1398 a Valladolid e divenne domenicano nel 1403 circa. Divenne maestro di teologia a Parigi nel 1424 e nel 1431 Eugenio IV (1431-1447) lo volle Maestro del Sacro Palazzo. Si schierò per il Papa nel Concilio di Basilea (1432-1437) e vi sostenne la dottrina dell’Immacolata Concezione. Nel 1439 Eugenio IV lo creò cardinale e lo inviò in missione in Spagna, Italia, Ungheria e Inghilterra. Si impegnò nella causa unionista del Concilio di Ferrara-Firenze-Roma (1437-1445). Morì a Roma nel 1468.

Scrisse tra le altre cose Summa de Ecclesia, Tractatus de Sacramento Eucharestiae, Tractatus de Veritate Conceptionis Beatissimae Virginis, Tractatus contra Madianitas et Ismaelitas, Oratio synodalis de Primatu. Il Torquemada aveva una erudizione patristica eccezionale che spesso esprimeva attraverso il sistema della catena – ossia delle citazioni seriali su un medesimo argomento – una intelligenza acuta e una mentalità fortemente scolastica. Fu uno dei primi a scrivere un trattato di ecclesiologia, la Summa, in cui il tema è trattato sia giuridicamente che teologicamente. In quattro libri tratta della natura della Chiesa, del Primato del Papa, dei Concili, dello scisma e dell’eresia. La Chiesa è per Torquemada l’universalità dei fedeli che concorda nel culto e nella professione di fede verso l’Unico Vero Dio; ha come causa efficiente principale il Cristo e come causa efficiente strumentale i Sacramenti, come causa materiale i fedeli, come causa finale la partecipazione alla gloria e come causa formale l’unità con Cristo stesso nella fede. La Chiesa è una e quindi ha bisogno di un solo Capo Visibile; è cattolica sia per la fede – che è sia esplicita che implicita in Cristo e quindi comprendente il Vecchio e il Nuovo Testamento – sia per l’estensione; è apostolica perché mantiene sempre la medesima dottrina dei Dodici. Il Torquemada considera la Chiesa Corpo Mistico di Cristo e sottolinea moltissimo il Primato papale. Il Papa, Vicario di Cristo, non è solo un capo corporativo, ma anche la sorgente della vita mistica della Chiesa in virtù del suo ruolo, che lo inserisce nell’economia dell’Unione Ipostatica. Il Papa è la totalità della Chiesa. Egli è infallibile nell’insegnamento e se fosse eretico o scismatico smetterebbe di essere Papa. Egli è sposo, mente e cuore della Chiesa, è il vincolo di unione tra il Corpo e il Cristo-Capo mistici, tra lo Sposo e la Sposa; il Papa è inseparabile dalla Chiesa.

Sant’Antonino da Firenze, al secolo Antonino Pierozzi, nacque nel 1389 e divenne novizio domenicano nel 1406. Formatosi nel tomismo, nel 1437 divenne vicario dell’Ordine in Italia e poi priore di San Marco a Firenze, della quale Eugenio IV lo volle poi arcivescovo nel 1446. Pastore d’anime esemplare, riformò i costumi, promosse la santificazione, amministrò i Sacramenti, predicò, diede impulso alla vita confraternale, difese le libertà comunali, ebbe buone relazioni coi Medici, fu legato papale in Toscana per la predicazione della Crociata di Callisto III (1455-1458). Morì nel 1459. Scrisse l’Opera a Ben Vivere, la Regola di Vita Cristiana, il Confessionale volgare, la Summa Historialis, la Summa Theologica o Moralis.

Quest’ultima è la sua opera fondamentale, una trattazione ampia e sistematica dei temi della morale basata sul tomismo e suffragata da ampie prove patristiche e scolastiche, con una viva impostazione pastorale. E’ una sorta di antropologia etica su una base psicologica tomista, la quale esaminando le varie forme di peccato arriva a descrivere quelle delle virtù. Nella prima parte tratta dell’anima, del peccato, della Legge. Nella seconda dei vizi capitali, della menzogna e della fedeltà. Nella terza dei vari stati di vita. Nella quarta delle virtù e dei doni dello Spirito Santo. Sant’Antonino fu il primo teologo moralista che studiò la materia come distinta dalle altre branche della teologia. Egli, che desumeva da dottori e giuristi quanto necessario per la predicazione, la confessione e la direzione spirituale, ne fece un sunto atto a chi non aveva tanto tempo per approfondire. I casi concreti erano il punto di forza della teologia morale di Antonino, che li risolveva sempre con tanto buon senso. Come scrittore in volgare ebbe lingua tersa e stile efficace.

Il Beato Dionigi il Certosino, nato Van Leeuven nella città fiamminga di Ryckel, nacque nel 1402. Studiò tra i benedettini di San Truiden e tra i Fratelli della Vita Comune a Zwolle, per completare gli studi a Colonia dal 1421 al 1425. Qui abbracciò il tomismo e lo divulgò con la Summa Fidei Orthodoxae. Dottore in teologia, entrò nella Certosa di Roermond, dove si dedicò alla preghiera, allo studio e alla scrittura. Teologo e autore spirituale stimato, noto e consultato da Papi, principi, ecclesiastici e laici, fu detto il Dottore Estatico per le sue numerose visioni. Morì nel 1471 in odore di santità. Compose un commento biblico in quattordici volumi in folio, numerose opere teologiche, numerose omelie raccolte in nove volumi in folio, trattati spirituali mistici ed ascetici in otto volumi. In questo campo egli si riallacciò ai Dottori mistici tedeschi e fiamminghi del secolo precedente. Offrì a monaci e fedeli i mezzi per unirsi misticamente a Dio mediante la preghiera pura, quella che non ha bisogno nemmeno dell’immaginazione. Staccandosi dal molteplice, l’uomo raggiunge Dio, a Cui tende naturalmente, mediante una preghiera che è atto di carità e dono di sapienza, portando a compimento l’unificazione nel Signore di tutta la Creazione che spontaneamente punta a Lui. La contemplazione è infatti un atto del dono della sapienza ed esige l’abnegazione completa nella mortificazione dei sensi e nella spoliazione dello spirito da ogni immagine e pensiero. Dio è conosciuto mediante la negazione. La contemplazione è un contatto cosciente tra Dio e l’anima prodotto da un intenso amore. Essa, in quanto mistica, è prodotta direttamente da Dio. In quanto acquisita, è il frutto anche dello sforzo umano sostenuto dalla Grazia ordinaria. Si tratta quindi di una mistica speculativa ed affettiva insieme.

Tommaso de Vio detto il Gaetano dalla città dove nacque nel 1468, Gaeta, fu il massimo commentatore di Tommaso, uno di quelli che ne fece la fonte ermeneutica principale del pensiero aristotelico; studiò a Napoli, Bologna e Padova; quivi insegnò metafisica coi geni – laici – del secolo suo; maestro generale dei Predicatori nel 1508, fautore della convocazione del V Concilio Laterano (1511-1516), corifeo del partito riformatore, nel 1517 fu creato Cardinale da Leone X (1513-1521); fu poi legato del Papa presso Lutero agli albori della sua eresia ma senza riuscire ad intendersi con l’eresiarca, indi legato in Ungheria, Boemia e Polonia di Adriano VI (1522-1523) per organizzare la Crociata. Morì, dopo anni di ritiro e studio, nel 1534. Centocinquantasette furono i suoi titoli di teologia, filosofia ed esegesi, che mostrarono profondità e originalità e suscitarono polemiche per la sua libertà di pensiero anche tra i Domenicani. Il suo commento alla Somma Teologica di Tommaso ha dato la stura alla Seconda Scolastica e al Neotomismo, ma ha il limite di leggere l’Aquinate alla luce di Aristotele e non il contrario, ossia non coglie la genialità innovativa del Dottore Angelico. Inoltre il Gaetano intende Aristotele come lo intende Averroè. Perciò né coglie l’importanza dell’atto dell’essere nell’ontologia tomista, né ritiene dimostrabile razionalmente l’immortalità dell’anima, né accetta l’armonia tra fede e ragione. La sua idea di analogia entis non è quella di attribuzione ma di proporzionalità propria, ossia l’esatto contrario di quello che i moderni pensano di quella dottrina tomista. Il Gaetano in effetti non commentò soltanto, ma sostenne tesi proprie sul tomismo. Egli confutò la filosofia di Scoto e la teologia di Lutero, respingendo la giustificazione per fede e sostenendo la necessità delle opere buone, il libero arbitrio e la cooperazione dell’uomo alla Grazia. Degni di nota sono anche i commenti biblici del Gaetano, sostenuti dal metodo filologico ed umanistico di Erasmo da Rotterdam, di cui fu amico.

Il Gaetano fu anche uno dei primissimi controversisti italiani contro Lutero: prima ancora di recarsi in missione da lui aveva scritto un trattato sulle Indulgenze e ribadì la dottrina cattolica sull’argomento con un secondo scritto, relativo alla plenaria per i defunti, in cui condannava sia Lutero sia gli abusi dei predicatori delle Indulgenze stesse. Un ulteriore trattato sull’istituzione divina del Pontificato Romano fu scritto dal Cardinale per contestare le concezioni luterane del Papato. Ma il suo scritto più importante in materia, il De Fide et Operibus, fu dedicato alla confutazione della giustificazione per sola fede insegnata da Lutero.

Francesco Silvestri detto il Ferrarese perché nato a Ferrara nel 1474, fu domenicano nel 1488, insegnò teologia e filosofia a Mantova, Bologna, Milano. Vicario della Provincia Lombarda del 1518 e Maestro generale dell’Ordine nel 1524, morì nel 1528. Critico sommesso ma fermo del Gaetano che pure ammirò, il Ferrarese fu più fedele a Tommaso del suo contemporaneo, sostenendo l’analogia per attribuzione, l’immortalità dell’anima, l’accordo tra fede e ragione. Sostenne le dottrine tomiste contro gli scotisti, specie atto e potenza, materia e forma, essenza ed esistenza, unicità della forma sostanziale, distinzione tra essenza e facoltà dell’anima, materia prima, principio di individuazione, distinzione tra intelletto agente e possibile, immaterialità e intellegibilità, spiritualità e immortalità dell’anima. Il Ferrarese influenzò sia la Seconda che la Terza Scolastica.

Vanno poi ricordati Pietro di Bergamo (†1482), autore della Tabula Aurea che elenca alfabeticamente tutti i singoli temi del pensiero tomista, e Pietro Crockaert, che nel 1509 fu il primo ad adottare nell’insegnamento la Somma di Tommaso al posto delle Sentenze del Lombardo. Tra i suoi discepoli vi furono De Vitoria e Soto.

I DOTTORI FRANCESCANI

San Bernardino da Siena e i Dottori scotisti sono gli esponenti della teologia francescana.

San Bernardino da Siena (1380-1444) non fu un filosofo ma un oratore sacro non ascrivibile ad alcuna scuola. Nacque a Massa Marittima dagli Albizzeschi. Nel 1397 entrò tra i Disciplinati di Nostra Signora; nel 1400 si votò all’assistenza degli appestati; nel 1402 entrò tra i Francescani; nel 1404 divenne prete. Predicò per la prima volta durante la sua prima Messa, celebrata per la Natività della Beata Vergine Maria, con un fervore impressionante. Predicò in lungo e in largo nella Lombardia dal 1417 al 1422 con enorme successo; poi attraversò Veneto, Emilia, Umbria, Lazio e Toscana con altrettanti trionfi nella denunzia della corruzione, nella promozione della riforma ecclesiastica e nella pacificazione delle fazioni. Alla fine dei suoi commoventi ed infiammati discorsi, Bernardino esponeva il Sacro Trigramma in cotto, pietra o tavola, in quanto egli fu il maggior apostolo della devozione al Nome di Gesù. Il Santo esortava ad adottarlo come simbolo di pace in pubblico e in privato, negli edifici sacri e profani. Nonostante le accuse di eresia, Bernardino riuscì a far trionfare questa devozione e ad ottenere il sostegno di Martino V (1417-1431) ed Eugenio IV. Rifiutò sempre le cariche ecclesiastiche e visse solitario nel convento di Capriola. Morì a L’Aquila. Santo assai popolare ai suoi tempi, Bernardino fu il più grande oratore sacro del Rinascimento, capace di parlare in latino e in volgare. In questa lingua ci rimangono le quarantacinque prediche di Piazza del Campo a Siena. Quando parlava ai fedeli, abbandonava la sua cultura profonda usando semplicità ed immediatezza, che rendeva robusta la sua arte oratoria. Le sue immagini erano desunte dal linguaggio popolare. Divagazioni, metafore, apologhi ed arguzie servivano a farsi ascoltare. Aveva toni realistici e il suo scopo era sempre la salvezza delle anime. In quanto poi ai sermoni e ai quaresimali latini, sono pieni di osservazioni sui testi sacri e di dottrina, spesso riconducibili al famoso suo adagio:- “Amatevi dunque e tenetevi insieme”.

La Scuola scotista si irraggiò da Padova, sia dal suo Studium francescano che dalla sua Università, dove si insegnavano sia il tomismo che lo scotismo. Francesco Della Rovere (1414-1484), poi papa Sisto IV (1471-1484), ne fu esponente qualificato. Docente a Padova, Firenze, Perugia e Roma, questo francescano savonese divenne cardinale nel 1467 per volontà di Paolo II (1464-1471). Fu uno dei pochi papi teologi. Orientato verso la via moderna anche se moderatamente, scrisse tra le altre cose il De Sanguine Christi e il De Potentia Dei. Nel primo trattato il futuro Papa sostenne, in nome della pluralità delle forme nel composto umano, che sulla terra possono esistere reliquie del Sangue di Cristo, cosa invece rigettata dai tomisti. Non essendo più sotto la forma della corporeità, il Sangue non fu riunito al Corpo risorto del Redentore nel vincolo dell’Ipostasi Divina. Nel secondo trattato il Della Rovere sostenne che Dio non è sottoposto alle leggi di natura da Lui stesso promulgate. Il nostro fu anche un pugnace assertore dell’Immacolata Concezione della Vergine, di cui fu sempre devotissimo.

Antonio Trombetta (1436-1517), francescano a Padova, fu uno dei massimi esperti dello scotismo. Nel V Concilio Lateranense egli fece parte della Commissione teologica che condannò la dottrina averroista della mortalità dell’anima umana, ritenendolo un errore non solo dottrinale ma anche filosofico. Autore di commenti e trattati, sostenne che Dio non è la causa immediata della dazione dell’essere a tutti gli enti, in quanto Egli agisce attraverso anche attraverso cause seconde.

I DOTTORI OCCAMISTI

Se albertini e tomisti sono in contrasto tra i Domenicani e se gli agostiniani tentano di ritagliarsi uno spazio più grande tra tutte le correnti più recenti, la scuola occamista è una contro tutte le altre, in quanto l’indirizzo nominalista apparteneva soltanto ad essa, mentre era solo convenzionalmente che il realismo si identificava con la scuola tomista. Ma la forza dell’innovazione nell’alveo oramai esangue della tradizione scolastica – essendosi essa estinta quale movimento a sé fecondo di nuova vita – fece sì che l’occamismo, nonostante tutto, in molte università fosse preponderante e in altre paritetico alle altre correnti, specie in campo logico e metafisico. A supportare l’occamismo fu, come vedemmo, la nuova forma di devozione, che voleva sbarazzarsi degli orpelli medievali aventi fondamenta scolastiche. Questo connubio accentuò la divergenza tra fede e ragione nel Tardo Medioevo e nella prima Modernità. Mutilata della metafisica, la teologia dei dottori occamisti dovette ripiegare sulla mera Bibbia e sull’ascetica.

Gabriel Biel, nato a Spira nel 1410, ne fu uno dei primi esponenti. Insegnò a Tubinga e trascorse i suoi ultimi anni tra i Fratelli della Vita Comune ad Einsiedeln, dove morì nel 1495. Si diede come scopo la sintesi del pensiero di Ockham. Sottolineò con forza il concetto della Potenza assoluta di Dio, unico basamento dell’operare divino, che, pur concretizzandosi nella Potenza ordinata, non ne è affatto vincolata. In questa prospettiva diventano gratuite sia la salvezza operata soprannaturalmente – perché Dio potrebbe salvarci anche senza la Grazia – sia la Rivelazione, in quanto ciò che essa dice è solo una delle possibili comunicazioni che Dio può, se vuole, fare all’uomo. Essa quindi si storicizza perdendo la sua matrice metafisica. Biel poi afferma che Dio non rifiuta la Grazia a chi fa del suo meglio, introducendo l’ombra del semipelagianesimo nelle sue idee. Insegna che la Messa è la rappresentazione commemorativa e l’attualizzazione, non la ripetizione, del Sacrificio di Cristo. Biel traccia una cristologia ampia, in cui tutto, a partire dall’Incarnazione, determina la salvezza dell’uomo in quanto ogni azione di Cristo, a partire da quella e sino soprattutto alla Croce, è umiliazione meritoria e santificatrice. Mariologo insigne, Biel insegnò l’Immacolata Concezione, la Corredenzione e la Cooperazione alla Redenzione –oggi diremmo Mediazione – della Vergine Maria, della Quale magnificò l’umiltà che si addisse perfettamente a Colei Che divenne Madre di Dio. Per Biel Maria SS. è Regina, è Avvocata, è Signora e soprattutto speranza di tutti.

Giovanni Pupper nacque a Goch all’inizio del XV sec. Fu educato tra i Fratelli della Vita Comune, divenne prete, studiò diritto canonico e fondò un convento agostiniano per monache a Tabor presso Mecheln e lo diresse fino alla morte avvenuta nel 1475. L’unica verità per lui, nominalista convinto, viene dalla Fede: egli fu un mistico che cercò l’unione con Dio nell’amore. Questo amore divino deve pervadere l’uomo e condurlo alla somiglianza con il Signore nella carità per Lui e per il prossimo.

HUMANAE DOCTORES LITTERAE

Breve introduzione ai Dottori dell’Umanesimo

Parallelo alle ultime vestigia del Medioevo che si confondono con l’alba della Modernità sorgono sulle rive del tempo i monumenti dell’Umanesimo, che sin dalla metà del Trecento si profilano agli occhi di chi si volge indietro nel tempo e che continuano ad essere edificati fino alle falde della Controriforma. Con questa corrente siamo già nella Modernità e la storia della Tradizione non ha dei confini cronologici precisi tra essa e il Medioevo scolastico. La Modernità si delinea a partire dal XV sec. e perdura fino al XVIII sec., aperta dalla Riforma Protestante e chiusa dalla Rivoluzione Francese. In essa scorgiamo una età umanistica nel Quattrocento, una della Controriforma nel Cinquecento e una del razionalismo e della secolarizzazione nel Seicento e nel Settecento. Esse non hanno vere caratteristiche comuni come la Patristica e la Scolastica, tanto che vi sono differenti correnti e scuole e metodologie, anche se ad esse una certa unità viene garantita dalla persistenza della tradizione scolastica che rivive nella Seconda e nella Terza Scolastica. Fortemente influenzata da eventi esterni al Cattolicesimo, la Tradizione in età moderna ha tuttavia un principio architettonico comune, antropocentrico, e un analogo principio ermeneutico, incentrato sul platonismo più che sull’aristotelismo nonostante le due nuove Scolastiche.

Per quanto poi concerne l’Umanesimo – inteso come movimento di riscoperta della Classicità letteraria – e il Rinascimento – da interpretare come contesto di rinnovamento delle arti – essi sono senz’altro due momenti di grande splendore per la civiltà ma non per la teologia e nemmeno per la storia della Cristianità: albeggia l’Umanesimo quando il Papato è ad Avignone, cresce durante il Grande e il Piccolo Scisma d’Occidente, si nutre dell’effimera Unione con la Chiesa Greca, raggiunge i vertici della Chiesa Romana per cento anni che corrispondono non solo ad un momento appena successivo alla crisi del Conciliarismo ma anche a uno di profonda decadenza morale e spirituale del mondo cristiano, estesa al sapere teologico; il Rinascimento si profila proprio in questo contesto di incipiente secolarizzazione e scompare sotto i flutti della tempesta protestante. Né l’uno né l’altro salvano le istituzioni politiche, religiose e culturali della Cristianità e non riescono a produrne di alternative. Tuttavia l’Umanesimo e il Rinascimento, a dispetto di quanto si crede solitamente, sono movimenti che, se non completamente, almeno in gran parte hanno una ispirazione cristiana, magari meno profonda ed efficace di quella della Scolastica, ma pur sempre cristiana. Essi più che rivestire la fede di cultura classica tendono a fare il contrario, specie nella sfera filosofica e teologica, che peraltro è poco originale. Specie l’Umanesimo ci interessa per alcuni importanti autori, dei quali nessuno ha la statura del Dottore ma che sono contemporanei di importanti testimoni della Fede e sono essi stessi voci autorevoli della Tradizione anche se quasi mai adorne di santità; per questi autori la filologia e la filosofia – intesa come attenzione all’uomo – sono i pilastri su cui costruire l’edificio dottrinale. Sono questi autori che giustificano quel paradigma della continuità nella diversità della civiltà cristiana che sussiste tra Medioevo e Umanesimo, in quanto tutte le innovazioni del secondo si preparano e sussistono nel primo, mentre il quadro dottrinale e valoriale di riferimento tra essi rimane intatto; inoltre sono questi autori, spesso impegnati in processi di riforma più o meno sinceri, che ci mostrano come la decadenza morale della loro epoca era un portato del declino medievale e non dell’insorgere dell’epoca nuova. Questi autori forgiano una cultura nuova, basata su un umanesimo cristiano, che mette i problemi dell’uomo al centro – come dicevamo – che legge Platone in modo neoplatonico, che predilige Agostino e Anselmo al posto di Tertulliano e degli antidialettici, che conserva i pensatori francescani e specialmente Scoto e che mette accanto ai modelli cristiani anche quelli della migliore classicità. E’ un movimento che delinea una umanità nuova, meno risentita con se stessa e il suo mondo, anzi tutta impegnata a progettarlo in un contesto storico meno provvidenziale che laico; ma è anche un movimento di profonda inquietudine religiosa che pervade la drammaturgia, l’arte, la letteratura, la vita sociale e che cerca di rinnovarsi profondamente. Il contrasto tra l’idealizzazione della serenità classica e la realtà tensiva della vita cristiana, dilaniata dalla lotta per la salvezza, anima di sé tutta questa spiritualità alla ricerca di una sintesi impossibile. La laicizzazione della cultura nei suoi agenti non implica sempre quella dei suoi contenuti, mentre i nomi più illustri rimangono quelli di alcuni ecclesiastici, nonostante la crescente autonomia delle scienze profane e la loro decisa rinascita. La teologia umanistica non produce grandi sistemi, non si incultura come quella patristica e scolastica ma tuttavia è degna di nota nelle personalità del Cusano, di Ficino, di Bessarione, di Pico della Mirandola, di Colet, di Erasmo e di Tommaso Moro. I primi quattro platonici, gli altri tre essenzialmente uomini di lettere.

NICCOLO’ CUSANO

Egli è l’unico vero genio filosofico della sua epoca. Egli realizzò una sintesi organica ed originale di tutte le scienze classiche e medievali, dando così inizio all’Età Moderna. Fu un riformatore intellettuale che ebbe ben evidenti i limiti dei suoi tempi e che cercò di emendarli. Il suo cognome era Chrypfss e nacque a Cusa presso Treviri nel 1401 da una famiglia povera. Frequentò le Università di Heidelberg e di Padova, dove si addottorò in diritto canonico nel 1423 e frequentò anche la Facoltà delle Arti. Studiò poi teologia a Colonia, dove conobbe Aristotele, Dionigi l’Areopagita e Ramon Lull, che alimentarono il suo pensiero. Si diede alla ricerca di antichi codici e ne rinvenne di preziosi su Plauto e Cicerone, restituendo alla conoscenza molte loro opere perdute. Entrato così nei circoli umanistici che si costituirono a Basilea in concomitanza del Concilio ivi tenutosi, fu ordinato sacerdote nel 1430. Dapprima assertore del conciliarismo, quale rappresentante della nazione tedesca presso il Sinodo scismatico, si avvicinò poi al papa Eugenio IV e sostenne il trasferimento del Concilio a Ferrara per trattare l’Unione con la Chiesa Greca. Nel 1437 andò a prendere a Costantinopoli i vescovi orientali per condurli in Italia. Nel 1438 si aprì il Concilio di Firenze e il Cusano colse l’occasione per portare in Italia altri codici antichi. Nel 1448 Niccolò V (1447-1455) lo creò cardinale e nel 1450 Arcivescovo di Bressanone. Sgradito a quella città, si trasferì a Roma dove Pio II (1458-1464) lo nominò Legato dell’Urbe. Morì a Todi nel 1464.

Il Cusano scrisse diverse opere: De Docta Ignorantia, Apologia Doctae Ignorantiae, Idiotae Libri, De Venatione Sapientiae – filosofiche – De Concordantia Catholica, De Visione Dei, De Pace Fidei, Cribatio Alkoran (introduzione alla fede cattolica per i musulmani), De Deo Abscondito De Quaerendo Deum De Dato Patris Luminum (che sono una trilogia), De Genesi, De Apice Theoriae – teologiche – e circa trecento omelie che trattano spesso temi dogmatici e morali.

Il Cusano chiamò tutto il processo conoscitivo “dotta ignoranza”, da cui anche il nome del suo capolavoro. Divisa in tre libri, quell’opera pone nel primo i fondamenti della conoscenza, affermando che la verità precisa è inconoscibile ed esprime il Massimo Assoluto, ossia Dio Uno e Trino, mediante la simbologia matematica e geometrica; nel secondo illustra il Massimo Contratto, ossia l’universo, anch’esso concepibile secondo uno schema trinitario diverso però da quello di Dio; nel terzo parla del Massimo Contratto ed Assoluto, ossia Gesù Cristo, Dio Incarnato e fatto Uomo, i Cui misteri sono esposti con molta precisione dall’autore. In questa trattazione Cusano adopera un metodo logico-matematico con un analogo linguaggio, differenziandosi così da Tommaso d’Aquino.

In genere il Cusano ha un metodo neoplatonico, assiomatico-deduttivo desunto da Proclo, e un sistema gerarchicamente ordinato basato sulla triade che procede dal massimo al minimo come in Plotino. Il Cardinale legge tutti i misteri cristiani in chiave neoplatonica e concepisce Dio come l’Uno, l’Intelligenza come Verbo, lo Spirito Santo come Anima del Mondo e accanto ad Essi il Corpo del mondo materiale. In parole povere, se i Padri e i filosofi agostiniani della Scolastica avevano espresso i concetti cristiani servendosi del linguaggio platonico, il Cusano esprime concetti platonici in linguaggio cristiano, realizzando una piena platonizzazione del Cristianesimo.

La dotta ignoranza del Filosofo è la coincidenza degli opposti che è possibile solo in Dio, in quanto in Lui essa scavalca tutti i criteri logici e può essere colta solo dall’intelletto. Si tratta in effetti di una disposizione noetica che permette di capire che l’essenza delle cose è inattingibile nella sua purezza, per cui quanto più la cerchiamo essa maggiormente ci sfugge e quanto più sappiamo che ci sfugge maggiormente ci avviciniamo al Vero. Il parlare su Dio sarà dunque essenzialmente per negazioni, sebbene l’originalità del linguaggio teologico razionale di Cusano sta nella sintesi degli opposti, per cui non si tratta né di predicare esclusivamente del Signore tutte le perfezioni né di negare qualsiasi Sua identità specifica, ma di affermare ad un tempo che in Lui vi sono tutte quelle primalità che nel livello creaturale sono distinte e contrarie. In Dio vi è la conciliazione di quelle opposizioni che a livello inferiore sono costitutive delle differenti essenze. A questa dottrina, senz’altro geniale, non solo capitò la singolare sventura di non avere epigoni, ma anche quella di poter essere battuta in breccia proprio nei suoi punti essenziali, che sono due: la presenza in Dio di ogni perfezione quale postulato della Sua infinità e la necessità di sottrarre la conoscenza di Lui a qualsiasi schema precostituito. Ora, se in Dio vi sono tutte le perfezioni, gli opposti di esse sono le imperfezioni, che quindi sono incompatibili con Lui e di conseguenza non permettono una piena coincidenza di opposti; analogamente, se su Dio nulla si può dire di precostituito, anche la stessa nozione di perfezione diviene una camicia di nesso per Lui e quindi è inapplicabile e ancor di più inconciliabile con una opposizione che non può più, a questo punto, essere definita in alcun modo.

A parte questo, in quanto teologo il Cardinale si occupò di diverse branche della dogmatica. In teologia trinitaria egli opera una rivoluzione linguistica, desunta da Boezio e dalla Scuola scolastica di Chartres, parlando di Unità per il Padre, Eguaglianza per il Figlio e Connessione per lo Spirito Santo, considerando antropomorfico l’uso dei Tre Nomi tradizionali. Questi nuovi Nomi Ipostatici rendono al Dottore più semplice spiegare le Relazioni tra le Persone Divine. Egli usa poco anche i termini Natura, Sostanza e Persona, considerandole legate ad una esperienza troppo terrena della realtà divina. L’Essenza di Dio rimane, per Cusano, inesplicabile al di là della terminologia trinitaria, troppo aristotelizzante per il nostro dottore platonico.

In cristologia il Cardinale mostra come Cristo, in quanto Uomo, è il Massimo Contratto, e in quanto Dio, il Massimo Assoluto, mentre come Persona Unica è la coincidenza di questi due elementi opposti, mediante l’Incarnazione. In ragione di ciò, non possiamo conoscere le modalità concrete della sua realizzazione ma solo le ragioni convenienti per essa. La stessa Incarnazione non è legata a ragioni necessitanti come in Sant’Anselmo ma a motivi convenienti. Il Padre, in quanto Verità inconoscibile, e lo Spirito, quale Pace eterna, non possono incarnarsi, per cui è il Figlio, in quanto Logos – mistero e manifestazione – che sceglie di mostrarsi all’uomo nella Carne. In Cristo Verbo esistono tutte le cose, che a loro volta sono complicate universalmente nella Sua Umanità perfettissima. La Pienezza del Tutto inabita quindi l’Umanità di Cristo. I misteri di Cristo, rivelati definiti e approfonditi, sono ricapitolati da Cusano in modo tale da sottolinearne la profondità inesauribile e la valenza salvifica.

Nell’ecclesiologia – che mai trattò sistematicamente- Cusano definì la Chiesa quale unione di tutti i credenti in Cristo, mediante la fede e la carità, ma anche e soprattutto attraverso la Vita stessa di Lui, che circola mediante i segni sacramentali che producono la Grazia e quindi l’adozione a figli di Dio e la santificazione. I segni sacramentali sono congetturali, perché tutta la conoscenza umana è congetturale, per cui si possono ricevere i Sacramenti ma non essere realmente uniti a Cristo. Tuttavia questo non inficia né la santità che essi trasmettono né quella della Chiesa, che è congetturale a livello dei singoli, non della totalità di essa. Nella Chiesa infatti si può essere visibilmente, come i viatori, e invisibilmente, come i comprensori, così che nei primi l’unione è imperfetta e nei secondi è perfetta e massima. Nella Chiesa visibile il Capo è il Papa; finché fu conciliarista, Cusano sostenne che il Pontefice, di volta in volta sempre unico, era il primo tra vescovi uguali e che l’infallibilità spettava al solo Concilio Ecumenico; abbracciata la monarchia pontificia, il Cardinale sostenne sia il primato giurisdizionale che quello magisteriale del Romano Pontefice, facendo derivare da lui l’autorità di tutti i Vescovi e il crisma di autorevolezza di qualsiasi Sinodo universale debitamente convocato e confermato, che diversamente può errare.

In cosmologia, ossia in una branca a cavallo tra teologia e filosofia, il Cardinale riprese la dottrina tradizionale modificandone in parte la terminologia. Accanto ai concetti di partecipazione e assimilazione, per spiegare la Creazione il Cusano usa anche quelli di contrazione ed esplicazione. Ciò che Dio crea è una esplicazione contratta del Suo essere Uno. Il mondo è il contratto massimo, che esiste in modo contratto nell’essere di ogni cosa, senza sciogliersi in pluralità. Analogamente l’infinità si contrae nella finitezza, la semplicità nella composizione, l’eternità nella successione, la necessità nella possibilità. Le creature sono entità solo in quanto partecipano in modo contratto dell’unità assoluta, di cui divengono esplicazioni e somiglianze. Esplicare per Cusano coincide con complicare, ma questo non vuol dire che Dio sia nelle Sue creature secondo la Sua Natura, ma che questo è il modo con cui il nostro intelletto coglie la relazione esistente tra Lui ed esse. Ciò viene chiarito nel concetto di assimilazione, per cui nella Mente di Dio vi sono tutte quelle verità che producono le cose e che la mente umana può concepire secondo la loro nozione.

GLI ALTRI DOTTORI PLATONICI

Basilio Bessarione, che diede un contributo fondamentale sia alla riscoperta rinascimentale di Platone che all’Unità, sia pure effimera, tra la Chiesa Greca e Latina, nacque a Trebisonda nel 1402, fu allievo di Gemisto Pletone e nel 1422 divenne monaco. Nel 1431 fu ordinato sacerdote e nel 1437 fu eletto igumeno del Monastero di San Basilio di Costantinopoli e Metropolita di Nicea. Partecipò al Concilio di Firenze e sostenne la causa unionista. A Costantinopoli cercò di persuadere gli oppositori a rinunciare allo Scisma. Nel 1440 si stabilì a Roma dopo la creazione cardinalizia ad opera di Eugenio IV. Da questo momento si battè per la diffusione della cultura greca, per la causa unionista, per la Chiesa Romana e per la Crociata contro i Turchi. Caduta Bisanzio, cercò di far rivivere in Occidente i cenacoli della cultura greca. Morì a Ravenna nel 1472.

Come teologo difese le tesi del Concilio di Firenze in tutti gli ambiti. Come filosofo sostenne un platonismo moderato che non cercò mai in quella dottrina forme di anticipazione delle dottrine specificamente cristiane, in quanto rivelate, ma che rilevò come essa fosse più vicina al Cristianesimo del pensiero di Aristotele, pur non mancando alcuni punti del platonismo stesso non conciliabili con la Rivelazione.

Marsilio Ficino, che ignorò del tutto le opere di Cusano, fu il secondo intellettuale che tentò una nuova sintesi tra platonismo e Cristianesimo nel Rinascimento mediceo. Il suo sistema ha una caratteristica antropocentrica. Il nostro nacque a Figline nel 1433; sotto la protezione di Cosimo il Vecchio (1434-1464) fondò l’Accademia Platonica. Su consiglio di Lorenzo il Magnifico (1469-1492) divenne sacerdote nel 1473. Nelle sue opere, Theologiae Platonicae de Immortalitate Animorum e De Christiana Religione, il Ficino attende ad un compito apologetico e contemporaneamente ad una rifondazione su base platonica del Cristianesimo, partendo dal presupposto che quella filosofia fosse coincidente con la teologia naturale e razionale. Scrisse di mistica e di morale; tenne un vastissimo epistolario. Morì nel 1499.

La sua filosofia, definita pia per il suo intento religioso, si sostanzia di una dotta religione, come disse egli stesso, che considerava tutti i filosofi, i poeti, gli artisti, i letterati e gli scienziati quali testimoni di una sola esperienza spirituale naturale, che esprime ampiamente la ricchezza della Divina Unità volta a dispiegarsi innanzi ai nostri occhi e alle nostre menti. Su di essa si innesta la Rivelazione cristiana. Pietà e sapienza, religione e filosofia sono strettamente congiunti. Questo però è possibile solo grazie al Cristianesimo, al quale Ficino vuole restituire la fecondità del connubio tra devozione e teologia. La nostra religione può, così, santificare quel tanto di buono che vi è, per natura, anche nelle altre religioni. Ficino vide nel platonismo l’antemurale contro il naturalismo e il razionalismo dilaganti, che negavano la Provvidenza e l’immortalità dell’anima, ma anche il contravveleno agli schematismi del pensiero di Aristotele espressi dalla Tarda Scolastica. Egli fu essenzialmente un neoplatonico, anche se originale. Cristianizzò Platone e fu sempre fedele alla dottrina della Chiesa. Identificò l’Uno con il Dio cristiani Tripersonale che in Sé conosce tutto e che tutto da Sé emana, mediante una Creazione libera e sapiente. L’uomo, posto al centro della Creazione con le sue caratteristiche ad un tempo materiali e spirituali, è copula del mondo, è microcosmo, è connessione di tutte le cose. La sua anima, libera, tesa all’infinito, desiderosa di vivere per sempre e di diventare tutte le cose, è perciò immortale, nonostante viva tra cose materiali.

Giovanni Pico della Mirandola nacque nel Castello omonimo della sua famiglia comitale nel 1463. Fu a Ferrara, Padova, Pavia e Firenze; conobbe Girolamo Savonarola (1452-1498), entrò nell’Accademia Platonica di Ficino, coltivò tutte le scienze. Nel 1486, dopo aver studiato la Cabala, le lingue antiche e una miriade di altre discipline esotiche e rare, convocò a Roma un Congresso di dotti che elaborasse una filosofia comune che ponesse fine alle dispute tra le varie Scuole. Le Conclusiones che egli stesso elaborò furono tuttavia condannate da papa Innocenzo VIII (1484-1492), il Congresso non si tenne e Pico andò a finire in prigione durante una fuga in Francia. Liberato per intercessione di Lorenzo il Magnifico, scrisse a Fiesole l’Heptaplus e il De Ente et Uno, il primo un commento al racconto della Creazione nella Genesi e il secondo uno studio metafisico di tendenza aristotelico-tomista. Nel 1493 Alessandro VI (1492-1503) lo riaccolse nella Chiesa e nello stesso anno entrò tra i Domenicani, vestendone l’abito in punto di morte, che avvenne nel 1494.

Pico fu ingegno enciclopedico, inquieto, vivace e vorace; teologo filosofo e teosofo, credette nella forza della ragione ma l’assoggettò al mistico rapimento; non fu assolutamente un pensatore laico o razionalista, avendo una conclamata e chiara fede cattolica che traspare nel suo pensiero. Le novecento tesi delle Conclusiones volevano, sulla scia di Ficino, conciliare attraverso il Cristianesimo, le forme più disparate e conflittuali di pensiero umano. Nella sua Oratio de Dignitate Hominis Pico concepisce l’uomo quale immagine di Dio, dotato di una natura libera e universale; sebbene pervertito dal peccato che lo colloca sotto le creature brute, l’uomo è redento da Cristo, Verbo Incarnato, e quindi può, per grazia, unirsi a Colui Che è l’Uno stesso. La vera felicità consiste nell’essere uno con Dio, vivendo una pace, una amicizia e una comunione stabili e appaganti con Lui.

I DOTTORI UMANISTI

Sono autori dotati di una formazione essenzialmente letteraria e per essi la definizione di Dottori è senz’altro accomodatizia.

John Colet nacque a Londra nel 1466, si formò a Oxford e a Cambridge, viaggiò in Francia e Italia, conobbe Ficino e Pico, si diede a studi biblici e patristici, perseguì con fervore la propria santificazione, fu consacrato sacerdote, ebbe come allievi Erasmo e Tommaso Moro, fu decano di San Paolo a Londra, fondò un collegio per ragazzi – il San Paolo – scrisse per essi libri di studio, predicò contro i lollardi e contro la corruzione del clero e morì nel 1519. Fu un biblista umanista alieno dallo spirito tradizionale e da quello speculativo. Riconobbe una molteplicità di sensi nel testo sacro attorno ad uno fondamentale, che non viene colto con facilità dal debole intelletto umano. Colet considerava la Bibbia l’unica lettura degna di essere fatta e ne promosse la conoscenza nelle lingue originali.

Desiderio Erasmo da Rotterdam nacque in questa città nel 1466. Orfano a quattordici anni, maturò un precoce senso di insicurezza e di irrequietezza, acuite dalla nascita illegittima da un sacerdote. Nella sua vita la scrittura, la traduzione, la corrispondenza occuparono una enorme importanza, tanto quanto le relazioni intellettuali, i viaggi e la celebrità. Monaco agostiniano con forte propensione allo studio e al silenzio ma con scarsa inclinazione alla disciplina, entrò in contrasto col suo ambiente per il suo amore per la letteratura classica tanto da comporre una dura critica al monachesimo nell’Antibarbarorum Liber. Prete nel 1492, segretario del Vescovo di Cambrai, abbandonò il saio nel 1517, ma sin dalla sua ordinazione di fatto lasciò il monastero viaggiando in lungo ed in largo tra Francia, Inghilerra, Belgio e Italia. Nell’Enchiridion Militis Christiani introdusse i laici alla vita religiosa mediante il connubio tra erudizione e pietà, tra letteratura sacra e profana. Negli Adagia formulò diverse riflessioni e sentenze. Professore a Cambridge ed amico di Tommaso Moro, per suo consiglio scrisse il celebre Encomium Moriae, l’elogio della pazzia, dedicato ai vizi dei potenti e dei notabili del tempo. Trasferitosi a Basilea dal 1514, si dedicò al lavoro filologico, sia con trattati metodologici sia con traduzioni. Nel 1516 pubblicò il suo Novum Instrumentum, la traduzione del Nuovo Testamento. Sono sue anche Adnotationes e Paraphrases alla Scrittura da lui tradotta, nonché edizioni delle opere di Girolamo, di Cipriano, di Ilario, di Ambrogio, di Ireneo, di Agostino e di Basilio. Prese incautamente posizione a favore di Lutero, ma solo in senso morale, così da inimicarsi i più nel mondo cattolico; quando poi condannò l’estremismo dell’eresiarca, scrivendo il De Libero Arbitrio e l’Hyperaspistes, si trovò riprovato anche dai Protestanti, che incautamente lo avevano considerato un loro precursore – ma non Lutero, assai poco incline a farsi irretire dalle sirene dell’Umanesimo. Nel De Sarcienda Ecclesia Erasmo delineò la sua idea di riforma, graduale e moderata. Morì nel 1536 a Basilea, dopo aver soggiornato anche a Lovanio e in Olanda.

Erasmo promosse una filosofia cristiana basata sulla Bibbia e sui più autorevoli commenti ad essa, senza prolissità o erudizione, ma anche senza sciatteria e trasandatezza. Nemico della religiosità esteriore, più per posa che per convinzione esaltò quella intima, che tutti possono avere, se vogliono. Erasmo è innamorato della mitezza e della dolcezza di Cristo, ma anche dell’eroismo del Suo Sacrificio redentore, del quale non intende assolutamente sminuire la portata. Sottolineò la necessità di educare i bambini all’amore per Gesù onde dare loro seri basamenti di formazione religiosa che durino per sempre.

Erasmo volle rifondare la teologia dedicandola solo allo studio biblico e quest’ultimo mediante una dotta nuova traduzione del testo sacro, debitamente commentato. Il metodo allegorico è l’unico che egli considera valido per intendere spiritualmente il Vecchio Testamento, mentre esaltò la semplicità profonda del parlare di Cristo nei Vangeli. Tuttavia, nonostante una rivalutazione di Erasmo, questa sua attività teologica appare povera, priva di strutture concettuali adatte, di autentica spiritualità. Egli infatti fu un filologo della Bibbia e non ebbe particolare profondità né filosofica né teologica.

San Tommaso Moro nacque a Londra nel 1478. Studiò ad Oxford e fu amico di Erasmo che lo influenzò nella sua formazione umanistica. Deputato nel 1503, presidente della Camera dei Comuni nel 1523, cancelliere del Regno nel 1529, nel 1532 si ritirò dalla vita politica perché non condivise il divorzio di Enrico VIII (1509-1547) da Caterina d’Aragona. Nel 1534 rifiutò di sottoscrivere l’Atto di Supremazia del Re sulla Chiesa Inglese e per questo fu imprigionato e martirizzato nel 1535.

Filosofo politico autore dell’Utopia, tra i massimi umanisti inglesi, Moro prese posizione a favore del movimento teologico di ritorno alle fonti bibliche e patristiche a scapito di quelle scolastiche, senza però svilirle. Difese l’Umanesimo dai suoi detrattori, polemizzò con Lutero e con molti altri riformatori. Scrisse un trattato incompiuto sui Novissimi. Nella sua prigionia nella Torre di Londra compose in inglese il Dialogo del conforto contro le tribolazioni, nel quale riviveva il meglio della tradizione consolatoria dalle origini classiche al Medioevo. Sempre in quel tetro luogo compose circa centocinquanta note al Libro delle Ore, assai accorate e personali. La religiosità che egli ipotizza in Utopia è come lui: libera, senza proselitismo, senza dispute, tollerante, ma profonda e basilare per la società, minacciata dall’ateismo e dal materialismo. Essa è una religiosità naturale che non può non adeguarsi al Cristianesimo, una volta che l’abbia conosciuto. Moro, col suo sangue, suggella onorevolmente la storia della Chiesa rinascimentale, troppo spesso inadatta al suo ruolo. Egli non fu un fanatico, come certa pubblicistica odierna tenta di millantare, ma un uomo solido ed equilibrato che seppe testimoniare sino all’estremo la sua fede in Cristo, anche in un’epoca in cui essa era contraffatta e conculcata.


Theorèin - Novembre 2017